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thriller e co.

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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:11 pm

Formule magiche e invocazione del potere


"Apriti Sesamo!", "Simsalabim" e "Abracadabra": ogni formula magica si fonda sull'idea che alcune parole siano talmente potenti che quando vengono pronunciate possono produrre effetti reali. Già nell'antichità la parola magica "Abracadabra" veniva utilizzata per combattere le malattie, ma si riteneva che essa dispiegasse la sua forza magica solo dopo essere stata scritta undici volte (ogni volta veniva sottratta una lettera): Abracadabra Abracadabr Abracadab Abracada etc. Ecco invece alcune formule d'ispirazione medievale, rese celebri dalla saga di Harry Potter e da una serie di videogiochi ad essa ispirati:
- Alohomora per aprire le porte
- Baddiwasi per pulire i buchi delle serrature
- Dissendium per schiudere passaggi segreti
- Expelliarmus per disarmare l'avversario
- Finite incantem per terminare un incantesimo
- Peskiwichtli Pesternomi per portare rovina e sconfitta
- Rictussempra per dare la sensazione di essere solleticato
Pratica
Sostanzialmente la pratica dell'invocazione consiste nell'imprimere nella mente l'immagine di una divinità o di un demone e di richiamarla (cioè visualizzarla in ogni suo dettaglio) all'occorrenza. Naturalmente, questa pratica è tanto più difficile quanto più astratta è la natura di dei e demoni. Molti esseri ultraterreni, per esempio Bael, maestro dell'invisibilità, sono conosciuti solo come forme geometriche. Per riuscire a evocare qualsiasi entità è dunque estremamente importante conoscerne il nome, poiché esso corrisponde alla sua essenza.
Voce vibrante
L’invocazione si accompagna alla visualizzazione: il nome deve essere articolato con voce profonda, chiara e soprattutto vibrante, poiché le vibrazioni possono risvegliare le facoltà magiche insite nel profondo della coscienza. Inoltre è necessario visualizzare le lettere che compongono il nome dell'invocato. In sostanza un'evocazione è una preghiera profonda, un mantra, così come "Hare Krisna, Hare Krisna, Krisna Krisna, Hare Hare, Hare Rama, Hare Rama, Rama Rama, Hare Hare". Il tono di voce non solo purifica la coscienza liberandola da influssi negativi, ma le conferisce anche un potere sull'essere invocato. Anche se talvolta i due termini vengono utilizzati come sinonimi, l'evocazione differisce dall'invocazione poiché si rivolge solo a spiriti che si presuppone siano al di fuori del proprio corpo.
Le potenti maledizioni dei Druidi
In Irlanda esistevano donne appositamente pagate per scagliare maledizioni contro altri, spesso in presenza di molti testimoni; anche i Druidi, però, erano in grado di pronunciare potenti malefici. I Druidi, i sacerdoti celti con le loro classiche vesti bianche, erano maestri nelle maledizioni, che quasi sempre raggiungevano lo scopo desiderato. Tutti credevano nel potere dei Druidi, poiché possedevano un'ampia conoscenza della natura e sapevano agire sulla psiche dei malcapitati, impressionandoli e, a volte, spingendoli addirittura alla morte. Diversi scrittori antichi affermano nei loro testi come spesso i Druidi siano riusciti a sortire i loro effetti anche sui Romani.
Le invocazioni
Le invocazioni sono implorazioni di demoni e spiriti da parte del mago, che li richiama in aiuto. La facoltà più importante per eseguire invocazioni efficaci è l'immaginazione, indispensabile perché la visualizzazione di simboli e immagini sia chiara e precisa. I maghi appartenenti all'ordine esoterico della "Golden Dawn" si appellavano all'aiuto degli dei dell'antico Egitto, tra cui Iside e Osiride.
Glam dicin: la maledizione più pericolosa
"Glam dicim" era una delle maledizioni preferite dai Druidi celti, che la rivolgevano contro chiunque avesse violato la legge o commesso un omicidio. Questa maledizione, contro la quale non esisteva alcun antidoto, era temuta in tutto il mondo. Poteva provocare gravi danni alla vittima e, talvolta, era addirittura in grado di ucciderla. La leggenda vuole che la maledizione sia fallita in un solo caso: una sacerdotessa dell'ordine dei Druidi predisse all'uomo che amava che, se egli un giorno l'avesse lasciata, sarebbe morto prima del calare della sera. L’uomo si innamorò, invece, di un'altra donna. Durante un litigio ferì inavvertitamente la sacerdotessa e ne succhiò il sangue dalla ferita. Lei perse allora il suo potere su di lui, poiché secondo il credo celtico da quel momento i due erano uniti da un legame di sangue, e non avrebbero più potuto condividere il focolare e il letto.
Formule magiche per invocare la fortuna
Le formule e le pratiche magiche possono talvolta sembrare folli o quantomeno bizzarre. Secondo un testo di magia, per esempio, per invocare la fortuna e allontanare la sfortuna bisognerebbe indossare alcuni capi d'abbigliamento al rovescio, preferibilmente in fase di luna crescente (in genere infatti è questo il periodo migliore per eseguire le pratiche magiche, perché le formule sono più efficaci). In seguito è sufficiente accendere una candela e pronunciare tre volte a voce alta la seguente formula: "Avrò fortuna e successo sempre e ovunque". Perché non provare?
Il famigerato soffio di drago: una magia malefica
Quando si è vittima di maldicenze ingiustificate sul proprio conto è possibile affidarsi a un rituale "culinario". Per eseguirlo occorrono dolciumi (caramelle o cioccolato), uno spicchio d'aglio, una candela verde e una terrina decorata:
1. Riporre i dolciumi nella terrina e posizionarla sul davanzale della finestra, facendo in modo che il contenuto venga illuminato dal chiarore della luna.
2. Accendere la candela e collocarla accanto alla terrina.
3. Con l'aglio disegnare un anello immaginario attorno alla terrina, dicendo ad alta voce: "Chi dice il male, abbia un alito tale"!
4. Soffiare sulla candela affinchè l'incantesimo si compia.
5. Offrire al nemico una caramella magica. L’effetto sarà sconvolgente.
La magia simpatica
Il concetto di magia simpatica si basa sul principio di similitudine fra ciò che bisogna curare e il mezzo utilizzato per farlo. Esistono diversi esempi riconducibili a questa teoria, ne citeremo soltanto alcuni. In passato i pazienti colpiti da itterizia (con la tipica colorazione gialla della pelle) venivano curati con lombrichi gialli (che dovevano essere mangiati, ma erano talmente sminuzzati che il paziente non capiva che cosa stesse ingerendo). Alla corteccia che cresce sulla parte del tronco rivolta a est si attribuivano forze particolari, poiché essa viene illuminata dal sole nascente e non dal sole "morente". L’ulcera si curava con una triplice invocazione: "Consumati come il legno sul fuoco. Raggrinzisci come lo sterco di vacca sul muro. Evapora come l'acqua nel secchio!". Il pensiero magico dei Germani (ma anche di altri popoli) era profondamente incentrato sul principio di similitudine, a cui veniva prestata particolare attenzione quando si sceglievano gli strumenti destinati ai rituali magici. Si prediligevano, per esempio, gli animali noti per la loro forza, velocità e ferocia, piuttosto che creature più miti. I maschi erano ritenuti più forti rispetto alle femmine. Oggi anche l'omeopatia si fonda sul concetto di similitudine, curando "il simile con il simile".
I minerali come pietre magiche
Il mago Agrippa di Nettesheim (1486-1535) si dedicò alla magia simpatica, ma perfezionò anche l'uso dei minerali per scopi magici. Spiegò, per esempio, che il diaspro aiuta la nascita dei bambini, mentre l'ametista, la pietra incastonata negli anelli dei vescovi, è efficace contro l'alcolismo.
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:11 pm

MASCHERA DI FERRO

Il 19 novembre 1703, dopo una breve malattia, un uomo che aveva il volto coperto da una maschera di ferro, moriva nella prigione della Bastiglia.
Vi era stato imprigionato trentaquattro anni prima e persino il responsabile delle carceri reali, luogotenente Etienne du Jonca, non ne conosceva l'identità.
Nel suo diario annotava: «Ho sempre solo saputo che lo chiamavano M. de Marchiel». Il giorno dopo la morte, l'uomo era stato sepolto sotto il nome di Marchiolly e subito dimenticato dal mondo. Divenne, invece, celebre circa un secolo dopo, a seguito di un libro di Voltaire, “Il secolo di Luigi
XVI”, in cui finalmente si raccontava la vera storia della maschera di ferro.
Stando a Voltaire, qualche mese dopo la morte del cardinale Mazarino (avvenuta nel 1661), un giovane prigioniero col volto coperto da una maschera di ferro - o meglio una singolare maschera composta dal naso in giù di sottili lamelle mobili di metallo così che l'uomo poteva nutrirsi senza togliersela - era stato tradotto alla prigione dell'Ile Sainte Marguerite. Gli ordini erano tassativi: ucciderlo se avesse tentato di togliersi la maschera. Al prigioniero, «uomo di grande statura... di nobile e aggraziato aspetto», era concesso chiedere e ottenere ogni cosa. Ciò che lo rendeva più felice erano stoffe e merletti di finissima fattura. Doveva evidentemente trattarsi di un personaggio di alto rango, se il governatore in persona scendeva sovente nelle segrete per fargli visita. Anche al medico che lo andava ogni tanto a controllare era vietato levargli la maschera. L'uomo misterioso, secondo Voltaire, era morto nel 1704 (una data sbagliata, che slitta di un anno), ma la cosa singolare sta nel fatto che quando era stato imprigionato per la prima volta all'Ile Sainte Margherite, in Europa non si era segnalata la scomparsa di alcun personaggio di nobile rango. Secondo Voltaire, un giorno l'uomo aveva inciso alcune parole su un piatto e lo aveva gettato dalla finestra della prigione. Il piatto era stato trovato da un pescatore, il quale recatosi dal governatore della prigione si era sentito chiedere: «Avete per caso letto che cosa c'è scritto?». Quando il pover’uomo gli aveva risposto che, per la sua ignoranza, non era in grado di farlo, l'altro lo aveva licenziato semplicemente dicendogli: «Bene, allora, potete andare... siete un uomo fortunato».
La storia proposta da Voltaire creò sensazione. Molte voci si erano rincorse a proposito del misterioso prigioniero, ma non c'era stato mai nessuno che aveva avuto il coraggio di affrontare l'argomento in modo così aperto e chiaro. In verità, una stravagante e assurda storia intitolata “La maschera di ferro”, a firma di un certo cavaliere di Mouhy, era stata pubblicata ma subito bandita cinque anni prima, anche se la vicenda era ambientata in Spagna e aveva pochi punti di contatto con quella della vera maschera di ferro. Chi era dunque l'uomo che si celava sotto la maschera e che cosa aveva finito per ricevere una simile punizione? Vent'anni dopo, in “Domande sull'Enciclopedia”, Voltaire rivelava la verità o, per lo meno, quella che lui riteneva fosse la verità. Per comprendere meglio la sua ipotesi dobbiamo inoltrarci di qualche passo nella storia della Francia. Si diceva che Luigi XIII fosse impotente e che comunque non corresse buon sangue con la moglie, Anna d'Austria. La regina, infatti, era intima del cardinal Mazarino, di cui condivideva le idee e gli atteggiamenti politici e molto probabilmente anche il letto, tanto che dopo la morte del re qualcuno era arrivato a sostenere che i due avevano contratto un matrimonio segreto. Ecco, ora, la teoria di Voltaire: Anna d'Austria aveva avuto un figlio da Mazarino, prima della nascita dell'erede Luigi XIV. Il re, ovviamente, non era al corrente di questo, ma se la cosa è vera, il delfino aveva in realtà un fratello maggiore, cui, per quanto illegittimo, sarebbe potuta toccare la corona. Questo il motivo per cui Luigi aveva deciso di imprigionare il fratellastro, il volto eternamente coperto da una maschera, per evitare che eventuali forti somiglianze riconducessero la sua nascita alla progenite reale... Nel 1847, oltre un secolo dopo il racconto di Voltaire, toccava ad Alessandro Dumas dare alle stampe il celebre romanzo “L'uomo dalla maschera di ferro”, uno dei tanti fortunati seguiti alla serie de “I tre moschettieri”. È soprattutto su questa trama che si fonderanno poi tutte le altre elucubrazioni successive, non da ultimi gli spunti che hanno portato questa misteriosa vicenda sugli schermi cinematografici. Secondo Dumas, il poveretto era il fratello gemello di Luigi XIV. Ma non era un'ipotesi condivisa solo da lui, comparve anche in un'altra opera dal titolo “Memorie del duca di Richelieu”, pubblicata a Londra nel 1790. Si diceva che Luigi era nato a mezzanotte e il fratello gemello era stato partorito alle 8,30 della mattina seguente, mentre il padre stava facendo colazione. Approfittando della sua assenza, le balie lo avevano subito fatto sparire, per evitare grane nella successione regale. Ma si era poi scoperto che in realtà “le Memorie” altro non erano che un falso del segretario del duca, l'abate Soulavie, e la storia è quasi certamente da ritenersi una mera invenzione. Nella sua introduzione alla traduzione del libro di Dumas, il critico letterario Sidney Dark scrive: “Altre strampalate teorie hanno identificato il prigioniero con il duca di Monmouth, figlio illegittimo di Carlo II, con un certo patriarca armeno, con Fouquet, l'ambizioso ministro dei primi anni di regno di Luigi XIV, una delle figure centrali del romanzo di Dumas e, idea fra le più bizzarre, addirittura con Molière. Correva voce che dopo lo strepitoso successo del “Tartufo”, i Gesuiti, offesi, fossero riusciti a convincere il re a farlo sparire dalla circolazione. Ovviamente, tutte queste ipotesi non sono solo fantasiose, ma incredibili. Gli storici più seri sono dell'idea che l'uomo che si nascondeva sotto la maschera di ferro fosse un italiano, un certo Mattiolo, ministro del duca di Mantova, che si era attirato l'ira di Luigi per chissà quali intrighi”.
Ma Dark non era del tutto corretto. L'uomo che molti ritenevano fosse la maschera di ferro, era un italiano, un certo Ercole Mattioli, nato nel 1640, già segretario del duca di Mantova. Il presunto oscuro intrigo che aveva fatto irritare il re Luigi XIV era una transazione, una faccenda complessa. Nel 1632 la Francia aveva conquistato l'importante fortezza piemontese della città di Pinerolo. Circa trent'anni dopo, aveva pensato di poter acquistare un altro pezzo di territorio italiano nello stesso modo, annettendosi un'altra rocca decisiva, quella della città di Casale, nei pressi di Torino, altra proprietà del duca di Mantova. Questi, in grave crisi finanziaria, aveva assoluta necessità di vendere, ma le trattative per il passaggio dovevano svolgersi nella massima riservatezza, perché, mentre Luigi era in rotta con la Spagna, il duca di Mantova era circondato da molti amici spagnoli. Mattioli, che stava trattando l'affare, si era lasciato scappare qualche parola di troppo e gli alleati spagnoli del duca erano venuti a conoscenza delle richieste del re di Francia, così che la cosa non era andata in porto. Luigi era furibondo, ma fintanto che Mattioli stava in Italia non poteva assumere alcun provvedimento nei suoi confronti. Prima di tutto Mattioli non doveva essere informato dell'ira del re verso di lui. In secondo luogo doveva essere attirato con qualche scusa a Pinerolo e qui, entrato nella giurisdizione reale, avrebbe potuto essere arrestato. Così era accaduto e Mattioli era stato tradotto nelle carceri di Pinerolo, cui era preposto il governatore Saint-Mars. Inoltre, tutto doveva restare segreto. Mattioli, molto semplicemente, doveva sparire, per marcire in prigione fino alla morte. Non sappiamo con precisione quando tutto questo accadde, ma è presumibile sia avvenuto attorno al 1694. Mattioli è senz'altro un ottimo candidato, se anche si ricorda, tra l'altro, che Etienne du Jonca, luogotenente del re e sovrintendente della prigione dove era custodito, diceva che era conosciuto come "M. Marchiel" e il nome che venne poi impresso sulla tomba fu "Marchiolly". Ma, viene da chiedersi, se Mattioli era veramente l'uomo dalla maschera di ferro, per quale motivo il re avrebbe tenuta celata per così tanto tempo la sua vera identità, soprattutto dopo che l'aveva fatto trasferire da Pinerolo alla prigione dell'Ile Sainte Marguerite e poi alla Bastiglia? Forse perché Mattioli era stato rapito in Italia, fatto che avrebbe potuto sollevare delle questioni di politica internazionale. Ma in un momento storico così improntato al pragmatismo, difficilmente qualcuno si sarebbe scandalizzato della cosa; e poi, perché impedire che il volto del prigioniero potesse essere visto? Chi l'avrebbe potuto riconoscere? Che aggiungere invece a proposito dell'ipotesi dei due gemelli, ancora oggi l'idea che si è più di tutte radicata nella fantasia della gente e dell'opinione popolare? L'idea era nata circa mezzo secolo prima che Dumas pubblicasse il suo romanzo. Caduta la Bastiglia nel corso della Rivoluzione francese, gli archivi della prigione vennero resi noti in un lavoro a stampa intitolato “Bastiglia senza segreti”. Il responsabile della commissione che aveva avuto il compito di prendere in esame la questione, un certo M.Charpentier, esaminò tutti i documenti possibili che in qualche modo lo portassero a identificare l'uomo nascosto sotto la maschera di ferro. Confrontando quei dati con quelli dell'archivio reale non era emerso nulla, neppure un piccolo indizio, in cui saltasse fuori che la regina Anna aveva dato alla luce due gemelli, oppure un figlio illegittimo. Tuttavia Charpentier era riuscito a scovare lo stesso qualcosa di interessante a proposito del "vecchio prigioniero", una specie di curiosa leggenda. Si diceva che l'uomo era il figlio avuto da Anna d'Austria con il duca di Buckingham, l'affascinante, diabolico ministro di Giacomo I e Carlo I. Era risaputo che non gli era occorso molto per sedurre Anna, nel corso del suo soggiorno in Francia nel 1626, anche se non si sa con quale risultato: non doveva essere tanto facile per due personaggi così noti e continuamente tenuti sott'occhio trovare l'opportunità e l'occasione di consumare un adulterio senza indurre sospetti. Stando a ciò che racconta Charpentier, nel 1626 Anna aveva comunque dato alla luce un figlio maschio, cui Luigi XIV, il delfino, che sarebbe venuto al mondo da lì a dodici anni, rassomigliava come una goccia d'acqua: da qui la necessità di coprirgli il volto con la maschera di ferro... Questa, chiamiamola così, leggenda, presenta alcuni particolari, che la rendono plausibile. Sembra venisse raccontata per la prima volta da una certa madame de Saint-Quentin, già amante del marchese de Louvois, ministro della guerra di Luigi. E se (cosa pressoché certa), era venuta a conoscerla direttamente dal marchese, doveva contenere una buona dose di verità. Non è tuttavia da escludere che anche chi vi si oppone non sia nel giusto. Perché non è detto che il marchese non abbia raccontato la storia che il suo re Luigi desiderava venisse a conoscenza del popolo, una vicenda tanto strana da sembrare impossibile, capace però al tempo stesso di placare i curiosi. Ad ogni buon conto, non si trattava di una mera invenzione, senza capo né coda, bensì di un racconto che presentava solide fondamenta. Se l'uomo dalla maschera di ferro era nato nel 1626, al momento della morte avrebbe dovuto avere settantatre anni. Ma le seppur poche testimonianze, lo tratteggiano di almeno dieci anni più giovane. Voltaire lo descrive come un uomo piacente e di bell'aspetto. Ma nel 1669 - l'anno in cui era stato incarcerato - un uomo nato nel 1626 avrebbe dovuto avere quarantatre anni, un anziano per quel tempo. In seguito Charpentier era riuscito a mettere insieme anche altri interessanti particolari sulla intricata vicenda. Come Mattioli, il prigioniero era stato in carcere a Pinerolo e anche all'Ile Sainte Marguerite. Ma non era Mattioli. Perché altri archivi segreti rivelavano che quando nel 1681 Saint-Mars, il governatore della prigione di Pinerolo, era stato incaricato di assumere la reggenza della prigione di Exiles, il "vecchio prigioniero" lo aveva seguito, mentre Mattioli era rimasto. Quando altre notizie d'archivio vennero alla luce, si scoprì un interessante carteggio fra il ministro francese della guerra e Saint-Mars. Ma, cosa ancora più significativa, c'erano anche lettere del re. In questi documenti si attestava che l'uomo celato sotto la maschera, altri non era che un certo Eustache Dauger. Nel luglio del 1669 il marchese de Louvois (padre della donna che aveva pettegolato con l'amante a proposito delle imprese galanti del duca di Buckingham) scriveva in una lettera a Saint-Mars: “Il re in persona mi ha ordinato di tradurre un uomo che ha nome Eustache Dauger alle carceri di Pinerolo. Sembra si tratti di una questione della massima importanza... Si è raccomandato affinchè venga sorvegliato a vista e che non gli vengano date informazioni sulla sua situazione, né gli sia concesso di inviare delle lettere... Mi ha poi quasi minacciato di morte qualora dia retta alle sue parole, dicendomi di fargli intendere che qualora parlasse non avrei esitazioni a metterlo a morte”.
Negli archivi c'erano anche altre due lettere a firma del re in cui veniva ampiamente ribadito questo concetto. La stessa cosa, di nuovo: Eustache Dauger era al corrente di qualche terribile segreto, che il re non voleva che alcuno al mondo venisse a conoscere. Ma, allora, perché non farlo fuori? Sarebbe stato così facile. Da una parte perché il re, tutto sommato, non amava questo genere di esecuzioni sommarie, dall'altra perché, forse, nutriva qualche affetto nei suoi confronti. O forse, ancora, perché il re sperava in cuor suo che un giorno o l'altro Dauger trovasse il coraggio di svelare il suo segreto. Il primo a ipotizzare l'idea che l'uomo dalla maschera di ferro fosse Eustache Dauger fu lo storico Jules Lair, che sostiene questa ipotesi in una biografia dedicata al ministro delle finanze francese Nicholas Fouquet, anch'egli condannato alla prigione a vita dal re. Fouquet, nato nel 1615, era stato uno dei protetti del cardinale Richelieu e quando Mazarino - il successore alla carica di Richelieu - era morto nel 1661, tutti si aspettavano che il potente Fouquet diventasse il primo ministro del re. Invece il giovane sovrano - all'epoca soltanto ventitreenne - era stanco di Fouquet, che era diventato ricchissimo grazie ai proventi della sua attività. Forse era geloso di Fouquet, che aveva tentato di sedurre Louise de la Vallière, la figlia di un alto ufficiale destinata a diventare la sua amante. Al suo posto Luigi aveva chiamato Jean-Baptiste Colbert, il figlio di un calzolaio, già assistente di Fouquet. Come prima azione, Colbert aveva immediatamente denunciato Fouquet di aver falsificato i conti della corona. Fouquet, da parte sua, aveva compiuto il grossolano errore di invitare il re nel suo castello, strabiliandolo con incredibili meraviglie, uno sperpero fatto con danaro pubblico, che al sovrano non era per nulla piaciuto. Fouquet venne arrestato, processato e condannato all'ergastolo nella prigione fortezza della città italiana di Pinerolo. Nel 1675, al "vecchio prigioniero" Eustache Dauger era stato concesso di fargli da valletto. Due soltanto le possibili ragioni. O Fouquet era al corrente del segreto di Dauger oppure non aveva alcuna importanza il fatto che lo venisse o meno a sapere, dal momento che non sarebbe mai più stato rilasciato. Ma chi era Dauger e di quale colpa si era macchiato? La prima risposta è più ardua della seconda. Verso la fine degli anni Venti lo storico Maurice Duvivier provò a darle. Il medico che aveva in cura la maschera di ferro nella prigione della Bastiglia, aveva riportato in un referto trattarsi di un uomo di circa sessant'anni, nato dunque sul finire degli anni Trenta di quel secolo. Duvivier si era messo a scartabellare negli archivi del tempo per trovare qualche Dauger - o D'Auger, o Ranger, o Oger, o Daugé - che potesse in qualche modo rispondere alla bisogna. Alla fine ne aveva rintracciato uno nei testi conservati presso la Biblioteca Nazionale, un certo Oger (a volte detto anche Dauger) de Cavoye, figlio di Francois de Cavoye, capitano dei moschettieri del cardinale Richelieu, nato il 30 aprile del 1637. Era uno dei sei figli, di cui quattro caduti in battaglia. Il quinto, Louis Dauger de Cavoye, era diventato uno dei più fidi ufficiali di re Luigi XIV. Eustache era invece la pecora nera della famiglia, quello che non ne combinava mai una giusta. E più Duvivier approfondiva lo studio della sua personalità più si convinceva che la maschera di ferro era proprio lui. Il padre di Eustache, Francois de Cavoye, era andato a corte nel 1620 per cercar fortuna. Proprio come il ben più celebre D'Artagnan di Dumas, in breve tempo si era fatto un nome per via del suo ordimento. (D'Artagnan rispondeva infatti a un personaggio vero, e aveva scortato Fouquet alla prigione di Pinerolo). Dopo aver sposato una giovane vedova, Marie de Sérignan, nel 1630 era stato nominato capo delle guardie del cardinale Richelieu. Marie era una donna estremamente popolare per proprio conto. Era infatti intima non solo di Richelieu ma anche del re ed era diventata damigella di corte della regina. Così i figli avevano potuto anch'essi accedere a corte, tanto che il giovane Eustache era entrato addirittura nel numero dei pochi favoriti del sovrano, cosa che spiegherebbe la sua riluttanza ad assumere poi nei suoi confronti estremi rimedi. Francois de Cavoye era caduto nell'assedio di Bapaume nel 1641, ma la posizione ormai assunta dalla moglie garantiva ai figli che i favori della corte non sarebbero comunque venuti meno. Quattro però erano morti in guerra. Eustache, che era pure un soldato che aveva preso parte a molte campagne, era stato più fortunato e aveva salvato la pelle. All'epoca era giovanissimo, avendo soltanto ventun'anni. Nel 1659, a ventidue anni, Eustache Dauger venne coinvolto in un singolare e strano affare. Il venerdì santo di quell'anno, era presente nel corso della celebrazione di una blasfema messa nera nel castello di Roissy, nel corso della quale un maiale era stato battezzato e poi mangiato. La notizia si era diffusa con la velocità del lampo, creando grande scalpore. Saltarono molte teste, alcune carriere furono stroncate. Eustache era stato risparmiato forse solo per il grande rispetto di cui godeva la madre presso la corte reale. Solo che sei anni dopo si era cacciato in un altro guaio, uno scandalo che lo aveva costretto a rassegnare le dimissioni. Era scoppiata una questione con un paggio in servizio presso l'antico castello di Saint Germain. Una versione dei fatti (quella del duca d'Enghien) racconta che il paggio, completamente ubriaco, aveva toccato con un bastone il duca di Foix mentre gli stava passando accanto. Ne era nata una discussione e un uomo "che si chiamava Cavoye" aveva ucciso il ragazzo. La cosa era stata vista come una sorta di sacrilegio, dal momento che quel giorno il castello era santificato dalla presenza del re. Mentre il duca di Foix che aveva fomentato il litigio era fuggito impunito, l'uccisore era stato costretto a denunciare la propria identità. Che il Cavoye di cui si parla fosse proprio Eustache sembra provato dal fatto che in quello stesso anno aveva lasciato la guardia reale, mentre gli altri due fratelli ancora in vita, Louis e Armand, avevano continuato a servire il re. Subito dopo l'uccisione del paggio, la madre di Eustache era morta, lasciando scritto nel testamento che il suo erede universale sarebbe stato Louis e non Eustache che pure era il più anziano. La decisione era stata presa almeno quattordici mesi prima dell'incidente del paggio, cosa che ci induce a ritenere che Eustache fosse considerato un buono a nulla già da tempo. Unirà concessione per lui, un vitalizio di mille livree l'anno. Sistemato dal punto di vista economico, Eustache era andato a vivere presso il fratello Louis, il quale, ricevuta l'eredità, aveva preso alloggio in nome de Bourbon, non lontano dall'ospizio di carità. Ma nel 1668 Louis Dauger era venuto a trovarsi improvvisamente in serie difficoltà economiche. Aveva tentato di sedurre una nobildonna che si chiamava Sidonia di Courcelles, il cui marito si era sentito oltremodo oltraggiato. Louis aveva accettato la sfida a duello ed era stato tratto in arresto. Dal momento che anche il ministro della guerra, Louvois, era molto interessato alle grazie di Sidonia, aveva trovato il modo di farlo condannare a morte. A salvarlo era intervenuto il ministro Colbert, anche se non aveva potuto impedirgli di scontare i successivi quattro anni alla Bastiglia. Una volta uscito, Louis se n'era andato in giro per il mondo; in quel momento, frattanto, il fratello Eustache si trovava già a Pinerolo. Perché? Che cosa aveva combinato di nuovo? Stando al Duvivier, nel 1668 aveva partecipato in qualche misura all'intrigo noto come "affare dei veleni" o, meglio, a stendere una cortina fumogena sugli eventi scandalistici che ne erano seguiti. La faccenda aveva avuto inizio nel 1673, quando alle orecchie del capo della polizia, Nicolas de la Reyne, erano giunte alcune voci secondo le quali si diceva che certe dame illustri avevano avvelenato e affatturato scientemente i loro mariti. Erano scattate le indagini. Ma erano occorsi più di quattro anni al De la Reyne per venire a capo di un intrigo terribile, una vera e propria congiura dei veleni gestita con estremo profitto da alcune fattucchiere e da certi preti dediti a messe nere. Quasi tutte le dame più in vista alla corte erano fortemente coinvolte, fra cui anche la celebre madame di Montespan, l'amante preferita del re. Il suo scopo era quello di assicurarsi e mantenere l'amore del sovrano, facendo passare in secondo piano le velleità di un'altra temibile cortigiana, la sua rivale acerrima, Louise de la Vallière. A tal fine, la Montespan non aveva esitato a partecipare alle messe nere, offrendo il suo ventre come altare, mentre un prete di nome Guibourg sgozzava un neonato. Nel corso di un'altra cerimonia, finalizzata a ottenere una pozione magica d'amore per il sovrano, si era ottenuta la mistura mescolando gocce di sangue mestruale e dello sperma, ricavato da uno dei presenti che si era masturbato rovesciando il suo seme in un calice da messa. Tutte queste cose orribili avevano a tal punto scandalizzato il re da dar ordine immediato di predisporre un'inchiesta. Le fattucchiere erano state allora condotte in gran segreto in una camera buia, illuminata da fioche candele (detta poi "camera ardente") e sottoposte a tortura, con il preciso impegno che da quelle mura non sarebbe dovuta uscire una sola indiscrezione. La maggior parte di coloro che erano stati coinvolti nella brutta faccenda, erano poi stati condannati al rogo, mentre la Montespan era caduta in disgrazia. Nel 1668, cinque anni prima che il de la Reyne fosse informato della faccenda dei veleni, era già scoppiato un caso simile a Parigi e una fattucchiera chiamata "la saggia" e il suo truce assistente, l'abate Mariette, erano stati accusati di magia nera e stregoneria. Si era fatto un gran parlare a proposito dei filtri e delle pozioni d'amore, di messe nere e delle dame di corte. In questa occasione era venuto alla ribalta per la prima volta il nome della Montespan, ma la cosa era stata messa velocemente a tacere. La strega era stata condannata al carcere a vita, mentre il Mariette, che poteva contare su conoscenze influenti, se l'era cavata con soli nove anni di esilio. Ora, nella nuova faccenda dei veleni, l'abate Guibourg aveva ammesso di essere stato lautamente ricompensato per aver celebrato una messa nera in casa della duchessa d'Orléans su incarico di un chirurgo che dimorava assieme al fratello in una casa nel quartiere di Saint Germain, nei pressi dell'ospedale di carità. Era esattamente qui che Eustache e suo fratello Louis vivevano nel 1668. Un altro resoconto del rapporto a proposito dei fatti della camera ardente parlava, inoltre, di un medico chirurgo, certo d'Auger, incaricato di procurare "droghe". Duvivier immagina che questo d'Auger altro non fosse che Eustache e che era stato proprio il forte coinvolgimento nel losco affare della fattucchiera e dell'abate Mariette a provocare il suo allontanamento da corte. Prove scritte attestano che Eustache era stato arrestato a Dunkerque da guardie di uno speciale corpo di polizia per ordine preciso del re, mentre stava per imbarcarsi alla volta dell'Inghilterra. Probabilmente Duvivier non sbaglia. Eustache avrebbe potuto essere coinvolto nell'affare dei veleni e poteva essere il dottor d'Auger citato nei rapporti. Ma ancora non si capisce come mai il re volesse condurre tutte queste operazioni nella massima riservatezza e segretezza. Dopo tutto, l'abate Mariette era stato esiliato, non ucciso e dunque, se solo avesse voluto, avrebbe potuto tranquillamente vuotare il sacco raccontando tutto ciò che di marcio succedeva presso la corte francese. Ecco perché l'ipotesi di Duvivier a proposito di Dauger visto come mago e spacciatore di veleni convince solo in parte. Ma esiste un'altra e assai interessante ipotesi, quella che collega Dauger con il mistero di Rennes-le-Chàteau. Nel suo bel libro dal titolo “Santo Graal”, Henry Lincoln afferma che Fouquet, lo sfortunato ministro delle finanze, avrebbe potuto essere l'uomo che si celava dietro la maschera di ferro. Ma questo, come sappiamo, è impossibile perché Fouquet era morto nel 1680, vale a dire la bellezza di ventitre anni prima del "vecchio prigioniero". Ma Lincoln sottolinea anche che nel 1656 il fratello di Fouquet, Luigi, era stato inviato a Roma per presenziare alla mostra di un pittore di nome Poussin, il quale aveva indirizzato a Fouquet una strana e curiosa lettera a proposito di alcuni segreti che gli avrebbe potuto far conoscere «per il tramite del signor Poussin, conoscenze che avrebbero fatto molto comodo a qualsiasi sovrano». Si immagina che questi segreti si riferissero a qualcosa che aveva a che fare con il tesoro nascosto di Rennes-le-Chateau. Il quadro di Poussin intitolato “I pastori di Arcadia”, una tela che conteneva la chiave del grande segreto, venne acquistata da Luigi XVI che la teneva nella sua stanza privata dove nessuno la poteva osservare. È possibile che Fouquet conoscesse il segreto di Rennes-le-Chàteau e che per questo il re lo avesse fatto rinchiudere a Pinerolo - dove gli era assolutamente proibito di parlare con chicchessia - per costringerlo a svelarglielo? Esiste ancora una eventualità in questo senso. Stando a Lincoln una parte importante del prezioso segreto concerneva un ordine cavalleresco occulto detto Priorato di Sion, il cui scopo era quello di ripristinare la dinastia dei Merovingi sul trono di Francia. Nel XVII secolo i Merovingi - i discendenti del re Meroveo - erano costretti al casato di Lorena. Il fratello più giovane di Luigi XIII, Gastone d'Orléans, aveva sposato alla sorella del duca di Lorena e c'era stato un tentativo fallito di deporre Luigi per insediare Gastone al suo posto, cosa che avrebbe significato la restaurazione del governo merovingio sul trono di Francia. Il golpe era fallito, tuttavia poiché il re Luigi non aveva figli, la possibilità che qualcuno della casa di Lorena potesse ancora ambire al trono non era svanita del tutto. Era stato proprio in questo frangente che Anna d'Austria, aveva stupito tutti generando il delfino, colui che sarebbe diventato Luigi XIV... Scrive Lincoln: «Stando a scrittori contemporanei e successivi, il vero padre del ragazzo era il cardinale Richelieu, o uno "stallone" designato dallo stesso cardinale…». Chi avrebbe potuto essere questo "stallone"? Il primo candidato che viene alla mente non può che essere l'affascinante capo della sua guardia personale, il comandante dei moschettieri, Francois Dauger de Cavoye. In merito alla nascita di Luigi XIV sono nate molte leggende e versioni. La più diffusa è che il piccolo sarebbe nato a seguito dei tanti sforzi compiuti da Richelieu di far unire i due sposi, riuscendoci, alla fine, una volta in cui a causa di un violento temporale Anna e Luigi erano a lungo rimasti soli in un capanno. Ovviamente non è da escludere che Luigi fosse stato concepito anche solo a seguito di un unico rapporto; ma la cosa sarebbe stata più che sufficiente per presentare il piccolo come frutto del loro amore, convincendo Luigi che l'erede non poteva essere nato che dal suo regale seme... Sono molti gli autori che sottolineano la straordinaria somiglianza fra Louis Dauger de Cavoye, il fratello più giovane di Eustache, e il re Luigi XIV. Cosa del tutto comprensibile e logica qualora i due fossero fratellastri, nati dalla stessa madre. E così alla fine siamo arrivati a immaginare un'ipotesi che può spiegare del mistero dell'uomo dalla maschera di ferro. Lo "stallone" che Richelieu aveva incaricato di ingravidare la regina, altri non era che Francois Dauger de Cavoye. A lui sarebbe toccato il compito di far si che la Francia potesse avere un erede, in modo da contrastare e definitivamente frustrare tutte le aspirazioni degli eredi dei Merovingi (e con essi del Priorato di Sion). Sia Eustache che Louis Dauger sapevano che il re Luigi era loro fratellastro. Ecco spiegato come mai Louis era diventato uno dei suoi favoriti, una volta uscito dalla Bastiglia. Era una persona cui poter affidare un segreto senza tema che lo andasse a spifferare ai quattro venti. Invece, per la pecora nera Eustache, era tutto diverso. Dopo la sua caduta in disgrazia, le dimissioni dalla guardia regia, l'arresto e l'imprigionamento, Eustache aveva cominciato a parlare un po' troppo. Forse aveva addirittura tentato di ricattare il re, con minacce del tipo: rilasciate mio fratello, altrimenti... Per questo Eustache era stato spedito lontano dalla Francia, nella prigione di Pinerolo, con l'ordine tassativo di non farlo parlare con nessuno ed ecco perché, quando il governatore Saint-Mars aveva lasciato Pinerolo per altra destinazione, gli era stato imposto di portarsi dietro il "vecchio prigioniero". Non è neppure da escludere che Eustache fosse coinvolto nel Priorato di Sion e nel complotto per rovesciare Luigi e riconsegnare il trono di Francia alla discendenza merovingia; d'altra parte quale migliore opportunità, per destituire il re dal comando, di quella di rivelare al popolo che egli non era affatto il vero figlio di Luigi XIV che l'aveva preceduto sul trono? Fouquet forse conosceva il segreto ancora prima e pure lui era quasi certamente collegato alle macchinazioni del Priorato di Sion. (Secondo Lincoln, Fouquet era stato arrestato e processato per questo, anche se Luigi aveva provato a farlo condannare a morte invano, dal momento che la corte aveva respinto la richiesta). Ecco anche perché ad Eustache era stato concesso di fare da valletto all'ex primo ministro caduto in disgrazia. Quando però un'altra vecchia conoscenza di Dauger, il duca di Lauzun, era stato pure lui imprigionato a Pinerolo, si era ben badato a tenerli separati e lontani. Questa teoria riesce a chiarire molte cose. Riesce a spiegare, per esempio, perché il ministro della guerra Louvois (di certo al corrente del segreto) aveva raccontato alla sua amante che la maschera di ferro altri non era che il figlio illegittimo che la regina Anna d'Austria aveva avuto dal duca di Buckingham. E non era tanto lontano dalla verità. Rendeva ragione del motivo per cui il re desiderava mantenere segreta l'esistenza del prigioniero. Spiega anche come mai Dauger era costretto a indossare la maschera di ferro quando era in presenza di altre persone: perché essendo suo fratello, il re gli assomigliava in modo impressionante. Infatti, suona impossibile immaginare perché un uomo debba portarsi sul volto per tutta la vita una maschera di ferro, se non è proprio la sua faccia la chiave decisiva di una grande segreto. Ovviamente si deve riconoscere che esistono non poche obiezioni a questa ipotesi. Quando al re Luigi XV venne finalmente svelato il segreto della maschera di ferro dal suo vicario reggente, il duca di Orléans, si dice abbia esclamato: «Bene, se per caso è ancora vivo desidero dargli la libertà». Forse che il nuovo sovrano riteneva davvero poco importante che suo nonno fosse il figlio del capitano dei moschettieri del capitano Richelieu? Può darsi, d'altra parte, al momento, il suo trono era al sicuro. Ma c'è un'altra storia legata a Luigi XV che getta un ulteriore pizzico di dubbio. Quando il duca de Choiseul lo aveva interrogato a proposito del misterioso prigioniero, egli si era rifiutato di parlare, salvo dire: «Sappia, duca, che tutte le congetture fatte fino ad ora sono tutte false illazioni». Poi aveva aggiunto un ultimo, enigmatico, pensiero: «Se conosceste ogni cosa in merito, vi rendereste conto di quanto poco importante sia questa faccenda». Se questo ultimo commento è vero - e non si trattava semplicemente di uno stratagemma per sviare l'incalzante curiosità del duca - ebbene, significa che le migliaia di pagine che sono state scritte sul misterioso uomo che si celava dietro la maschera di ferro, sarebbero state tutte scritte invano.

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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:12 pm

IN CONTATTO CON CHI NON C'E' PIU'

Negromante, dal latino medioevale necromantem, indica colui che pratica l'antica arte divinatoria fondata sull'evocazione degli spiriti dei morti allo scopo di consultarli sul futuro. Il termine "negromanzia", o "necromanzia", deriva dal greco necroz ("morto") e manteia ("divinazione"). Alla base della negromanzia vi è la credenza nella sopravvivenza dell'anima e nella possibilità che i morti possano apparire e interferire in modo benevolo o malevolo nella vita di coloro che sono rimasti. Questa pratica era già ampiamente in uso presso i Babilonesi, come si legge nell'”Epopea di Gilgamesh”, era vietata ma praticata presso gli Ebrei, e per esempio è citata nella Bibbia a proposito di Saul e della strega di Endor, presso i Greci (basti penasare a quanto racconta Omero nell'Odissea) e presso i Romani, che secondo alcuni studiosi evocavano i morti in caverne vicino a laghi e fiumi. Per comunicare con gli spiriti dei defunti e consultarli, nel mondo antico si ricorreva all'uso di statue e feticci e all'intervento di veggenti e negromanti. Gli Egiziani, per esempio, utilizzavano delle statue per la comunicazione tra vivi e defunti. I Greci chiamavano daimon lo spirito del defunto. Nel Medioevo si assisté a un progressivo cambiamento del concetto di negromanzia: da divinazione con l'ausilio dei morti, grazie alle riflessioni di Agostino, Isidoro di Siviglia e Graziano (nel suo Decretum), il termine passò a indicare la "magia nera" intesa come insieme di rituali volti al male. Anche la descrizione del negromante risentì di questa mutazione, e da quel periodo in avanti venne descritto come persona torva, vestita di scuro, vagante tra le tombe alla ricerca di orridi ingredienti per le sue pratiche malefiche: ossa, mani di morto, parti del corpo di animali notturni come upupe e pipistrelli, sangue, ecc. Ma non tutto ciò che riguardava l'evocazione fu considerato negativo: la magia fu distinta in bianca, o teurgia, mirante a evocare gli spiriti buoni (angeli, santi ecc.) e nera, per richiamare spiriti cattivi, poi imprigionati dal mago in oggetti vari e asserviti ai suoi scopi.
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:12 pm

SAINT-GERMAIN L'IMMORTALE

Molti occultisti guardano a Saint-Germain come a una delle più interessanti e intriganti figure della storia dell'occultismo, al punto che qualcuno ritiene addirittura che sia ancora vivo. Tutti coloro che hanno scritto di lui, arrivati al termine della loro ricerca, non hanno mai potuto fare a meno di chiedersi se Saint-Germain "l'immortale" costituisca realmente un mistero o altro non sia che una truffa, un inganno colossale. Poiché il voluminoso dossier raccolto su di lui al tempo di Napoleone venne distrutto durante la Comune, va da sé che l'interrogativo continua a persistere.
La cosa ha fatto esclamare a un adepto: «E così, ancora una
volta, un semplice "accidente" ha rilanciato l'antica legge che impone che la vita di un iniziato resti sepolta nell'oblio e nel mistero».
La prima volta che il conte di Saint-Germain (senza dubbio un nome falso) comparve in Francia nel 1756, poteva avere si e no una cinquantina d'anni. Brillante intrattenitore, parlava bene alcune lingue straniere, sapeva di medicina e apparteneva alla schiera dei primi, intraprendenti alchimisti. Non alto di statura, vestiva un abito viola scuro e una cravatta di satin bianco (un segno di modestia in quegli anni passati alla Storia per la faraonicità degli abbigliamenti) e aveva maniere eleganti sia nel dire che nel gestire. Era certamente ricco, ostentava non pochi diamanti e un seguito di numerosi servitori. Una volta che uno scettico aveva mormorato a proposito del loro padrone: «Sono certo che si tratta di un mentitore», uno di loro gli aveva subito risposto: «Certo, lo so meglio di voi. Pensate che va raccontando in giro che vive da più di quattromila anni. Ma, per ora, io sono al suo servizio solamente da cento e quando sono arrivato, il conte mi disse di avere tremila anni. Come abbia fatto ad aggiungersene novecento, se per errore o perché è un emerito bugiardo, vi garantisco che non lo so». Un altro, il suo valletto personale, quando era stato interrogato dallo stesso conte, suo padrone, a proposito di un evento di storia antica, aveva risposto: «Forse, il signor conte non rammenta che io sono al suo servizio solamente da cinquecento anni». Ovviamente un tipo simile non poteva essere che un ciarlatano, ma, in caso affermativo, non si capisce a quale scopo. Dalle apparenze doveva essere ricco, si faceva accompagnare da un violinista, un abile pittore e mostrava proprio in queste due arti, musica e pittura, una conoscenza approfondita, riconosceva un quadro a prima vista senza esitazioni. In un suo libro, adombra l'ipotesi trattarsi del figlio di una ex regina spagnola, Maria di Neuberg, ritiratasi a vivere a Bayonne dopo la morte del marito Carlo II. Il suo amante era il ministro delle finanze, il conte Andanero, secondo Lang presumibile padre del misterioso conte. Prima di approdare in Francia, Saint-Germain era stato a Vienna. Qui aveva incontrato il maresciallo di Belle-Isle, il quale aveva contratto alcuni acciacchi durante la guerra in Germania. Il conte lo aveva risanato e, come atto di gratitudine, il maresciallo l'aveva invitato a seguirlo a Parigi. Appena arrivato, era stato chiamato al capezzale di una dama di corte, avvelenata da funghi non commestibili. Guaritala, era entrato nelle grazie della favorita del re Luigi XV, Madame de Pompadour. Tutte le donne di corte lo trovavano affascinante. La contessa Von Gergy, il cui marito era stato ambasciatore a Venezia nel 1710, sosteneva di rammentare chiaramente il suo nome e un giorno gli aveva chiesto se, per caso, suo padre o lui o qualcun altro della famiglia fosse mai stato in quella città. Saint-Germain aveva risposto nel suo solito intrigante modo dicendo che ci era stato a più riprese. La dama aveva allora esclamato: «Impossibile, signore. La persona da me conosciuta già all'epoca doveva avere circa la vostra età». Al che il conte, sorridendo in modo ironico, aveva controbattuto: «Ma io sono molto vecchio». Quindi aveva aggiunto una serie incredibile di particolari sul suo soggiorno veneziano da convincere la dama che si era trattato proprio di lui. Quasi spaventata, la donna aveva aggiunto: «Ma allora voi siete il diavolo!». A quella esclamazione, Saint-Germain era impallidito, aveva incominciato a tremare vistosamente e, in tutta fretta, aveva abbandonato la sala. Una decina di anni prima Saint-Germain si trovava a Londra. Nel 1745 venne arrestato come spia del giovane pretendente, che stava proprio in quel frangente marciando su Derby. In una lettera Walpole annota:
...l'altro giorno mi è stato presentato un singolare individuo che dice di chiamarsi conte di Saint-Germain. Si trovava qui da due anni e non aveva mai rivelato la sua identità né da dove giungesse... Canta, suona il violino in modo sublime, compone; potrebbe trattarsi di un folle o di una persona eccessivamente sensibile. Lo ritengono tanto un italiano, quanto uno spagnolo o un polacco; qualcuno dice abbia fatto fortuna nel lontano Messico e abbia quindi raggiunto Costantinopoli; altri lo dicono un imbroglione, un prete, un nobiluomo. Il principe di Galles ha cercato di soddisfare la propria curiosità sul suo conto, ma non ha cavato un ragno dal buco...
Nessuno sa che cosa abbia mai fatto né dove sia stato fra il 1745 e il 1755. Ma sul finire degli anni Cinquanta del Settecento sappiamo che fu a Parigi. Madame de Hausset, damigella di camera della Pompadour, scrisse: Veniva sovente un uomo che era un mago straordinario... Si faceva chiamare conte di Saint-Germain e cercava di far creder alla gente di avere centinaia di anni. Mentre era alla toilette, un giorno Madame gli aveva chiesto: «Che genere di uomo era Francesco I?» «Davvero un bel tipo - aveva risposto lui - ma un po' troppo orgoglioso. Avrei voluto dargli un paio di utili consigli, ma lui non mi dava mai retta». Poi aveva descritto, seppure in termini generici, la bellezza di Maria Stuarda e della regina Margot. «Si direbbe che li abbiate conosciuti tutti...», aveva sentenziato scherzosamente la dama. E il conte aveva risposto: «Ci sono volte in cui mi diverto non tanto a convincere la gente a credermi, ma a lasciarla credere che io sono al mondo da tempo immemorabile». Allora, Madame de Pompadour gli aveva chiesto di Madame de Gergy, quella che aveva detto di ricordare di averlo incontrato cinquant'anni prima a Venezia. Il conte aveva risposto: «Può darsi, ma tengo a sottolineare che ancora adesso sua eccellenza è più che mai un uomo appetibile». A questo genere di risposte si comprende come Saint-Germain amasse più che altro scherzare a proposito della sua età, senza mai tentare di imporre a nessuno di credere ciò che stava raccontando. La sua fama divenne presto enorme. Al punto che l'infastidito ministro degli esteri francese, ritenendolo un impostore e giocando sulla sua pretesa eternità, aveva assoldato una sorta di controfigura che andava in giro nei saloni parigini a motteggiarlo per coprirlo di discredito, dicendo di essere così vecchio d'aver conosciuto sant'Anna, la madre di Maria, madre di Gesù, e di aver «sempre saputo che quel Gesù non avrebbe fatto una bella fine». Dunque, che sappiamo veramente di Saint-Germain? In una lettera autografa datata 1735 a novembre lo troviamo all'Aia, in Olanda, ma non ne conosciamo il motivo. All'epoca doveva avere circa venticinque anni. Dal 1743 al 1745 era in Inghilterra, dove era stato arrestato come spia. Dalla storia che ci racconta Cooper-Oakley nella sua biografia sul conte, lo avevano incastrato ingiustamente. Qualcuno geloso della sua fama (ma forse anche del suo successo con le donne) gli aveva messo in tasca una lettera compromettente e lo aveva fatto arrestare. Ma il conte era riuscito a dimostrare la sua innocenza. A partire dal 1755 si era trasferito a Vienna, dove viveva in ricchezza e da dove, su invito del maresciallo de Belle-Isle, si era nuovamente spostato per raggiungere Parigi. Qui, grazie alle sue qualità di uomo di mondo, era divenuto una delle attrattive più interessanti di tutti i salotti della capitale. Diceva di vivere grazie a un miracoloso elisir da lui stesso brevettato ed era solito starsene a tavola fra i commensali senza toccare cibo. Ma il suo interesse più grande era la chimica e diceva di aver inventato un sistema per tingere seta e cuoio. Dichiarava di poter ripulire i diamanti da ogni impurità. Un giorno se ne era fatto consegnare uno del valore di seimila franchi. Quando era tornato lo aveva consegnato perfettamente pulito e puro, tanto che il suo valore era subito salito a diecimila franchi. Probabilmente, Saint-Germain aveva sostituito la pietra con un'altra. Aveva pensato che sarebbe valsa la pena guadagnarsi la fiducia del re per soli quattromila franchi. Ne era conseguito come risultato che il re aveva deciso di aprire un laboratorio attrezzato al Trianon e aveva concesso a Saint-Germain di installarsi negli appartamenti del castello di Chambord, per poter lavorare alla messa a punto dei processi di colorazione nella speranza, nel caso avessero avuto successo, di poter in qualche modo rimpinguare le casse dello stato, che facevano acqua da tutte le parti. Ad un certo momento Saint-Germain era diventato così intimo del re che il duca de Choiseul era sbottato, scrivendo: «Pare davvero strano che il re si compiaccia di starsene così sovente da solo in compagnia di costui, anche se quando se ne esce viene sempre scortato da un manipolo di soldati». Parlando con una evidente punta di disprezzo, il duca riferisce la voce secondo la quale Saint-Germain sarebbe stato il figlio di un portoghese ebreo. Nel 1760 il re, all'insaputa di tutti i suoi ministri, invia Saint-Germain in Olanda per una missione diplomatica. Scopo del contatto sondare le possibilità di una alleanza con l'Inghilterra, chiamata a staccarsi dal patto che la legava alla Prussia, e stipulare la pace. Per pura combinazione in quei giorni Saint-Germain si era trovato a condividere lo stesso hotel di un altro mirabolante avventuriere, Giacomo Casanova, anche lui in Olanda a nome e poi conto del governo francese. I due si erano riconosciuti e Casanova si era convinto più che mai che il conte non poteva che essere un cialtrone. Ecco come ne parla nelle sue Memorie: un uomo straordinario, nato apposta per fare il re degli impostori e degli imbroglioni, specie quando, parlando in tutta tranquillità, come se niente fosse, dice di essere nato trecento anni fa, di conoscere i segreti della medicina universale, di poter padroneggiare le forze della Natura, di saper lavorare e fondere i diamanti... Eppure, nonostante la sua boria, la sua sfacciataggine, il suo volto da bugiardo incallito, il suo palese eccentrico modo di fare, eppure, dicevo, non posso proprio affermare che si tratti di un uomo maleducato oppure offensivo. Malgrado queste asserzioni finali, Casanova aveva però lo stesso trovato il modo di denigrare il conte, facendo circolare una sorta di oracolo cabalistico che metteva in guardia da Saint-Germain. Frattanto in Francia anche il duca di Choiseul - che era contrario alla stipula della pace - aveva tramato contro di lui al punto da dare l'ordine di arrestarlo e rinchiuderlo nella Bastiglia. Ma, per sua fortuna, l'ambasciatore olandese, venuto a conoscenza del complotto, gli aveva fatto una "soffiata" ed egli era riuscito a imbarcarsi sulla prima nave per Londra. La faccenda aveva creato non poco imbarazzo a corte, dove Luigi e de Belle-Isle erano stati costretti ad ammettere di essere stati loro i mandanti di Saint-Germain per la missione olandese. Ma i numerosi nemici riuscirono a preparare la sua caduta, anche se non c'è dubbio che alcune volte era lui stesso, forse per tattica o forse per ingenuità, a prestare il fianco agli attacchi. Nella fattispecie, era andato a raccontare a tutti di essere un agente in missione segreta. In Inghilterra Saint-Germain si era incontrato con l'ambasciatore di Germania, forse con la speranza di poter essere accolto alla corte di Sassonia di Federico il Grande. Terrorizzato, l’ambasciatore si era affrettato a scrivere al segretario di stato prussiano per metterlo sul chi vive, pregandolo di fare del suo meglio per ostacolare la venuta del conte, perché con la sua capacità affabulatoria e il suo fascino ipnotico sarebbe stato capace di incantare il re inducendolo ad adottare chissà quali «disastrose misure». L'ambasciatore non aveva alcun dubbio sul potere di fascinazione di Saint-Germain. A questo punto il conte era stato costretto a fare segretamente ritorno in Olanda, dove aveva acquistato una proprietà spacciandosi per il conte Surmount; evidentemente a corto di quattrini, aveva anticipato solo una parte del costo della casa. L'ambasciatore francese lo descrisse come un uomo «completamente screditato». Ma, per sua buona sorte, Saint-Germain aveva trovato un altro protettore in Coblenz, ministro dell'Olanda austriaca, desideroso di poter in qualche modo sfruttare i processi chimici inventati dal conte negli stabilimenti di Tournai. Coblenz, completamente ammaliato, aveva riferito a Kaunitz, il cancelliere austriaco, ogni sorta di meraviglia, come, per esempio, la trasformazione del vile metallo in oro, la tintura della seta e di altri materiali in qualsiasi straordinario colore, la sintesi di una specie di pelle colorata simile a un cuoio morbidissimo. Per quanto infatuato, Coblenz riusciva egualmente a dire: «L'unica cosa che non sopporto di lui è quel continuare a mantenere il segreto sulla sua identità e sulle sue origini». Anche se poi, col trascorrere del tempo, Coblenz avrà in parte da ricredersi a proposito del carattere del "genio", di certo aveva intuito quali potenzialità commerciali si nascondevano dietro ai processi industriali da lui inventati. Gli stabilimenti a Tournai vennero comunque impiantati e Saint-Germain era riuscito a farsi scucire la bellezza di centomila fiorini per dei segreti che in un primo momento aveva promesso gratuitamente. Ciò malgrado, aveva lo stesso trovato il modo di sparire senza consegnare tutti i brevetti e i segreti pattuiti. Ad ogni buon conto, da quel che ne sappiamo, le imprese di Tournai funzionavano e bene, dal che, si deduce che le invenzioni di Saint-Germain dovevano comunque essere concrete e produttive. Gli spostamenti compiuti dal conte nei successivi dieci anni non sono noti, sebbene lui stesso dichiarasse di essere stato in India almeno due volte e di aver preso parte come combattente alla guerra russo-turca nel mare Mediterraneo (1768-74). Certamente era andato a San Pietroburgo diventando amico del conte Alexei Orlov, comandante della spedizione russa nell'arcipelago. La sua bevanda preferita, il té ricavato dall'infusione delle foglie di cassia (un lieve lassativo), divenne noto come té russo e adottato in massa dalla Marina. Per motivi ignoti, Saint-Germain arrivò a essere nominato generale dell'esercito russo. Nel 1774 lo troviamo a Schwabach, nell'Anspach, dove si era trovato un nuovo mecenate, Carlo Alessandro, margravio del Brandeburgo. Questi era rimasto eccezionalmente colpito dalla figura del conte quando, recatosi con lui a salutare Orlov per l'ultima volta, lo aveva visto abbracciare con grande calore il suo caro amico. Saint-Germain era così diventato l'ospite del margravio nel castello di Triersdorf, continuando serenamente a condurre i suoi esperimenti. Adesso si faceva chiamare conte Tzarogy. Ma un giorno, probabilmente nell'ansia di stupire e meravigliare come era suo solito, il conte aveva confessato quella che era la sua vera identità: egli era il principe Rakoczy di Transilvania. Il margravio ci aveva creduto, ma quando l'anno appresso era stato in visita in Italia raccontando nei salotti la storia del suo eccezionale ospite, era caduto dalle nuvole quando gli era stato riferito che i tre eredi al trono della Transilvania erano tutti morti e che il suo misterioso e bugiardo ospite altri non era che un uomo già ovunque ben noto come conte di Saint-Germain, figlio di un esattore delle tasse di San Germano. Gemmingen, il ministro dell'Anspach inviato per confrontarsi con il conte, riferì che il "principe Rakoczy" a precisa domanda non aveva negato di essere il conte di Saint-Germain. Era stato costretto di volta in volta a ricorrere a degli pseudonimi per evitare i tanti nemici, ma non aveva mai disonorato alcuno dei nomi sotto la cui protezione si era coperto. In definitiva, la verità. Lo stesso margravio aveva riconosciuto la serenità e la modestia del suo ospite, il quale non aveva mai approfittato della situazione per chiedergli del denaro. Ciò nonostante, Carlo Alessandro era rimasto fortemente deluso e da quel momento si era rifiutato di accogliere ancora come ospite il conte dai molti nomi. Così nel 1776, a sessant’anni compiuti, Saint-Germain si era ritrovato ancora una volta senza una casa. Ripreso a viaggiare, aveva visitato Lipsia, Dresda, Berlino e Amburgo. A Berlino aveva ardentemente sperato di potersi far ricevere da Federico il Grande, ma questi non aveva voluto avere nulla a che fare con un personaggio che reputava un avventuriero ciarlatano. Finalmente, il conte aveva trovato un nuovo padrone, il principe Carlo di Hesse-Cassel, dapprincipio poco propenso e aperto al dialogo, ma poi via via sempre più disponibile. Affascinato da Saint-Germain, il principe accettava senza discutere tutto ciò che il conte gli raccontava, compresa la storia che egli era il principe Rakoczy, che era stato allevato nella casa dell'ultimo dei Medici e che, al momento, aveva ottantotto anni. Carlo lo sistemò in un laboratorio a Eckenforde, nella regione dello Schleswig-Holstein, dove l'avventuriero aveva trascorso in santa pace gli ultimi anni della sua vita, soffrendo periodicamente di depressione e reumatismi per spegnersi serenamente nel febbraio del 1784, con grave dispiacere del principe Carlo che lo ricordò come «uno dei più grandi saggi mai comparsi al mondo». Saint-Germain era appena morto che già le voci sulla sua persona non si contavano. In un giornale uscito l'anno dopo si annunciava il suo prossimo ritorno. Madame de Genlis era convinta di averlo visto a Vienna nel 1821. Nel 1836, in un libro intitolato Souvenirs, l'autrice, la contessa d'Adhémar, che si vantava di essere stata di casa alla corte di Versailles negli ultimi giorni della monarchia, disse di averlo incontrato nel 1793 ricordando come le avesse preannunciato la morte imminente della regina Maria Antonietta. Poi le aveva detto che, da lì al 1820, si sarebbero ancora visti per altre cinque volte, ma che non ci sarebbe stata una sesta; e così era avvenuto. Ma G.B. Volz, che negli anni venti condusse una approfondita ricerca su Saint-Germain, sostiene che il conte non sarebbe mai esistito e che Souvenirs era un falso. Nel 1845 Franz Graffer dichiarò nelle sue Memorie di aver visto il conte di Saint-Germain, il quale gli aveva annunciato che sarebbe ricomparso sui monti himalayani verso la fine del secolo, una dichiarazione per la quale Madame Blavatsky si sentì autorizzata ad inserire il conte nella breve lista dei suoi "maestri segreti" tibetani e di citarlo con grande reverenza nel suo libro “La dottrina segreta”. Ma ancora una volta si scoprì che anche le Memorie di Graffer erano un falso. Tuttavia, quando nel 1885 la Blavatsky aveva fatto visita alla contessa d'Adhémar e alla signora Cooper-Oakley, il cui volume sulla vita di Saint-Germain era apparso nel 1912, aveva avuto modo di rendersi conto che presso gli archivi privati della famiglia erano ancora conservati documenti relativi al misterioso avventuriere. Per chiudere la saga, c'è infine da ricordare che nel 1972, un giovane di nome Richard Chanfray comparve alla televisione francese dichiarando di essere Saint-Germain, dando dimostrazione di saper trasformare il piombo in oro, utilizzando semplicemente un fornellino da campeggio.
Ora che abbiamo esaminato tutto quanto a nostra conoscenza, che possiamo concludere a proposito di questo incredibile "uomo del mistero"?
Primo - e dispiace persino un po' dirlo - che non può certamente essere preso ad esempio come figura di mago o maestro segreto. Se diamo retta a quanto aveva espresso l'ambasciatore prussiano a Dresda, quando diceva: «una sorta di disordinata vanità sembra costituire il meccanismo del suo modo di essere», non possono esserci dubbi sul fatto che Saint-Germain era un vanesio che parlava troppo, anche se non mancano attestazioni di testimoni contemporanei che affermano il contrario. Pur ammettendo tutto questo, si può essere lo stesso vanesi e chiacchieroni ma geniali. (Il primo esempio che ci viene in mente è quello straordinario di George Bernard Shaw). Altrettanto chiaro è che Saint-Germain era un grande entusiasta, dotato di un formidabile talento. Da parte sua, non si era mai definito né un mago né uno studioso di occultismo, anzi si era sempre dichiarato un materialista convinto, il cui unico scopo era quello di contribuire al benessere dell'umanità. Diderot e D'Alembert non avrebbero avuto esitazioni nel riconoscere in questo uomo dallo spirito aperto un ideale collaboratore per la loro Enciclopedia. Il vero, profondo mistero legato a Saint-Germain, è che era contemporaneamente un genio e un ciarlatano. Possedeva in misura eccelsa quello che noi oggi chiamiamo uno spiccato senso della mondanità, il desiderio di intrigare e affascinare. E sono proprio queste caratteristiche della sua personalità che ci fanno pensare che egli non fosse chi sosteneva di essere. Non era, per esempio, di certo l'ultimo erede della dinastia regale della Transilvania, i cui ultimi prìncipi erano stati personaggi ben noti. Poi quel suo desiderio quasi viscerale di comparire come un sovrano in esilio, tradiva una nascita presso un'umile famiglia e una fanciullezza trascorsa a fantasticare a occhi aperti fama e gloria. I resoconti su imbroglioni e ciarlatani si contano in gran numero, ma è assai improbabile, per non dire impossibile, trovarne uno nato in una famiglia ricca o anche solo benestante. Da qui possiamo desumere che Saint-Germain non era dunque il rampollo, per quanto bastardo, della regina di Spagna. Sappiamo che nel corso della sua vita cercò sempre di apprendere e imparare e che la chimica era la passione della sua vita. In altre circostanze avrebbe potuto benissimo diventare un Lavoisier, un Robert Boyle o un Michael Faraday. La sua naturale brillantezza lo rendeva sovente antipatico, dall'alto della sua intelligente ironia, concedendo poca considerazione a coloro che gli stavano attorno, tanto che viene da pensare che quando dichiarava di avere trecento anni o di essere stato intimo amico del re Francesco I, lo facesse provocatoriamente apposta per dimostrare a se stesso e alla sua intelligenza quanto fosse facile dimostrare la stupidità umana. Forse l'unico, vero, concreto enigma, sta nel sapere dove attingesse il denaro che gli consentiva di atteggiarsi a principe. Poiché, in fondo, era un uomo onesto (se solo facciamo eccezione per l'affare della impresa di Tournoi) la risposta è che evidentemente era in grado di far fruttare nel migliore dei modi sotto l'aspetto commerciale le sue scoperte in campo chimico. Forse potrà sembrare un poco banale dopo tutte queste parole arrivare a concludere che uno dei più inquietanti uomini del mistero, un maestro segreto, altri non era che un brillante, geniale chimico “ante litteram”. Sarà anche così, qualcuno si sentirà pure deluso, ma questa sembra essere l'unica teoria in grado di spiegare i fatti così come li conosciamo.
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:12 pm

LA CRIPTA DELLE BARBADOS

La cripta delle Barbados, il mistero delle bare rimosse.
Il 9 agosto 1812 la bara dell'onorevole Thomas Chase, uno schiavista delle isole caraibiche Barbados, veniva fatta scendere nella cripta di famiglia.
Appena scostata la grande lastra marmorea che chiudeva la tomba, la luce delle fiaccole illuminò qualcosa di strano. Una delle tre bare già contenute nella camera sepolcrale era rovesciata. Un'altra, quella di un bambino, giaceva sottosopra in un angolo. Appariva a tutti ovvio che la cripta era stata profanata. Eppure, a ben guardare, non c'era alcun segno di manomissione.
Rimessi i sepolcri al loro posto, la tomba era stata accuratamente richiusa. Quando la notizia si diffuse, la gente del posto non ebbe dubbi: erano stati certamente gli schiavi negri a combinare quel pandemonio, dal momento che Chase e la sua famiglia non meritavano altro, crudeli e senza scrupolo com'erano. Non per nulla, la terza delle tombe già presenti nella cripta era quella della figlia di Chase, Dorcas Chase, suicidatasi solo un mese prima per sottrarsi, si mormorava, alla brutale violenza del padre. Passano quattro anni e questa volta - è il 25 settembre del 1816 - tocca alla minuscola bara di un bambino di appena undici mesi, Samuel Brewster Ames, ad essere condotta nella tomba di famiglia. Ancora una volta la stanza è tutta a soqquadro. Qualche ignota mano ha deposto a terra le quattro bare, compresa quella di Thomas Chase che solo a stento otto uomini robusti erano riusciti a sistemare il giorno del funerale. Di nuovo si rimette tutto a posto e la cripta viene risigillata con cura e attenzione. Dopo circa due mesi era ancora ora di riaprirla per accogliere la salma di Samuel Brewster, uno della famiglia ucciso in aprile nel corso di una rivolta di schiavi e temporaneamente sepolto altrove. Tutti i sepolcri erano in disordine. Ancora una volta si pensò alla vendetta degli schiavi negri; ma il mistero era egualmente insoluto: come riuscivano a penetrare? Le grandi lastre di marmo erano state ogni volta cementate e ogni volta non c'era traccia di effrazione. Una delle bare - quella della signora Thomazina Goddard, la prima a essere stata introdotta nella cripta - aveva tutte le tavole scompaginate, come se qualcuno si fosse accanito con una violenza estrema. Per far fronte temporaneamente alla situazione, le assi di legno erano state rimesse insieme con delle corde e la bara appoggiata contro una parete. Poi, visto che la cripta era di dimensioni ridotte (3,5 m per poco meno di 2), le bare più piccole erano state risistemate sopra quelle più grandi. Alla fine, per l'ennesima volta, il posto era stato rinchiuso e sigillato. A questo punto la macabra storia aveva fatto il giro delle isole, suscitando grandi emozioni. In breve la Chiesa di Cristo e il suo rettore, il reverendo Thomas Orderson, si trovarono al centro della preoccupazione popolare. Se con i curiosi e verso coloro che erano alla caccia di sensazionalismi, il reverendo si mostrava alquanto intransigente, a chi lo interrogava senza morbosità, raccontava che, essendo pure lui ansioso di risolvere il singolare mistero, non aveva esitato ad accogliere l'invito del magistrato locale e assieme a lui aveva compiuto alcune perlustrazioni che però non avevano dato alcun esito. Come i vandali potessero infilarsi nella cripta continuava dunque a restare un mistero. Non solo non esisteva alcun passaggio segreto, ma, sia le pareti che il pavimento e il soffitto a botte, risultavano ben scavati nella solida vena di roccia calcarea. E se il disordine fosse stato provocato da qualche infiltrazione di acqua si sarebbero senz'altro trovate indiscutibili tracce; senza dimenticare che era del tutto improbabile che pesantissimi sarcofaghi potessero galleggiare. In merito poi alla teoria che stava poco a poco facendosi strada presso i nativi indigeni, vale a dire che la cripta fosse maledetta e che in essa agissero forze di ordine soprannaturale, ovviamente Orderson non poteva che far orecchio da mercante. Quando un altro membro della famiglia morì, l'attesa per quella nuova inumazione era febbrile. Il 7 luglio 1819 (qualcuno riporta la data del 17) toccò alla signora Thomazina Clarke essere introdotta nel sepolcro, ben rinchiusa in una bella cassa di prezioso legno di cedro. Per rimuovere l'abbondante cemento che sigillava la porta d'ingresso ci volle un bel po' di tempo, ma anche una volta rimosso la porta non voleva saperne di schiudersi. Immediatamente dietro, infatti, stava appoggiata la bara di Thomas Chase, che l'ultima volta in cui si era scesi nella cripta era stata sistemata a buona distanza. Anche tutti gli altri sacelli erano stati violati, con la sola eccezione della bara della signora Goddard, quella tenuta insieme con delle funi. Prova ulteriore che non si poteva comunque parlare di inondazione, perché altrimenti non si sarebbe potuto spiegare come mai pesanti sarcofaghi di pietra avessero potuto galleggiare sull'acqua e una bara di legno no. Uno dei primi a penetrare nella tomba era stato il governatore, Lord Combermere, il quale davanti a tanto disastro aveva immediatamente disposto un'inchiesta. Ma solo per verificare ciò che il reverendo Orderson già sapeva: non esisteva alcun passaggio o transito rintracciabile che consentisse a chicchessia di penetrare nella cripta, né una botola dal pavimento e neppure qualche cavità dalla quale potesse infiltrarsi dell'acqua. Prima di richiudere la tomba, il governatore aveva dato ordine di lasciare uno spesso strato di sabbia sul pavimento, al fine di poter registrare le impronte di chi si fosse furtivamente introdotto. Poi, di nuovo, la porta di accesso era stata richiusa con abbondante cemento. Come ultimo tocco, Combermere aveva addirittura posto il proprio sigillo personale sullo stipite, così che nessuno avrebbe potuto passare da lì senza forzare la porta e lasciare un segno inequivocabile. Otto mesi dopo, il 18 aprile del 1820, nel corso di un party tenuto presso l'abitazione del governatore, la discussione, come sovente accadeva, si era nuovamente focalizzata sull'enigma della tomba costantemente violata. Eccitato dal ricordo, Combermere aveva deciso, seduta stante, di andare a dare un'occhiata sul posto, per verificare se le precauzioni adottate si fossero rivelate efficaci. Il gruppo era composto di nove persone, fra cui il governatore, il rettore e due esperti muratori. Il cemento che fermava la porta di accesso era intatto e così il sigillo, quindi nessuno aveva violato il passaggio. Aperta la porta erano scesi nella cripta. Ogni cosa era sottosopra. La piccola bara di un bambino era stata trasportata addirittura sulla scalinata discendente e ostruiva il transito, mentre quella di Thomas Chase era stata rovesciata. Di nuovo, la sola intoccata risultava quella della signora Goddard, trattenuta con le corde. La sabbia depositata sul pavimento non rivelava alcuna impronta. A lungo i due esperti muratori avevano perlustrato, battendo con i martelli, pareti, soffitto e pavimento alla ricerca di qualche passaggio segreto o botola nascosta. Il mistero non poteva trovare alcuna soluzione. Allora il governatore aveva ordinato di estrarre tutte le bare e di seppellirle in qualche altro luogo. Così era stato fatto e la cripta era rimasta completamente deserta. Nessuno fra i tanti autori e ricercatori che riportano questo strabiliante caso è mai riuscito a offrire una soluzione convincente. Le spiegazioni naturali più logiche sono quelle dell'inondazione o di scosse telluriche. Ma la prima causa non solo avrebbe anche smosso la cassa in legno della Goddard ma avrebbe portato via la sabbia sul pavimento, senza contare che piogge così consistenti da provocare una inondazione non sarebbero certo passate inosservate. Lo stesso dicasi per le scosse di terremoto, che per scoperchiare e ribaltare bare così pesanti, sballottandole come dadi in un bicchiere, sarebbero state avvertite ovunque nell'isola. Conan Doyle suggerì l'ipotesi di esplosioni all'interno della cripta, provocate dagli influssi negativi concentrati degli schiavi negri, capaci di far saltare le bare innescando i gas esplosivi originati dalla decomposizione. Ovviamente, non c'è niente di più assurdo. Tuttavia, una spiegazione, diciamo così, soprannaturale potrebbe essere l'unica in grado di dare ragione del mistero. Correva voce presso la gente, che lo strano fenomeno aveva incominciato a manifestarsi solo dopo che nella tomba di famiglia era stata deposta una donna che si era suicidata. Stando alla teoria supernaturale, le anime delle altre persone sepolte non l'avrebbero accettata: da qui i continui sconvolgimenti. Ma, come ben sappiamo, la movimentazione di lastre e bare comporta la fenomenologia del poltergeist e tutti i ricercatori sono d'accordo nel sostenere che per attivare un simile evento è necessaria una forte "sorgente energetica" come, per esempio, l'instabilità di una personalità in fase di formazione come quella di un adolescente. Ma, evidentemente, una cripta piena solo di morti non può in alcun modo fornire un simile motore primo energetico. Per i negri locali si trattava, ovviamente, di voodoo in piena regola, ossia la manifestazione di una potente forza magica messa deliberatamente in moto dall'azione di un mago o di uno sciamano, con lo scopo di assecondare la vendetta degli schiavi soggiogati da Chase e dalla sua famiglia. Certo, si tratta di un'ipotesi che suona per lo meno azzardata, ma resta ancora oggi l'unica disponibile, in qualche modo accreditata.
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:13 pm

TORINO UNA CITTA MISTERIOSA

Torino: città "magica". Sospesa tra mito a realtà, si può storicamente considerare il centro del mondo dell'occulto.
In molte delle sue piazze si racconta siano successi fatti a carattere esoterico e sono in tanti a poter raccontare di fenomeni inspiegabili e di eventi soprannaturali accaduti nei diversi angoli della città.
Ma per saperne di più bisogna tornare indietro nel tempo, al momento della sua fondazione.
Secondo alcune teorie, a dare inizio alla storia di Torino non sarebbero stati i Romani, ma addirittura Fetonte, cioè l'ignoto faraone Pheton, figlio della dea Iside, che avrebbe eretto il suo
tempio per il dio Api, il dio-Toro, proprio all'incrocio tra due fiumi, cioè la Dora e il Po.
Fiumi, questi, che hanno realmente un ruolo centrale nella vita e nei trascorsi della città e che, secondo gli esoteristi, pare ne influenzino le sorti.
Sarebbe questo suo inedito carattere egiziano, dunque, che ha fatto sì che in città si radunassero così tanti reperti dell'antico Egitto da dar vita al secondo Museo Egizio al mondo?
Torino, inoltre, sarebbe il vertice di due triangoli molto particolari: il primo, di magia bianca, la unirebbe a Praga e a Lione mentre il secondo, di magia nera, la legherebbe a Londra e a San Francisco. Geometria e geografia si uniscono, quindi, in una sorta di ragnatela esoterica. La stessa pianta romana della città prevede le quattro porte d'ingresso erette in direzione dei quattro punti cardinali e il tutto è posto in coincidenza con il 45° parallelo, che ha come riferimento l'obelisco che domina Piazza Statuto.
I luoghi del mistero
Piazza Statuto: luogo magico per eccellenza, centro "nero" della città, ha una fama piuttosto sinistra. Pare sia sorta sopra una necropoli romana, una città dei morti del passato e, come se non bastasse, è stata per centinaia d'anni il luogo dove avvenivano le esecuzioni capitali. D'altra parte Torino ha diversi centri "bianchi", fortemente positivi. La Fontana del Tritone, che si trova nei Giardini Reali a piazza Castello, è uno di questi, seguita naturalmente dal Duomo dove è custodita la Sacra Sindone. Altro luogo a forti valenze positive è la chiesa della Gran Madre, così benevola nei confronti della città che tra le statue che si trovano davanti al suo ingresso si dice ci sia la chiave per trovare il Graal. Che, naturalmente, si troverebbe proprio a Torino e che, con la Sacra Sindone, darebbe vita ad un asse positivo capace di proteggere la città. Ma non è solo sotto le stelle che si agita il mondo esoterico. Il centro cittadino, infatti, vanta una serie di gallerie sotterranee, sia naturali che artificiali. La loro vita è stata intensa fin dall'antichità ed hanno ospitato riti magici, procedimenti segreti ed altro ancora, tanto da meritarsi il nome di "grotte alchemiche".
Torino sotto e sopra
Per conoscere veramente la Torino esoterica è necessario studiarne i livelli diversi. Ci sarebbero, infatti, ben dodici ingressi alle tre grotte più importanti della città, ma di questi la metà sarebbe falsa, per confondere le idee ai non iniziati. Risalendo in superficie, invece, alcuni imponenti ed elevati edifici cittadini, come la Mole Antonelliana, la Gran Madre e gli obelischi, avrebbero il compito di diffondere l'energia proveniente da misteriose correnti terrestri, come se fossero delle grandi antenne. Insomma, è come se ogni punto vitale di Torino avesse un ruolo preciso in una complicata e misteriosa strategia esoterica. Sarà per questo, o per carpirne il senso più profondo, che alchimisti come Paracelso e Fulcanelli, i leggendari Cagliostro e Nostradamus, il filosofo Friederich Nietzsche, il medico Cesare Lombroso, l'immortale Conte di Saint Germain e il grande sensitivo Gustavo Rol scelsero di vivere proprio a Torino?
Il laser per un enigma
Talvolta unire tecnologia e fantasia può essere stimolante. Un architetto austriaco, per esempio, notando che cinque edifici sabaudi di Torino (la basilica di Superga, il castello di Rivoli e quello di Moncalieri, le palazzine di Stupinigi e Venaria) una volta collegati sulla carta formano una stella, ha proposto che su ognuno di essi venga acceso un raggio laser. Dall'incrocio dei raggi nel cielo comparirebbe un'enorme stella a cinque punte, un simbolo fortemente esoterico.
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:13 pm

Il delitto Basa

La casistica segnala un vasto numero di eventi in cui si racconta di un assassinato che torna dall'aldilà per perseguitare il suo assassino. Ma certamente uno dei casi più straordinari è quello riguardante l'omicidio della fisioterapista filippina Teresita Basa, accaduto a Chicago il 21 febbraio del 1977. Verso le 8,30 di quel mattino, i vigili del fuoco del dipartimento di Chicago sono chiamati a intervenire per un principio di incendio ai piani alti di un appartamento del North Side. Fatta irruzione nell'alloggio contrassegnato col numero 15b, avanzando attraverso un denso fumo nero, due vigili individuano il principio dell'incendio nella camera da letto.
Un materasso ai piedi del letto sta bruciando. Bastano pochi minuti per spegnere il focolaio e far uscire il fumo dalla finestra. Ma quando i due sollevano il materasso per rimuoverlo, da sotto viene fuori il corpo nudo di una donna, le gambe aperte, il petto dilaniato dalla lama di un coltello da cucina.
Si tratta della figlia di un giudice, una donna di 48 anni, nativa della città di Damaguete nelle Filippine; una fisioterapista specializzata in problemi respiratori - forse perché il padre era morto per complicazioni di questo tipo - all'epoca della morte impiegata presso l'Edgewater Hospital di Chicago.
Secondo le analisi medico legali Teresita aveva aperto la porta di casa a qualcuno che conosceva; quando era suonato il campanello stava parlando al telefono con un amico. L'ignota persona l'aveva afferrata da dietro e soffocata fino a farle perdere i sensi. Aveva arraffato il danaro dalla borsetta e messo a soqquadro l'appartamento. Poi le aveva strappato di dosso i vestiti, era corso in cucina e l'aveva trucidata con un coltellaccio. Prima di fuggire aveva incendiato il materasso con un foglio di carta, lo aveva rovesciato sul cadavere e aveva lasciato la casa. Quando l'allarme antincendio era scattato, l'assassino si era già allontanato di alcuni isolati.
La donna non aveva subito violenza sessuale. Risultò che la povera Teresita era morta ancora vergine.
Remy (diminutivo di Remibias) Chua, pure lei filippina, collega nel reparto di terapia respiratoria presso l'ospedale e una delle più care amiche di Teresita, le era legata da una forte simpatia e da una profonda amicizia. Due settimane dopo la morte di Teresita, Chua, a metà fra il serio e il faceto, aveva dichiarato ad alcuni amici: Se non si verrà a capo del delitto, vorrà dire che Teresina me lo verrà a raccontare in sogno. Dette queste parole, si era ritirata nello spogliatoio per un breve riposo.. Mentre stava appisolandosi su una poltrona, all'improvviso aveva avvertito la necessità di aprire gli occhi, come se qualcuno la stesse chiamando. Davanti a lei stava Teresita che sembrava solida e concreta. Terrorizzata, Chua era scappata via dalla stanza.
Nelle due settimane seguenti, due cari amici e colleghi di Chua incominciarono a osservare in lei strani cambiamenti: si comportava e imitava Teresita Basa. Anche il marito, il dottor Josè Chua, non aveva potuto fare a meno di notare il mutamento, rendendosi conto che la moglie stava subendo un improvviso sconvolgimento di personalità. Normalmente allegra e solare, si era fatta prepotente e malinconica, proprio come Teresita.
Verso la fine di luglio, a cinque mesi dall'assassinio, un giorno Remy Chua, sapendo che avrebbe dovuto lavorare con un infermiere dell'ospedale, un certo Allan Showery, era stata improvvisamente colta da una crisi di panico. Sebbene l'imponente mole di Showery, un uomo di colore grande e grosso, potesse intimidire, il suo carattere era gioviale e cordiale. Tuttavia, quando Chua l'aveva sentito arrivare, era scattato in lei un involontario riflesso: aveva come tentato di guardarsi alle spalle - forse con lo stesso sguardo disperato che Teresita aveva avuto quando era stata assalita da dietro, nel momento in cui l'assassino le aveva stretto l'avambraccio attorno al collo per soffocarla - e, senza un'apparente ragione, il cuore le era come scoppiato nel petto. Ritenendo di essere preda di un esaurimento nervoso, a seguito di quell'episodio aveva chiesto e ottenuto qualche giorno di astensione dal lavoro.
Quella stessa notte, il marito l'aveva sentita mormorare nel letto: "A1-A1-Al...". Una volta sveglia, gli aveva raccontato di aver sognato di trovarsi in una stanza tutta piena di fumo, poi si era riaddormentata. La mattina, si era ammalata ed era così spaventata che aveva convocato tutti i suoi parenti. Poi aveva assunto un sedativo e si era rimessa a letto, ma trascorse poche ore era ripiombata nell'agitazione. Nel delirio aveva preso a balbettare parole in spagnolo, una lingua che Remy Chua non conosceva affatto. Il marito, inginocchiato ai piedi del letto, aveva incominciato a interrogarla: «Chi sei, chi sei?», le aveva chiesto. E lei, di rimando: «Sono Teresita, Teresita Basa». Quando l'uomo le aveva chiesto che cosa desiderasse, si era sentito rispondere: «Ho bisogno d'aiuto... L'uomo che mi ha uccisa è impunito». Dopo qualche istante Teresita si era ritirata e Remy Chua era tornata se stessa.
Due giorni dopo era stata colta da un fortissimo dolore al petto, cui era seguita una forte sensazione «come se qualcuno mi stesse calpestando». Aveva detto alla madre (che viveva con lei): «Ecco, sento che Tenie sta di nuovo arrivando».
Al rientro a casa, il marito aveva trovato Remy a letto. Stava parlando con la voce di Teresita Basa, usando un tono di rimprovero. «Quando ti decidi ad andare alla polizia?». Al diniego dell'uomo che si giustificava dicendo che non disponeva di alcuna prova, la voce si era fatta ancora più forte e aveva sentenziato: «È stato Allen a uccidermi. L'ho fatto entrare nel mio appartamento e lui mi ha uccisa».
Dopo un po’ lo stravagante comportamento possessivo della signora Chua aveva incominciato a mettere in crisi tutta la famiglia (i Chua avevano quattro figli). Alla fine, esasperato, il dottor Chua aveva deciso di confidarsi con il suo capo presso il Franklin Park Hospital, il dottor Winograd. Questi, estremamente interessato, pur avendo preso in considerazione il fenomeno di "possessione" con molta serietà, sapeva che la polizia avrebbe avuto tutt'altro atteggiamento, ritenendo la storia frutto di una mente maniacale. L'unica cosa da fare era quella di inviare una lettera anonima d'accusa.
Ma un'idea ancora migliore venne suggerita dall'entità. Caduta in trance, Remy Chua aveva chiesto al marito come mai non avesse fatto quel che gli aveva chiesto. Questi, al solito, si era trincerato dietro la cronica mancanza di prove. «Non è vero - aveva sentenziato la voce - le prove ci sono. Allen ha sottratto tutti i miei gioielli e li ha regalati alla sua ragazza. È facile scoprirlo, visto che vivono insieme».
«Ma come sarà possibile riconoscere gli oggetti?»
«Lo faranno i miei cugini, Ron Somera e Ken Basa, loro sono in grado di farlo. Oppure i miei amici, Richard Fessoti e Ray King». Poi la voce aveva dettato il numero telefonico di Somera. «Allen era venuto per aggiustarmi il televisore, mi ha ucciso e bruciato. Chiama la polizia».
Alla fine, il dottor Chua aveva deciso di agire e, preso coraggio, aveva chiamato la centrale di polizia di Evanston. L'8 agosto 1977, il caso Basa veniva assegnato all'agente Joseph Stachula. Ovviamente, la storia lo lasciava perplesso, tuttavia aveva avvertito sin da subito che nascondeva un fondo di verità. La difficoltà stava nel cercare di utilizzare quei dati apparentemente strabilianti in modo concreto. Andare a pizzicare Allan Showery e gettarlo in galera sulla scorta della testimonianza scaturita dalla presunta voce di una morta non era possibile.
Tuttavia Stachula prese a indagare sul passato di Showery, arrivando a concludere che avrebbe potuto benissimo essere lui l'assassino. Il suo passato lo testimoniava: i guai con la giustizia non erano pochi. In aggiunta, abitava solo a pochi isolati di distanza da Teresita.
Con la scusa di raccogliere elementi utili all'indagine, Showery era stato invitato alla centrale per un breve interrogatorio. Gli venne chiesto se rispondeva a verità il fatto che il giorno del delitto si era recato dalla Basa per metterle a posto il televisore. Aveva risposto che, sì, lo avrebbe dovuto fare, ma che invece, infilatosi in un bar per un drink, se ne era scordato e non era andato. Alla domanda se fosse mai stato nella casa della vittima aveva risposto con secco no, salvo cambiare repentinamente versione, una volta saputo che le sue impronte digitali corrispondevano a quelle rintracciate nell'alloggio di Teresita. In realtà c'era stato, lo aveva dimenticato, ma qualche mese prima. Alla fine, dopo un lungo tira e molla, aveva ammesso che ci era stato la sera dell'assassinio, ma che se n'era andato quasi subito perché, mancando del libretto di istruzioni e del piano dei circuiti del televisore, non aveva neppure iniziato la riparazione.
A questo punto, Showery aveva incominciato a dare chiari segni di nervosismo. Gli investigatori lo avevano allora lasciato solo ed erano passati a interrogare Yanka, la sua compagna. La donna ricordava che quella sera - che rammentava benissimo per via del furgone dei vigili del fuoco che era passato nel quartiere - Showery era rientrato a casa piuttosto presto. Alla domanda se di recente il suo compagno le avesse regalato qualche monile, aveva mostrato agli inquirenti un bell'anello antico. Ce n'era abbastanza. La giovane era stata condotta alla stazione di polizia con il cofanetto dei suoi gioielli. Ad attenderla, intanto, erano già arrivati i due amici di Teresita, Richard Fessoti e Ray King. Non appena Fessoti aveva notato l'anello al dito di Yanka era saltato su, riconoscendolo come quello appartenuto a Teresita Basa. Anche alcuni altri gioielli vennero identificati senza esitazione. Davanti a quella conferma, l'agente Lee Epplen, partner di Stachula, aveva detto a Showery. «Bene, e adesso facciamola finita, una volta per tutte». Ma l'uomo, deciso, aveva risposto con stizza. «Poliziotti di merda, volete incastrarmi!». Quando gli erano stati presentati i gioielli non aveva esitato a negare, dicendo che li aveva acquistati al banco dei pegni, ma aveva perduto la ricevuta. La sceneggiata non poteva però continuare oltre. Ad un tratto Shower aveva chiesto di poter parlare con Yanka e, dopo qualche minuto, davanti ai poliziotti aveva confessato: «Yanka, ho una cosa da dirti. Sono stato io a uccidere Teresita Basa».
Era convinto che Teresita fosse ricca e che derubandola avrebbe risolto ogni suo problema. Ma, dopo averla uccisa, e dopo aver frugato per tutta la casa, aveva racimolato solamente 30 dollari. Per far credere che si trattasse di un delitto a sfondo sessuale, aveva spogliato Teresita e allargato le gambe al cadavere. Poi le aveva squarciato il petto col coltellaccio da cucina e appiccato il fuoco al materasso, nella convinzione che il fuoco avrebbe cancellato ogni traccia del suo passaggio.
Il caso, che venne battezzato "la voce dall'oltretomba", elettrizzò l'intero paese. Il processo di Showery accusato di omicidio iniziò il 21 gennaio 1979, giudice Frank W. Barbero. Ma la storia della "possessione" risultò così strampalata e poco attendibile che la giuria non fu in grado di emettere il verdetto. La difesa, inoltre, tenne a sottolineare, con un filo di sarcasmo, che fino a fatti contrari la prova fornita da un fantasma non poteva essere accolta in un tribunale. Cinque giorni dopo il caso venne chiuso. Tuttavia, il 23 febbraio dello stesso anno, Allan Showery riconosceva pubblicamente di essere lui l'assassino della povera Teresita Basa. Venne condannato complessivamente a diciotto anni, per omicidio e rapina.
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:13 pm

Gli zombi - prove sui morti viventi


Sin dall'ormai lontano 1932, quando il celebre attore Bela Lugosi interpretò con la solita maestria il film Lo zombi bianco, il tema è stato uno dei preferiti del filone hollywoodiano, in piena concorrenza con storie di vampiri e miti alla Frankenstein, cogliendo una popolarità sempre crescente.
Credo che chiunque abbia visto scene degli zombi, ricordi la suggestione delle scene in cui si vedono i morti viventi camminare nelle strade in modo meccanico, come tanti robot, indifferenti alle scariche di pallottole che li investono in pieno petto. Stando alla definizione che compare in un famoso libro, gli zombi sono «quelle persone la cui morte non solo è stata
appurata, ma che sono state sepolte da tempo... e che improvvisamente ricompaiono, magari anche dopo anni... in una condizione di vita completamente obnubilata, come se fossero degli inconsapevoli idioti».
Uno dei primi studiosi occidentali ad occuparsi del fenomeno, osservandone alcuni strabilianti casi, è una donna, cresciuta in America. Nell'ottobre del 1936, in una valle haitiana, venne trovata una donna completamente nuda che vagava senza memoria. Era morta all'età di ventinove anni e regolarmente seppellita. La nostra studiosa era andata a farle visita in ospedale e la descrive come una persona «dal viso pallido, gli occhi morti e palpebre bianche come fossero state bruciate dall’ acido».
Stando a quanto sostiene la nostra studiosa, ad Haiti le persone diventavano zombi se tradivano i segreti delle società segrete magiche. Ovviamente nessuno le credeva, tanto che il suo stesso maestro, parlando di lei, la definisce «la studiosa decisamente un po' troppo superstiziosa». Ciò malgrado, lui stesso riporta un episodio che ha come protagonisti due personaggi dell'alta società. In panne, con l'auto che si rifiutava di procedere, uno dei due mentre stava cercando aiuto si era imbattuto in un nano dalla lunga barba bianca che lo aveva invitato a casa. Si trattava di un prete voodoo. Parlando, accortosi dello scetticismo che l'uomo mostrava nei confronti di una potente invocazione magica, il nano gli aveva chiesto se per caso conoscesse un certo M. Celestin, il quale, in effetti, era stato un suo amico. Al suo cenno di assenso, come se fosse stato richiamato da una forza sovrannaturale, un essere misterioso aveva fatto irruzione nella stanza. Pieno di terrore, l'uomo aveva immediatamente riconosciuto M. Celestin, l'amico morto da oltre 6 mesi. Quando lo zombi gli aveva strappato gli occhiali, l'uomo, benché spaventalo, aveva cercato di riprenderseli, ma il mago glielo aveva impedito, rivelandogli che non c'era nulla di più nefando e pestifero di dare o prendere un qualsiasi oggetto dalle mani di uno zombi, un morto vivente. Poi gli aveva confessato che il povero M. Celestin era stato vittima di una formula magica di morte scagliatagli contro da un mago, quello stesso che dopo averlo fatto diventare uno zombi glielo aveva venduto per venti dollari. Tutte le altre storie riportate dal maestro della studiosa, disegnano un'unica e sola ipotesi in merito al fenomeno degli zombi: si tratta di persone defunte che si rianimano. Ciò malgrado, continua a ritenere la questione frutto di mera superstizione e chiude lì il discorso. Tutto il contrario, dunque, di ciò che sostiene la studiosa. Ma come vedremo, la ragione sta dalla parte dell'audace etnologa e non da quella dello scettico maestro.
L'isola di Haiti, nelle Indie orientali, venne scoperta da Cristoforo Colombo nel 1492, ma era stato solo due secoli dopo che era divenuta famosa come base strategica delle operazioni di pirati e bucanieri. I coloni francesi, giunti numerosi sull'isola, presero a coltivare le ricche piantagioni di canna da zucchero, sfruttando il lavoro degli schiavi negri importanti dall'Africa. Nei 1697 la Spagna, prima colonizzatrice del posto, cedette l'isola alla Francia.
Come tutti sanno, gli schiavi venivano trattati con indicibile crudeltà e puniti in modi orribili, per esempio appesi agli alberi con chiodi conficcati nelle orecchie oppure legati e spalmati di melassa, e dati in pasto alle orde di formiche giganti e di insetti. Un'altra tortura tremenda consisteva nel riempire l'ano del poveretto con polvere da http://michaeljackson.forumup.it/images/smiles/zirosky_armed.gif che veniva innescata con una miccia. Il corpo esplodeva e la vittima si riduceva a brandelli, in un'operazione che, sorridendo, i Francesi definivano «lo scoppio dell'asino nero». Piuttosto di sottostare a simili trattamenti, gli schiavi più coraggiosi scappavano rifugiandosi nei luoghi più impervi, sulle montagne. Col tempo, alcune zone erano così diventate off limits per la gente dalla pelle bianca. Attorno al 1740 uno schiavo che aveva perduto un braccio nella pressa per la fabbricazione dello zucchero, era riuscito a scappare riparando nei tenitori rifugio dei neri, che come lui già si erano dati alla macchia. Qui aveva insegnato l'arte dell'avvelenamento. L'uso del veleno contro gli oppressori bianchi. In breve, all'ecatombe del bestiame era seguita quella di molti coloni. La reazione non si era fatta attendere. Lo schiavo, tradito, era stato catturato, processato e condannato a essere bruciato vivo (anche se, stando alla leggenda, era riuscito nuovamente a scappare in virtù dei suoi formidabili poteri magici). Ad ogni buon conto, da quel momento in avanti la rivolta aveva incominciato a serpeggiare con sempre maggiore virulenza nelle schiere degli schiavi neri. Finché, nel corso dei disordini degli anni Novanta, il dominio francese era crollato e, per quanto poi ristabilito sotto Napoleone, non era mai più riuscito a imporsi come una volta sull'isola, in specie nelle sue zone più interne. Fino al 1859 si erano così alternati dei sovrani e dei reggenti neri, con governi instabili, fluttuanti da un'anarchia pressoché totale a momenti di dispotismo assoluto e cieco, governi comunque sempre alimentati dal potere occulto delle società magiche segrete.
La nostra studiosa sosteneva, con piena convinzione, che il fenomeno che lei chiamava "zombificazione" era l'effetto ottenuto dall'uso di una miscela velenosa che agiva in modo istantaneo. Ma nessuno le aveva mai dato retta. Finché, in tempi recentissimi, verso il finire degli anni Ottanta, un giovane antropologo americano è giunto alta medesima conclusione, scoprendo che il fenomeno veniva indotto da certe sostanze velenose tipiche dei pesce palla, un cibo che i giapponesi considerano una leccornia, ma che evidentemente deve essere cucinato con estrema cautela.
Interpellato da uno psichiatra di New York, il dottor Nathan Kline, si era trovato di fronte ad almeno due casi di straordinario interesse, che confermavano appieno come la zombificazione intuita dalla studiosa non era mito ma realtà. Il primo episodio, risalente al 1962, riguardava un haitiano di circa cinquant’anni, il quale era stato ricoverato in ospedale. Soffriva di una febbre altissima, tanto che dopo due giorni era morto ed era stato seppellito il giorno seguente. Diciotto anni dopo, un uomo si era presentato presso la casa di Angelina, la sorella del morto, dicendo di essere proprio lui. Le aveva detto di essere stato zombizzato per volere del fratello, col quale aveva violentemente litigato per il possesso di un campo. Prelevato dalla bara, era stato venduto e costretto a lavorare assieme con altri zombi. Dopo due anni il padrone era morto e lui era scappato, girovagando nell'isola per altri sedici anni, ma sempre restando nascosto. Solo quando aveva saputo che il fratello che lo aveva zombizzato era morto si era deciso a rifarsi vivo.
Verificata e assodata l'autentica identità di quest’uomo, la BBC aveva tratto un lungo filmato dalla storia. Nello stesso anno, un nutrito gruppo di zombi era stato trovato a vagare nel nord dell'isola, esattamente in quei luoghi dove il nostro zombi era stato costretto a lavorare duramente come schiavo per oltre due anni e da cui era fuggito.
Il secondo caso riguardava una donna trentenne di nome Francina, della quale a seguito di una malattia era stata riconosciuta la morte. Tre anni dopo, la madre l'aveva ritrovata in vita e riconosciuta anche per via di una caratteristica cicatrice che aveva sulla tempia. Aperta la bara, era stata trovata piena di sassi. Secondo Francina, era stato il marito geloso a ucciderla con un potente veleno.
Nel 1980 un'altra donna sessantenne, venne trovata a vagare senza meta nel suo villaggio natio fra lo stupore di tutti coloro che l'avevano conosciuta, visto che era ufficialmente morta nel 1964.
Giunto ad Hard per investigare sul fenomeno, l'attenzione di un noto investigatore si era soprattutto concentrata sulla pianta di Datura stramonium, che gli isolani chiamano la pianta degli zombi. Il primo incontro lo portò a conoscere un esperto di magia e folclore voodoo. Poi aveva intervistato il cinquantenne ritornato dalla sorella, che aveva pienamente confermato tutta la sua storia. Anche lui era stato vittima della cattiveria di un fratello invidioso. Questi era una specie di Casanova dell'isola e aveva seminato figli illegittimi un po' ovunque, che si guardava bene dal riconoscere e soprattutto dal sostentare. Alla fine delle sue ricerche, l’investigatore era giunto alla conclusione che attuare un rito di zombificazione non era sempre un atto di malvagità. Certo, le società magiche segrete non godevano di una buona reputazione, ma a ben osservare a volte erano meno negative di quanto si immaginasse e non di rado la loro opera era tesa alla protezione dei più deboli. In alcuni casi, rendere zombi un uomo era anche una sorta di castigo per la sua vita mal condotta.
Alla fine l’investigatore aveva messo in risalto tre possibili agenti velenosi a cui gli stregoni voodoo erano soliti rivolgersi. Una sostanza era ricavata da un grosso rospo, altre due invece derivavano da due diverse varietà di pesce palla, così chiamato perché in caso di necessità o pericolo, riempiendosi di acqua e di aria, è in grado di aumentare il proprio volume trasformandosi in una vera e propria palla di mare. In queste sostanze è contenuta la tetrodotoxina, un veleno tanto potente che per eliminare un uomo ne basta una dose minima. Sappiamo dal diario di bordo che il capitano Cook era stato gravemente intossicato mangiando fegato e uova di un pesce palla. Per i giapponesi si tratta egualmente di una ghiottoneria. Essi, infatti, mangiano la carne cruda di questo pesce - il piatto si chiama sashimi - ma non disdegnano anche il pericoloso fegato, che badano comunque a far bollire a lungo al fine di eliminarne tutte le tossine velenose.
Tuttavia, l’investigatore intuì che anche altri elementi concorrevano nel processo di zombificazione di un uomo. Nel suo libro a dir poco straordinario, racconta in modo avvincente i suoi tentativi di venire in possesso di una pozione magica completa. Lo scopo era, ovviamente, trasferire il tutto in un laboratorio di analisi e scoprirne le diverse componenti. Ma, pur essendo entrato in confidenza con alcuni houngan e pur avendo attivamente partecipato a numerose, impressionanti cerimonie ritualistiche dove, fra l'altro, ebbe modo di assistere a trance e a possessioni da parte degli spiriti (in un caso avvenute in modo così profondo che la giovane medium poteva tranquillamente farsi spegnere delle sigarette accese sulla lingua senza avvertire il minimo dolore) - non era riuscito nell'impresa. Quando stava per ottenere ciò che desiderava, il suo presunto "fornitore" era morto all'improvviso e un secondo che gli aveva promesso aiuto era stato stroncato da un colpo apoplettico. Le conclusioni cui l’investigatore approda sono comunque chiare: il processo di zombificazione viene ottenuto con una popone magica potentissima, ricavata da sostanze velenose in grado di indurre i sintomi della morte. Subito dopo, il mago somministra al finto morto un antidoto (l’investigatore ha provato ad esaminarne alcuni, arrivando a stabilire che la forza e la potenza dell'operatore valgono almeno quanto l'efficacia dell'antidoto in se e per sé) che induce nella vittima uno strano risveglio. Da quel momento in avanti, lo zombi è costretto a vivere come un automa. Ulteriori somministrazioni di droghe lo rendono totalmente schiavo del suo "padrone" che può disporre di lui come meglio desidera.
Nel 1984 nel corso di un programma televisivo della BBC, il presentatore ha confermato che, a quanto pare, il processo di zombificazione avviene davvero con la somministrazione di un potente veleno i cui effetti si ripercuotono sul cervello, riducendo lo stato di consapevolezza del soggetto a una sorta di continuo delirio onirico.
Alla fine della lettura del libro scritto dal nostro investigatore, una cosa appare certa: il fenomeno degli zombi, dei morti viventi, di coloro che "fanno ritorno" è indiscutibilmente reale. Tuttavia, questo non toglie che alcuni fra gli eventi etichettati come tali non possano essere ascritti ad altre tipologie di fenomeni, diversi dalla magia voodoo che sovrintende, misteriosa, alla inquietante casistica relativa agli zombi.
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:14 pm

LA MALEDIZIONE DEI FARAONI

Il 26 novembre del 1922 l'archeologo Howard Carter, tenendo una candela tra le mani tremanti per l'emozione, penetrava attraverso una piccola apertura ricavata nella porta nella tomba di Tutankhamon.
Ciò che vide lo lasciò sconcertato: «Ovunque, il luccichio dell'oro». Il collega Lord Carnarvon e lui, avevano fatto la più straordinaria scoperta della storia dell'archeologia.
Qualche giorno dopo venne rintracciata una tavoletta di creta con una iscrizione geroglifica che minacciava: «Possa la morte rapire con le sue tetre ali chiunque osi disturbare il sonno del faraone».
Nell'aprile successivo, Lord Carnarvon moriva di una malattia non identificata. Nel 1929 a soli sette anni dalla scoperta - ben ventidue persone a vario titolo coinvolte nella clamorosa vicenda archeologica erano morte prematuramente. «La maledizione del faraone» incominciarono a titolare i giornali, a caccia del sensazionale, mentre gli archeologi ovviamente negavano. Tuttavia, è per lo meno singolare immaginare che una così lunga e luttuosa catena di eventi costituisca soltanto una semplice coincidenza. Tutankhamon era figlio del "grande eretico" Akhenaton (ca. 1375-1360 a.C.), il primo sovrano monoteista della storia. Egli, abbandonata la vecchia capitale Tebe e tutti i suoi templi, ne aveva fondata una nuova che aveva chiamato Akhetaton (l'orizzonte di Aton), innalzandola in una località oggi chiamata Tell el Amarna. Akhenaton adorava un solo dio, Aton, il Sole. Ma la sua gente, che si sentiva più a suo agio nell’adorare cose concrete come le immagini delle antiche divinità animali, non amava questa nuova forma di religione e dunque non spiacque a nessuno quando Akhenaton morì in giovane età, forse assassinato (vatti a fidare dei sacerdoti!). Al trono salì il figlio Tutankhamon, all'epoca poco più di un fanciullo, ucciso con un colpo alla testa all'età di soli diciotto anni. Dal punto di vista storico, pertanto, il povero Tutankhamon non ha alcun rilievo, non è certo un faraone da ricordare. L'unica cosa che sappiamo del suo breve regno è che restaurò l'antico culto, riportando la capitale a Tebe. Non si sa come morì, se per una caduta accidentale oppure per mano di un assassino. Ma la parte più strana della storia deve ancora venire. Il capo dei sacerdoti (una sorta di ciambellano reale) si chiamava Ay. Alla morte del giovane, sposata la quindicenne vedova Enhosnamon, era salito al potere. Dopo soli quattro anni un altro usurpatore, il generale Horemheb, aveva cinto la corona di faraone. Alla morte di Tutankhamon era stato anticipato da Ay e la cosa lo aveva colmato di risentimento e di odio. Appena divenuto faraone prese a comportarsi come un dittatore. Come prima cosa diede ordine di cancellare da ogni monumento e scrittura il ricordo di Akhenaton e Tutankhamon e utilizzò il materiale che era servito per la costruzione del grande tempio solare di Tell el Amarna per innalzare tre piramidi nella città di Tebe. Persino i cortigiani che erano stati fedeli ad Ay e a Tutankhamon ebbero le loro tombe profanate e distrutte dal nuovo, terribile faraone. Peccato che Horemheb dimenticasse di fare la cosa più logica: distruggere la tomba di Tutankhamon, rilevando, fra l'altro, il suo straordinario contenuto di tesori. Come mai accadde questo? La prima ipotesi è che il sito della tomba fosse a tutti sconosciuto. Ma, a ben pensarci, sembra improbabile. Dopo tutto, Horemheb era salilo al trono solamente quattro anni dopo la morte di Tutankhamon e quand'anche, in principio, la collocazione della tomba fosse stata segreta, chissà quanti fra sacerdoti e costruttori ancora in vita avrebbero potuto, diciamo così, essere "convinti" a rivelarne il sito. Viene spontaneo sospettare che Horemheb non si sia mosso, lasciandola inviolata, per qualche altro grave motivo... Howard Carter, l'uomo che alla fine era riuscito a rintracciare la tomba, era arrivato in Egitto da giovane - era nato nel 1873 - e ancora nei suoi vent'anni era diventato capo ispettore dei monumenti per l'Alto Egitto e la Nubia. Entrando in azione su suo suggerimento, nel 1902 un facoltoso americano di nome Theodore Davis, finanziò una serie di scavi nella Valle dei Re. L'anno prima i violatori di tombe, organizzati in bande, avevano attaccato armati le sentinelle che sorvegliavano l'accesso all'appena scoperta tomba di Amenhotep II - faraone assetato di sangue, bisnonno di Akhenaton - riuscendo a portar via tutto l'oro e i gioielli. Carter, per niente impaurito, si era messo sulle loro tracce e li aveva fatti catturare, guadagnandosi una pessima fama presso i nativi. In breve, si era così trovato a spasso, vale a dire senza più un lavoro. Theodore Davis lo aveva ingaggiato come disegnatore e grazie a lui era riuscito a cogliere alcune interessanti scoperte, fra cui i sepolcri di Horemheb, della grande regina Hatshepsut e del nonno di Akhenaton, Thutmose IV. Durante questo periodo accadde un fatto singolare relativo alla storia della maledizione del faraone. Joe Linden Smith, un altro esperto disegnatore abituato a lavorare sul campo con gli scavatori, aveva una moglie ventottenne molto carina, di nome Corinna. Fra i loro amici più intimi c'erano Arthur e Hortense Weigel. Lui era un archeologo inglese, lei, come Corinna, una giovane americana. Un giorno, mentre stavano discendendo nella Valle delle Regine, Smith e Weigel avevano notato un anfiteatro naturale che nella loro immaginazione si sarebbe prestato a meraviglia per la rappresentazione di un'opera teatrale. Decisero, sul momento, di rappresentare il "mistero della loro commedia" e di invitare la comunità archeologica di Luxor. Ma la finalità non consisteva soltanto nel puro intrattenimento. I due condividevano una profonda ammirazione per Akhenaton e per la produzione artistica sviluppatasi sotto il suo regno, molto più vicina alla rappresentazione della natura che non l'arte eccessivamente stilizzata caratteristica di altri periodi. Lo scopo primario di quella messa in scena voleva dunque essere una sorta di invocazione agli dèi affinché sollevassero lo spirito del povero Akhenaton dalla terribile maledizione che lo aveva condannato per l'eternità. Stando alla tradizione, il faraone Akhenaton era morto il 26 gennaio dell'anno 1363 a.C. Smith e Weigel decisero di rappresentare il loro lavoro teatrale il 26 gennaio del 1909 e per quella data diramarono gli inviti. Il 23 gennaio era il giorno della prova definitiva. Il dio Horus - interpretato da Hortense - appariva come per magia e si metteva a parlare con lo spirito errante di Akhenaton, promettendogli di esaudire un suo desiderio. Lo spirito prontamente rispondeva di voler rivedere la madre Tiy. Convocata con un rito cerimoniale, Tiy compariva sulla scena per raccontare tutta la sua tristezza nel vedere l'anima dell'adorato figlio condannata alla solitudine eterna. Akhenaton rispondeva che anche in quella sua miseranda condizione gli era di conforto il pensiero dell'unico e solo dio, Aton, e sollecitava la madre a intonare un inno in onore del dio... Ma non appena Corinna aveva iniziato a recitare la preghiera votiva, si era levato un vento così forte da coprire la sua pur stentorea voce. Poi era scoppiato un temporale che aveva spazzato sabbia e pietre con una tale violenza da terrorizzare i lavoranti egizi, convinti che gli dèi stessero sfogando la loro ira contro chi aveva osato parodiarne la vita. La prova era stata sospesa e gli improvvisati attori erano stati costretti a riparare nel campo base, ricavato nella tomba di Amet-Hu, uno dei potenti governatori di Tebe. Nella notte, Corinna aveva incominciato a lamentarsi per un forte bruciore agli occhi, mentre Hortense era stata disturbata da crampi allo stomaco. Ambedue furono visitate dallo stesso sogno. Si trovano nel vicino tempio di Amon, al cospetto della statua del dio, il quale, per prodigio, si era fatto vivente e con un colpo del suo flagello aveva colpito gli occhi dell'una e il petto dell'altra, all'altezza dello stomaco. La mattina Corinna, più che mai sofferente, si era fatta ricoverare all'ospedale del Cairo, dove l'oculista che l'aveva visitata le aveva diagnosticato il tracoma più infettivo - la cosiddetta oftalmia d'Egitto - che mai gli fosse capitato di incontrare. Ventiquattro ore dopo, era stata Hortense a essere sottoposta ad un difficile intervento chirurgico allo stomaco, nel corso del quale si era trovata in pericolo di vita. Naturalmente, la rappresentazione non aveva più avuto luogo. Sia Carter che Carnarvon erano stati invitati. In quel momento Carter lavorava al servizio di Davis. Ma a partire dal 1914 Davis cambiò idea. Convinto di aver sottratto alla sabbia del deserto tutto ciò che si poteva e di aver perlustrato la Valle dei Re come meglio non si sarebbe potuto fare, decise di abbandonare le ricerche e gli scavi. Carnarvon rilevò la sua concessione. Sapeva che Davis era convinto di aver già rintracciato la tomba di Tutankhamon in una sepoltura a pozzo all'interno della quale erano venuti alla luce piatti dorati e alcuni altri oggetti preziosi; ma, sia lui che Carter, la pensavano diversamente ed erano certi che il corredo funebre di un faraone, per quanto giovane, non poteva limitarsi a così poco. Il sopraggiungere della guerra ritardò l'inizio degli scavi fino al 1917. Avuto il via, Carter aveva dunque iniziato a scavare, con precisione e certosina meticolosità, rimovendo tonnellate e tonnellate di detriti e di sabbia smosse anche dalle precedenti ricerche. Nel 1922 Carter pensò di aver già profuso troppo danaro nell'impresa, e che la Valle dei Re non avrebbe offerto più nulla di interessante. Ma Carter aveva insistito, chiedendo ancora un'ultima possibilità. Così il 1° novembre del 1922 aveva dato il via a un nuovo scavo, tracciando un fossato in direzione sud rispetto alla tomba di Ramesse IV. Il 4 novembre gli scavatori rinvennero un gradino, appena sotto il livello delle fondamenta di alcune capanne che lo stesso Carter aveva portato alla luce il precedente aprile. Prima di sera erano dodici i gradini dissepolti, una scalinata che conduceva a una porta di pietra sigillata. A questo punto Carter aveva dato ordine di fermare i lavori e aveva immediatamente messo Carnarvon in allarme, contattandolo in Inghilterra. Dopo due settimane il compagno e socio era di nuovo in terra d'Egitto. Insieme, i due si erano fatti strada attraverso la soglia d'ingresso, in un'atmosfera di eccitazione via via crescente, avendo intuito che stavano penetrando in un sepolcro conservatosi integro e inviolato. A circa nove metri dalla prima porta ne avevano incontrata un'altra. Con mani tremanti, Carter aveva ricavato una piccola frattura nell'angolo in alto della lastra e aveva cercato di lanciare uno sguardo al di là. La flebile luce della torcia gli fece intravedere le sagome di strani animali, statue dorate, monili, oggetti. E poi un carro, figure in dimensione naturale, lettucci dorati e intarsiati, addirittura un trono reale tutto d'oro. Ma non c'erano mummie, dal momento che, come si scoprì dopo, questa era soltanto l'anticamera tombale. Fu però in questa stanza che venne rintracciata la tavoletta con il già citato, terribile monito: «Possa la morte rapire con le sue tetre ali chiunque osi disturbare il sonno del faraone». Dopo essere stata decifrata da Carter, purtroppo, la tavoletta era sparita: serpeggiavano già dicerie in merito fra i superstiziosi scavatori locali. Come se non bastasse, anche su una statua del dio Horus si leggeva una cosa simile, un severo avvertimento che annunciava nel dio il sommo protettore della tomba. Il 17 febbraio 1923 un folto gruppo di personalità eminenti venne invitato ad assistere in diretta all'apertura del sito funebre. Ci vollero due ore per aprire un passaggio sufficiente da permettere a un uomo di infilarsi nella camera sepolcrale. A questo punto soltanto un lieve diaframma di pietra divideva gli scopritori dal più straordinario e stupefacente sarcofago che il mondo abbia mai conosciuto. Decisero di rimandare le ulteriori operazioni ad altra data, forse ipnotizzati dalle già grandi meraviglie che avevano scoperto. E così Carnarvon non riuscì a vederlo. In aprile cadde ammalato. Svegliatosi un mattino, scottava come una stufa. Una misteriosa febbre a 40° lo aveva assalito per continuare a angustiarlo per venti giorni. I medici parlarono subito di infezione. Forse, radendosi, si era procurato una ferita che la sabbia del deserto aveva infettato, oppure era stato punto da qualche insetto. Andarono a chiamare Carter, ma alle due del mattino l'amico e collega era morto. Quando la famiglia era giunta al capezzale, convocata d'urgenza da un'infermiera, all'improvviso tutte le luci si erano spente ed era stato necessario accendere candele e torce. Poi la corrente era tornata e il giorno seguente si era saputo che l'incidente era stato provocato da un black-out che aveva messo al buio l'intera città del Cairo. In alcune versioni del racconto della dipartita di Carnarvon si dice che, in realtà, non si seppe mai perché fosse mancata la luce proprio in quel preciso momento; tuttavia, nessuno si è mai preso la briga di investigare presso l'azienda elettrica della capitale per approfondire l'inchiesta. Stando alla testimonianza del figlio di Carnarvon, quella sera era accaduto anche un altro fatto strano, a migliaia di chilometri di distanza: mentre il suo padrone moriva in terra d'Egitto, in Inghilterra il cane di Carnarvon, dopo aver a lungo guaito e ululato, si era accasciato morto al suolo. I giornali non aspettavano altro. Partirono nuovamente alla carica con la storia della "maledizione del faraone". Parte della colpa di tutto questo scalpore era però da addebitare al povero Carnarvon. Egli aveva infatti ceduto i diritti di esclusiva sui resoconti delle sue straordinarie scoperte archeologiche al giornale londinese «Times», unico organo di stampa aggiornato. Tutti gli altri, privi di notizie chiare e attendibili, erano stati costretti a inventare i reportage, andando a nozze ogni qualvolta la realtà dava adito di ricamare alla fantasia dei cronisti. Ma non c'era proprio bisogno di inventarsi niente, perché la "maledizione" continuava ad offrire spunti a dir poco agghiaccianti. Poco dopo la morte di Carnarvon, Arthur Mace, l'archeologo americano attivo nell'apertura della tomba, cadde in uno stato di prostrazione fisica e psicologica che lo portò alla fine. George Jay Gould, il figlio del famoso finanziere americano, venuto in Egitto dopo la scomparsa di Carnavorn, su invito di Carter si era recato a visitare la splendida tomba. Il giorno dopo si era svegliato febbricitante e nella notte se n'era già andato. Stessa sorte per Joel Wool, un imprenditore inglese, il quale, visitata la tomba, era morto per una febbre misteriosa mentre stava rientrando in Inghilterra. Una fine condivisa, nel 1924, dal dottor Archibald Douglas Reid, un biologo inglese che aveva sottoposto la mummia di Tutankhamon ai raggi X, stroncato da una debolezza inspiegabile appena rientrato in patria. Insomma, nel breve volgere di qualche mese, almeno dodici persone coinvolte in qualche modo con l'apertura o lo studio della tomba morirono. Col 1929 il numero era salito a venti. In questo stesso anno morì Carter, ufficialmente ucciso dalla puntura di un insetto, mentre il suo segretario personale, Richard Bethell, lo seguì a breve, schiantato da un collasso nel letto di casa. Nel 1925 li aveva preceduti, stroncato da un infarto, il professor Douglas Derry, uno degli scienziati che avevano eseguito l'autopsia della mummia di Tutankhamon. Un altro degli eminenti studiosi, il professor Alfred Lucas gli aveva fatto compagnia, per la stessa causa apparente, ad appena qualche settimana di distanza. Nel suo libro “La maledizione dei faraoni” lo scrittore Philip Vandenberg non elenca soltanto le morti sospette da collegare in modo diretto alla scoperta della tomba di Tutankhamon, ma ricorda ai lettore il gran numero di studiosi, appassionati ed egittologi morti prematuramente. Egli pone in risalto come molte volte la morte sia annunciata da una prostrazione, una sorta di esaurimento energetico - lo stesso Carter soffriva di questa forma di debilitazione, unita a una forte depressione - e si chiede se gli antichi sacerdoti egizi non conoscessero veleni o spore di funghi velenosi, in grado di conservare il loro carico mortale nel corso dei secoli, con i quali proteggere le tombe dagli intrusi non graditi. Fra le tante morti ritenute sospette e premature, si elenca Francois Champollion, il decodificatore della Stele di Rosetta; il grande egittologo italiano Belzoni; il dottore di origine sveva Theodore Bilharz (da cui il nome del disturbo noto come bilharzia); l'archeologo Georg Mòller e il più stretto collaboratore di Carter, il professor James Henry Breasted. Era stato proprio Breasted a riferire che Carter era stato assalito dalla febbre dopo essere sceso nella tomba, e a tratteggiare un quadro clinico dell'amico e collega decisamente angosciante: incapacità di concentrazione, '"assenza" psicologica improvvisa, estrema difficoltà nell’assumere una qualsivoglia decisione. Carter morì a 66 anni; il libro di Vandenberg prende le mosse da una conversazione fra lui e il dottor Gamal Mehrez, direttore generale del Dipartimento delle Antichità del Museo del Cairo. Mehrez, un uomo di 52 anni, esprime con fermezza il suo scetticismo a proposito della maledizione: «Mi guardi. Sono coinvolto con storie di faraoni e mummie praticamente da quando sono nato. E non mi è ancora successo niente. Sono la prova vivente che si tratta solo e soltanto di mere coincidenze». Non l'avesse mai detto! Quattro mesi dopo veniva stroncato da un attacco cardiaco. Anche se lo stesso Vandenberg dichiara improbabile l'ipotesi delle coincidenze, quando tenta di offrire una spiegazione "scientifica" dei fatti non riesce a proporre niente di convincente; arriva anche al punto di accettare l'idea che la causa possa essere la particolare forma delle piramidi, in grado di catturare energia cosmica negativa per il corpo umano e che «gli Egiziani sapevano come influire sul processo di decadimento radioattivo». Crediamo che gli stessi antichi, se fossero presenti, sarebbero i primi a negare queste assurdità. Per loro una maledizione si sprigionava da un rito magico, capace di evocare e ridestare uno spirito o demone guardiano, concetti sopravvissuti fino ai nostri giorni. Il ricercatore psichico Guy Lyon Playfair racconta nei suoi libri gli anni trascorsi in Brasile e descrive le lunghe ricerche per investigare su fenomeni di persecuzione da "poltergeist" che sembravano scaturire come risultato di una maledizione, in altre parole, da un'azione che potremmo definire di "magia nera". Sono molti gli investigatori inclini a ritenere il poltergeist - letteralmente "spirito burlone" - una manifestazione inconsapevole della mente di un adolescente non ancora "equilibrato", capace di far volare gli oggetti in modo naturale tramite una "psicocinesi spontanea". Anche se Playfair accetta questa soluzione per la maggior parte dei casi, in alcuni altri sembra lasciare intendere che il poltergeist sia innescato dall'effettiva azione disturbante di "spiriti" disincarnati. Queste entità, blandite con appositi rituali magici, possono essere "convinte" a perseguitare una persona o a provocare disturbi inquietanti nella sua casa. Quando questo accade, entra allora in scena un altro specialista, il candomblé (parola ereditata dal culto magico della tradizione africana), il quale ha il compito di scacciare lo spirito e di riportare la tranquillità. Concetti, questi, legati agli spiriti utilizzati per compiere azioni infestanti, antichi come l'uomo e che sostengono la tradizione magica da secoli. Un altro ricercatore d'oggi, Max Freedom Long, ha studiato a lungo la religione degli Huna, un popolo delle Hawai, convincendosi che gli sciamani -conosciuti come kahunas - erano capaci per davvero di provocare la morte tramite la recita rituale di una «preghiera di morte». Scrive: «La verità è inequivocabile. Per un periodo di almeno sette anni, quelli da me trascorsi a raccogliere dati medici e epidemiologie presso il Queen Hospital di Honolulu, non c'è stato anno in cui non mi sia imbattuto in uno o più casi in cui la vittima moriva a causa di agenti misteriosi catalizzati da una potente azione magica, e ciò a dispetto del prodigarsi di tutti i medici». Long afferma che secondo la filosofia dei kahunas, l'uomo è composto da almeno tre "io" o anime: l'io inferiore, quello mediano e quello superiore. Il primo corrisponde grossolanamente a quella struttura psichica che Freud ha identificato nell'inconscio. Esso sovrintende alle forze vitali e sembra possedere una connotazione fondamentalmente emotiva. Il secondo corrisponde alla cosiddetta "consapevolezza ordinaria", quella che regolamenta il nostro vivere quotidiano. Il terzo, l'io superiore, può accostarsi alla mente super-conscia e possiede poteri che ancora oggi non siamo in grado di conoscere. Questi tre io sono ospitati dal corpo fisico e se ne separano soltanto al momento della morte. Capita però a volte, che quello inferiore riesca a sganciarsi in modo indipendente dagli altri due. Così facendo si trasforma in uno "spirito legato alla terra", del genere di quelli che provocano i fenomeni disturbanti del poltergeist. Stando ai kahunas, l'io inferiore ha una sua propria memoria, dote che quello mediano non possiede. È per questo che quando la separazione coinvolge un io intermedio, questi diventa un'entità derelitta, così retta a vagare senza costrutto, trasformandosi in quello che noi chiamiamo un fantasma. Long afferma che le «preghiere di morte» chiamano sempre in causa degli spiriti bassi», facilmente suggestionabili e riducibili all'obbedienza. Per la povera vittima del sortilegio, comincia una vera e propria tortura: mano a mano che lo spirito gli sottrae l'energia vitale, si infiacchisce sempre di più. Long ottenne la maggior parte delle informazioni a proposito degli sciamani hawaiani - esperienze ricordate in un libro - da un medico di nome William Tufts Brigham che li aveva studiati a fondo per molti anni. Ricordava un caso particolare. Un giorno aveva assoldato un gruppo di guide e portatori hawaiani per compiere un'escursione in montagna. Fra i portantini vi era un giovane di 15 anni che, di colpo, era caduto ammalato, assalito da un intorpidimento che gli saliva dai piedi con lenta progressione. Rivelò a Brigham che era vittima del maleficio di una preghiera di morte. Alla fine si era venuto a sapere che il kahuna del villaggio, che ce l'aveva con i bianchi, aveva inviato una preghiera di morte contro il giovane a causa della sua frequentazione con un uomo bianco. Per lui, chiunque lavorava con un bianco era condannato a diventare vittima di un sortilegio di morte. Ma anche Brigham godeva di fama di sciamano presso i locali, i quali gli chiesero di intervenire. E lui aveva accettato la sfida, dichiarando che l'avrebbe combattuta sullo stesso piano del kahuna. Partendo dall'assunto che era stato assalito da "spiriti bassi'', Brigham aveva convinto il ragazzo che lui era una vittima innocente e che insieme sarebbero riusciti a sconfiggerli, rimandando al mittente - ossia a colui che gli aveva scagliato contro la maledizione - quelle stesse forze negative che invece di far del male a lui avrebbero distrutto l'agente magico. Il ragazzo aveva capito, e promise che si sarebbe impegnato per guarire. Per oltre un'ora rimase fortemente concentrato su quella idea, poi, di colpo, la tensione e la sofferenza si erano allentati. Finalmente riusciva a muovere liberamente le gambe e stava bene. Quando, qualche tempo dopo, Birgham era tornato al villaggio, aveva trovato il ragazzo in ottima salute. Il kahuna invece era morto, dopo avere annunciato agli altri del villaggio che il mago bianco gli aveva scagliato contro gli spiriti del male. Torniamo, adesso, al tema principale di questo capitolo. Come non riconoscere nella debilitazione sofferta da Carter e dai tanti che vennero colpiti dalla maledizione del faraone i nefandi effetti della preghiera di morte descritta da Brigham e Long? Tuttavia, per riconoscerlo, non pare affatto necessario instaurare un collegamento diretto fra i kahunas delle Hawai e la religione magica dell'antico Egitto. Perché, ammesso che Playfair e Long siano nel giusto, è più che mai logico immaginare che se il fenomeno del poltergeist e gli "spiriti bassi" possono essere utilizzati per delle operazioni di magia negativa, anche gli antichi sacerdoti egizi ne facessero uso per sigillare le tombe ponendoli come "guardiani della soglia". Nel suo libro “Egitto segreto”, l’occultista Paul Brunton descrive l'esperienza di una notte trascorsa nella Camera dei Re all'interno della Grande Piramide. Racconta della strana sensazione di non sentirsi solo, un sentimento che, poco alla volta, gli si era manifestato come la presenza di «entità antagoniste». «Tutto attorno a me, sembrava si accalcassero creature elementari mostruose, orrori diabolici del mondo sotterraneo, forme grottesche, bizzarre, orribili, riluttanti, dall'aspetto rozzo... D'incanto, come si erano presentate, erano poi scomparse». Subito dopo, Brunton rivela di aver avvertito la netta sensazione di essere in compagnia di un essere benevolo e di aver avuto la visione di due antichi sacerdoti. Secondo Vandenberg, che riporta questa notizia, il racconto potrebbe essere solo frutto della fervida ed eccitata immaginazione di Brunton, anche se si affretta a ricordare che, quando nel 1972 aveva pure lui visitato la Grande Piramide, una signora del gruppo d'improvviso era sbiancata, si era sentita male e non era più riuscita a muoversi. Ripresasi dal malore, gli aveva confessato: «È successo come se qualcuno, di colpo, mi avesse colpita con forza per farmi del male». Stando alla guida, "attacchi" del genere erano piuttosto comuni. Se, dunque, questi malesseri sono il mero frutto dell'immaginazione, nulla vieta di ritenere che anche in merito alla presunta maledizione del faraone si possa addurre la stessa causa. Dopo tutto, a ben considerare, Carnarvon morì in seguito di quella che sembrò essere la puntura di un insetto, altri di attacchi cardiaci o di collassi cardiocircolatori, ossia di cause che sembrano non avere nulla in comune con le forze negative che si sprigionano quando il soggetto diventa vittima di una preghiera di morte. Nel corso di un programma della BBC dedicato a questo mistero, Henry Lincoln, studioso dell'occulto interessatosi a lungo del caso esoterico di Rennes-le-Chateau, ha detto: «Sono ormai convinto che non è mai esistita quella che la gente chiama maledizione dei faraoni». Meglio. Tutto sommato è certamente più rassicurante credere che sia proprio così.
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:14 pm

IL TESCHIO DEL DESTINO

L'incredibile storia di un teschio di cristallo
Negli ultimi vent'anni la pietra più straordinaria e misteriosa che esista al mondo è rimasta in possesso di una signora, che la conserva gelosamente sotto un panno viola su di una mensola di casa. Si tratta di uno stupefacente teschio, dal peso di oltre 5 kg, scolpito in un blocco di cristallo di quarzo puro, appartenuto un tempo a una antica civiltà perduta. Gli occhi sono dei prismi incastonati e si dice che osservandoli si possa scrutare nel futuro. Questa pietra unica è detta il "teschio del destino". Questo brano, ci serve bene come introduzione a uno dei misteri più affascinanti del XX secolo.
Il teschio apparteneva a un esploratore e viaggiatore, un uomo amante dell'avventura di nome Albert ("Mike") Mitchell-Hedges, nato nel 1882.
Alla sua morte, avvenuta nel 1959, la pietra è passata alla sua attuale custode, la figlia adottiva Anna Mitchell-Hedges, classe 1910, la quale ha dichiarato che il teschio proveniva dagli scavi archeologici effettuati presso le rovine di una "città perduta" del Sudamerica, il centro maya di Lubaantun, nell'Honduras britannico. La signora racconta: «Fui io a scorgerlo per prima, o per meglio dire, a segnalare a mio padre che là sotto c'era qualcosa che luccicava. Era la sua spedizione, e noi tutti ci davamo un gran daffare per aiutarlo a rimuovere quella immensa quantità di pietrame. Lubaantun significa infatti "luogo delle pietre cadute". Mi venne concesso di raccoglierlo, perché ero stata la prima a vederlo». L'oggetto era stato trovato proprio sotto quello che pareva essere stato l'altare di un tempio maya. La data ricordata dalla signora Anna è il 1924, in disaccordo con una sua precedente dichiarazione in cui aveva detto di averlo trovato proprio il giorno del suo diciassettesimo compleanno, come a dire tre anni più tardi. Ciò che aveva trovato, consisteva nella parte superiore del teschio, perché il resto, ossia la mandibola, era stata scovata tre mesi dopo sotto altre macerie, in un sito leggermente discosto rispetto al primo. Resosi conto che quel prezioso oggetto era un'eredità degli indigeni locali, discendenti diretti dell'antico ed evoluto popolo che l'aveva realizzato, Mitchell-Hedges aveva deciso di lasciarlo alla gente del posto. Quando però, durante la stagione delle piogge del 1927 stava apprestandosi a fare rientro in Inghilterra, i maggiorenti del luogo glielo avevano restituito, in segno di gratitudine, per la sua gentilezza e per la correttezza del suo comportamento. Come sappiamo, anche i Maya sono un meraviglioso, intrigante enigma. Anche se i loro più antichi antenati risalgono a circa 1500 anni prima della nostra era, la fioritura della loro straordinaria civiltà si registrò solo fra il 700 e il 900 AC. Durante questa fase i Maya svilupparono una civiltà altissima che conosceva la scrittura, la matematica, disponeva di un preciso calendario e realizzava imponenti opere scultoree e architettoniche. Poi, di colpo, tutto era scomparso, la civiltà maya era crollata e nessuno ancora oggi sa perché. Qualcuno parla di catastrofi naturali e terremoti, ma non vi sono riscontri. Né si hanno tracce di violenze. Insomma, un mistero. Sembra che i Maya abbandonassero volontariamente le loro città per disperdersi in altre località sperdute. Dopo di che la loro civiltà, un tempo e mirabile, era ripiombata nell'anonimato. Anche la parziale decifrazione dei loro scritti non ci è di grande aiuto. Secondo Mitchell-Hedges esisteva una stretta correlazione fra i Maya e il leggendario continente di Atlantide, che la leggenda dice sia stato sommerso dalle acque dell'oceano Atlantico nella notte dei tempi. Un altro esploratore, il colonnello Percy Fawcett, sosteneva di aver trovato le prove attestanti che i sopravvissuti di Atlantide avevano raggiunto il Sudamerica e che in Brasile stava nascosta la risposta a tanti interrogativi. Nel 1924 Fawcett era scomparso nel corso di una spedizione in Brasile. Mitchell-Hedges concordava con la sua ipotesi, ma riteneva che gli Atlantidei fossero stanziati più a nord, nella penisola dello Yucatan o nel Centro America. La spedizione in Honduras nel corso della quale era stato trovato il teschio, era volta a dimostrare proprio questa teoria. Mitchell-Hedges non aveva rintracciato alcuna prova in merito, ma in compenso era riuscita a venire a capo di alcune indicazioni riguardanti il tesoro perduto del celebre Sir Henry Morgan, il pirata che nel XVII secolo aveva preso (con non poca crudeltà) la città di Panama. Che cosa sappiamo, in realtà, del "teschio del destino"? Di importante, pressoché nulla. Risulta ricavato da un unico blocco di roccia cristallina o quarzo chiaro. Secondo Mitchell-Hedges vantava circa 3600 anni; il che voleva dire almeno mille anni prima ancora delle prime tracce storiche attribuite alla civiltà dei Maya. Per realizzarlo erano occorsi almeno 150 anni, per ripulire e scolpire, poco a poco, il duro blocco di quarzo con l'azione di sabbia finissima. Nel suo “Gli extraterrestri torneranno?” Erich von Daniken va ancora oltre, quando dice (sbagliando): «Nel teschio e nella sua perfetta fattura, non c'è traccia che riveli l'uso di un attrezzo di lavorazione a noi noto». Per lui, infatti, il teschio è stato elaborato dagli «antichi astronauti», quegli stessi visitatori a cui dobbiamo la costruzione della Grande Piramide. Un esperto di cristalli, Frank Dorland, ha confessato di essere in grado di realizzare un oggetto simile in tre anni, a condizione però di poter disporre di tutti i mezzi messi a disposizione dall'attuale tecnologia. A proposito dell'origine del teschio, gli esperti hanno idee diverse. Per alcuni venne realizzato in Messico, scolpendo un blocco cristallino proveniente dalle cave messicane della contea di Calaveras o dalla California, e non dovrebbe avere più di 500 anni. Se questa datazione è corretta, contrasta in pieno con quanto sostenuto da Mitchell-Hedges, che disse di averlo ritrovato fra le rovine di un antico tempio maya, abbandonato da almeno un migliaio di anni. In merito agli Aztechi - i più probabili costruttori del teschio - fondarono la loro grande capitale Tenochtitlan soltanto nel 1325 d.C. Peccato che questa sia però l'ipotesi condivisa dalla maggior parte di coloro che hanno avuto a che fare con il teschio. Non ci sono dubbi sul fatto che Mike Mitchell-Hedges fosse un uomo di assoluto valore, come d'altro canto nessuno può dubitare della grande devozione e fedeltà mostrata nei suoi confronti dalla figlia adottiva Anna. Quando si erano incontrati a Toronto nel 1917, Anna era una piccola orfana di sette anni. Si chiamava Anna Le Guillon e, al momento, era stata affidata a un uomo che aveva tutte le intenzioni di liberarsene rinchiudendola in un orfanotrofio. Toccato dalla sua penosa vicenda, Mitchell-Hedges aveva deciso di adottarla, compiendo un gesto che nessuno dei due avrebbe mai rimpianto nel corso della vita. Oltre al coraggio e al formidabile slancio di esploratore, al contrario del capitano Scoti o del già citato colonnello Fawcelt, Mitchell-Hedges era un tipo decisamente vulcanico, più vicino a quel fanfarone del capitano Morgan, il pirata sulle piste del cui tesoro Mike si era messo. Era un uomo pieno di senso dell'umorismo, ironico, che amava incatenare il prossimo raccontando - e forse anche scrivendo - storie mirabolanti e affascinanti. Lui stesso ammetteva di dovere la sua vita di avventuriere alla lettura giovanile delle opere di Rider Haggard e ai racconti di Lost World di Sir Conan Doyle; d'altro canto i suoi stessi libri si allineavano su questo registro - riflettendo il carattere di un uomo che, dopo tutto, seppure maturo, era rimasto con l'animo e la mentalità di un ragazzo. Insomma, non era meno propenso alla bugia di quanto non lo potesse essere un avventuriere elisabettiano nato per sbaglio fuori dal proprio tempo. Le male lingue sostengono che Mitchell-Hedges avesse comprato il teschio di cristallo a Londra, se lo fosse portato appresso alle rovine di Lubaantun per farlo trovare alla figlia proprio il giorno del suo diciassettesimo (o quattordicesimo) compleanno. Un'azione, a detta di molti, di cui sarebbe stato senz'altro capace. Anche dalla lettura della sua autobiografia del 1954, si evince che i fatti non si svolsero in modo così lineare e piano, come narrati dalla figlia Anna. Ci si aspetterebbe che una scoperta così importante meriti almeno qualche pagina di accurata descrizione ed invece niente di tutto questo. Solo poche righe, con questa annotazione misteriosa: «Non ho motivi di rivelare a nessuno in quale modo sono venuto in possesso del teschio di cristallo». Onestamente, non si capisce perché, dal momento che, al contrario, la figlia Anna se ne occupa in modo alquanto dettagliato. Forse perché avrebbe potuto accrescere i meriti del padre adottivo? Tutto questo risulta ancora più stravagante se solo si considera che Mike spende non poche pagine a descrivere in modo quanto mai preciso alcuni altri oggetti di molta minore importanza ritrovati nel corso degli scavi a Lubaantun. Senza osservare che anche le pur minime citazioni al teschio scompaiono completamente nell'edizione americana del libro. Viene da chiedersi: d'accordo a non voler più sostenere la bugia, ma perché non approfittare dell'occasione per dire la verità? Da parte sua Anna Mitchell-Hedges non ha mai avuto esitazioni a confermare appieno il racconto del ritrovamento. Il giornalista del «Daily Express» Donald Seaman, racconta di averlo sentito narrare direttamente dalla signora. Nel 1962 Seaman, occupato nella redazione di un libro di spionaggio, si era imbattuto nella fotografia di una spia recentemente scoperta, Gordon Lonsdale, dove l'uomo era ritratto in mezzo a due donne di mezza età. Accurate ricerche avevano rivelato che una delle due era Anna Mitchell-Hedges. Incuriosito dallo strano collegamento - che ci faceva la signora Anna con una spia riconosciuta? - Seaman l'aveva contattata presso la sua casa di Reading, chiedendo di poterla incontrare. Ottenuto il consenso, Seaman era andato, facendosi accompagnare dal fotografo Robert Girling. All'epoca la signora Anna era una vigorosa, piacente signora nel pieno dei suoi cinquant’anni, pronta a riceverli agghindata nel suo bell'abito. La storia relativa alla fotografia si era rivelata abbastanza banale. Era stata scattata all'interno di un castello storico, dove lei e alcuni suoi amici si erano ritrovati casualmente a parlare con l'uomo, incontrato sul momento, che si sarebbe poi trovato al centro del celebre caso di spionaggio del caso di Portland. Un fotografo professionista a caccia di clienti era passato proprio in quel momento, aveva notato il gruppo affiatato e aveva proposto di scattare una fotografia. Anna aveva pagato lo scatto e qualche giorno dopo aveva ricevuto la fotografia a casa. Non aveva mai più visto né sentito parlare di Lonsdale fino a quel momento. A quel punto, quasi delusa di averli fatti correre fin da lei a Reading per scoprire un caso inesistente, una mera banalità, come volendosi sdebitare, aveva allora chiesto se desiderassero vedere il famoso “teschio del destino”. Nessuno dei due ne aveva mai sentito parlare prima, e così, più che altro per cortesia, avevano assentito. Anna li aveva condotti in camera da letto, dove, cercando a tentoni dietro la spalliera del letto, aveva tirato fuori qualcosa. Aspettandosi di vedere un oggetto non più grande di un uovo, Seaman si era meravigliato nel constatare che la cosa racchiusa in una carta da giornale che la signora Anna aveva estratto da dietro il letto, era invece grande quanto un cavolo. Poi si erano spostati nel salone dove la signora Anna aveva svolto il pacchetto. Sia Seaman che Girling erano rimasti letteralmente sbigottiti al cospetto di quell'oggetto bellissimo e unico, appoggiato sul tavolo. Il teschio, grande come quello di un uomo, sembrava ricavato da un diamante perfetto: alla luce del crepuscolo assumeva una tonalità verdastra, quasi come se brillasse di una propria luce interiore o fosse illuminato al di sotto. La mascella inferiore era mobile come quella umana, particolare che aggiungeva un tocco di straordinario effetto realistico a tutto l'insieme. Tornando, si erano trovati d'accordo nel constatare che fino a quel momento nessuno dei due aveva mai visto un oggetto tanto bello e soprattutto, così stranamente inquietante. La signora Anna aveva detto loro che si trattava del "teschio del destino", ritrovato in un tempio maya nel 1927. Il nome gli era stato dato dagli indigeni, convinti che in virtù dei suoi poteri sovrannaturali l'oggetto andava trattato col massimo rispetto e con grande reverenza. Già erano fiorite leggende su persone andate incontro a gravi disgrazie per il solo fatto di non aver rispettato abbastanza il misterioso teschio. Il racconto era proseguito. In quell'ormai lontano 1927, suo padre si era messo sulle tracce del favoloso tesoro del pirata Henry Morgan, che la leggenda diceva sepolto nel 1671. Era venuto a sapere che nella zona attorno al sito archeologico di Lubaantun, nell'Honduras Britannico, molti fra i nativi si chiamavano Hawkins e Morgan. Era un'opportunità; per di più suo padre era convinto che sempre in quei luoghi fossero approdati i superstiti della distrutta Atlantide. Tuttavia, il teschio era stato l'unico manufatto antico che erano riusciti a trovare. Ora che il padre non c'era più (era morto nei 1959), Anna aveva intenzione di ritornare in Honduras alla caccia del tesoro e allo scopo di mettere insieme i fondi necessari per la spedizione aveva pensato di vendere il teschio, e un'antica ciotola donata da Nell Gwyn a re Cario II sulla cui autenticità già si erano favorevolmente espressi gli esperti.
«Ma quanto potrà valere il teschio?» aveva chiesto Seaman.
«Forse un quarto di milione di dollari».
«Dio mio! Ma non avete paura a tenervelo in casa, sotto il letto?»
«Non proprio, penso di poter tenere testa a qualsiasi malintenzionato» aveva risposto decisa la signora Anna, e scostando un poco la gonna aveva messo in mostra una colt 45.
Per un certo momento si era pensato che il «Daily Express» avrebbe potuto finanziare la spedizione alla ricerca del tesoro di Morgan, inviando Seaman al seguito come reporter. Ma l'idea non era piaciuta e la direzione del giornale l'aveva cassata. Seaman ci era rimasto male, ma non aveva mai più potuto dimenticare la visione di quello straordinario oggetto che sembrava vivere di una luce propria. Malgrado ciò, come già abbiamo precisato, la storia del ritrovamento di Lubaantun continua a rimanere dubbia. Norman Hammond, un archeologo che pure aveva condotto alcuni scavi nel sito, nel suo libro su Lubaantun, non spende una sola riga a proposito del teschio, spiegando a Joe Nickell, un investigatore alquanto scettico (che firma l'introduzione al volume) che non era stata una dimenticanza volontaria poiché l'oggetto non aveva proprio nulla a che vedere con il sito archeologico. «Il cristallo di rocca non è pietra che si trova naturalmente nell'area maya» e poi continua precisando che le località più vicine dove è rintracciabile sono quelle di Oxaca, nel sud del Messico, e della valle del Messico, dove erano stati trovati altri teschi simili, ma molto più piccoli, di fatturazione azteca. Hammond non si ferma qui. Dichiara, come da prove documentali, che la signora Anna Mitchell-Hedges non era mai stata a Lubaantun, cosa che sarebbe stata anche confermata da alcuni componenti la spedizione archeologica del padre. Hammond si esprime anche in merito all'oggetto. Secondo lui potrebbe essere un “memento mori” (un qualsiasi oggetto realizzato per rammentarci che dobbiamo tutti morire) ascrivibile al XVI o al XVII secolo. Se un'origine rinascimentale non è improbabile, considerata la raffinatezza con cui è stata ricavata la sagoma dal grande blocco cristallino, anche una provenienza dalla dinastia cinese Quing, come oggetto da piazzare sul mercato europeo, non può essere scartata a cuor leggero. Da parte nostra, una volta colto in castagna Mitchell-Hedges - in particolare la sua clamorosa bugia di aver partecipato come sostenitore armato alla missione messicana di Pancho Villa e di aver combattuto nella battaglia di Laredo - e verificato che aveva perduto una causa contro il «Daily Express» che nel 1928 lo aveva accusato di aver costruito ad arte quella storia solo per procurarsi della pubblicità gratuita, confessiamo che anche noi, ad un certo momento, abbiamo pensato che tutto ciò che era montato attorno alla storia del teschio non fosse nient'altro che immaginazione, pura invenzione. In verità, la prima citazione ufficiale del teschio era comparsa su una rivista dal titolo: «L'uomo. Rivista mensile di scienze antropologiche», dove due esperti confrontavano il teschio con un altro, più piccolo ma simile, conservato al British Museum. Il nostro teschio aveva però un altro nome, era il "teschio di Burney. Il personaggio in questione era Sydney Burney, un esperto d'arte, il quale nel 1943 lo aveva consegnato a Sotheby's per una vendita all'asta. Siccome nessuno aveva offerto le 340 sterline del prezzo base, Burney aveva deciso di riprenderselo. Nel 1944 era riuscito a venderlo per 400 sterline proprio a Mitchell-Hedges. Quando Nickell aveva chiesto spiegazioni di tutto questo alla figlia, la signora Anna aveva spiegato che il padre lo aveva consegnato a Burney come pegno per finanziare una spedizione archeologica, e che si era molto indignato quando aveva saputo che Burney lo aveva messo in vendita perché non era per nulla autorizzato. Peccato che non si riesca in alcun modo a sapere con inequivocabile certezza se Mitchell-Hedges possedesse l'oggetto già prima del 1944. Esiste invece una lettera firmata dallo stesso Burney, datata 21 marzo 1933 e indirizzata a qualche funzionario del museo, in cui si precisa che prima di avercelo, il teschio era appartenuto a un collezionista da cui Burney l'aveva comperato e che prima ancora aveva fatto parte della raccolta di un altro collezionista inglese. Da queste testimonianze, sembrava dunque che Mitchell-Hedges avesse inventato di sana pianta la storiella del tempio maya e che, da parte sua, la figlia adottiva avesse continuato a mantenere viva la falsa vicenda come segno di gratitudine verso l'uomo che, adottandola da piccina, aveva dato una svolta decisiva alla sua vita. Lo stesso valga per le affermazioni attribuite a Mitchell-Hedges stando alle quali il teschio di cristallo era stato utilizzato «per procurare la morte di qualcuno» (in merito la signora Anna scherzava, citando quelle parole come prova del senso dell'umorismo del padre adottivo) e per alcune altre allusioni ai poteri sovrannaturali posseduti dall'oggetto; emblematica è la storiella di un fotoreporter che era schizzato via letteralmente terrorizzato dalla stanza buia dove si trovava il teschio, perché, mentre stava per fotografarlo, la lampada del flash era esplosa con forte colpo andando in mille pezzi. Insomma, un groviglio di fatti per una storia che sembra davvero irritante, specie quando qualcuno rivelò che a un'attenta osservazione si potevano notare aggiustamenti ai denti della mascella mobile ottenuti con una smerigliatura meccanica. Per la maggior parte degli addetti ai lavori, il mistero che circonda il teschio del destino altro non sarebbe che una volgare messa in scena, un falso bello e buono. Bisogna andare cauti e un giudizio completamente negativo sarebbe prematuro. Tanto per incominciare, l'altro teschio di cristallo - quello più piccolo e decisamente meno "perfetto" - conservato al British Museum (collocato in cima alla scalinata del Museo dell'uomo, nei pressi di Piccadilly Circus a Londra) viene accettato come genuino e anche su di esso sono stati osservati segni di molatura meccanica. E’ intatti risaputo che gli artigiani Maya facevano uso di mole meccaniche circolari azionate dall'azione di una cordicella tesa attraverso un arco. Ambedue i teschi provengono dal Messico. Quello conservato a Londra venne acquistato dal Museo dal gioielliere Tiffany di New York nel 1898 per una spesa di 120 sterline. Per fugare ogni sospetto, nel 1963 la signora Anna Mitchell-Hedges ha permesso al già citato esperto di pietre e cristalli Frank Dorland di prendere in prestito il prezioso oggetto per poterlo esaminare con calma in California sottoponendolo a tutti i test di verifica ritenuti necessari. Una delle conclusioni più sconcertanti a cui Dorland era approdato, consisteva nell'osservazione che l'oggetto avrebbe potuto avere anche dodicimila anni e che nulla vietava fosse stato ritoccato e lavorato in tempi successivi. Dorland aveva spedito il cristallo ai laboratori della Hewlett-Packard Electronics, che, fra l'altro, si occupava di cristalli oscillanti. Una prima risposta riferì che la fattura dell'oggetto aveva richiesto molto tempo di lavoro, forse, addirittura, trecento anni (due volte il tempo, già più che consistente, denunciato dallo stesso Mitchell-Hedges). Se il parere è corretto - cosa che riteniamo senz'altro - significa che si trattava di un oggetto a valenza religiosa, realizzato da qualche ordine sacerdotale e conservato in un tempio. In tal caso doveva essere connesso a qualche pratica divinatoria. Era tenuto sull'altare - coperto e protetto dalla luce, proprio come le palle di cristallo dei veggenti - e veniva esposto soltanto nel corso di determinate cerimonie, forse per illuminare il cammino che conduceva nell'aldilà. Dorland riferisce anche che, stando ad alcune dichiarazioni di amici di Mitchell-Hedges, in tempi recenti il teschio era stato portato in occidente dai Cavalieri Templari di ritorno dalle crociate e dalla Terra Santa. Una volta in Europa, lo avevano custodito con grande venerazione nel loro centro segreto di Londra. Da qui poi, le varie altre vicissitudini che lo avevano portato sul mercato dell'antiquariato. Questa storia è tanto plausibile quanto quella del tempio maya. L'ordine dei Cavalieri Templari, fondato nei 1118 da Ugo di Payens di Champagne, era una congrega religiosa il cui scopo primario era quello di dedicare la vita per la difesa della Terra Santa e la protezione dei pellegrini che vi si recavano. Il successo ottenuto dall'Ordine era stato così immediato e straordinario che la sua ricchezza era cresciuta a dismisura, fino a diventare leggendaria. Ma questa ricchezza era stata la sua stessa condanna. Sul tesoro templare infatti posò gli occhi il re di Francia, Filippo il Bello, le cui casse languivano. Il 13 ottobre del 1307 egli ordinò l'arresto in massa di tutti i Templari. Essi erano accusati di magia nera, blasfemia, rinuncia a Cristo e perversioni sessuali. Una delle accuse più terribili li diceva adoratori del demone satanico Bafometto, nella forma di una testa o di un teschio umano parlante. Si diceva che i cordigli che erano soliti portare ai fianchi per stringere i loro abiti, fossero carichi di poteri magici derivati dall'averi avvolti attorno alla misteriosa testa parlante. Alcune fra le accuse meno infamanti, sono state accertate come veritiere dagli storici. Fra queste la certezza che celebravano riti magici. Sotto la persecuzione di Filippo, caddero centinaia di Templari. Un massacro che però si rivelò inutile, visto che il re non riuscì a mettere le mani sul loro tesoro. Poiché è pressoché indubbio che il teschio venerato dai Cavalieri Templari doveva essere un teschio umano, l'ipotesi che potesse essere quello di cristallo, detto del destino, per quanto strana non la possiamo respingere a priori. Che dire a proposito dei presunti poteri "mistici" riconosciuti all'oggetto? La signora Anna disse che Adrian Conan Doyle, fratello del celebre Arthur, non solo non poteva sopportare la vista del teschio, ma gli riusciva impossibile stare nella stessa stanza. La sensazione negativa che lo assaliva era così prepotente da accorgersene anche quando l'oggetto, a sua insaputa, era presente ma tenuto nascosto. Affermazioni come queste vengono normalmente etichettate come il desiderio di dar vita e sostenere una leggenda; ma ecco che, subito, Frank Dorland ci smentisce affermando che dopo tanto tempo trascorso a contatto con la pietra, anche lui si era convinto delle sue proprietà mistiche. Per esempio, gli era capitato sovente di udire «acuti scampanellii di campane argentate, lievi ma assolutamente avvertibili» oppure «suoni e canti religiosi». Invece, fissando attentamente il teschio, gli era capitato di vedere «altri teschi, alti monti, mani e visi». La prima volta che aveva avuto il teschio in casa, aveva avvertito in modo distinto il ruggito di felini della giungla. Può trattarsi, ovviamente, di pura suggestione; eppure ciò che un giorno accadde a seguito della visita del satanista Anton LaVey non può in alcun modo ricadere nella categoria allucinatola. LaVey aveva chiamato Dorland per fargli sapere che il teschio di cristallo era stato creato da Satana e che apparteneva alla sua chiesa demoniaca. (LaVey possiede, evidentemente, un gran senso dell'umorismo oltre che un buon fiuto per farsi della pubblicità gratuita). La visita del satanista si era conclusa con LaVey che si era dilettato per qualche momento a suonare l'organo di Dorland. Quando se n'era andato era ormai troppo tardi per poter ancora andare a ricoverare il prezioso teschio nella cassetta di sicurezza dove Dorland era solito custodirlo e così l'aveva dovuto tenere in casa. Nella notte, sia lui che la moglie erano stati svegliati e più riprese da alcuni strani rumori e suoni. Scesi al piano terreno non avevano trovato niente di anomalo. La mattina però, aveva scoperto con grande sorpresa che alcuni oggetti della sala erano fuori posto e che addirittura il ricevitore di un telefono si trovava fuori, nel giardino dei vicini, davanti alla loro porta d'ingresso. La teoria proposta da Dorland non prevede che il teschio sia "posseduto" da un qualche spirito (poltergeist), ma nel caso di quella sera, la sua sostanza cristallina aveva assorbito la presenza negativa di LaVey che, venendo in contrasto con le sue energie, aveva dato luogo alla produzione di effetti fisici infestatoli. I chiaroveggenti dicono di ricorrere alle palle di cristallo per le loro veggenze, perché esse sarebbero in grado di assorbire le energie vitali. La copertura col panno violaceo o scuro serve ad impedire che queste energie si disperdano alla luce del giorno. Effettivamente, sin dai tempi più antichi, da quando è nata la magia, i cristalli sono sempre stati tenuti in alta considerazione dagli operatori per i loro portentosi poteri occulti. Per quanto possa sembrare strano, dietro a questa teoria esiste un substrato scientifico. Per almeno un decennio, il biologo Rupert Sheldrake è andato in giro a dichiarare che la conoscenza fra gli esseri viventi, animali e uomini, è un processo che si verifica anche attraverso ciò che lui chiama risonanza morfica. Il caso più eclatante da lui utilizzato per darne un esempio, è quello delle scimmie dell'isola di Kojirna, al largo della costa del Giappone, che avevano imparato a lavare le patate nell'acqua del mare perché il sale le rendeva più saporite. Qualche tempo dopo, lo zoologo Lyall Watson, autore di “Lifetide”, aveva scoperto che un gruppo di altre scimmie viventi su isole vicine, ma con nessun collegamento con il gruppo originario, avevano imparato e adottato la stessa tecnica. Il processo di risonanza mollica può essere assimilato a una specie di telepatia e secondo Sheldrake gioca un ruolo decisivo nell'evoluzione. La cosa più strana è che questo singolare processo di apprendimento è attivo non soltanto con gli esseri viventi, ma anche con il mondo del non vivente come, per esempio, quello dei cristalli. Alcune nuove sostanze chimiche, cristallizzano sperimentalmente con molta difficoltà; ma una volta che il processo si verifica all'interno di qualche laboratorio, come d'incanto diventa pratica facile e accessibile ovunque, in tutti gli altri laboratori. Dapprima si era pensato che questa diffusione potesse dipendere dal fatto che tracce di cristalli trattenute negli abiti e nei capelli degli sperimentatori si diffondevano via via negli altri laboratori, ma si è trattato di una teoria che ha avuto vita breve per essere sostituita da un'altra più credibile. Pare, infatti, che anche i cristalli, al pari degli esseri viventi, possano imparare tramite il processo della risonanza morfica. In questa prospettiva l'idea che i cristalli possano assorbire energia vivente non suona più così stravagante né assurda. Riteniamo che sarà alquanto difficile risalire alla verità a proposito del "teschio del destino", ma la sua totale rassomiglianza con quello più piccolo conservato al British Museum ci suggerisce una fattura azteca. Ciò che conosciamo della civiltà azteca - della sua religione basata anche sui sacrifici umani - ci spinge a credere che il teschio possa essere stato creato come oggetto a valenza religiosa, forse a fini divinatori, vale a dire, per essere utilizzato con le stesse modalità con cui oggi i chiaroveggenti usano le palle di cristallo. Ma, qualunque sia il motivo per il quale questo straordinario oggetto venne realizzato, tutti coloro che hanno avuto a che fare con esso sono concordi nel dire che senza ombra di dubbio si tratta di uno dei più begli oggetti mai visti al mondo.
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:14 pm

I MOSTRI DEL MARE

Il 10 ottobre del 1848 il londinese «Times» riportava la seguente notizia: «Si è saputo che quando la fregata Daedalus del capitano M'Quhae, giunta in porto il 4 corrente, è venuta a trovarsi nel passaggio di mare delle Indie Orientali fra il Capo di Buona Speranza e Sant'Elena, attorno alle quattro del pomeriggio, il capitano, alcuni ufficiali, e parte dell'equipaggio, hanno avvistato un serpente di mare». Il breve articolo aveva scatenato una vera e propria pioggia di lettere di sedicenti uomini di mare che, indignati, affermavano che un quotidiano serio non avrebbe mai dovuto riportare simili "baggianate''.
Opposta e totalmente diversa era stata invece la risposta della gente, dei lettori comuni, che erano rimasti affascinati dal fatto, frattanto immediatamente rimbalzato anche su altre testate. In fretta e furia l'Ammiragliato aveva indetto una conferenza stampa al fine di vederci chiaro e aveva subito disposto un'inchiesta. La prima cosa era stata ovviamente quella di sentire il testimone principale, il capitano Peter M'Quhae, per vedere di chiarire la storia. Fra l'evidente imbarazzo dell'ammiraglio Sir W.Gage, a cui era stata affidata la responsabilità degli accertamenti, il capitano aveva replicato che, malgrado qualche irrilevante inesattezza, il racconto comparso sul giornale non si discostava da quella che era stata la realtà: avevano davvero visto un mostro marino. Il fatto era stato registrato nel diario di bordo e sin da subito si era stabilito di rendere noto l'avvistamento ai mezzi di diffusione delle notizie. Ecco, in sintesi, come erano andate le cose. Verso le cinque del 6 agosto 1848, mentre la Daedalus si trovava fra il Capo di Buona Speranza e l'isola di Sant'Elena, un guardiamarina aveva segnalato a prua una sconosciuta creatura marina accompagnare la nave per un certo tratto. La maggior parte dell'equipaggio stava cenando in coperta. Sul ponte c'erano soltanto sette persone, fra cui il capitano, l'ufficiale di quarto e quello di rotta. Tutti avevano avuto modo di osservare quello che il capitano M'Quhae aveva definito un "serpente enorme" - di non meno 30 m di lunghezza - che nuotava in parallelo con la fregata, in apparenza ignaro della sua vicinanza. Secondo il capitano, l'essere viaggiava a una velocità compresa fra 12 e 15 miglia orarie ed era rimasto nel loro raggio di osservazione per non meno di venti minuti. Anche se il pomeriggio era piovigginoso e un po' uggioso, l'atmosfera era sufficientemente tersa per poter vedere con chiarezza, al punto che nel corso della testimonianza aveva puntualizzato: «Si fosse trattato di qualcuno di mia conoscenza, non avrei avuto esitazione a riconoscerlo tranquillamente a occhio nudo». Il mostro aveva una testa serpentina larga e grossa, sorretta da un collo di una quarantina di centimetri, con un corpo che si snodava in circa 18 m di gobbe serpentine che increspavano la superficie dell'acqua. Il colore, uniforme, era marrone scuro, fatta eccezione per la parte sotto la gola che era di un bianco giallastro. Stando a M'Quhae l'animale avanzava senza alcun sforzo, senza l'ausilio di pinne e neppure della spinta derivata dal moto ondulatorio del corpo, tipico dei serpenti e delle anguille. La cosa poteva forse spiegarsi con la presenza lungo il corpo dell'animale di alghe marine, capaci di nascondere pinne propulsive. Mai il serpente era stato visto aprire la bocca e mostrare una «mascella irta di denti aguzzi», come invece era stato riportato nell'articolo del «Times». Tutti i testimoni erano concordi nel riconoscere che certamente lo strano essere non era spaventato, sebbene sembrasse procedere con una tale speditezza da dare ad intendere di stare seguendo qualcosa. Il capitano si era affrettato a farne uno schizzo che aveva presentato all'inchiesta, convertendolo poi in una grande raffigurazione dettagliata a corredo della sua descrizione orale. Per guadagnare credito, l'Ammiragliato non solo aveva chiuso l'inchiesta celermente, ma aveva tenuto a diramare immediatamente il rapporto conclusivo, per placare la controversia nata fra la gente. Il 13 ottobre la relazione compariva già sui giornali e quindici giorni dopo l’Illustrated London News pubblicava il resoconto dell'avvistamento corredato di alcuni disegni, ottenuti dalle indicazioni di M'Quhae, in cui si vedevano la fregata e il mostro marino procedere insieme in mezzo alle onde. In breve il caso era diventato questione all'ordine del giorno e aveva infiammato non pochi accesi momenti di discussione un po' ovunque. I restanti sei testimoni citati dal capitano non fecero che confermare il suo racconto, anche se esistevano senz'altro alcune discrepanze. Una rivista pubblicò una sintesi del giorno dell'avvistamento estratta dal giornale di bordo dell'ufficiale di quarto, il luogotenente Edgar Drummond. Questi, per esempio, aveva valutato in circa 3 m la lunghezza della testa del mostro, senza dubbio troppo grande per poter essere sorretta da una collo di non più di 40 cm di diametro. Per lui il corpo non era più lungo di 6 m e pur ricordando che il capitano aveva detto di averne osservati almeno altrettanti di coda, non si arrivava comunque ai 20 m della descrizione di M'Quhae. Drummond, inoltre, non pensava che il dorso dell'animale fosse incrostato di alghe, ma era più propenso a credere che fosse percorso da una unica, lunga pinna fluttuante. Ce n'era abbastanza affinchè gli scettici soffiassero sul fuoco della incoerenza delle testimonianze e quindi della loro scarsa attendibilità; altri, con più delicatezza, senza mettere in forse la buona fede dei testimoni, si interrogavano piuttosto sulla bontà della loro vista. Un lettore aveva scritto al «Times» pregando di girare al capitano la sua domanda: come mai non aveva dato ordine ai suoi uomini di dare la caccia al favoloso mostro? Mentre un altro ancora si domandava, ma in tono più faceto che serio, perché non gli avessero silurato contro una bella bordata. Un contributo senz’altro più costruttivo al dibattito, venne da una lettera pubblicata sulla «Literary Gazette», nella quale si ricordava che forse il mostro avvistato dagli uomini della Daedalus poteva corrispondere al serpente di mare descritto dal vescovo danese Pontopiddan nel suo importante trattato di zoologia. Si leggeva, fra l'altro: «Può darsi che il prode capitano abbia letto il libro dello zoologo danese, se ne sia rammentato e abbia fantasticato sulla visione di un mostro analogo, dal momento che la descrizione è pressoché identica: dal colore bruno scuro al candore della parte del corpo sotto la gola, al lungo collo e al dorso ricoperto da una sorta di peluria simile alla criniera di un cavallo». Malgrado le accuse, il capitano M'Quhae preferì sempre mantenere un dignitoso silenzio. Per smuoverlo dalla sua apatia era stato necessario l'intervento di uno dei grandi esperti uomini di scienza europei. Si trattava di Sir Richard Owen, anatomista, naturalista e paleontologo, il quale, ad un tratto, si era messo alla testa della crociata dei contestatori contro l'avvistamento della Daedalus. Per molti Owen era reputato il più grande zoologo vivente. Conservatore fino al midollo, sarebbe diventato da lì a poco uno dei più violenti oppositori della nuova teoria evoluzionistica proposta da Darwin. Il primo affondo Owen lo mise a segno inviando al «Times» la copia di una lunga lettera da lui scritta ad un amico, il quale gli aveva chiesto se, ammessi la verità dell'avvistamento, il mostro non potesse per caso esser un esemplare sopravvissuto dell'era dei grandi sauri, l'ipotesi più sovente ricordata nelle varie diatribe in merito. Per Owen il capitano M'Quhae aveva soltanto immaginato che l'animale fosse un serpente marino, perché in realtà non possedeva alcuna conoscenza scientifica, tanto meno biologica, e avrebbe dovuto lasciare le deduzioni agli studiosi. Poi, il luminare giungeva a concludere che doveva trattarsi di un mammifero e, dal momento che era convinto che si stava parlando di un animale già ben noto agli zoologi, aveva citato la Phoca Proboscidea, detta anche elefante marino. (Il livello di preparazione e conoscenza posseduto da Owen in merito ai serpenti di mare si può ben valutare dalla sua affermazione secondo la quale capitava spesso che navi in mare aperto fossero seguite dagli alligatori: informazione del tutto impropria, dal momento che questi rettili non sono bravi nuotatori, tanto da disdegnare persino le turbolenze delle acque fluviali). In effetti, però, l'elefante di mare, che altro non è che una foca gigantesca, può raggiungere anche i 6 m di lunghezza e vive nei mari lungo le coste antartiche. Secondo Owen, un esemplare di questa creatura era rimasto isolato su di un grande lastrone di ghiaccio, sul quale era riuscito a sopravvivere per qualche tempo, poi, una volta che l'iceberg si era sciolto, si era trovato costretto a nuotare in mare aperto fino a che le forze lo avevano assistito. Forse, quando si era incrociato con la fregata del capitano M'Quhae, l'animale stava morendo e questo avrebbe giustificato la sua scarsa attenzione nei confronti della nave. Quello che il capitano aveva scambiato per una lunga parte sommersa dell'animale, altro non erano che le increspature provocate nell'acqua dal movimento orizzontale della possente coda della bestia, che si dipartivano in linea retta dietro il corpo. Infine, quella che era stata scambiata per una sorta di cresta pinnata, non sarebbe stato altro che il tipico corredo di queste foche giganti, una specie di folta criniera da cui appunto il nome di leoni di mare. Owen, dunque, negava con assoluta certezza l'esistenza di serpenti di mare, fondando la sua osservazione sul fatto che, dopo tutto, la scienza non ne aveva mai avuto sentore né prove e chiudeva la lettera dicendo: «Se valutiamo le testimonianze, ebbene, allora è più facile che esistano i fantasmi che non i serpenti di mare». Rivolgendosi al «Times», M'Quhae aveva risposto in tono stizzoso ma deciso che la creatura da lui vista quel giorno non era un leone di mare, animale che ben conosceva, e neppure un qualsiasi altro tipo di foca. In qualità di marinaio esperto, poi, era in grado di valutare la differenza fra una semplice turbolenza e il concreto passaggio in acqua di un corpo solido. Infine, precisava non solo di non di non avere mai letto il libro del vescovo Pontopiddan, ma di averne sentito parlare solo a seguito della lettera comparsa sulla «Literary Gazette» e che dunque quella narrazione non aveva potuto in alcun modo influenzare la sua descrizione del mostro. Infine, M'Quhae chiudeva la sua lettera dichiarando che non era affatto vero che fra i testimoni fosse scoppiata una grande eccitazione, né poteva in alcun modo essersi trattato di un avvistamento frutto di illusione ottica. La sua testimonianza doveva essere intesa per quello che era veramente, vale a dire «la singolare, fortunata opportunità di essere entrato in contato con il "grande ignoto", certamente comunque da non identificare con un fantasma». Questa lettera costituì l'ultima parola del capitano sulla faccenda ed il tono era quello di un uomo stanco da morire per il trascinarsi di una polemica assurda che lo aveva letteralmente sfiancato. A dieci anni di distanza da questi fatti, il capitano Frederic Smith aveva scritto al «Times» raccontando il presunto avvistamento di un serpente di mare fatto dalla sua nave, la Pekin. Il mostro aveva «testa e collo possenti, coperti da una peluria folta, simile alla criniera di un cavallo». In realtà, l'animale si era poi rivelato essere una lunga striscia di alghe marine brunite, ondeggianti nell'acqua. La lettera terminava azzardando che quasi certamente anche il caso della Daedalus avrebbe potuto avere questa spiegazione. Pronta era arrivata la puntualizzazione di uno dei testimoni che quel giorno si trovavano sul ponte della Daedalus. Con fermezza si precisava, ancora una volta, che «il serpente, al di là di ogni possibile dubbio, era un essere vivente, che procedeva rapidamente nell'acqua». L'osservazione non era stata solo ravvicinata, ma anche prolungata. Di nuovo, i dettagli ricordati erano troppi e puntuali per dar adito a dubbi. Alla fine della storia, era stato l'Ammiragliato a dare un piccolo segno di apertura, inserendo il rapporto del capitano M'Quhae e i resoconti dell'avvistamento nell'archivio ufficiale della Marina, primo caso ad avere tanto onore. In verità, ancor prima del 1848 si contavano già dozzine di testimonianze significative sugli avvistamenti di serpenti di mare. In un suo libro, il ricercatore Bernard Huevelmans elenca 150 casi, compresi fra il 1639 e il 1848. Il caso risalente al 1639 è di seconda mano, ma disponiamo di molti altri estremamente dettagliati, proprio come quello del capitano M'Quhae. Per esempio, il racconto del capitano George Little, della I fregata Boston. Nel maggio del 1740, mentre stavo navigando nei pressi di Itmad Bay, al largo del Maine «vidi un grande serpente che stava provenendo dalla baia, proprio sul pelo dell'acqua». Una lancia piena di uomini armati era stata subito calata in acqua per osservarlo più da vicino, ma «dopo neppure una trentina di metri... il serpente si era inabissato. Poteva misurare dai 10 ai 15 m; mentre la sezione più grande del corpo era di circa 40 cm; la testa grande come quella di un uomo, che l'animale teneva di un paio di metri fuori dall'acqua. A vedersi sembrava, in tutto e per tutto, un gigantesco serpente nero».
I casi citati da Huevelmans fra il 1639 e il 1966 arrivano al bel numero di 587. Uno dei più interessanti risalente al 1966 ebbe come testimoni due inglesi, John Riclgeway e Chay Blyth: “Ricordo che venni svegliato completamente da un rumore che proveniva da prua. Scattato in piedi, mi ero affacciato dal ponte per vedere di che si trattava ed avevo così potuto scorgere il fremente ondeggiare di una grossa creatura. La potevo scorgere assai bene grazie al fenomeno della fluorescenza marina, come se attaccato al corpo si portasse dietro delle lampade al neon che ne tracciavano la traiettoria. Era enorme, certamente più di dieci metri e si dirigeva verso di noi velocemente... puntava proprio diritto verso di me, ma appena prima di avvicinarsi troppo era scomparso... La sua apparizione mi aveva completamente raggelato di terrore.”
Huevelmans chiude il capitolo e la rassegna dei casi, ricordando il resoconto di due turisti inglesi che nei pressi di Skegness, nell'Inghilterra orientale, si erano imbattuti in un essere «simile al mostro di Loch Ness», osservato a non più di 100 m dalla spiaggia: «Aveva la testa simile a quella di un serpente e il corpo si snodava in sei o sette ampie gibbosità». Poi prosegue citando Sir Arthur Conan Doyle, per il quale se un uomo sostiene di aver abbattuto un okapi in Africa, non viene creduto; ma se la stessa cosa la dicono cinquanta uomini, «diventa decisamente più convincente». Così 587 avvistamenti - anche se alcuni sono stati sconfessati come falsi e burle - non c'è dubbio che costituiscono una base convincente piuttosto considerevole per un fenomeno che vale senz'altro la pena di indagare. Huevelmans, dunque, analizza i suoi casi, raggruppandoli in sette diverse categorie: le "super lontre", dalla testa piatta e lunga e dal corpo simile a quello di una lontra; i serpenti dalle molte gibbosità; i serpenti dalle molte pinne, con protuberanze laterali; i cavalli di mare, creature con la criniera; i serpenti dal lungo collo, dotati di un collo lungo e sottile, e, infine, le "super anguille", simili a giganteschi serpenti. La settima categoria è una specie di sua invenzione, la «madre di tutte le tartarughe» dal momento che il mostro viene descritto come una gigantesca testuggine ma si tratta di una classificazione che alla fine Huevelmans abbandona, perché poco credibile e dubbia. Le prime cinque classi parrebbero essere mammiferi, la sesta, quella delle super anguille, pesci, considerati i resti scheletrici. Il vescovo Pontoppidan, che già abbiamo incontrato, non fu il primo a descrivere il serpente di mare. Nel 1539 il vescovo svedese Olaf Mansson (il cui nome latinizzato suona Olaus Magnus) pubblicò a Venezia una mappa delle regioni del nord in cui erano raffigurati due mostri marini. E in un libro dal titolo Storia dei Goti, degli Svedesi e dei Vandali edita nel 1555 sempre Olaf descrive un serpente «lungo oltre 60 m e col corpo largo più di 6 m» che viveva ben nascosto negli anfratti al largo di Bergen. Questa storia, unitamente alle drammatiche descrizioni di giganteschi mostri marini che assalgono e distruggono barche e navi, venne ereditata da tutti gli enciclopedisti del tempo e tramandata di testo in testo. A proposito del serpente di mare, riporta la testimonianza diretta, di prima mano, di un certo capitano Lorenz Von Ferry, il quale, avvistata la creatura, aveva dato ordine di inseguirla per osservarla da vicino. Ne era nata una descrizione molto dettagliata, dove il mostro è presentato con la testa cavallina munita di una folta criniera bianca, occhi scurissimi e molte placche rigonfie o gibbosità, separate l'una dall'altra e molto accentuate (almeno un paio di metri di altezza). In merito al libro di Pontoppidan si deve riconoscere che, specie nel mondo inglese, non è considerato una fonte attendibile. La traduzione del 1765 ha provocato molti dubbi e il capitano (poi ammiraglio) Charles Douglas, che aveva a cuore l'approfondimento dell'enigma, ebbe modo di scoprire che molti dei testimoni citati non erano del tutto affidabili. Abbastanza curiosamente, però, scoprì che mentre i popoli del nord, specie i Norvegesi, non esitano a credere ciecamente nell'esistenza dei grandi “Vermi del mare”, come chiamano i serpenti marini, sono propensi invece a relegare il kraken, vale a dire la piovra gigante, nel mondo dei miti. E tutto il mondo scientifico lo aveva sempre ritenuto tale, fino a quando nel 1970 ci fu un cambiamento di rotta e anche la piovra gigante è rientrata nel catalogo delle creature marine esistenti. La leggenda del kraken - il polipo gigante che a volte attacca nuotatori, navi e persino villaggi costieri - è antichissima e la si può far risalire sino al tempo del latino Plinio, che descrive un polipo con tentacoli lunghi quasi dieci metri, emerso dal mare per cibarsi dei pesci che alcuni pescatori stavano salando, lungo la costa del villaggio spagnolo di Carteia. Il mostro era stato ucciso solo dopo una terribile e strenua lotta. Oltre alla cultura romana, tutte le altre in qualche modo legate al mare, posseggono il mito del kraken, sottolineandone la presunta esistenza nella realtà. A confronto, il kraken ricordato da Pontoppidan sembra innocuo. Egli scrive che alcuni pescatori locali avevano scoperto un luogo al largo della costa norvegese in cui in certi periodi dell'anno il livello delle acque, normalmente attestato attorno ai cento metri di profondità, scendeva in modo vistoso, fin quasi a dimezzarsi diventando torbido e fangoso e al contempo pullulante di pesci. A loro giudizio il fenomeno era dovuto alla presenza del kraken, una piovra immensa, dalla circonferenza di oltre un miglio e mezzo, che destatasi dal suo sonno oceanico, attirava i pesci col richiamo dei suoi allettanti escrementi. Il mostro era solito non procurare guai all'uomo, se solo si aveva l'accortezza di starsene in osservazione sulla barca alla giusta distanza di sicurezza. L'animale, infatti, dava segno di una grande inerzia e di massima perizia: osservato da lontano, il suo corpo enorme sembrava un arcipelago di piccole isolette interconnesse fra loro da una sostanza simile a strati di erbacce, qua e là punteggiate da "corni", protuberanze così evidenti da potersi paragonare «a alberi maestri di navigli di medie dimensioni». Una volta terminato il lauto banchetto, procurato dalla miriade di pesci accorsi al suo richiamo, il kraken si rituffava negli abissi e la zona di mare tornava come prima. Con la fine del XVII secolo, questo genere di creature vennero definitivamente relegate nel mondo dei sogni, meglio, degli incubi di marinai e uomini di mare. Ma, poco alla volta, il numero sempre crescente di avvistamenti segnalati nel secolo successivo, specie al largo delle coste americane, fece cambiare ancora una volta la rotta del giudizio scientifico, intaccando con vigore lo scetticismo dei non credenti. Evidenti segni di gigantesche ventose osservati dai biologi sul corpo delle grandi balene e la scoperta nel loro stomaco di frammenti di lunghi tentacoli hanno chiarito, una volta per tutte, che piovre e calamari giganti esistono per davvero. Nel novembre del 1861 l'equipaggio della nave da caccia francese Atecton, ebbe modo di scorgere un calamaro gigante al largo di Tenente ed era riuscito ad arpionarlo. La creatura stava morendo e quindi non solo si era lasciata avvicinare senza reagire, ma quando i marinai avevano tentato di issarla sul ponte della nave si era spezzata in due tronconi. Il corpo era lungo più di otto metri e l'orifizio orale largo circa mezzo metro. La parte recuperata era comunque più che sufficiente a dimostrare l'esistenza dei polipi giganti, tanto da poter trarre un meticoloso rapporto scientifico letto il 30 dicembre 1861 all'Accademia francese delle scienze. Anche davanti a questa testimonianza lo zoologo Arthur Mangin aveva però espresso dei dubbi, chiedendosi come mai la creatura non si era inabissata. Insomma, le sue confutazioni erano state così insistenti e violente da convincere in pratica tutti i presenti che si stava dibattendo un caso fasullo e che il rapporto non era credibile. Sul finire degli anni Settanta del XIX secolo fece notizia la spiaggiatura sulle coste del Newfoundiand e del Labrador di un discreto numero di calamari giganti. Era ovvio che, davanti a quelle prove viventi nessuno avrebbe più potuto obiettare o muovere dubbi. Nel 1896 un corpo gigantesco, per quanto mutilato, si arenò sulla spiaggia di St. Augustine, in Florida, fotografato ed esaminato con attenzione dal dottor DeWitt Webb. Per rimorchiare in terraferma le oltre sei o sette tonnellate della carcassa del misterioso mostro erano occorsi quattro cavalli, sei uomini e un robusto paranco. Il giudizio degli esperti parlò di una balena morta in decomposizione. Ma settantacinque anni dopo, l'analisi scientifica e di laboratorio di un frammento conservato del mostro, rivelò che in realtà si trattava di una piovra gigante (non un calamaro) che poteva raggiungere la incredibile lunghezza di quasi 60 m, una vera e propria colossale creatura che avrebbe occupato una bella parte di Piccadilly Circus o Times Square. Per fortuna imbattersi in un gigante simile è cosa rara. Uno dei resoconti più vivi risale al tempo della seconda guerra mondiale. Il 25 marzo del 1941 in una remota zona dell'Atlantico meridionale, il vascello alleato Britannici era stato oggetto di un attacco aereo di caccia tedeschi battenti bandiera giapponese. L'assalto era stato decisivo e la nave era ormai perduta. I tedeschi, allora, avevano concesso qualche minuto all'equipaggio per lasciare la nave, alla quale sarebbe stato dato il colpo di grazie per affondarla definitivamente. Poiché il Britannici non era corredato da un numero sufficiente di lance di salvataggio, molti marinai erano stati costretti a scendere in mare su zattere improvvisate, trovandosi nel cuore dell'oceano lontani dalle rotte solitamente battute. Una di queste scialuppe di fortuna era piena di uomini stanchi e feriti. Fra questi, si contavano i luogotenenti Rolandson e Davidson della Marina Inglese e il luogotenente R.E. Grimani Cox dell'Esercito indiano, tre dei sopravvissuti ai quali dobbiamo la testimonianza che segue: “non avevano né cibo né acqua potabile e il sole li martellava senza pietà. Per evitare che la zattera si capovolgesse erano continuamente costretti a distribuire il peso, movendosi lungo i bordi con la massima precauzione e stando attenti agli assalti delle fisalie, pericolose con i loro terribili aculei e numerose «come un esercito di api». Il secondo giorno alcuni uomini avevano incominciato a delirare, il terzo era iniziata la danza degli squali attorno al relitto. Dopo altri tre giorni di strenua resistenza, gli uomini avevano cominciato a cedere e, cadendo nel mare, a trovare la loro terribile fine. Un giorno, ad un tratto, per la gioia dei sopravvissuti, gli squali erano spariti. Allora, uno di loro si era messo a guardare verso il fondo e con orrore aveva scorto l'immenso corpo di una creatura tentacolata che stava emergendo proprio nella loro direzione. Un attimo dopo alcuni tentacoli stavano già avvinghiandosi alla zattera. Poi, con la velocità del fulmine, un tentacolo aveva imprigionato un marinaio indiano e lo aveva trascinato in mare. Il grugnito di soddisfazione che si era levato dal mostro aveva fatto intendere la sua momentanea soddisfazione. Dopo qualche istante era stato Cox ad essere assalilo, ma per sua fortuna il tentacolo non aveva fatto bene presa sul suo braccio e con l'aiuto dei compagni era riuscito a ricacciarlo in mare. Alla fine tutto si era placato. Qualche giorno dopo i tre unici superstiti dei dodici imbarcati sul relitto erano stati recuperati da una nave spagnola e messi in salvo. Quando nel 1943 il luogotenente Cox era stato visitato dall'illustre biologo marino inglese, dottor John L. Cioudsley-Thompson, questi aveva avuto agio di osservare sul suo braccio una serie di bruciature a forma di disco, dal diametro di circa 4-5 cm, che piagavano la pelle affondando nella carne, segno doloroso e indelebile dello scampato pericolo. Cloudsley-Thompson non potè fare a meno di ammettere che quei segni, così chiari e distinti, erano del tutto assimilabili a quelli lasciati dalle ventose urticanti di calamari e polipi. Dalle dimensioni dei segni, poi, si poteva tranquillamente dedurre che l'animale in questione doveva misurare più di 7 m di lunghezza. Mentre Richard Owen e i suoi seguaci avrebbero gridato al mostro dalle incredibili proporzioni, l'unica cosa che sembrava tormentare il dottor Cloudsley-Thompson era il dubbio che un animale di quella stazza fosse in grado di avvinghiare e portarsi via un uomo. Al tempo di guerra risale anche un altro interessante rapporto redatto da un certo J.D. Starkey. Una notte, come sovente gli capitava di fare, mentre si trovava a bordo di un motopeschereccio dell'Ammiragliato nel cuore dell'oceano Indiano, stava sistemando alcune lampare sul fianco dell'imbarcazione, fini l'intento di attirare pesci. Guardando verso il mare si era trovato all'improvviso al cospetto di un «gigantesco occhio verde spalancato» che lo scrutava. Sventagliando il fascio di una potente torcia, Starkey aveva illuminato un tentacolo largo più di mezzo metro. A quel punto, spaventato e incuriosito, aveva osservato il mostro spostandosi per tutto il ponte. Aveva dimensioni gigantesche, in quello che pareva il muso spuntava un becco adunco come quello di un pappagallo e i tentacoli raggiungevano i 50 m di lunghezza. Questo si era lasciato tranquillamente scrutare per almeno una quindicina di minuti, mentre «ogni tanto spalancava completamente le valve... mostrando qualche difficoltà nel muoversi al buio della notte». Forse l'ostacolo più duro da vincere da parte della scienza sta nell’impossibilità di studiare i mostri marini nel contesto del loro habitat naturale, vale a dire le profondità oceaniche. In aggiunta, proprio come l'altrettanto mitico mostro di Loch Ness, essi sembrano estremamente elusivi. Uno dei più accaniti studiosi di "mostri lacustri", Ted Holiday, è arrivato a immaginare che in alcuni casi si debba parlare di fenomeni paranormali e non tanto di esseri concreti in carne ed ossa, conclusione alla quale dice di essere approdato considerando che alcuni laghi sono troppo piccoli per poter nascondere ospiti tanto ingombranti. In base alla sua esperienza di incontri con il mostro di Loch Ness, Holiday è anche propenso a ritenere che l'essere sia dotato di una specie di sesto senso, che lo rende capace di farsi vedere o intravedere da testimoni umani senza correre però il pericolo di poter essere fotografato. Un altro celebre "cacciatore di mostri" - Tony "Doc" Shiels - sostiene di essere arrivato a una conclusione analoga. Fra il 1975 e il 1976 ci sono stati parecchi avvistamenti di un mostro marino al largo di Faimouth, in Cornovaglia, tanto che alla misteriosa creatura è stato addirittura assegnato un nomignolo: Morgawr, che significa "gigante di Cornovaglia". Dopo non pochi appostamenti, Shiels era riuscito a ottenere una notevole immagine di Morgawr, dalla quale si evince che anche in questo caso ci troviamo al cospetto di una creatura dalla sagoma di un plesiosauro preistorico, simile ai connotati del più celebre mostro di Loch Ness: un lungo collo sinuoso e un corpo punteggiato con gibbosità e protuberanze sul dorso. Ottenuto questo grosso successo, Shiels si era precipitato a Loch Ness dove, nel giro di brevissimo tempo, gli era riuscito di scattare alcune altrettanto belle fotografie di Nessie. Una specie di fortunata coincidenza, un vero miracolo, davanti al quale però lo stesso Shiels rivela scetticismo. In un suo libro si dice convinto che gli incontri da lui avuti coi diversi mostri rientrerebbero più nel mondo dei fenomeni paranormali che non in quello della realtà concreta. Accettare questa teoria non implica soltanto credere che creature come Nessie e Morgawr sono ectoplasmi, fantasmi se si preferisce, ma attribuisce loro anche la capacità di utilizzare poteri telepatici, quegli stessi che gli consentono di evitare i cacciatori di mostri con estrema abilità. Cosa che comporta un'altra particolarità, ossia che chi si mette sulle loro tracce possa avere fortuna solo possedendo egli stesso analoghi poteri. Giunti alla fine delle nostre considerazioni non resta che riconoscere come il mistero dei mostri delle acque sia ancora ben lungi dall'essere risolto.
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:15 pm

Joan Norkot: il mistero del cadavere sanguinante

Quando nel 1690 Sir John Mainard, da tutti considerato «gentiluomo di grande qualità e giudice integerrimo» morì, fra le sue numerose carte venne rintracciato un documento processuale in cui si narrava il caso del cadavere di una donna morta trucidata che incolpava i suoi assassini. L'intero documento venne pubblicato nel luglio del 1851 sulla rivista «The Gentleman's», su iniziativa di un certo avvocato Hunt che era venuto in possesso di una copia del testo. Il fatto veniva definito così straordinario che lo stesso giornale prendeva le distanze titolando: Un singolare caso di superstizione. Tuttavia Mainard sottolineava in modo chiaro che l'episodio aveva avuto
molti testimoni oculari, fra cui anche due preti. Il processo in cui era stato dibattuto il caso sconcertante si era consumato all'assise di Hereford, nell'Herefordshire, «nel quarto anno di regno di sua maestà re Carlo I» (1629), ben sessant’anni prima della morte dello stesso Mainard. Il testo di Mainard compare per intero nel libro del reverendo Montague Sommers che si intitola The Vampire in Europe (1929). Anche il racconto presentato da Valentine Dyall in Unsolved Mysteries del 1954 (grazie alle ricerche di Larry Forrester e Peter Robinson) si basa sui resoconti del processo, pur ammettendo trattarsi di informazioni «sospettosamente scarne». Il resoconto presenta una a dir poco irritante mancanza di date, riferimenti e persino nomi, tuttavia in linea generale è sufficientemente chiaro. Ecco la storia. Fra i coniugi Arthur e Joan Norkot si è venuta a creare una tensione altissima: lui la sospetta di infedeltà e tradimento. Forse il vero problema per la coppia è il sovraffollamento del misero alloggio in cui vivono. Due stanzette in cui sono costretti a campare duramente assieme con un figlio, la madre di Arthur, Mary Norkot, la sorella di lui col marito, Agnes e John Okeman. Una mattina Joan viene trovata cadavere nel letto con la gola tagliata. A fianco sta il bimbo, illeso. Sul pavimento un coltellaccio da cucina coperto di sangue. Stando alla testimonianza dei parenti, quella notte il marito non l'aveva trascorsa in casa. Era andato a rendere visita a degli amici nei pressi di Tewkesbury. I parenti che vivono con John escludono in modo tassativo che l'uomo possa essere entrato di soppiatto nella casa per perpetrare il delitto, dal momento che per arrivare alla camera da letto era d'obbligo transitare nella stanza dove dormiva tutto il resto della famiglia. Nel corso dell'inchiesta che segue, viene riconosciuto ampiamente il difficile rapporto di coppia e si ricorda che proprio quella sera Joan «era alquanto alterata» prima di andare a dormire. Ma quando gli inquirenti avevano trovato il coltello avevano notato non solo che stava a una certa distanza dal letto, ma anche che il manico era rivolto verso la porta. Ammesso, ma non concesso, che Joan si fosse uccisa, come avrebbe fatto, dopo essersi sgozzata, a gettare in terra il coltello orientandolo col manico verso la porta? Malgrado questa e molte altre incongruenze, il verdetto parla di “felo-de-se”, vale a dire di suicido, e la povera donna viene frettolosamente sepolta, probabilmente in terra sconsacrata. Ma la prova del coltello non convince nessuno e si incomincia a mormorare sul caso (Mainard parla semplicemente di «osservazioni in merito a diverse circostanze»). Le voci aumentano fino a che il coroner è costretto a far riesumare il cadavere per riaprire le indagini. L'esame del corpo evidenzia che l'osso del collo è spezzato. È evidente che questo la donna non avrebbe potuto autoinfliggerselo. Qualcuno scopre poi che la quantità di sangue trovata sul pavimento è superiore a quella trovata sul letto, particolare a dir poco singolare, se, come era stato detto, Joan si era sgozzata sul letto. Per di più l'alibi del marito prende a vacillare e poi crolla, quando, interrogati a fondo gli amici, questi negano di averlo incontrato quel giorno, affermando anzi di non vederlo da più di tre anni. Malgrado altre prove si accumulino a condanna dei familiari, ritenuti conniventi, il tribunale non ritiene si tratti di fatti decisivi e scagiona tutti. Ma il giudice Harvey, dopo essersi ripreso dalla sorpresa del verdetto, decide che un delitto così assurdo e clamorosamente tale non può restare impunito e decide di ricorrere contro la sentenza. L'iniziativa viene presa per il buon nome e la difesa dei diritti del piccolo figlio di Joan. Il dibattito riprende al cospetto del giudice Harvey. Ed è in questo frangente che a un certo momento viene fuori la testimonianza anonima di un prete - il sacerdote della parrocchia - che sostiene che il cadavere è in grado di indicare il suo assassino. Davanti all’incredulità del giudice che chiede al prete se egli abbia per davvero assistito a una simile cosa, questi gli risponde dicendo che «si augurava che tutti potessero constatarlo». Ciò che accadde è molto vicino a questa dinamica dei fatti. A trenta giorni dalla sepoltura, il corpo di Joan era stato esumato. La tomba aperta, la bara scoperchiata deposta accanto, probabilmente su un cavalletto. Non doveva essere un bello spettacolo, perché la giugulare tranciata aveva svuotato l'intero corpo del sangue. Ad ogni buon conto, seguendo un'antica forma di superstizione, a ogni accusato (i familiari) era stato imposto di toccare il cadavere. Stando alla superstizione, quando un morto viene toccato dall'assassino la ferita riprende a sanguinare. Davanti al cadavere la signora Okeman era caduta in ginocchio, pregando Dio di dimostrare la sua innocenza. Poi, come gli altri, aveva toccato la morta. Il prete depose il seguente resoconto: “mano a mano che venivano chiamati, i sospettati dovevano toccare la fronte del cadavere, che era ormai diventata viola e scura come carne in putrefazione....ad un tratto però la fronte aveva incominciato a trasudare, tanto da concretizzarsi in lacrime scendendo sul viso; nel frattempo la fronte cambiava colore, tornando ad essere rosea, come quando la donna era viva. Poi il cadavere aveva spalancato un occhio per richiuderlo subito dopo, e questo apri e chiudi si era ripetuto parecchie volte. Poi si era sfilato la vera matrimoniale tre volte e tre volte se l'era rimessa, tanto che l'anulare si era messo a sanguinare e alcune gocce erano cadute sull'erba”. Era su questa incredibile testimonianza che il giudice aveva espresso dubbi. Allora il prete si era appellato al fratello, anch'egli sacerdote di una vicina parrocchia, pure presente ai fatti. Il secondo prete aveva confermato ogni cosa: che la fronte aveva incominciato a sudare, che il colore era cambiato e da livido era tornato roseo come quello della carne fresca e viva, che l'occhio si era aperto e che il dito si era mosso e rimosso per tre volte. (Detto per inciso, questo fatto era stato interpretato come la segnalazione che solo tre dei quattro indagati erano colpevoli). Ciò che ne era conseguito non era stata che la ripetizione di quello che già era stato detto al primo processo. Il corpo senza vita della povera Joan era stato ritrovato sul letto «in posizione composta», le coperte in ordine, il figlioletto disteso accanto. Già solo questi particolari attestavano un delitto, perchè era letteralmente impossibile che la donna si fosse tagliata la gola in qualche altra parte della camera - il pavimento era tutto imbrattato di sangue - e si fosse poi gettata sul letto. Oltre tutto, il collo spezzato indicava che la poveretta era stata aggredita con un certo impeto. Se è possibile che una persona si spezzi il collo da sola, è del tutto impossibile che subito dopo si tagli la gola. Lo stesso per il contrario, ossia che si sgozzi e dopo si spezzi il collo. Dagli atti processuali pareva si fosse verificata la seguente dinamica dei fatti. Quella sera i due coniugi avevano litigato violentemente e alla fine il marito aveva preso la moglie per la gola. La donna era caduta battendo violentemente la testa contro qualcosa, rompendosi l’osso del collo. Preso dal panico - perché la morte era stata accidentale - Arthur Norkot si era consigliato sul da farsi con la madre, la sorella e il marito di lei, John Okeman, che aveva voluto mantenersi estraneo alla vicenda. Per evitare sospetti a proposito del collo spezzato, avevano pensato di tagliarle la gola con un coltello. Ma erano talmente spaventati che avevano eseguito l'operazione sul pavimento invece che sul letto. Poi avevano sistemato Joan alla bell'e meglio col figlioletto accanto, il quale, nel frattempo, aveva continuato a dormire. Qualcuno di loro aveva persino lasciato delle evidenti impronte sulla sua mano. (Il giudice Hyde, che era stato chiamato a decidere sul caso, era così inesperto da non essere neppure in grado di distinguere se l'impronta fosse di una mano destra o sinistra). Poi, prima di lasciare la stanza, qualcuno aveva gettato il coltellaccio - che probabilmente stava nei pressi della porta - nella stanza, che si era così venuto a trovare vicino al letto. Da ultimo, dopo essersi pulito le mani dal sangue, Arthur Norkot se n'era andato, dando istruzione alla madre di "trovare" il corpo la mattina dopo e raccontare che il figlio aveva trascorso la notte da amici in quel di Tewkesbury. Appare più che evidente che il tentativo di far passare la morte di Joan come un suicidio è talmente palese che anche un investigatore ottuso avrebbe potuto e dovuto accorgersene. Ma nel 1629 l'investigazione scientifica era una disciplina pressoché sconosciuta. Sarebbero occorsi altri due secoli prima che in Inghilterra nascesse un corpo di polizia riconosciuto. Quando qualcuno era sospettato di omicidio, il metodo standard di investigazione era la tortura: o confessava o moriva. All'epoca nessuno ritenne che le prove a carico della famiglia Norkot fossero sufficienti. Ma questo ci porta all'interrogativo più inquietante. È vero che il corpo senza vita della donna si era come ridestato per accusare i suoi assassini? I lettori interessati agli argomenti dedicati alla possessione da parte degli spiriti dei morti, non potranno fare a meno di ammettere la cosa come possibile. In alcuni casi, sembra persino che lo spirito che "possiede" il vivente sia anche in grado di innescare altri fenomeni, come quello dello spostamento di oggetti (poltergeist). In un caso a dir poco straordinario, la vittima di un delitto sembrerebbe essere addirittura tornata ad accusare il suo carnefice. Dunque l'ipotesi che il cadavere di Joan Norkot abbia dato alcuni segni di vita anche molti giorni dopo la morte, potrebbe non essere completamente assurda, anche se è doveroso segnalare che nell'ampia e secolare storia del paranormale si tratterrebbe dell'unico caso. Nel suo libro “Unsolved Mysteries”, Valentine Dyall suggerisce un'ipotesi che sembra credibile: che i due medici che sovrintesero al caso abbiano voluto provocare una forte scossa ai presenti e ai giudicanti al fine di ottenere una confessione aperta da parte degli autori del delitto. Vediamo come. Nella mano sinistra della donna avevano nascosto una piccola vescica contenente del liquido rosso scuro, la cui apertura poteva essere manovrata tramite un sottilissimo filo, che era stato fatto passare nell'anulare, il dito della fede matrimoniale. Un altro filo invisibile era stato collegato alle ciglia di un occhio. Ambedue le estremità dei fili erano poi state fissate alle due maniglie che servivano per trasportare la bara. Quando si era svolto il "test" della verità, per cui gli imputati avevano dovuto toccare il cadavere, i due medici (sistematisi ai lati del feretro) avevano agito sui fili. Ecco che così l'occhio si era aperto e chiuso e il sangue aveva ripreso a sgorgare in tal misura da scendere lungo un fianco e addirittura fuoriuscire da un interstizio della cassa costruita in modo rozzo e grossolano. La rinnovata fuoriuscita del sangue indicava, dunque, che la donna era stata assassinata da uno di coloro che l'avevano appena toccata. Nel rapporto si legge che qualcuno, incredulo, si era preso la briga di osservare da vicino il sangue riscontrando che si trattava di sangue autentico. Un accorgimento logico, ovviamente, cui avevano provveduto i due medici autori della messa in scena. Sebbene l'ipotesi della Dyall abbia un senso, restano lo stesso molti dubbi. Per esempio, i fili, per quanto sottili avrebbero potuto essere notati. E che dire della testimonianza dei due preti che sostengono che la carne della fronte aveva ripreso il suo colorito roseo e vitale? Pura immaginazione? Possibile, salvo il fatto che la trasudazione della fronte viene indicata come il primo degli sconcertanti fenomeni manifestatisi sul cadavere, prima ancora dei movimenti dell'occhio e del dito. D'altro canto, volendo sostenere l'ipotesi, diciamo così, "immaginifica" sarebbe stato più logico che i segni vitali rivelatori partissero prima dal volto per poi trasmettersi al resto del corpo. Lasciate da parte le spiegazioni possibili, sta di fatto che la testimonianza dei due preti risultò decisiva. Anthur Norkot, la madre e la sorella vennero condannati a morte. Per motivazioni che Sir John Mainard (che all'epoca del processo aveva il grado di sergente) non spiega, la giuria stabilì di non condannare il cognato di Norkot, John Okeman. All'atto della pronuncia della sentenza, tutti e tre i condannati avevano gridato: «No, no, io non l'ho fatto». Poi Agnes Okeman era stata rilasciata perché incinta, mentre Mary e Arthur Norkot erano stati impiccati. Alla fine Mainard conclude dicendo: «Ho indagato per sapere se nel momento dell'esecuzione capitale abbiano rivelato qualcos'altro. Da quello che mi è stato detto, non l'hanno fatto».
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:15 pm

I CORPI DECAPITATI DI CLEVELAND

L'equivalente americano della lunga e macabra serie di assassini compiuti dal serial killer inglese a tutti noto come Jack lo squartatore, può considerarsi il caso dei corpi decapitati di Cleveland, anche se sotto alcuni aspetti questi delitti hanno persino qualcosa di ancor più terrificante che non quelli dell'epoca vittoriana. In un tiepido pomeriggio settembrino del 1935 due ragazzi usciti dalla scuola, sulla via del rientro a casa, stanno lentamente percorrendo una polverosa stradina nel cuore della città di Cleveland. Giunti ad una discesa erbosa si sfidano a chi arriva prima in fondo a quei venti metri di divertente e libera galoppata in discesa. Vince Wagner, un sedicenne, che alla fine della corsa si blocca come incuriosito: gli pare di aver scorto, poco distante fra i cespugli, una macchia bianca. I due amici si avvicinano e scoprono il corpo nudo di un uomo a cui è stata staccata la testa.
La polizia subito sopraggiunta trova il cadavere di un bianco di giovane età, con addosso soltanto un paio di calzini corti. È privo di testa e anche i genitali gli sono stati strappati. Giace sulla schiena, le gambe distese e le braccia allineate al busto, quasi fosse stato preparato per il funerale. A meno di dieci metri ecco saltar fuori un altro cadavere. Questa volta l'uomo è anziano, ma giace nella stessa postura. Pure lui ha subito il terribile supplizio del killer: è privo di testa e non ha i genitali. Alcune ciocche di capelli rinvenute nei pressi portano alla scoperta dei resti di una testa seppellita nella terra. La seconda non tarda a venir fuori, da una buca scavata poco distante. Anche i genitali vengono ritrovati nei dintorni, come fossero stati scagliati via alla rinfusa. Una curiosità salta immediatamente all'occhio: non ci sono tracce di sangue ne in terra né sui corpi straziati, che sono tutti e due perfettamente lindi. Sembra che i poveretti siano stati uccisi altrove e poi scaricati in quel pendio, dopo aver aspettato che smettessero di sanguinare e averli ripuliti con una certa cura. Gli esami di laboratorio evidenziano altre singolarità ancora. Il corpo del vecchio era in fase di avanzata decomposizione e la pelle appariva come scolorita. I patologi scoprono che tutto questo è dovuto a una sostanza chimica forse usata dal killer per cercare di conservare il cadavere. Il più giovane è stato ucciso tre giorni prima. Dalle impronte digitali la scientifica risale al nome della vittima. Si tratta di un ventottenne Edward A., non nuovo alla polizia per essere solito viaggiare armato e che vantava la reputazione di leone incallito. Ma la cosa più singolare è scoprire che era morto a causa della decapitazione, i profondi segni che gli solcano i polsi indicano che, pur essendo legato, aveva lottato con furore e accanimento; ma non era bastato, perchè il killer lo aveva decapitato con un coltello. L'abilità e la chirurgica perfezione con cui l'operazione era stata condotta, fanno subito pensare a un esperto macellaio, per esempio. Identificare l'uomo più anziano risulta impresa impossibile. Tuttavia avendo identificato Edward A. fa ben sperare per potere risalire all'assassino. Il giovane aveva trascorso l'intera notte a giocare d'azzardo e a bere, oltre ad avere provveduto a una delle sue più redditizie attività, quella di protettore. Ricerche più approfondite portano a scoprire che era anche omosessuale e aveva un amante, insomma, traccia dopo traccia, la polizia entra nell'ordine di idee di trovarsi di fronte a un caso risolvibile in tempi brevi. Viene fuori che il marito di una donna con la quale Edward A. aveva avuto una tresca, aveva giurato che l'avrebbe ucciso; ma, alla prova dei fatti, l'uomo riesce a discolparsi. Poi spuntano molti altri loschi personaggi che avevano mille e un motivo poi sbarazzarsi di Edward A. Ma non si arriva a niente di concreto e, col trascorrere del tempo, le investigazioni sfociano sempre in un vicolo cieco, anche quando il numero delle vittime salirà addirittura a dieci, tanto da far etichettare il caso dai mass media come quello del "macellaio pazzo di Kingsbury Run”'.
Quattro mesi dopo, in una fredda domenica di gennaio, il continuo, fastidioso abbaiare di un cane spinge una donna che abita a poca distanza da Kingsbury Run - ad andare finalmente a dare un'occhiata. Giunta sul posto trova il povero cane incatenato, tutto teso a cercare di raggiungere un cesto appoggiato al muro di una fabbrica. La donna immagina che dentro ci siano frattaglie, ma quando un vicino che passa da lì si accosta al cesto inorridisce, scoprendo che in realtà è pieno di pezzi di un cadavere umano. In un altro cesto c'è il torso nudo senza testa di una donna. La testa non si trova, così come il braccio destro e la parte terminale delle gambe. Un massacro orribile. Le impronte digitali permettono di risalire all'identità della vittima, una donna di 41 anni, certa, piccola, grassoccia, ben nota in tutti i bar della zona, per la sua attività di prostituzione.
Anche in questo caso, gli indizi e i sospetti sono addirittura ridondanti, eppure, alla fine, non conducono a niente di concreto. Due settimane dopo il braccio sinistro e le estremità delle gambe recise vengono rintracciate in un terreno abbandonato. In quanto alla testa non venne mai ritrovata.
L'assassinio suscita una sgradevole questione. Se i primi due delitti hanno orientato la polizia su indagini nel campo dei sadici omosessuali, questo corregge decisamente il tiro, inducendo a pensare soltanto più a un sadico. Egli uccideva uomini, donne e bambini in modo indiscriminato e non era omosessuale neppure alla lontana. Intanto, agli investigatori viene in mente che giusto un anno prima sulle rive del lago Eric era già stato trovato il torso nudo senza testa di una donna sconosciuta. A questo punto l'idea degli investigatori cambia: potrebbe trattarsi di uno psicopatico ossessionato dalla morbosità di sezionare corpi umani, con lo stesso gusto con cui un monellaccio si diverte a staccare le ali a una mosca. In città la paura cresce, tuttavia, malgrado i truci delitti, gli abitanti di Cleveland dalla loro hanno un asso da giocare. Da qualche tempo come responsabile della sicurezza pubblica c'è Eliot Ness, un commissario dal grande fiuto. Ness e la sua squadra di "intoccabili" avevano già fatto piazza pulita del racket del proibizionismo a Chicago, ora nel 1934 era la volta di Cleveland e delle sue bande di gangster. Con lui al comando delle operazioni l'opinione pubblica è tranquilla; da lì a poco sarà il misterioso cacciatore di teste di Kingsbury Run a doversi preoccupare di non essere cacciato. Ma a Ness non occorre molto per accorgersi che dare la caccia a un maniaco è cosa ben diversa che affrontare dei banditi professionisti. L'assassino colpisce a caso e, a meno che non sia così imprudente da lasciarsi dietro la firma di un'impronta digitale, l'unico modo per pizzicarlo sta nel coglierlo in flagrante. Ma Ness avverte anche un'altra, brutta sensazione: l'implacabile "macellaio" sembra rendersi ben conto che ogni sua azione gode del grande vantaggio di essere sempre impostata con largo anticipo rispetto alle mosse della polizia. Prima di colpire ancora aspetta l'estate. Poi, per rinfrescare la memoria agli inquirenti, fa in modo che trovino la testa mozzata di un uomo di giovane età avvolta in un paio di pantaloni abbandonati sotto un cavalcavia della solita Kingsbury Run. Anche questa volta sono due ragazzi a fare la macabra scoperta. È il 22 giugno del 1936. Il corpo viene ritrovato a qualche centinaio di metri di distanza e si capisce che il poveretto è stato ammazzato proprio lì. Di nuovo le analisi legali dimostrano che la morte è stata provocata dalla decapitazione, anche se non si riesce a comprendere come il killer sia riuscito a tener ferma la vittima mentre la stava trucidando. L'uomo, un giovane di 24 unni, ha il corpo tutto tatuato. Le sue impronte digitali non risultano registrale negli archivi della polizia. Passano tre settimane e un escursionista si imbatte, nel fondo di una forra, in un altro corpo decapitato, ma questa volta la lesta è a pochi passi. L'avanzato stato di decomposizione del corpo indica che questo assassinio era stato consumato ancora prima dell’ ultimo caso venuto alla luce. Sempre in quell'anno 1936, la successiva vittima del ''macellaio" è un uomo sulla trentina, trovato lungo la Kingsbury Run. Il corpo è stato segato in due ed evirato. Un cappello rinvenuto accanto consente di risalire almeno a una parziale identificazione: una casalinga, infatti, lo riconosce come appartenuto a un giovane barbone. Nelle vicinanze c'era un rifugio dove un popolo di sbandati si adattava a trascorrere la notte. Evidentemente, il killer aveva scelto la sua ultima vittima proprio in quel contesto. Le indagini si bloccano. Nel frattempo Cleveland si appresta a ospitare una reinvenzione repubblicana e, come se non bastasse, una grande Esposizione Internazionale. Il clima è caldo e la polizia stringe decisamente i tempi, pressata com'è dalle critiche della stampa. La storia del serial killer fa il giro del mondo e regimi autoritari come quello nazista tedesco e fascista italiano additano questo caso come il più clamoroso esempio di decadenza dei costumi, unico frutto della sfrenata democrazia. Poi, finalmente, la bagarre si quieta. Passa qualche mese senza novità e i più ladini di Cleveland incominciano a convincersi che la brutta storia del "macellaio" è finalmente chiusa. Ma è una mera illusione. Nel febbraio del I937 ancora sulle rive del lago Eric, viene ritrovato il corpo orrendamente smembrato di una giovane donna, che non sarà mai identificata. In seguito salti fuori un’altro cadavere - l'ottavo - che si riesce a identificare grazie alle protesi dentali. È quello di una signora, uccisa certamente l'anno prima, dal momento che non ne resta che lo scheletro. La vittima numero nove è un maschio, completamente massacrato. Quando le acque del fiume dove era stato gettato lo riconducono a riva solo la testa manca all'appello. E non verrà mai più ritrovata. Questa volta il killer è andato pesante con la deturpazione del corpo. La tecnica non può non richiamare alla mente quella di Jack lo squartatore. Identificare la persona è impossibile. Qualcuno dice di aver visto qualche giorno prima due uomini in gita sul fiume che avrebbero potuto essere l'assassino e la sua vittima, ma si tratta solo di illazioni senza seguito. Dopo questa ulteriore sfuriata, il maniaco sembra prendersi una tregua di nove mesi, quando un giorno dal fiume si ripesca la parte inferiore di una gamba. Le ricerche ripartono febbrili. Dopo tre settimane i sommozzatori tirano su dal fondo del fiume due valigie piene di membra umane. La polizia scientifica le identifica come appartenenti al corpo di una donna di non più di 25 anni. Anche questa giovane non sarà mai identificata. Ma il killer sta per colpire altre due volte. A circa un anno dall'ultima scoperta, nell'agosto del 1938 in una discarica sulla sponda del lago viene ritrovato il busto maciullato e senza testa di una donna. Ricerche nei pressi portano alla scoperta di un altro macabro fagotto. Dentro a una vecchia coperta vengono ritrovati i resti, assolutamente irriconoscibili, della dodicesima vittima. L'unica cosa che si riesce a scoprire è la provenienza della coperta, che era stata acquistata in una bottega di cianfrusaglie usate. Un elemento poteva dirsi certo: l'assassino sembrava selezionare le sue vittime in un mondo ben preciso, quello dei diseredati e dei vagabondi senza tetto. Ness decise allora di mettere in atto l'unico piano che sul momento la sua immaginazione gli suggeriva. Due giorni dopo l'annuncio dell'ultimo ritrovamento, aveva fatto rastrellare tutta la bidonville cresciuta attorno a Kingsbury Run e messo in guardina un bel po' di accattoni. Coincidenza oppure no, le uccisioni si erano fermate. Due fra i più attivi e impegnati fra gli investigatori chiamati a risolvere il caso - dedicarono gran parte delle indagini a cercare di scoprire quello che loro chiamavano il «laboratorio del macellaio». Ci fu un momento in cui credettero di avercela fatta. Quando era stato scoperto il corpo di Edward A., accanto gli agenti avevano trovato una negativa nella quale si scorgeva il poveretto disteso su un letto all'interno di una camera. Pubblicata l'immagine su tutti i quotidiani, con l'invito alta popolazione di collaborare, alla polizia si era presentato un piccolo lestofante, che aveva riconosciuto la stanza come la camera da letto di un omosessuale di mezza età che viveva nella casa con due sorelle zitelle. Nel corso delle investigazioni, erano state riscontrate tracce di sangue sul pavimento della stanza ed era stato trovato un coltellaccio da cucina nascosto in un baule. Ma le analisi dimostrarono che il sangue apparteneva al padrone di casa, afflitto da continue emorragie nasali, e che il coltello non riportava la minima traccia di sangue umano. Quando poi venne rintracciata una vittima del maniaco mentre il sospetto omosessuale stava in carcere con l'accusa di sodomia, era emerso che non avrebbe potuto essere lui il serial killer, il "macellaio" senza pietà. Poi si era scoperta l'esistenza di un ubriacone che andava in giro con grossi coltelli minacciando di fare a pezzi il prossimo. Quando, in aggiunta, si era saputo che D. aveva convissuto per qualche tempo con lui, gli investigatori avevano pensato di aver finalmente imboccato la pista giusta. D. era stato immediatamente fermato e arrestato. Negli interstizi delle doghe di legno del pavimento del bagno vennero trovate tracce di sangue rinsecchito e quando sui coltelli che l'uomo era solito portarsi appresso venne confermata la presenza di gocce di sangue raggrumate, le prove per l'incriminazione si erano fatte pressoché schiaccianti. E quando ancora, dopo un pressante interrogatorio, D., un uomo trasandato e sporco, dagli occhi cisposi, aveva confessato un omicidio, la stampa aveva strombazzato l'evento: il "macellaio" era stato finalmente catturato. Ma l'approfondimento delle indagini menò un fiero colpo a questo trionfalismo. Il "sangue" rinvenuto nella camera da letto risultò non essere affatto sangue, mentre la confessione di D. si rivelò piena di omissioni in merito ai particolari dell'ipotetico assassinio. Qualche mese dopo, quando nell'agosto del 1939 D. era stato trovato impiccato all'inferriata della sua cella, l'autopsia rivelò un altro fatto grave: il poveraccio era pieno di ecchimosi e aveva due costole rotte, segno che le confessioni che rilasciava gli erano state estorte con la violenza. Le vittime dell'agosto del 1938 sono le ultime del "macellaio" nella zona di Cleveland. Infatti nel 1940 a Pittsburgh, dentro vecchi garage abbandonati, vengono trovati i resti di tre corpi decapitati. Alcuni componenti della squadra investigativa di Ness sono subito chiamati a operare, ma anche questa volta i pochi indizi non consentono di investigare con profitto. E il caso resta insoluto. Si parla nuovamente di "macellaio pazzo" nel 1947, quando a farne le spese è un'attricetta rampante, Elizabeth Short - la settima vittima del serial killer - che viene trovata orribilmente fatta a pezzi. Ma immaginare che il "macellaio" abbia potuto andare avanti per così tanto tempo in questo suo terribile "mestiere" è ipotesi che non regge, considerato che questo genere di assassini prima o poi crolla e si suicida. Una catena di delitti spaventosa, quella del misterioso "macellaio". Eppure, viene da domandarsi, come mai questi eventi non ebbero mai la risonanza di quelli perpetrati da Jack lo squartatore? Il motivo sta nel fatto che nella metà degli anni Trenta, Cleveland era una città di gran lunga più violenta della Londra vittoriana degli anni Ottanta del precedente secolo ed è quindi comprensibile come la storia del "macellaio" americano abbia sconvolto meno l'opinione pubblica che non la sadica strage di prostitute perpetrata dallo squartatore. Dieci anni prima dei fatti di Cleveland, la regione era già stata sconvolta da un altro massacro. In una discarica nei pressi di New Castle, un centro a non più di 350 km a sudest di Cleveland, erano stati trovati i corpi decapitati di ben sei donne. Le vittime non furono mai identificate e la polizia arrivò alla conclusione che le donne erano state giustiziate nel corso di un regolamento di conti fra bande di gangster rivali in lotta per il racket della prostituzione. La discarica, ovviamente, era il luogo ideale per eliminare i corpi. Uno dei protagonisti di questa incredibile vicenda del "macellaio pazzo", il commissario Ness - morto nel 1957 all'età di 54 anni - trascorse gli ultimi dieci anni di vita in completa miseria. Nel 1941 per uno scandalo scoppiato a seguito di un incidente mortale provocato da un pirata della strada, era stato costretto a rassegnare le dimissioni come responsabile della sicurezza cittadina. Nel 1947 era stato sonoramente sconfitto alle elezioni a sindaco di Cleveland e da quel momento la sua vita era cambiata, costringendo a rimediare qua e là i lavori più umili e improvvisati. «Era uscito di senno», ebbe a testimoniare un collega che lo conosceva bene. Finché nel 1953, dopo cinque anni di anonimato e dura povertà, il suo nome era stato coinvolto nel caso di una cartiera sul filo della bancarotta. Ma era stato proprio tramite un amico della cartiera che Ness era entrato in contatto un giornalista, al quale aveva incominciato a raccontare la sua storia di poliziotto e di come aveva fatto a sgominare le bande criminali al tempo del proibizionismo. Fra le tante cose, Ness gli aveva anche confessato che a un certo punto era riuscito a scoprire l'identità del "macellaio” di Cleveland e che aveva fatto in modo di allontanarlo dalla città. Questi erano i fatti. La deduzione suggeriva che il killer fosse un uomo che poteva disporre in piena libertà di una casa dove poter con agio sezionare i cadaveri delle sue vittime e di una macchina con la quale trasportare i macabri carichi. Dunque non poteva trattarsi di un reietto, né di un barbone. La perizia con cui i corpi venivano mutilati lasciava intendere una qualche conoscenza medica, forse persino qualcosa di più. Il fatto poi che alcune fra le vittime avessero una corporatura massiccia, faceva ritenere che anche l'assassino non doveva essere persona di piccola corporatura, osservazione, fra l'altro, corroborata da un calco di impronta di scarpa numero 44 attribuibile al maniaco rintracciata presso il corpo di una delle vittime. Nel gruppo che lavorava con lui alle indagini, Ness aveva assegnato le investigazioni più delicate, quelle da condurre nell'alta società cittadina, a tre agenti fidati: Virginia Allen, Barney Davis e Jim Manski. E proprio da Virginia - una donna elegante e sofisticata a contatto con gli ambienti più snob di Cleveland - Ness aveva avuto la segnalazione riguardante un personaggio che avrebbe potuto benissimo candidarsi come primo fra i sospetti. L'uomo, che Ness chiamava "Gaylord Sundheim" - era dotato di un fisico notevole, proveniva da una famiglia benestante e si portava dietro una storia di problemi psichiatrici alquanto intricata. Aveva seguito studi di medicina. Quando i tre agenti - definiti gli "intoccabili" - si erano presentati alla porta della sua villa per interrogarlo, l'uomo, volgendosi verso Virginia, aveva sarcasticamente sorriso sbattendole la porta in faccia. Allora si era mosso Ness, che lo aveva invitato a pranzo, in un modo che non contemplava repliche. L'uomo, pur lamentandosi, era stato costretto ad accettare. Davanti a larvate accuse, non aveva reagito, né ammettendo né negando di essere il killer. Il passo successivo era stato quello di sottoporlo alla macchina della verità. Un ago scrivente aveva registrato le reazioni emotive nascoste nelle risposte di "Sundheim", convincendo sempre più Ness che si trattava proprio del maniaco. Quando, alla fine, il commissario lo aveva decisamente attaccato, incolpandolo di essere l'artefice della serie di massacri, con estrema naturalezza e calma aveva semplicemente risposto: «Provatelo». Dopo breve tempo, l'uomo si era fatto volontariamente rinchiudere in un manicomio. Così facendo si era reso completamente "inattaccabile", perché quand'anche Ness avesse proseguito con le accuse, lui se la sarebbe comunque cavata invocando l'infermità mentale. Ness e Fraley decisero di scrivere un libro. Nel 1957 uscì The Untouchables, un successo strepitoso, dal quale venne anche tratta una serie televisiva. Ma Ness non fece in tempo a gustarsi questa soddisfazione, perché il 16 maggio dello stesso anno veniva stroncato da un infarto. Il fortunato libro era stato pubblicato solo da qualche mese.
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:15 pm

I GEMELLI IDENTICI


Una mente sola per due corpi
All'età di sei anni Jim Lewis seppe che in giro per il mondo aveva un fratello gemello identico a lui. La mamma, una ragazza madre, li aveva dati in adozione subito dopo il parto, nell'agosto del 1939. Jim era stato adottato da una coppia di nome Lewis a Lima, nell'Ohio; il fratello, dalla famiglia Springer di Dayton, sempre nell'Ohio. Singolarmente, tutti e due erano stati chiamati Jim dai genitori adottivi. Nel 1979, all'età di trentanove anni, Jim aveva deciso di mettersi sulle tracce del fratello gemello. Il tribunale dei minori che si era occupato del caso aveva collaborato in modo decisivo e così dopo sole sei
settimane Jim Lewis bussava alla porta di casa di Jim Springer a Dayton.
Nel momento in cui si erano stretti la mano si erano sentiti così uniti e vicini che sembrava non fossero mai stati divisi. E quando presero a raccontarsi le loro vite venne fuori una serie di coincidenze a dir poco strabilianti. Tanto per incominciare, avevano gli stessi problemi di salute. Ambedue si mangiavano le unghie con accanimento e soffrivano di insonnia. Tutti e due per un certo periodo a diciotto anni avevano incominciato a soffrire di emicrania, fastidio che li aveva lasciati nello stesso periodo. Ambedue avevano problemi di cuore e di emorroidi. Avevano lo stesso peso, ma avevano messo su qualche chilo di troppo nello stesso anno, per poi riuscire a smaltirli nello stesso periodo. Tutto questo sembra indicare che la programmazione genetica è qualcosa di assai più preciso e complicato di quanto si immagini. Ma la sommatoria delle coincidenze andava ben oltre gli aspetti genetici. Tutti e due si erano sposati con donne di nome Linda, erano separati, e risposati in seconde nozze con compagne di nome Betty. Avevano chiamato i figli James Allan e avevano un cane di nome Toy. Ambedue avevano avuto esperienze lavorative come assistente dello sceriffo, benzinaio e addetto in un locale McDonald. Tutti e due trascorrevano le vacanze estive sulla stessa spiaggia della Florida; fumavano la stessa marca di sigarette e avevano attrezzato la cantina per eseguire lavori di riparazione e costruzione di piccoli mobili... I due erano affascinati l'uno dall'altro, non soltanto a causa di tutte quelle incredibili identità, ma anche perché l'affinità si sviluppava pure sul piano mentale. Quando uno iniziava a dire qualcosa l'altro finiva la frase con le stesse parole che avrebbe usato il primo. Il loro ritrovarsi divenne oggetto di grande interesse presso i mass media e i due fratelli erano comparsi come ospiti d'onore a molti popolari show. Uno psicologo del Minnesota, di nome Tom Bouchard, venne così coinvolto dalla loro storia da riuscire a persuadere l'università a stanziare fondi per una ricerca scientifica sul mistero dei fratelli gemelli. La prima operazione era stata quella di mettersi alla caccia di coppie di gemelli che il destino aveva separato in tenera età e che da allora non si erano mai più incontrati. Nel primo anno di ricerca Bouchard e il suo team riuscirono a scovare trentaquattro coppie di gemelli. E anche in questi casi vennero fuori le coincidenze più incredibili, tali da non poter essere in alcun modo spiegate a livello scientifico. Due gemelle inglesi, incontratesi quando ormai erano donne sulla trentina, si erano sposate nello stesso giorno a un'ora di distanza l'una dall'altra. Altre due, avevano tenuto un diario per un solo anno, il 1962, e lo avevano chiuso nello stesso giorno. Tutte e due da piccole suonavano il piano, ma avevano smesso nello stesso momento; andavano ambedue pazze per la bigiotteria. Al pari di questa, tutte le altre ricerche successive sui gemelli separati hanno sempre rivelato coincidenze impressionanti. I gemelli identici, come si sa, sono quelli che nascono dalla scissione dello stesso ovulo. I loro geni sono pertanto identici, il che significa possedere occhi, orecchie, labbra e persino impronte digitali perfettamente eguali. Il termine scientifico per indicarli è monozigoti, o MZ per brevità; mentre quelli nati da due ovuli differenti sono detti dizigoti, o DZ. L'alto grado di complementarietà e identificazione si riscontra soprattutto presso il primo gruppo, dove le somiglianze sono a volte indistinguibili. Per esempio, due coppie formate da gemelli divisi avevano figli maschi che si chiamavano rispettivamente Richard Andrew e Andrew Richard. Ambedue usavano lo stesso profumo, lasciavano la porta della camera da letto socchiusa, collezionavano giocattoli di pezza e avevano gatti che si chiamavano Tigre. Il test di intelligenza rivelò valori assolutamente identici. Barbara Herbert e Daphne Doodship erano le sorelle gemelle di una ragazza madre di origine finlandese. Alla nascita erano state adottate da due diverse famiglie. Le due madri adottive erano morte in modo prematuro quando loro erano ancora piccole. Tutte e due all'età di quindici anni erano cadute dalle scale e si erano rotte un'anca, avevano incontrato l'uomo che sarebbe diventato il loro marito a una festa da ballo quando avevano diciassette anni e si erano sposate a venti. Ambedue avevano avuto degli aborti e per tutte e due la sequenza naturale dei figli sarebbe stata di due maschi seguiti da una femmina. Il quadro sanitario era identico. Un soffio al cuore e la tiroide un po' ingrossata. Tutte e due leggevano la stessa rivista femminile ed amavano la stessa scrittrice di romanzi rosa. La prima volta in cui si erano ritrovate si erano presentate all'appuntamento con la stessa tinta dei capelli, un colore castano chiaro con dei riflessi ramati, erano vestite con un abito color crema, una giacca di velluto scura e una sottoveste bianca.
Nel 1979 Jeanette Hamilton e Irene Read scoprirono contemporaneamente di avere una sorella gemella e contemporaneamente si misero alla ricerca l'una dell'altra. Ritrovatesi, scoprirono che tutte e due soffrivano di claustrofobia e di timor panico per l'acqua, tanto che quando erano in spiaggia erano solite sedersi voltando le spalle al mare. Ad ambedue non piaceva la montagna, soffrivano di un dolore reumatico che pativa il tempo umido nello stesso punto di una gamba; da giovani avevano guidato gruppi di scout e per un certo periodo avevano lavorato per la stessa ditta di cosmetici. Un'altra coppia di gemelli identici, questa volta di sesso maschile, studiata da Bouchard era vissuta in ambienti così diversi da non presentare neppure un punto in comune. Oscar Stohr e Jack Yufe erano nati a Trinidad nel 1933. Immediatamente i genitori si erano separati e ciascuno se n'era andato per la propria strada prendendosi un bambino. Oscar era approdato in Germania ed era diventato un affiliato al movimento filo nazista; mentre Jack era stato allevato con un'educazione ebreo ortodossa. Si incontrarono per la prima volta nel 1979 all'aeroporto, per scoprire che ambedue portavano un paio di occhiali dalle lenti squadrate, una canottiera blu e basette identiche. Una comparazione più dettagliata evidenziò molte altre coincidenze significative nel loro modo di vivere. Ambedue erano soliti tirare l'acqua del gabinetto prima e dopo l’uso, portavano delle fasce elasticizzate ai polsi e amavano pranzare da soli al ristorante per poter leggere il giornale indisturbati. La cadenza del loro modo di parlare era identica, anche se uno parlava solo tedesco e l'altro inglese. Avevano la stessa andatura e lo stesso modo di stare seduti; lo stesso senso dello humour: per esempio, starnutire apposta con grande fragore mentre erano in ascensore con altre persone, per ridere sotto i baffi alle diverse reazioni. Ovviamente è molto difficile, per non dire impossibile, riuscire a spiegare queste "coincidenze" senza pensare immediatamente a una qualche forma di telepatia - che è una sorta di collegamento invisibile fra i due gemelli - capace di funzionare alla perfezione anche a grande distanza. Non per niente, Jung, a cui dobbiamo l'invenzione del neologismo "'sincronicità" per significare una "coincidenza significativa'', accettava volentieri l'ipotesi telepatica, tanto è vero che nelle sue molte biografie aneddoti di questo tipo vengono fuori numerosi. Eppure anche la più potente forma di telepatia non riesce a dare ragione di come due sorelle lontane possano incontrare il rispettivo marito nello stesso giorno e in circostanze simili oppure lavorino a chilometri di distanza per la stessa casa di cosmetici. In questi casi, anche le coincidenze significative sembra debbano lasciare il passo a qualcosa di ancora più forte, come, per esempio, l'idea di "destino individuale" o ciò che il professor Joad ebbe una volta a definire come «l'impenetrabile singolarità del tempo». Ammesso che certe persone abbiano veramente la capacità di prevedere il futuro, sia in stato di veglia che di sonno, ciò significa che in qualche modo a noi ignoto tutto è già "programmato", come un film che già è stato girato. Se, dunque, la vita di un uomo è qualcosa di programmato, allora a maggior ragione quella di due fratelli gemelli identici - specie se monozigoti - potrebbe benissimo seguire tracce di coincidenze esistenziali...
Molti altri casi analoghi hanno dimostrato l'esistenza certa della telepatia. Nel 1980 due gemelle identiche si presentarono presso il tribunale di New York. Il loro comportamento era uno spettacolo straordinario, che non mancò di suscitare un grande interesse nei mass media. Facevano gli stessi gesti nello stesso istante, portavano la mano alla bocca contemporaneamente e così via. Le due sorelle Chaplin, Preda e Creta, erano venute a trovarsi in dibattimento per un motivo davvero strano: una storia che le accomunava con un certo Ken Iveson, un camionista vicino di casa che avevano perseguitato per oltre quindici anni. Le due avevano uno strano modo di mostrargli il loro amore, continuando a ingiuriarlo e a picchiarlo con le borsette. Quando la faccenda aveva superato ogni limite, l'uomo non ce l'aveva più fatta e si era rivolto al tribunale per ottenere giustizia. La pubblicità sollevata dal caso rinfocolò l'attenzione sulle ricerche sui gemelli. L'ossessione che le due donne mostravano nei confronti del signor Iveson venne riconosciuta come una erotomania, una condizione nella quale il paziente si abbandona a sentimenti di melanconia e tristezza a causa di un'affezione amorosa. Esami clinici rivelarono che le gemelle erano subnormali, anche se questa deficienza si era manifestata soltanto negli ultimi tempi. A scuola erano lente, ma non somare, e gli insegnanti le descrivevano come attente, compite e tranquille. Per il giudice che ebbe a sentenziare, tutto questo era colpa della madre adottiva. «È evidente che la madre non ha mai consentito loro di vivere come due entità separate e distinte». Si vestivano sempre allo stesso modo e non avevano amici. Nei gemelli, soprattutto in quelli monozigoti, è fortissimo l'impulso detto dell'immagine speculare". (Il che significa che se uno è mancino, l'altro è destro; se uno pettina i capelli verso sinistra, l'altro lo fa verso destra e via dicendo). Se uno dei due porta un bracciale al polso sinistro, l'altro lo porta al destro. Ad un certo punto della vita le due gemelle Chaplin avevano deciso di lasciare la casa dove erano cresciute, senza che né la madre né, tanto meno, loro stesse, sapessero perché. A trentasette anni erano ancora nubili e senza lavoro. Vivevano nella stanza di un residence. Preparavano da mangiare insieme, tenendo tutte e due il manico della pentola, vestite da casa nello stesso modo. Se, per caso, gli abiti identici che indossavano avevano però bottoni di diverso colore, li distribuivano in modo tale che anche quel particolare fosse identico per tutti e due i vestiti. Nel caso di due paia di guanti diversi, li spaiavano per indossarne alla fine un paio identico; se le saponette che il residence forniva non erano uguali, le spezzavano in due. Ad un giornalista che le intervistava dissero che loro due avevano una sola testa, perché erano una persona sola. Una sapeva dire esattamente che cosa stava passando nella mente dell'altra. Il loro "comportamento simultaneo" dimostrava l'esistenza di una forte componente telepatica. A volte litigavano. Dopo essersi colpite con le identiche borsette, si tenevano il broncio per ore. Ma, al di là di tutto questo, ciò che emergeva su ogni cosa era il fatto che vivevano escludendo il mondo esterno, rintanate in un loro universo intimo e privato dove esistevano solo loro due.
Due gemelle californiane, Grace e Virginia Kennedy, avevano messo a punto un linguaggio segreto che consentiva loro di capirsi al volo. Avevano incominciato a usarlo da piccolissime, sin da quando avevano meno di due anni. Nel J977, all'età di sette anni, un logopedista di San Diego si era interessato ai loro linguaggio segreto, scoprendo che in parte consisteva di parole completamente inventate come, per esempio, "nunukid" e "pulana" - e in parte in una mistura di parole in tedesco e inglese storpiate (i genitori provenivano infatti da questi paesi). Fra loro si chiamavano Poto e Cabenga e quando parlavano la loro lingua occulta lo facevano con straordinaria fluidità. Ovviamente la vita le costringeva a parlare l'inglese, ma non fecero mai a meno dell'idioma di loro invenzione, che rifiutarono sempre di spiegare, forse anche perché non erano in grado di farlo.
Uno dei casi più singolari in cui sono coinvolti due gemelli identici è questo: Michael e John, conosciuti molto semplicemente come "i gemelli", erano cresciuti in istituti governativi sin da quando avevano sette anni (nel 1947). Erano stati diagnosticati autistici, psicotici e gravemente ritardati. Tuttavia possedevano un'abilità eccezionale: la capacità di dire all'istante in quale giorno della settimana cadeva una determinata data, sia nel passato che nel futuro. Se, per esempio, qualcuno chiedeva loro che giorno era stato, che so, il 2 giugno del 55 d.C., in un attimo arrivava la risposta: «mercoledì» e non c'era tema che sbagliassero. Erano, secondo Sachs, come due oggetti animati esattamente identici, stessa faccia, stesso comportamento, stessa personalità, stesso cervello malato. Portavano occhiali così spessi da non lasciare quasi scorgere gli occhi. Riuscivano a ripetere a memoria, dopo averli ascoltati una sola volta, elenchi di numeri incredibili, a volte fino a trecento. Non erano però dei ''calcolatori prodigio", capaci, come a volte capita di trovare, di moltiplicare mentalmente grandi numeri fra loro o di estrarre la radice quadrata da numeri di venti cifre. Tuttavia, un giorno davanti a una scatola di fiammiferi improvvisamente rovesciatasi, ambedue simultaneamente avevano bisbigliato «111», numero che, naturalmente, si era rivelato corretto. Un giorno Sachs li aveva trovati seduti in un angolo, il viso illuminato da un sorriso di soddisfazione, intenti a trascrivere numeri di sei cifre. Sachs ne aveva annotati alcuni e una volta a casa, consultato un libro di tavole matematiche, aveva scoperto trattarsi tutti di numeri primi, vale a dire quei numeri che non possono essere divisi per nessun altro numero se non per uno e per se stessi. Ora, la cosa incredibile consiste nel fatto che per poter riconoscere un numero primo come tale, l'unico modo per farlo è provare a dividerlo per tutti i numeri inferiori che lo precedono, mettendo in atto un processo matematico lunghissimo nel caso di numeri a molte cifre. Dunque i due gemelli riuscivano a riconoscere i numeri primi senza sforzo apparente. Il giorno dopo Sachs era nuovamente andato a trovarli e si era seduto nella loro cameretta. All'improvviso aveva interrotto i loro giochi e aveva mostrato un numero primo formato da otto cifre (ovviamente preso dal testo di matematica consultato). Dopo un brevissimo istante di attenzione, i due gemelli avevano sorriso all'unisono, quindi in men che non si dica gli avevano sciorinato davanti agli occhi un numero di nove cifre. Sachs allora era passato al contrattacco con un altro da dieci. Di nuovo, lasciato trascorrere un momento di esitazione, John gliene aveva proposto uno da venti cifre, che Sachs non aveva potuto controllare, dal momento che il suo testo arrivava solo fino a numeri primi composti da dieci cifre, ma era sicuro che non si sbagliavano. Un'ora dopo erano ancora intenti a scoprire numeri primi da venti cifre. Che cosa era successo nella testa dei gemelli nei brevissimi istanti in cui erano rimasti perplessi quando Sachs aveva mostrato loro il numero primo di otto cifre? L'unica cosa che si può immaginare è che si siano sforzati di vedere, vale a dire di osservarlo sotto qualche forma, diciamo così simmetrica, in fine di verificare se avesse le proprietà del numero primo. Alcune persone dicono di visualizzare i numeri in modi singolari. Il 9 o il 16, per esempio, lo vedono come una serie di punti disposti nel primo caso a tre per tre su tre linee parallele e nel secondo a quattro per quattro su quattro linee. Forse i gemelli riuscivano a compiere questa operazione istantanea su vasta scala. Questo ci offre un importante spunto di riflessione. Sappiamo che i due emisferi del nostro cervello presiedono a funzioni differenti. Il sinistro può essere definito scientifico, il destro artistico. Il primo concerne la logica e il linguaggio, il secondo l'intuizione e l'interiorità. Il sinistro vede il mondo con un occhio ristretto, una visione che potremmo definire "del verme"; il destro allargato, nel tipo di visione che possiamo definire "dell'uccello". Nella nostra attuale civiltà è la visione del sinistro a prevalere. È qui che risiede il mio senso di identità, così che quando uso la parola "io", so per certo che a parlare è il lobo sinistro. Nella maggior parte degli uomini le potenzialità del lobo destro - come, per esempio, la capacità di distinguere le forme - è limitata, soverchiata da quella del lobo sinistro. Nel caso dei gemelli in questione è invece chiaro il contrario: l’attività della parte sinistra è limitata, mentre le potenzialità della destra si sono sviluppate in ragione di centinaia di volte rispetto al resto di noi. Una delle lezioni che sicuramente lo studio dei gemelli identici ci impartisce, sta nel riconoscere che la continua, instancabile attività del lobo sinistro tipica della nostra civiltà, ha quasi totalmente bloccato la manifestazione dei poteri, chiamiamoli "naturali" della parte destra e la capacità di osservare il mondo con l'occhio di "un uccello", ossia con un telescopio invece che col microscopio, come siamo soliti fare. E casi eccezionali come quello ricordato dei gemelli Jim - in cui le stesse cose accadute a uno sono accadute anche all'altro, pur non essendosi mai incontrati e pur trovandosi a chilometri di distanza - sembrano ricordarci l'esistenza di leggi e codici preposti a sovrintendere agli accadimenti della vita di cui né scienziati né filosofi hanno anche solo lontanamente immaginato o previsto l'esistenza.
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 9:16 pm

Uomo falena

Il primo avvistamento della creatura sarebbe avvenuto il 12 novembre 1966. Un gruppo di cinque uomini che stava preparando una tomba in un cimitero vicino a Clendenin vide "una figura umana di colore marrone e dotata di ali" sollevarsi in aria dagli alberi vicini. Questo avvistamento non venne riportato subito, ma solo alcuni giorni dopo, successivamente ad altre segnalazioni.

L'avvistamento successivo, relativo al 15 novembre, coinvolse due coppie sposate di Point Pleasant, Roger e Linda Scarberry e Steve e Mary Mallette. Secondo il racconto di una di loro (Linda Scarberry, l'unica che ne volle parlare), stavano passando in automobile nei pressi di una fabbrica di TNT, in disuso dalla Seconda guerra mondiale, quando videro due strane luci rosse all'ombra di un vecchio generatore accanto al cancello. Avvicinatisi, realizzarono che le luci erano gli occhi luccicanti di un grosso animale "dalla forma di un uomo, ma più grosso, fra i sei e mezzo e sette di piedi di altezza (circa due metri ), con grandi ali ripiegate sulla schiena". Terrorizzati, fuggirono verso la città, seguiti per un certo tratto dalla creatura in volo (che, stranamente, non sembrava sbattere affatto le ali). Giunti a Mason County, raccontarono l'accaduto al vicesceriffo Millard Halstead, che in seguito ebbe a dichiarare:
« Conosco questi ragazzi da quando erano nati. Non si sono mai messi nei guai e quella notte erano davvero spaventati. Li ho presi sul serio. »


Fu un cronista della stampa locale che, riportando l'episodio, battezzò la misteriosa creatura "Mothman", per analogia con Batman (di cui all'epoca stava andando in onda negli Stati Uniti la serie televisiva).

Nei giorni e nei mesi successivi l'uomo falena sarebbe apparso a molti altri abitanti della zona, e in genere sempre nei pressi della fabbrica. Le descrizioni dell'aspetto della creatura erano tutte sostanzialmente simili.

A Point Pleasant si trova una scultura che rappresenta la creatura (opera di Robert Roach) e un museo dedicato (il Mothman Museum).

Ecco i principali avvistamenti, accreditati da rilevamenti effettuati sui luoghi interessati :

* 1 settembre 1966 - Scott Missouri - Diverse persone adulte osservano un oggetto a forma d'uomo che manovra a bassa quota
* 1 novembre 1966 - Camp Conley Road - Una Guardia Nazionale osserva una grande figura umana bruna posta su un ramo d'albero
* 12 novembre 1966 - Cimitero di Clendenin - Cinque maschi adulti osservano un oggetto volante bruno a forma d'uomo
* 15 novembre 1966 - Area TNT vecchia centrale elettrica Point Pleasant - Due coppie di Sposi avvistano un essere grigiastro dotato di 2 occhi rossi luminosi

Nella tarda nottata del 15 novembre 1966, due giovani coppie di sposi, Roger e Linda Scarberry e Steve e Mary Mallette, mentre transitavano in auto accanto ad una fabbrica dismessa di esplosivi della seconda guerra mondiale chiamata Area TNT, nei pressi di Point Pleasant, notarono 2 luci rosse nell'ombra all'interno di una vecchia struttura accanto ad un vecchio generatore della fabbrica. Decisero quindi di fermare l'automobile per vedere meglio di cosa si trattasse. Con loro stupore però, si accorsero che le luci erano occhi rossi luminosi appartenenti ad un grande animale, “dalla forma simile ad un uomo, ma più grande; circa 6,5 o 7 piedi di grandezza, con le ali grandi piegate contro la relativa parte posteriore del corpo (come un pipistrello)„; secondo il racconto di Roger Scarberry le coppie terrorizzate tornarono subito in automobile e si allontanarono lungo la statale 62. Durante tale viaggio videro ancora la creatura ritta in piedi su una collina accanto alla strada; l'essere si levò in volo e seguì la loro automobile fino alle porte della città. Più tardi, dopo aver informato le autorità locali, Scarberry tornò nell'area, ma dello strano essere non fu più trovata alcuna traccia.

* 16 novembre 1966 - Area TNT presso Igloo - Tre adulti, osservano un essere grigio, alto e dotato di 2 occhi rossi luminosi

La notte successiva, il 16 novembre, alcuni cittadini locali muniti di armi si misero alla ricerca di segni e tracce della creatura nella zona circostante la vecchia fabbrica, ma l'insolita battuta di caccia non portò a nessun risultato. Nel frattempo il sig. e la sig.ra Raymond Wamsley e la sig.ra Marcella Bennett, con sua figlia Teena e suo figlio, si misero in viaggio in automobile per far visita ad alcuni amici, il sig. e la sig.ra Thomas. I Thomas vivevano in un bungalow presso “Igloo”, un'area piena di strutture a cupola erette per l'immagazzinamento degli esplosivi durante la seconda mondiale, vicino alla stessa area industriale in cui avvenne l'avvistamento la notte precedente. Giunti all'abitazione degli amici i Wamsley notarono una figura misteriosa comparire alle loro spalle. La sig.ra Bennett riferì trattarsi di un grosso essere grigiastro, con occhi rossi emittenti luce, intento a cercare qualche cosa a terra. Dal bungalow dei Thomas il sig. Wamsley telefonò alla polizia, mentre l'essere, raggiunto il portico dell'abitazione, scrutò all'interno attraverso una finestra.

* 17 novembre 1966 - Statale 7 Cheschire Ohio - Un ragazzo osserva un essere grigio di forma umana dotato di occhi rossi luminosi e con una apertura alare di 3 metri
* 18 novembre 1966 - Area TNT - Due Pompieri osservano un essere molto alto e gigantesco dotato di occhi rossi luminosi
* 20 novembre 1966 - Campbells Creek - Sei adolescenti avvistano un essere grigio, alto dotato di occhi rossi luminosi
* 24 novembre 1966 - Point Pleasant - Due adulti e due bambini, notano un essere gigantesco che vola dotato di occhi rossi luminosi
* 25 novembre 1966 - Autostrada nei pressi di AREA TNT - un uomo in macchina incontra un essere alto, grigio con occhi rossi luminosi che l'insegue

La mattina successiva il sig. Thomas Ury riferì di avere notato una creatura simile a quella segnalata nei giorni precedenti ritta in piedi in un campo a lato della strada, mentre si dirigeva verso nord lungo l'itinerario 62 nei pressi dell'Area TNT. L'essere aprì le ali e si levò in volo inseguendo l'automobile del sig. Ury, il quale, dopo averla seminata accelerando spaventato, giunse in città e decise di informare lo sceriffo locale dell'accaduto.

* 26 novembre 1966 - Lowell Ohio - Due adulti e due bambini osservano 4 uccelli giganteschi di colore bruno alti 1,5 metri con un'apertura alare di 3 metri
* 27 novembre 1966 - Statale Albans - Una casalinga osserva un essere grigio con occhi rossi luminosi più alto di un uomo, fermo sul prato
* 27 novembre 1966 - Manson - Una ragazza avvista un essere alto e grigio a forma d'uomo con 3 metri di apertura alare con occhi rossi luminosi. Insegue l'auto

Il 27 novembre, la sig.ra Ruth Foster, nel sobborgo di Charleston, in Virginia dell'Ovest, vide una creatura grigia con luminosi occhi rossi, più alta di un uomo, ritta sul prato della sua abitazione, nei pressi della Statale Albans. L'essere scomparve non appena la sig.a Foster uscì per controllare meglio. La mattina dello stesso giorno una creatura alata dall'aspetto umanoide inseguì una giovane donna presso Mason, in Virginia dell'Ovest; la stessa notte un essere simile venne avvistato nei pressi della Statale Albans da due bambini.

* 27 novembre 1966 - Statale Albans - Due ragazze osservano alcuni esseri grigi alti 2,10 metri che le inseguono a piedi
* 4 dicembre 1966 - Aeroporto di Gallipolis Ohio - Cinque piloti osservano un uccello gigantesco dal collo lungo per un primo tempo scambiato per un aereo che poi si avvicina a loro ad una velocità di 110 km/h costante senza sbattere ali
* 6 dicembre 1966 - Maysville Kentucky - Un postino osserva un essere gigantesco simile ad un uccello in volo
* 6 dicembre 1966 - Area TNT - Due adulti osservano una figura grigia dagli occhi rossi e luminosi che li assale
* 7 dicembre 1966 - Statale 33 Ohio - Quattro donne osservano un essere volante la cui forma ricorda un uomo, di colore bruno-argenteo e dagli occhi rossi luminosi
* 8 dicembre 1966 - Statale 35 - Due donne osservano su di una collina una figura indistinta che ha occhi rossi luminosi
* 11 dicembre 1966 - Area TNT - Un ragazzo e un uomo, osservano una figura dall'aspetto umano di colore grigio in volo a grande velocità
* 11 dicembre 1966 - Statale 35 - Una donna osserva un enorme essere grigio con occhi rossi luminosi che sorvola la sua auto
* 11 gennaio 1967 - Point Pleasant - Una casalinga osserva un essere alato delle dimensioni di un piccolo aereo che vola a bassa quota
* 12 marzo 1967 - Letert Falls Ohio - Una donna osserva un grande essere volante dal pelo bianco dalla lunga apertura alare (3 metri) che passa davanti alla sua auto
* 19 maggio 1967 - Area TNT - Una donna osserva un essere volante dagli occhi rossi luminosi che si avvicina ad un oggetto rosso librato in aria e scompare
* 2 novembre 1967 - Area TNT - Una donna osserva una figura grigia gigantesca simile ad un uomo che sorvola un campo sfiorando il suolo
* 7 novembre 1967 - Chief Cornstalk Park - Quattro uomini mentre erano a caccia, osservano una figura gigantesca con gli occhi rossi luminosi. Uno di loro dirà che non ebbe la forza di sparare all'essere perché in preda al terrore.

Descrizione in base alle testimonianze rilasciate :

* Altezza: circa 2 metri.

* Occhi: dotati di luminosità propria, rosso-vivi, distanziati tra loro, di un diametro approssimativo di 5–8 cm.

* Gambe: di tipo umano; l'essere fu visto in posture erette, mentre la deambulazione avvenne con passo strascicato.

* Ali: di aspetto simile a quelle di un pipistrello, vennero viste ripiegate contro il dorso quando non utilizzate e sembrarono vantare un'apertura di circa 3 metri quando adoperate in volo. Venne riferito da più testimoni come il volo avvenisse mantenendole rigide, senza cioè che venissero battute.

* Velocità: avrebbe seguito, senza alcun problema, l'andatura di automobili che si muovevano a 120-160 km/h.

* Verso: alcuni testimoni affermarono che la creatura sembrò emettere in volo dei ronzii metallici.


Che voglia punirci o avvertirci?

Dicembre 1967. Point Pleasant viene colpita da una terribile disgrazia; il Silver Bridge, il ponte sospeso sul fiume Ohio, crolla nell'ora di punta, causando la morte di 46 persone.
Alcune persone collegano l’apparizione del Mothman alla tragedia, perché sostengono che lui volesse avvisare la popolazione del grave pericolo che stava correndo.

L'Uomo-Falena e le sue scorribande, si susseguirono per 13 mesi; periodo in cui disgrazie e fatti strani, riempiono le pagine dei giornali locali. Secondo alcuni osservatori, Point Pleasent, sarebbe divenuta bersaglio della maledizione di un capo indiano assassinato a tradimento, insieme a suo figlio dagli inglesi, decenni prima.
Uomo Falena in volo tra i grattacieli
Questa teoria si sgretola quando la presenza del Mothman, viene segnalata sulla centrale nucleare di Černobyl e viene immortalata a New York dopo la caduta delle Torri Gemelle.
C’è chi collega il fenomeno, al fatto che nei dintorni di Point Pleasant, ci sia una delle poche porte spazio-temporali presenti nella Terra e che i nativi americani, consideravano questa zona sacra, ma fu violata da alcuni residenti e per questo puniti con la insolita presenza.

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