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Michael Jackson raccontato da Jermaine Jackson. Dietro il mito

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Michael Jackson raccontato da Jermaine Jackson. Dietro il mito Empty Michael Jackson raccontato da Jermaine Jackson. Dietro il mito

Messaggio Da Michaelforever Mer Dic 28, 2011 3:22 pm

Michael Jackson raccontato da Jermaine Jackson. Dietro il mito

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«Io conosco il bambino dietro la maschera della superstar, quello che abitava con me al 2300 di Jackson street a Gary, nell’Indiana. Siamo in sintonia dall’infanzia e la nostra intesa è sopravvissuta a tutto. Al sogno, ai Jackson 5, alla celebrità, al distacco, ai contrasti, alle sofferenze, agli scandali, alle pressioni insostenibili. Conosco il suo carattere e la sua mente come si può conoscere solo il sangue del tuo sangue». Parla al presente Jermaine Jackson. Come se Michael fosse ancora qui. Non è così, lo sa bene, ma lui, quel fratello tormentato, lo fa ora rivivere nelle pagine di un libro, Michael, la vita del re del pop vista attraverso gli occhi di suo fratello (edizioni Rcs), che rivela il lato nascosto della popstar, quello messo nella lente d’ingrandimento dalla parte dell’inner circle familiare. Un’operazione memoria per accendere un faro su una vicenda umana e artistica popolata di bugie, accuse, leggende metropolitane e scomode verità.

L’obiettivo di Jermaine è mettere punti fermi, raccontare una vita straordinaria in tutto il suo incredibile svolgimento. A cominciare dal sibilo sinistro della cinghia dell’inflessibile papà manager Joseph, ribattezzato in famiglia «l’uomo del rispetto».

«Quando si arrabbiava, gli bastava un’occhiata per rimetterci in riga. Sulla guancia aveva un neo grande come una moneta da 10 centesimi, e ancora adesso me lo rivedo davanti agli occhi: se perdeva davvero le staffe, tutta la sua faccia e il neo si corrugavano, come un cielo che si oscura prima della tempesta. Poi, arrivava il tuono: “Aspettami in camera tua”, seguito dal fulmine: la fitta incandescente della sua cintura di cuoio sulla pelle nuda. La punizione ordinaria era di 10 scudisciate. Le chiamavamo così, perché la cintura fischiava in aria come uno scudiscio. Io mi sgolavo a implorare l’intercessione di Dio, della mamma, chiedevo aiuto a chiunque mi venisse in mente, ma Joseph urlava più di me, ripetendo il motivo del castigo. Quando venivamo puniti, Michael sentiva le nostre urla, e quando andavamo a dormire vedeva i segni rossi che la cintura ci aveva impresso sulla pelle. Le une e gli altri gli misero in corpo la paura del castigo molto prima di sperimentarlo di persona. La disciplina di Joseph lo traumatizzò prima ancora di sfiorarlo».

Non mentiva dunque Jackson quando raccontava al mondo incredulo di un’infanzia e un’adolescenza all’insegna del terrore e del timore reverenziale per un padre padrone. Così come non mentiva quando tentava invano di convincere i media che non aveva mai fatto nulla per trasformarsi in un uomo bianco. Ma ormai le voci erano diventate certezze e, un giorno, durante una pausa del processo per molestie sessuali (verrà poi assolto da tutte le accuse), decide di fare chiarezza. Almeno con le persone che gli stanno vicino, racconta Jermaine.

«Michael si sbottona la giacca, non riesce a sfilare le maniche. La giacca gli cade dalle spalle, rimanendo incastrata sui gomiti e scoprendo il suo petto nudo. Sta singhiozzando. “Guardatemi! Eccomi qui. Sono la persona più incompresa del mondo”. Scoppia in un pianto dirotto. È in piedi davanti a noi, a testa bassa, come se si vergognasse. È la prima volta che vedo con i miei occhi la gravità della malattia che gli ha colpito la pelle, e resto scioccato. Lui è talmente riservato che finora aveva tenuto nascosto il suo corpo persino alla famiglia. Ha il torace marrone chiaro, con grandi chiazze bianche che si estendono su tutto il petto; una gli ricopre la cassa toracica e lo stomaco, un’altra gli scende sul fianco, altre ancora si allargano sulla spalla e intorno al bicipite. Il suo colore naturale è quasi sparito: sembra un bianco macchiato di caffè. Sono gli effetti della vitiligine».

Quella che racconta Jermaine è una vita senza normalità, sempre in bilico fra trionfi e discese agli inferi:

«Mi sono sempre domandato dove si nascondesse il limite di sopportazione di Michael, perché sapevo che il bambino di Gary che inveiva contro papà Joseph era da qualche parte dentro di lui. In fondo, aspettavo da sempre il momento in cui mio fratello avrebbe gridato e spaccato tutto». Quel momento arrivò: «Alle 8.30 del 18 novembre 2003 il procuratore Tom Sneldon (l’accusatore di Michael nel processo per molestie a minorenni, ndr) inviò la sua cavalleria a Neverland con un mandato di perquisizione volto all’arresto. Quando Michael sentì che c’erano circa 70 agenti al ranch, esplose. Nella sua suite d’albergo prese i piatti dal carrello del servizio in camera e li scagliò contro le pareti, colpì due lampade, buttò giù una scultura, rovesciò un tavolino e gettò all’aria ogni sorta di oggetto dai tavoli. “Perché? Mi arresteranno? Per cosa? Non possono farmi questo! Non ho fatto niente” ripeteva mentre camminava a grandi passi nella stanza».

Affrontò il lungo processo, con grande disciplina, ma un giorno, ricorda Jermaine,

«si stancò di tutte le regole e le formalità che avevano dominato la sua vita per quasi 5 mesi. Ero seduto dietro di lui quando alzò la mano titubante rivolto al giudice, come il bambino che in classe interrompe la lezione per fare una domanda, solo che Michael voleva gentilmente chiedere di potere andare in bagno. Il giudice non si accorse mai del suo gesto. Stanco di passare inosservato, visto che la sua vescica aveva raggiunto il limite, Michael si alzò silenziosamente, si voltò e mi diede un colpetto sulla spalla. Lo seguii fuori e, circondati dagli uomini della sicurezza, percorremmo il corridoio e salimmo le scale verso il bagno. Lasciammo una guardia alla porta, dopodiché entrammo e Michael orinò come un cavallo da corsa. “Non ci si crede” gridò. “Io cerco di richiamare la sua attenzione e lui mi ignora. Che cosa voleva che facessi? Che pisciassi in aula?”».

Venne assolto, provò a riprendersi il trono di re del pop accettando di tenere 50 concerti a Londra a partire da luglio 2009. Tutti i biglietti vennero venduti in 4 ore, ma durante le prove qualcosa non andò per il verso giusto.

«Aveva difficoltà a finire una canzone e qualche volta necessitava di un suggeritore per le parole. Inoltre aveva bisogno di aiuto per salire e scendere dalle rampe e dalle scale» ricorda Jermaine.

Un lento ma inesorabile declino che s’interruppe bruscamente il 25 giugno:

«Quando Michael tornò a casa dalle prove, si sforzò di dormire con il dottor Conrad Murray al suo fianco. Entro le successive 12 ore sarebbe morto».

Per quella fine Murray è stato riconosciuto colpevole di omicidio colposo e condannato a 4 anni di carcere per avere somministrato a Jackson una dose letale di un potentissimo anestetico, il Propofol. Caso chiuso, quindi? Non per Jermaine Jackson.

«Come famiglia, e per la pace della mente, vorremmo sapere chi altri entrò e lasciò la casa di Michael la notte della sua morte ma, anche se la polizia di Los Angeles indaga per omicidio, i suoi investigatori hanno deciso di considerare solo i 4 minuti di registrazione delle telecamere a circuito chiuso che mostrano il previsto arrivo del dottor Murray. A meno che le autorità non ci sorprendano, pare che ogni altra ripresa sia stata cancellata. Ci è difficile comprendere perché tali cruciali immagini possano essere state cancellate. La nostra unica speranza è che, alla fine, la giustizia non deluda Michael, come pare abbiano fatto tutti gli altri».

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