Comincia oggi la settimana della Memoria
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Il Giorno della Memoria è una ricorrenza istituita con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 dal Parlamento italiano che ha in tal modo aderito alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio come giornata in commemorazione delle vittime del nazionalsocialismo e del fascismo, dell'Olocausto e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati.
Il testo dell'articolo 1 della legge così definisce le finalità del Giorno della Memoria:
« La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. »
Il senatore americano Alben W. Barkley, membro del comitato d'indagine del congresso sulle atrocità naziste, in ricognizione nel lager di Buchenwald il 24 aprile 1945
La scelta della data ricorda il 27 gennaio 1945, quando le truppe sovietiche dell'Armata Rossa, nel corso dell'offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Oświęcim (maggiormente nota con il suo nome tedesco di Auschwitz), scoprendo il suo tristemente famoso campo di concentramento e liberandone i pochi superstiti. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l'orrore del genocidio nazista.
Il 27 gennaio il ricordo della Shoah, cioè lo sterminio del popolo ebreo, è celebrato anche da molte altre nazioni, tra cui la Germania e la Gran Bretagna, così come dall'ONU, in seguito alla risoluzione 60/7 del 1º novembre 2005.(vidia)
In realtà i sovietici erano già arrivati precedentemente a liberare dei campi, Chełmno, e Bełżec, ma questi campi detti più comunemente di "annientamento" erano vere e proprie fabbriche di morte dove i prigionieri e i deportati venivano immediatamente gasati, salvando solo pochi "sonderkommando", che in italiano vuol dire unità speciale.
Tuttavia l'apertura dei cancelli ad Auschwitz, dove 10-15 giorni prima i nazisti si erano rovinosamente ritirati portando con sé in una "marcia della morte" tutti i prigionieri sani, molti dei quali morirono durante la marcia stessa, mostrò al mondo non solo molti testimoni della tragedia, ma anche gli strumenti di tortura e di annientamento del lager (anche se è doveroso riportare che due dei forni crematori situati in Birkenau I e II furono distrutti nell'autunno del 1944)[senza fonte].
In Italia, sono ufficialmente più di 400 le persone insignite dell'alta onorificenza dei Giusti tra le Nazioni per il loro impegno a favore degli ebrei perseguitati durante l'Olocausto.
Il Giorno della Memoria è una ricorrenza istituita con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 dal Parlamento italiano che ha in tal modo aderito alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio come giornata in commemorazione delle vittime del nazionalsocialismo e del fascismo, dell'Olocausto e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati.
Il testo dell'articolo 1 della legge così definisce le finalità del Giorno della Memoria:
« La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. »
Il senatore americano Alben W. Barkley, membro del comitato d'indagine del congresso sulle atrocità naziste, in ricognizione nel lager di Buchenwald il 24 aprile 1945
La scelta della data ricorda il 27 gennaio 1945, quando le truppe sovietiche dell'Armata Rossa, nel corso dell'offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Oświęcim (maggiormente nota con il suo nome tedesco di Auschwitz), scoprendo il suo tristemente famoso campo di concentramento e liberandone i pochi superstiti. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l'orrore del genocidio nazista.
Il 27 gennaio il ricordo della Shoah, cioè lo sterminio del popolo ebreo, è celebrato anche da molte altre nazioni, tra cui la Germania e la Gran Bretagna, così come dall'ONU, in seguito alla risoluzione 60/7 del 1º novembre 2005.(vidia)
In realtà i sovietici erano già arrivati precedentemente a liberare dei campi, Chełmno, e Bełżec, ma questi campi detti più comunemente di "annientamento" erano vere e proprie fabbriche di morte dove i prigionieri e i deportati venivano immediatamente gasati, salvando solo pochi "sonderkommando", che in italiano vuol dire unità speciale.
Tuttavia l'apertura dei cancelli ad Auschwitz, dove 10-15 giorni prima i nazisti si erano rovinosamente ritirati portando con sé in una "marcia della morte" tutti i prigionieri sani, molti dei quali morirono durante la marcia stessa, mostrò al mondo non solo molti testimoni della tragedia, ma anche gli strumenti di tortura e di annientamento del lager (anche se è doveroso riportare che due dei forni crematori situati in Birkenau I e II furono distrutti nell'autunno del 1944)[senza fonte].
In Italia, sono ufficialmente più di 400 le persone insignite dell'alta onorificenza dei Giusti tra le Nazioni per il loro impegno a favore degli ebrei perseguitati durante l'Olocausto.
Re: Comincia oggi la settimana della Memoria
S. Agata de' Goti, il ricordo di Sami Modiano sopravvissuto all'olocausto: 'Per i tedeschi ero già morto'
Nessun libro letto e nessun film visto sull’argomento può solo lontanamente arrivare all’emozione di avere davanti agli occhi un sopravvissuto del peggior eccidio del ‘900, l’olocausto. La sala gremita dai ragazzi del 5° anno dell’Istituto tecnico ‘S. Alfonso M. de’ Liguori’, riuniti per ricordare la ‘Giornata della Shoa 2012’, tutti in religioso silenzio: per due ore hanno avuto l’attenzione calamitata sulle parole di Sami Modiano, uno dei sopravvissuti dei campi di concentramento di Buchenwald ed Auschwitz. Riportare il racconto di quello che si è ascoltato sabato mattina da un 80enne arzillo nel corpo e pacato nella parola, sarebbe sterile e limitante, ma allo stesso tempo è l’unico modo per non dimenticare ciò che ormai 60 anni fa la Germania nazista perpetrò ad opera degli ebrei di tutta Europa. Sami Modiano è un ebreo italiano dell’isola di Rodi: si è dichiarato italiano perché l?isola in cui è nato nel 1930, già dal 1912 era sotto il controllo italiano. Ha descritto la sua infanzia in una famiglia come tante, lui e la sorella, molto amati dai genitori, poi la scuola e le prime amicizie. La vita di Sami comincia a cambiare già dal ’38, quando Mussolini emana le leggi razziali e lui, in quanto ebrei, viene espulso da scuola. “Non capivo. Io a scuola ero bravino - ha detto Modiano - ma un giorno il maestro mi dovette mandare a casa. Fu poi mio padre a spiegarmi il perché. Capii che la colpa dell’espulsione non era dovuta ad un mio comportamento sbagliato. Quando avevo 10 anni, poi, scoppiò la 2° guerra mondiale e la nostra vita cominciò a cambiare seriamente sia sul piano economico che sociale. Ma la situazione precipitò a seguito dell’armistizio, l?8 settembre del 1943, quando sull’isola si aspettavano notizie dall?Italia che tardarono ad arrivare. Fu quello il momento in cui i pochi tedeschi presenti a Rodi occuparono l?isola. Per noi ebrei fu l’inizio della fine. I tedeschi cominciarono ad organizzare la deportazione degli ebrei: ci volle qualche mese per mettere a punto la spedizione, anche perché c’erano da trasportare circa 2500 persone. Il viaggio degli ebrei di Rodi cominciò alla fine di luglio del 1944: su 5 battelli cargo greci usati per trasportare il bestiame le SS stiparono i 2500 ebrei, trasportandoli fino al Pireo. Il viaggio continuò, poi, su un treno, fino al campo di sterminio di Buchenwald. Il viaggio sia in nave che in treno fu davvero disastroso - ha sottolineato Modiano. Stipati come le bestie, a dover condividere uno spazio angusto, senza cibo, con pochissima acqua e con il caldo di luglio a fare da contorno. La cosa più triste era l’impossibilità di ognuno di poter aiutare gli altri: è stata la prima volta in vita mia che ho visto morire così miseramente qualcuno. Avevo già perso mia madre, ma dividere uno spazio così piccolo anche con persone non più in vita, fece emergere in me ancora di più quel senso di pudore e vergogna, che era alla base della nostra educazione”. Il peggio però doveva ancora arrivare. Con l’ingresso a Buchenwald fu subito chiaro che quel luogo era sinonimo d’inferno. “Fummo divisi tra maschi e femmine, spogliati di tutti i nostri vestiti e soprattutto marchiati a vita con un codice sul braccio. Il mio è B7456. Fu solo quando arrivammo al campo che ci rendemmo conto del destino che ci attendeva. Non dimenticherò mai quell’ufficiale nazista che con un solo sguardo ? ha continuato Sami Modiano nel suo racconto - decideva il nostro destino: abile o non abile al lavoro. Il paradosso è che chi non era abile andava direttamente nelle camere a gas. Ma noi questo lo abbiamo scoperto solo stando nel campo di lavoro, sentendo per tutto il giorno e tutti i giorni l’odore acre di bruciato: eravamo noi ebrei, che poco alla volta, venivamo eliminati”. Sami Modiano è rimasto nel campo di sterminio di Buchenwald circa 6 mesi, tempo sufficiente per perdere la sorella ed il padre e per rendersi conto che del suo corpo non era rimasto che lo scheletro. Durante l’incontro, organizzato presso l’Istituto Tecnico de’ Liguori di, promossa dal Comune caudino, dall’istituzione scolastica e dalla Pro loco locale, non sono mancati momenti di vero scoramento nel racconto di Modiano, lui seduto su una sedia, fisico asciutto, la testa senza più capelli, ma lo sguardo vivo, pronto, anche se con sofferenza, a ripercorrere quei giorni, quel tempo in cui sembrava imminente la fine della vita. “Io sono vivo per miracolo: quando pensavo di non farcela più due braccia mi hanno sorretto e trasportato, paradosso, verso la libertà”. Infatti, con l’imminente arrivo dei russi, le SS trasportarono gli ebrei che rimanevano da Buchenwald ad Auschwitz, in quello che comunemente è definita la ‘marcia della morte’. Tre chilometri percorsi di notte e tra la neve portarono ebrei alla destinazione finale, dove nei progetti tedeschi, doveva finire tutto, con lo scoppio del campo. “Mi sono salvato perché hanno appoggiato ciò che rimaneva del mio corpo accanto alla pira dei morti. Prima di scappare le SS hanno fatto piazza pulita di tutti gli ebrei ancora in vita. Io per loro ero già morto. Non saprei dire con precisione quanti giorni, io ed altri sopravvissuti, abbiamo vagato nel campo di Auschwitz, mangiando erba e neve in attesa dei russi. Sono stati i giorni più brutti, in bilico tra la vita e la morte, spesso in stato d’incoscienza. Il mio destino - ha concluso Modiano - ha voluto che io tornassi a casa, che testimoniassi, nella mia vita, quello che i miei occhi hanno visto ed il mio corpo patito”. Il dato più sconvolgente è che dei 2500 ebrei di Rodi sono tornati a casa 33 uomini e 120 donne. Degli altri è rimasto il fumo da un comignolo, il fumo dell’anima.
Nella Melenzio
Nessun libro letto e nessun film visto sull’argomento può solo lontanamente arrivare all’emozione di avere davanti agli occhi un sopravvissuto del peggior eccidio del ‘900, l’olocausto. La sala gremita dai ragazzi del 5° anno dell’Istituto tecnico ‘S. Alfonso M. de’ Liguori’, riuniti per ricordare la ‘Giornata della Shoa 2012’, tutti in religioso silenzio: per due ore hanno avuto l’attenzione calamitata sulle parole di Sami Modiano, uno dei sopravvissuti dei campi di concentramento di Buchenwald ed Auschwitz. Riportare il racconto di quello che si è ascoltato sabato mattina da un 80enne arzillo nel corpo e pacato nella parola, sarebbe sterile e limitante, ma allo stesso tempo è l’unico modo per non dimenticare ciò che ormai 60 anni fa la Germania nazista perpetrò ad opera degli ebrei di tutta Europa. Sami Modiano è un ebreo italiano dell’isola di Rodi: si è dichiarato italiano perché l?isola in cui è nato nel 1930, già dal 1912 era sotto il controllo italiano. Ha descritto la sua infanzia in una famiglia come tante, lui e la sorella, molto amati dai genitori, poi la scuola e le prime amicizie. La vita di Sami comincia a cambiare già dal ’38, quando Mussolini emana le leggi razziali e lui, in quanto ebrei, viene espulso da scuola. “Non capivo. Io a scuola ero bravino - ha detto Modiano - ma un giorno il maestro mi dovette mandare a casa. Fu poi mio padre a spiegarmi il perché. Capii che la colpa dell’espulsione non era dovuta ad un mio comportamento sbagliato. Quando avevo 10 anni, poi, scoppiò la 2° guerra mondiale e la nostra vita cominciò a cambiare seriamente sia sul piano economico che sociale. Ma la situazione precipitò a seguito dell’armistizio, l?8 settembre del 1943, quando sull’isola si aspettavano notizie dall?Italia che tardarono ad arrivare. Fu quello il momento in cui i pochi tedeschi presenti a Rodi occuparono l?isola. Per noi ebrei fu l’inizio della fine. I tedeschi cominciarono ad organizzare la deportazione degli ebrei: ci volle qualche mese per mettere a punto la spedizione, anche perché c’erano da trasportare circa 2500 persone. Il viaggio degli ebrei di Rodi cominciò alla fine di luglio del 1944: su 5 battelli cargo greci usati per trasportare il bestiame le SS stiparono i 2500 ebrei, trasportandoli fino al Pireo. Il viaggio continuò, poi, su un treno, fino al campo di sterminio di Buchenwald. Il viaggio sia in nave che in treno fu davvero disastroso - ha sottolineato Modiano. Stipati come le bestie, a dover condividere uno spazio angusto, senza cibo, con pochissima acqua e con il caldo di luglio a fare da contorno. La cosa più triste era l’impossibilità di ognuno di poter aiutare gli altri: è stata la prima volta in vita mia che ho visto morire così miseramente qualcuno. Avevo già perso mia madre, ma dividere uno spazio così piccolo anche con persone non più in vita, fece emergere in me ancora di più quel senso di pudore e vergogna, che era alla base della nostra educazione”. Il peggio però doveva ancora arrivare. Con l’ingresso a Buchenwald fu subito chiaro che quel luogo era sinonimo d’inferno. “Fummo divisi tra maschi e femmine, spogliati di tutti i nostri vestiti e soprattutto marchiati a vita con un codice sul braccio. Il mio è B7456. Fu solo quando arrivammo al campo che ci rendemmo conto del destino che ci attendeva. Non dimenticherò mai quell’ufficiale nazista che con un solo sguardo ? ha continuato Sami Modiano nel suo racconto - decideva il nostro destino: abile o non abile al lavoro. Il paradosso è che chi non era abile andava direttamente nelle camere a gas. Ma noi questo lo abbiamo scoperto solo stando nel campo di lavoro, sentendo per tutto il giorno e tutti i giorni l’odore acre di bruciato: eravamo noi ebrei, che poco alla volta, venivamo eliminati”. Sami Modiano è rimasto nel campo di sterminio di Buchenwald circa 6 mesi, tempo sufficiente per perdere la sorella ed il padre e per rendersi conto che del suo corpo non era rimasto che lo scheletro. Durante l’incontro, organizzato presso l’Istituto Tecnico de’ Liguori di, promossa dal Comune caudino, dall’istituzione scolastica e dalla Pro loco locale, non sono mancati momenti di vero scoramento nel racconto di Modiano, lui seduto su una sedia, fisico asciutto, la testa senza più capelli, ma lo sguardo vivo, pronto, anche se con sofferenza, a ripercorrere quei giorni, quel tempo in cui sembrava imminente la fine della vita. “Io sono vivo per miracolo: quando pensavo di non farcela più due braccia mi hanno sorretto e trasportato, paradosso, verso la libertà”. Infatti, con l’imminente arrivo dei russi, le SS trasportarono gli ebrei che rimanevano da Buchenwald ad Auschwitz, in quello che comunemente è definita la ‘marcia della morte’. Tre chilometri percorsi di notte e tra la neve portarono ebrei alla destinazione finale, dove nei progetti tedeschi, doveva finire tutto, con lo scoppio del campo. “Mi sono salvato perché hanno appoggiato ciò che rimaneva del mio corpo accanto alla pira dei morti. Prima di scappare le SS hanno fatto piazza pulita di tutti gli ebrei ancora in vita. Io per loro ero già morto. Non saprei dire con precisione quanti giorni, io ed altri sopravvissuti, abbiamo vagato nel campo di Auschwitz, mangiando erba e neve in attesa dei russi. Sono stati i giorni più brutti, in bilico tra la vita e la morte, spesso in stato d’incoscienza. Il mio destino - ha concluso Modiano - ha voluto che io tornassi a casa, che testimoniassi, nella mia vita, quello che i miei occhi hanno visto ed il mio corpo patito”. Il dato più sconvolgente è che dei 2500 ebrei di Rodi sono tornati a casa 33 uomini e 120 donne. Degli altri è rimasto il fumo da un comignolo, il fumo dell’anima.
Nella Melenzio
Re: Comincia oggi la settimana della Memoria
Il giorno della memoria
Il 27 gennaio del 1945 venne liberato il campo di sterminio di Auschwitz. La legge 211, tenacemente voluta dal deputato Furio Colombo, istituisce il "Giorno della memoria" per ricordare le vittime della carneficina e gli uomini giusti che vi si opposero. Essa consta di sue articoli.
Parlamento Italiano Legge 20 luglio 2000, n. 211
Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti*
Art. 1
1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Art. 2
1. In occasione del “Giorno della Memoria” di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.
La storia del genere umano ha conosciuto innumerevoli eccidi e stermini. Quello attuato in Europa nel Novecento contro gli ebrei differisce dagli altri per le sue caratteristiche di radicalità e scientificità. Mai era accaduto, ad esempio, che persone abitanti nell’isola di Rodi o in Norvegia venissero arrestate per essere deportate in un luogo (Auschwitz) appositamente destinato ad assassinarle con modalità tecnologicamente evolute. Per questo si parla di “unicità” della Shoah; definizione che pertanto costituisce il risultato di una comparazione storica, e non un pregiudiziale rifiuto di essa.Shoah è un vocabolo ebraico che significa catastrofe, distruzione. Esso è sempre più utilizzato per definire ciò che accadde agli ebrei d’Europa dalla metà degli anni Trenta al 1945 e in particolar modo nel quadriennio finale, caratterizzato dall’attuazione del progetto di sistematica uccisione dell’intera popolazione ebraica.
Tale progetto venne deciso e concretizzato dal Terzo Reich nel corso della seconda guerra mondiale; venne attuato con la collaborazione parziale o totale dei governi o dei movimenti politici di altri Stati; venne interrotto dalla vittoria militare dell’Alleanza degli Stati antifascisti e dei movimenti di Resistenza. Se invece i vincitori fossero stati la Germania nazista, l’Italia fascista, la Francia di Vichy, la Croazia degli ustascia ecc., non un solo ebreo sarebbe rimasto in vita nei territori controllati da questi.Ricordarsi di quelle vittime serve a mantenere memoria delle loro esistenze e del perché esse vennero troncate. E la memoria di questo passato serve ad aiutarci a costruire il futuro.
Molti Stati hanno istituito un “giorno della memoria”. L’Italia lo ha fissato al 27 gennaio: la data in cui nel 1945 fu liberato il campo di sterminio di Auschwitz. In effetti altri ebrei, d’Italia e d’Europa, vennero uccisi nelle settimane seguenti. Ma la data della Liberazione di quel campo è stata giudicata più adatta di altre a simboleggiare la Shoah e la sua fine.Ovviamente la Shoah fu un evento storico interrelato con gli altri avvenimenti storici; per questo la legge italiana indica altri gruppi di persone la cui memoria va mantenuta viva: coloro che, a rischio della propria vita, combatterono il fascismo e il nazismo e coloro che comunque contrastarono lo sterminio e salvarono delle vite.
Cronologia della persecuzione antiebraica in Italia*
28 ottobre 1922. I fascisti “marciano su Roma”. Il giorno dopo il re Vittorio Emanuele III incarica Mussolini di formare il nuovo governo.
6 aprile 1924. Vittoria della lista dei fascisti e dei loro alleati alle elezioni per la Camera.
3 gennaio 1925. Mussolini alla Camera si assume la responsabilità dell’assassinio (avvenuto il 10 giugno precedente) del deputato socialista Giacomo Matteotti.
novembre 1926. Varo delle leggi “fascistissime”: scioglimento di tutte le associazioni e i partiti contrari al fascismo, istituzione del confino di polizia per gli oppositori ecc.
11 febbraio 1929. Firma dei Patti lateranensi tra Italia e Chiesa cattolica.
30 gennaio 1933. Hitler diventa cancelliere del Reich tedesco. Introduzione della legislazione antiebraica nella Germania nazista.
1936-1937. Il governo fascista del Regno d’Italia, in connessione con la conquista e la colonizzazione dell’Etiopia, approfondisce il razzismo e vara primi provvedimenti di apartheid e di divieto di relazioni tra italiani e popolazioni delle colonie.
1937. Diffusione dell’antiebraismo in Italia, con campagne di stampa e pubblicazioni.
14-15 febbraio 1938. Il Ministero dell’Interno dispone il censimento della religione professata dai propri dipendenti.
14 luglio 1938. Pubblicazione del documento Il fascismo e i problemi della razza. Il testo (talora noto col titolo Manifesto degli scienziati razzisti) fornisce le basi teoriche all’introduzione ufficiale del razzismo.
22 agosto 1938. Censimento speciale nazionale degli ebrei, ad impostazione razzista. Vengono censite 58.412 persone aventi per lo meno un genitore ebreo; di esse, 46.656 sono effettivamente ebree (pari a circa l’1 per mille della popolazione della penisola).
1-2 settembre 1938. Il Consiglio dei ministri approva un primo gruppo di decreti antiebraici. Essi contengono tra l’altro provvedimenti immediati di espulsione degli ebrei dalla scuola e di espulsione della maggior parte degli ebrei stranieri giunti nella penisola dopo il 1918.
6 ottobre 1938. Il Gran consiglio del fascismo approva la Dichiarazione sulla razza. Il testo detta le linee generali della legislazione antiebraica.
7-10 novembre 1938. Il Consiglio dei ministri approva un secondo e più organico gruppo di leggi antiebraiche. Esse tra l’altro contengono la definizione giuridica di “appartenente alla razza ebraica” e dispongono il divieto di matrimonio tra “ariani” e “semiti” o “camiti”; inoltre contengono provvedimenti di espulsione degli ebrei dagli impieghi pubblici e (in forma più completa) dalla scuola, di limitazione del loro diritto di proprietà, ecc.
1938-1942. Espulsione totale degli ebrei dall’esercito; divieto di pubblicazione e rappresentazione di libri, testi, musiche di ebrei; sostanziale espulsione dalle libere professioni; progressiva limitazione delle attività commerciali, degli impieghi presso ditte private, delle iscrizioni nelle liste di collocamento al lavoro.
9 febbraio 1940. Mussolini fa comunicare ufficialmente all’Unione delle comunità israelitiche italiane che tutti gli ebrei italiani dovranno lasciare l’Italia entro pochi anni.
10 giugno 1940. Ingresso dell’Italia in guerra. Internamento degli ebrei italiani giudicati maggiormente “pericolosi” e degli ebrei stranieri cittadini di stati aventi una politica antisemita.
maggio 1942. Istituzione del lavoro obbligatorio per alcune categorie di ebrei italiani.
agosto 1942-primavera 1943. Ad autorità governative, e in particolare a Mussolini, pervengono notizie progressivamente sempre più chiare sull’azione di sterminio di ebrei attuata nei territori controllati dall’alleato tedesco.
maggio-giugno 1943. Decisione di istituire nella penisola campi di internamento e lavoro obbligatorio per ebrei italiani abili al lavoro.
10 luglio 1943. Sbarco degli Alleati in Sicilia.
15, 25 luglio 1943. Decisione italiana di consegnare alla polizia tedesca gli ebrei tedeschi presenti nella Francia sudorientale occupata dall’Italia; direttiva di trasferimento a Bolzano degli internati (per lo più ebrei stranieri) del campo di Ferramonti di Tarsia in Calabria.
25 luglio 1943. Caduta di Mussolini.
estate 1943. Il nuovo governo guidato da Badoglio blocca l’attuazione delle disposizioni del maggio-luglio precedente, revoca alcune circolari, lasciando tuttavia in vigore tutte le leggi persecutorie.
8 settembre 1943. Annuncio dell’armistizio tra il Regno d'Italia e gli Alleati. Fuga del re e del governo al sud.
10 settembre 1943. Inizio ufficiale dell'occupazione militare tedesca della penisola; nelle regioni di Trieste e Trento i tedeschi istituiscono le Operationszonen Adriatisches Kuestenland e Alpenvorland, assumendovi anche i poteri civili.
settembre 1943. Liberazione dell’Italia meridionale e della Sardegna da parte degli Alleati. Nascita delle prime formazioni partigiane nel centro-nord. Colloqui di Mussolini con responsabili nazisti in Germania.
15-16 settembre 1943. Primo convoglio di deportazione di ebrei arrestati in Italia (da Merano) e primi eccidi di ebrei nella penisola (sulla sponda piemontese del lago Maggiore); entrambi ad opera dei nazisti.
23 settembre 1943. Costituzione di un nuovo governo fascista guidato da Mussolini, che assume l’amministrazione dell’Italia centrale e settentrionale (escluse le Operationszonen). Successivamente il nuovo Stato viene denominato Repubblica sociale italiana (Rsi).
23 settembre 1943. Una disposizione interna della polizia tedesca inserisce ufficialmente gli ebrei di cittadinanza italiana tra quelli immediatamente assoggettabili alla deportazione.
16 ottobre 1943. La polizia tedesca attua a Roma una retata di ebrei, la più consistente dell’intero periodo. Due giorni dopo vengono deportate ad Auschwitz 1023 persone.
14 novembre 1943. Approvazione a Verona del “manifesto programmatico” del nuovo Partito fascista repubblicano, il cui punto 7 stabilisce “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”.
30 novembre 1943. Diramazione dell’Ordine di polizia n. 5 del Ministero dell’interno della Rsi, decretante l’arresto degli ebrei di tutte le nazionalità, il loro internamento dapprima in campi provinciali e poi in campi nazionali, il sequestro di tutti i loro beni (alcune settimane dopo verrà disposta la trasformazione dei sequestri in confische definitive).
dicembre 1943. Allestimento del campo nazionale di Fossoli, in attuazione dell’ordine del 30 novembre (i primi ebrei vi vennero trasferiti dai campi provinciali a fine mese).
4-14 dicembre 1943. Decisione tedesca di riconoscere alla Rsi il ruolo principale nell'organizzazione e nella gestione degli arresti e dei concentramenti provinciali.
5 febbraio 1944. Il capo della polizia della Rsi ordina a un prefetto (quello di Reggio Emilia) di consegnare ai tedeschi gli ebrei arrestati da italiani. Si tratta del primo ordine esplicito di tal genere oggi conosciuto; pochi giorni dopo il prefetto risponde comunicando il trasferimento degli ebrei a Fossoli.
19 e 22 febbraio 1944. Partenza dei primi convogli di deportazione da Fossoli (per Bergen Belsen e Auschwitz) organizzati dalla polizia tedesca. Il campo di Fossoli si rivela quindi come il punto operativo di cerniera tra Rsi e Terzo Reich per la deportazione.
23 marzo 1944. Eccidio delle Fosse Ardeatine, a Roma; tra i 335 uccisi vi sono 75 ebrei.
4 giugno 1944. Liberazione di Roma. Avanzata Alleata nell’Italia centrale.
fine luglio-inizi agosto 1944. Chiusura di Fossoli e trasferimento del campo nazionale a Bolzano.
24 febbraio 1945. Ultimo convoglio di deportazione di ebrei dall’Italia (da Trieste per Bergen Belsen).
aprile 1945. Liberazione dell’Italia settentrionale.
* Da La persecuzione degli ebrei durante il fascismo. Le leggi del 1938, Camera dei deputati, Roma 1998, pp. 185-187.
Ordine di arresto degli ebrei della Repubblica sociale italiana*
30 novembre 1943
A tutti i capi delle Provincie Libere
Nr. 5. Comunicasi, per la immediata esecuzione, la seguente ordinanza di Polizia che dovrà essere applicata in tutto il territorio di codesta provincia:
1. Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell'interesse della Repubblica Sociale Italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.
2. Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero, in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, debbono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di polizia.
Siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati.
Ministro Interno Buffarini
http://digilander.libero.it/lopreda/il%20giorno%20della%20memoria.htm
Il 27 gennaio del 1945 venne liberato il campo di sterminio di Auschwitz. La legge 211, tenacemente voluta dal deputato Furio Colombo, istituisce il "Giorno della memoria" per ricordare le vittime della carneficina e gli uomini giusti che vi si opposero. Essa consta di sue articoli.
Parlamento Italiano Legge 20 luglio 2000, n. 211
Istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti*
Art. 1
1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
Art. 2
1. In occasione del “Giorno della Memoria” di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.
La storia del genere umano ha conosciuto innumerevoli eccidi e stermini. Quello attuato in Europa nel Novecento contro gli ebrei differisce dagli altri per le sue caratteristiche di radicalità e scientificità. Mai era accaduto, ad esempio, che persone abitanti nell’isola di Rodi o in Norvegia venissero arrestate per essere deportate in un luogo (Auschwitz) appositamente destinato ad assassinarle con modalità tecnologicamente evolute. Per questo si parla di “unicità” della Shoah; definizione che pertanto costituisce il risultato di una comparazione storica, e non un pregiudiziale rifiuto di essa.Shoah è un vocabolo ebraico che significa catastrofe, distruzione. Esso è sempre più utilizzato per definire ciò che accadde agli ebrei d’Europa dalla metà degli anni Trenta al 1945 e in particolar modo nel quadriennio finale, caratterizzato dall’attuazione del progetto di sistematica uccisione dell’intera popolazione ebraica.
Tale progetto venne deciso e concretizzato dal Terzo Reich nel corso della seconda guerra mondiale; venne attuato con la collaborazione parziale o totale dei governi o dei movimenti politici di altri Stati; venne interrotto dalla vittoria militare dell’Alleanza degli Stati antifascisti e dei movimenti di Resistenza. Se invece i vincitori fossero stati la Germania nazista, l’Italia fascista, la Francia di Vichy, la Croazia degli ustascia ecc., non un solo ebreo sarebbe rimasto in vita nei territori controllati da questi.Ricordarsi di quelle vittime serve a mantenere memoria delle loro esistenze e del perché esse vennero troncate. E la memoria di questo passato serve ad aiutarci a costruire il futuro.
Molti Stati hanno istituito un “giorno della memoria”. L’Italia lo ha fissato al 27 gennaio: la data in cui nel 1945 fu liberato il campo di sterminio di Auschwitz. In effetti altri ebrei, d’Italia e d’Europa, vennero uccisi nelle settimane seguenti. Ma la data della Liberazione di quel campo è stata giudicata più adatta di altre a simboleggiare la Shoah e la sua fine.Ovviamente la Shoah fu un evento storico interrelato con gli altri avvenimenti storici; per questo la legge italiana indica altri gruppi di persone la cui memoria va mantenuta viva: coloro che, a rischio della propria vita, combatterono il fascismo e il nazismo e coloro che comunque contrastarono lo sterminio e salvarono delle vite.
Cronologia della persecuzione antiebraica in Italia*
28 ottobre 1922. I fascisti “marciano su Roma”. Il giorno dopo il re Vittorio Emanuele III incarica Mussolini di formare il nuovo governo.
6 aprile 1924. Vittoria della lista dei fascisti e dei loro alleati alle elezioni per la Camera.
3 gennaio 1925. Mussolini alla Camera si assume la responsabilità dell’assassinio (avvenuto il 10 giugno precedente) del deputato socialista Giacomo Matteotti.
novembre 1926. Varo delle leggi “fascistissime”: scioglimento di tutte le associazioni e i partiti contrari al fascismo, istituzione del confino di polizia per gli oppositori ecc.
11 febbraio 1929. Firma dei Patti lateranensi tra Italia e Chiesa cattolica.
30 gennaio 1933. Hitler diventa cancelliere del Reich tedesco. Introduzione della legislazione antiebraica nella Germania nazista.
1936-1937. Il governo fascista del Regno d’Italia, in connessione con la conquista e la colonizzazione dell’Etiopia, approfondisce il razzismo e vara primi provvedimenti di apartheid e di divieto di relazioni tra italiani e popolazioni delle colonie.
1937. Diffusione dell’antiebraismo in Italia, con campagne di stampa e pubblicazioni.
14-15 febbraio 1938. Il Ministero dell’Interno dispone il censimento della religione professata dai propri dipendenti.
14 luglio 1938. Pubblicazione del documento Il fascismo e i problemi della razza. Il testo (talora noto col titolo Manifesto degli scienziati razzisti) fornisce le basi teoriche all’introduzione ufficiale del razzismo.
22 agosto 1938. Censimento speciale nazionale degli ebrei, ad impostazione razzista. Vengono censite 58.412 persone aventi per lo meno un genitore ebreo; di esse, 46.656 sono effettivamente ebree (pari a circa l’1 per mille della popolazione della penisola).
1-2 settembre 1938. Il Consiglio dei ministri approva un primo gruppo di decreti antiebraici. Essi contengono tra l’altro provvedimenti immediati di espulsione degli ebrei dalla scuola e di espulsione della maggior parte degli ebrei stranieri giunti nella penisola dopo il 1918.
6 ottobre 1938. Il Gran consiglio del fascismo approva la Dichiarazione sulla razza. Il testo detta le linee generali della legislazione antiebraica.
7-10 novembre 1938. Il Consiglio dei ministri approva un secondo e più organico gruppo di leggi antiebraiche. Esse tra l’altro contengono la definizione giuridica di “appartenente alla razza ebraica” e dispongono il divieto di matrimonio tra “ariani” e “semiti” o “camiti”; inoltre contengono provvedimenti di espulsione degli ebrei dagli impieghi pubblici e (in forma più completa) dalla scuola, di limitazione del loro diritto di proprietà, ecc.
1938-1942. Espulsione totale degli ebrei dall’esercito; divieto di pubblicazione e rappresentazione di libri, testi, musiche di ebrei; sostanziale espulsione dalle libere professioni; progressiva limitazione delle attività commerciali, degli impieghi presso ditte private, delle iscrizioni nelle liste di collocamento al lavoro.
9 febbraio 1940. Mussolini fa comunicare ufficialmente all’Unione delle comunità israelitiche italiane che tutti gli ebrei italiani dovranno lasciare l’Italia entro pochi anni.
10 giugno 1940. Ingresso dell’Italia in guerra. Internamento degli ebrei italiani giudicati maggiormente “pericolosi” e degli ebrei stranieri cittadini di stati aventi una politica antisemita.
maggio 1942. Istituzione del lavoro obbligatorio per alcune categorie di ebrei italiani.
agosto 1942-primavera 1943. Ad autorità governative, e in particolare a Mussolini, pervengono notizie progressivamente sempre più chiare sull’azione di sterminio di ebrei attuata nei territori controllati dall’alleato tedesco.
maggio-giugno 1943. Decisione di istituire nella penisola campi di internamento e lavoro obbligatorio per ebrei italiani abili al lavoro.
10 luglio 1943. Sbarco degli Alleati in Sicilia.
15, 25 luglio 1943. Decisione italiana di consegnare alla polizia tedesca gli ebrei tedeschi presenti nella Francia sudorientale occupata dall’Italia; direttiva di trasferimento a Bolzano degli internati (per lo più ebrei stranieri) del campo di Ferramonti di Tarsia in Calabria.
25 luglio 1943. Caduta di Mussolini.
estate 1943. Il nuovo governo guidato da Badoglio blocca l’attuazione delle disposizioni del maggio-luglio precedente, revoca alcune circolari, lasciando tuttavia in vigore tutte le leggi persecutorie.
8 settembre 1943. Annuncio dell’armistizio tra il Regno d'Italia e gli Alleati. Fuga del re e del governo al sud.
10 settembre 1943. Inizio ufficiale dell'occupazione militare tedesca della penisola; nelle regioni di Trieste e Trento i tedeschi istituiscono le Operationszonen Adriatisches Kuestenland e Alpenvorland, assumendovi anche i poteri civili.
settembre 1943. Liberazione dell’Italia meridionale e della Sardegna da parte degli Alleati. Nascita delle prime formazioni partigiane nel centro-nord. Colloqui di Mussolini con responsabili nazisti in Germania.
15-16 settembre 1943. Primo convoglio di deportazione di ebrei arrestati in Italia (da Merano) e primi eccidi di ebrei nella penisola (sulla sponda piemontese del lago Maggiore); entrambi ad opera dei nazisti.
23 settembre 1943. Costituzione di un nuovo governo fascista guidato da Mussolini, che assume l’amministrazione dell’Italia centrale e settentrionale (escluse le Operationszonen). Successivamente il nuovo Stato viene denominato Repubblica sociale italiana (Rsi).
23 settembre 1943. Una disposizione interna della polizia tedesca inserisce ufficialmente gli ebrei di cittadinanza italiana tra quelli immediatamente assoggettabili alla deportazione.
16 ottobre 1943. La polizia tedesca attua a Roma una retata di ebrei, la più consistente dell’intero periodo. Due giorni dopo vengono deportate ad Auschwitz 1023 persone.
14 novembre 1943. Approvazione a Verona del “manifesto programmatico” del nuovo Partito fascista repubblicano, il cui punto 7 stabilisce “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”.
30 novembre 1943. Diramazione dell’Ordine di polizia n. 5 del Ministero dell’interno della Rsi, decretante l’arresto degli ebrei di tutte le nazionalità, il loro internamento dapprima in campi provinciali e poi in campi nazionali, il sequestro di tutti i loro beni (alcune settimane dopo verrà disposta la trasformazione dei sequestri in confische definitive).
dicembre 1943. Allestimento del campo nazionale di Fossoli, in attuazione dell’ordine del 30 novembre (i primi ebrei vi vennero trasferiti dai campi provinciali a fine mese).
4-14 dicembre 1943. Decisione tedesca di riconoscere alla Rsi il ruolo principale nell'organizzazione e nella gestione degli arresti e dei concentramenti provinciali.
5 febbraio 1944. Il capo della polizia della Rsi ordina a un prefetto (quello di Reggio Emilia) di consegnare ai tedeschi gli ebrei arrestati da italiani. Si tratta del primo ordine esplicito di tal genere oggi conosciuto; pochi giorni dopo il prefetto risponde comunicando il trasferimento degli ebrei a Fossoli.
19 e 22 febbraio 1944. Partenza dei primi convogli di deportazione da Fossoli (per Bergen Belsen e Auschwitz) organizzati dalla polizia tedesca. Il campo di Fossoli si rivela quindi come il punto operativo di cerniera tra Rsi e Terzo Reich per la deportazione.
23 marzo 1944. Eccidio delle Fosse Ardeatine, a Roma; tra i 335 uccisi vi sono 75 ebrei.
4 giugno 1944. Liberazione di Roma. Avanzata Alleata nell’Italia centrale.
fine luglio-inizi agosto 1944. Chiusura di Fossoli e trasferimento del campo nazionale a Bolzano.
24 febbraio 1945. Ultimo convoglio di deportazione di ebrei dall’Italia (da Trieste per Bergen Belsen).
aprile 1945. Liberazione dell’Italia settentrionale.
* Da La persecuzione degli ebrei durante il fascismo. Le leggi del 1938, Camera dei deputati, Roma 1998, pp. 185-187.
Ordine di arresto degli ebrei della Repubblica sociale italiana*
30 novembre 1943
A tutti i capi delle Provincie Libere
Nr. 5. Comunicasi, per la immediata esecuzione, la seguente ordinanza di Polizia che dovrà essere applicata in tutto il territorio di codesta provincia:
1. Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in attesa di essere confiscati nell'interesse della Repubblica Sociale Italiana, la quale li destinerà a beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni aeree nemiche.
2. Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero, in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, debbono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di polizia.
Siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati.
Ministro Interno Buffarini
http://digilander.libero.it/lopreda/il%20giorno%20della%20memoria.htm
Re: Comincia oggi la settimana della Memoria
Poesie su olocausto, Shoah, Giorno della memoria
Voce della memoria
Se ascolto
la voce del dolore
so che ha suoni
d'umanità,
lungo il cammino
d'ogni epoca
che ha costruito storie.
E sempre va quella voce
a raccontare i passi errati
dell'uomo
o gli eroici slanci
unici ad alleviare arroganze.
Se ascolto la memoria,
scruto in immagini
fatti di stupiti silenzi,
tutti gli spasmi di eventi
che piangono
ancora del buio feroce
di menti e fantasmi,
in lunghe file di martirio,
s'addensano in coro
a far risentire il canto della morte
tra un fumo
che non è nebbia di palude
ma eccidio di membra innocenti.
Siamo tutti uguali
Tutti siamo uguali.
Bianco, nero e giallo.
Il passato mai dimenticare.
Sguardi spenti e lacrime dorate,
donne bruciate
bimbi assassinati.
Uomini derubati nell'animo
uomini torturati
e poi annientati.
Odori acri senza colori
manine insanguinate
e donne nei pianti annegate.
Siamo tutti uguali.
Frase forse banale
ma vera e reale.
Sol per oggi non dimenticare
un fiore pregiato
e un pianto falso sono un inganno.
Per l'eternità insegnare
per l'eternità ogni giorno quel ricordo.
Per l'eternità
annientare ogni ideologia
ideologia sempre priva di fantasia.
Sol per oggi è ipocrisia.
Il ricordo va coltivato.
Ogni momento
ogni istante
da tutti i popoli
da tutti i cuori.
Ogni singolo giorno
per l'eternità.
Innumerevoli sospiri
ma senza falsità
Per non dimenticare
Due agosto 1980
ore 10:23,
gente indaffarata
con valige e borse,
bambini vivaci
attaccati
alle gonne
delle mamme
o ai calzoni
dei padri
per prender posto
sui treni in sosta
alla Stazione Centrale
di Bologna.
Ore 10:24,
la scena è la stessa,
solo un bambino
cadendo
con il gelatino
piange,
ma è subito
acchetato
dalla mano sicura
del padre.
Ore 10:25,
un boato terribile
squarcia l' aria,
donne, bambini,
uomini e cose
si trovano
in un caos
indescrivibile;
quando la cosa
si placa un po',
si contano
morti e feriti,
sono tanti,
ma non sono
solo numeri.
Oggi 2 agosto 2010
li ricordiamo
come ognuno di noi può,
magari chi
impossibilitato è
sul posto della strage,
che non ha un perché,
di persona
recarsi,
almeno
osservi
un paio di minuti
di silenzio,
in onore di quelle inutili
VITTIME,
per mano
di chi
la vita
disprezza.
Voce della memoria
Se ascolto
la voce del dolore
so che ha suoni
d'umanità,
lungo il cammino
d'ogni epoca
che ha costruito storie.
E sempre va quella voce
a raccontare i passi errati
dell'uomo
o gli eroici slanci
unici ad alleviare arroganze.
Se ascolto la memoria,
scruto in immagini
fatti di stupiti silenzi,
tutti gli spasmi di eventi
che piangono
ancora del buio feroce
di menti e fantasmi,
in lunghe file di martirio,
s'addensano in coro
a far risentire il canto della morte
tra un fumo
che non è nebbia di palude
ma eccidio di membra innocenti.
Siamo tutti uguali
Tutti siamo uguali.
Bianco, nero e giallo.
Il passato mai dimenticare.
Sguardi spenti e lacrime dorate,
donne bruciate
bimbi assassinati.
Uomini derubati nell'animo
uomini torturati
e poi annientati.
Odori acri senza colori
manine insanguinate
e donne nei pianti annegate.
Siamo tutti uguali.
Frase forse banale
ma vera e reale.
Sol per oggi non dimenticare
un fiore pregiato
e un pianto falso sono un inganno.
Per l'eternità insegnare
per l'eternità ogni giorno quel ricordo.
Per l'eternità
annientare ogni ideologia
ideologia sempre priva di fantasia.
Sol per oggi è ipocrisia.
Il ricordo va coltivato.
Ogni momento
ogni istante
da tutti i popoli
da tutti i cuori.
Ogni singolo giorno
per l'eternità.
Innumerevoli sospiri
ma senza falsità
Per non dimenticare
Due agosto 1980
ore 10:23,
gente indaffarata
con valige e borse,
bambini vivaci
attaccati
alle gonne
delle mamme
o ai calzoni
dei padri
per prender posto
sui treni in sosta
alla Stazione Centrale
di Bologna.
Ore 10:24,
la scena è la stessa,
solo un bambino
cadendo
con il gelatino
piange,
ma è subito
acchetato
dalla mano sicura
del padre.
Ore 10:25,
un boato terribile
squarcia l' aria,
donne, bambini,
uomini e cose
si trovano
in un caos
indescrivibile;
quando la cosa
si placa un po',
si contano
morti e feriti,
sono tanti,
ma non sono
solo numeri.
Oggi 2 agosto 2010
li ricordiamo
come ognuno di noi può,
magari chi
impossibilitato è
sul posto della strage,
che non ha un perché,
di persona
recarsi,
almeno
osservi
un paio di minuti
di silenzio,
in onore di quelle inutili
VITTIME,
per mano
di chi
la vita
disprezza.
Re: Comincia oggi la settimana della Memoria
La memoria
Sono in molti a pensare che la Storia sia un fedele resoconto su basi sempre più scientifiche di eventi ed avvenimenti umani e la scientificità della Storia può solo dipendere dal metodo con cui viene compiuta la ricognizione in ogni tipo di vestigio, documento, testimonianza. Deve trattarsi di un metodo obiettivo che possa tramandarci, consegnarci la Storia distaccata dalla passione, senza astigmatismi, con orizzonti agli occhi. Ma se la vita è prevalentemente passione come può la storia parlare un linguaggio diverso ai viventi, ai posteri; perché non dovrebbe assumere essa stessa i toni della passione? Può la ricostruzione storica dei fatti prescindere dal dolore e dalla tragicità degli eventi narrati? Vi è in ciò una concezione fatalmente semplicistica che si compendia nella presunzione di una storia totalmente estranea alla sua stessa umanità.
E' una storia che si vorrebbe fatta di tracce materiali, di registrazioni filmate o di documentazioni scritte, una storia che assume con sospetto la testimonianza diretta, che rifugge dalla memoria dei sopravvissuti e che sovente rifiuta l'analisi critica degli eventi. L'era dell'elettronica potrà forse mutare definitivamente gli strumenti e le fonti della storiografia. Restano tuttavia eventi, anche recenti, che nella loro tragicità devono per essere raccontati, transitare dalla memoria dei sopravvissuti, rivivere nei racconti e nelle parole dei superstiti per divenire memoria collettiva, insegnamento e monito per le future generazioni: anche questa è storia.
La tragedia europea del novecento resta, anche e soprattutto, un momento di doverosa memoria collettiva.
C'è in questa vicenda, che attraversa il secolo trascorso, un contenuto che travalica i singoli eventi, la loro puntuale ricostruzione storica, c'è in questo secolo così vicino eppure così troppo spesso pudicamente dimenticato nei suoi più tragici momenti, un dato che oltrepassa la scientificità della storia e attiene all'essenza stessa dei valori della civiltà europea, dell'essere cittadino d'Europa: siamo e ci riconosciamo cittadini di un medesimo continente unito in primo luogo perché partecipi di un'identica tragedia collettiva oltre che di medesimi valori.
L'analisi storica ci permette di cogliere cause e ragioni dello sterminio degli ebrei; le responsabilità, individuali e collettive, quelle dirette e quelle indirette; si può giungere addirittura a riconoscere nei fatti della storia i chiari segni premonitori di una tragedia ampiamente prevedibile e anche prevista (anche in ciò sta l'identità comune degli europei). Ma ciò che alla fine emerge con assoluta certezza è l'appartenenza della Shoah a tutta l' Europa, alla sua memoria storica. Emerge allora l'importanza delle testimonianze dei sopravvissuti, del loro dolore, di ogni singolo episodio quotidiano che concorre a ricostruire, al di là dell'imponenza drammatica delle cifre (i sei milioni di morti), la tragicità umana di tale vicenda, la grandezza del dolore che è sempre comunque dolore del singolo e non può mai semplicemente sommarsi, ma deve essere letto e conosciuto ognuno per proprio conto.
Vi è, in certe ricorrenti tesi negazioniste (1) il tentativo di condurre la vicenda dello sterminio degli ebrei in Europa nel campo delle prove storiche, attraverso argomentazioni pseudoscientifiche a cui è purtroppo sin troppo facile rispondere con dovizia di particolari. Tra le argomentazioni ricorrenti usate dai negazionisti fa spicco quella che mira a screditare la valenza delle testimonianze dirette dei sopravvissuti. C' è in ciò un tentativo di mistificazione che va ben al di là della negazione della "Shoah": non è un fatto storico ad essere negato, ma addirittura il diritto individuale di ogni sopravvissuto a vedersi riconosciuto il proprio ruolo di portatore della memoria, di testimone vivente dei fatti. Di tale ruolo ci ha reso una testimonianza esemplare e indimenticabile Primo Levi con la sua opera letteraria, ma prima ancora con il suo sforzo umano nel ricordare. Ciò che per Levi costituì un dovere verso sé stesso e i suoi compagni di prigionia diviene per tutti noi un obbligo a salvaguardia di qui valori di libertà, tolleranza e democrazia che appunto perché valori autentici non possono mai darsi per scontati.
Riportiamo di seguito tre tra le innumerevoli testimonianze che si possono reperire sulla Shoah
La prima è stata raccolta direttamente durante un incontro didattico, le altre sono tratte da archivi documentaristici divenuti assai numerosi solo negli ultimi anni, dopo che la definitiva rimozione di quel velo omertoso che ha coinvolto le stesse forze alleate vincitrici del II conflitto, temuto sopra ogni altra cosa da Levi.
Ognuna di tali testimonianze arricchisce di particolari, spesso identici, la nostra conoscenza dei fatti: ma soprattutto, nella loro dovizia di dettagli, ci rinnova nella mente un evento che per la sua drammaticità rischia di essere confuso con l'immaginario.
Testimonianza di Liliana Segre resa il 29/11/2002 ad Arezzo nell'incontro con alcune scuole della Toscana
Liliana Segre è un'anziana signora ebrea di 72 anni, portamento elegante e distinto, voce energica, occhi vivi e volto sereno. E' seduta su una poltrona sopra il palco, davanti a lei un pubblico ammutolito, pietrificato.
Inizia la testimonianza, d'un fiato, con emozione, ma senza concessioni al pietismo.
La storia di questa donna si svolge in un tempo a noi molto lontano, così distante da essere quasi inimmaginabile. Si parla di guerra, di regimi, di leggi razziali, di deportazioni, di violenze inaudite, ma anche di indifferenza: è la storia dell'olocausto, mai troppo raccontata, mai troppo conosciuta.
Liliana Segre è figlia unica, appartiene ad una famiglia della piccola borghesia milanese. E' ancora bambina, frequenta la seconda elementare, quando nel 1938 conosce l'umiliazione delle leggi razziali. Il fascismo, con l'avallo di casa Savoia, si mostra ad un Italia indifferente e ancora ubriaca dei miti del regime con il suo volto più bieco: divieto di matrimoni misti, divieto di frequentare scuole pubbliche, divieto di ricoprire incarichi pubblici e di esercitare professioni. Le leggi razziali segnano l'inizio dell'antisemitismo in Italia, fino ad allora rimasta estranea al clima di odio che già da un secolo animava le nazioni dell'Europa centrale e orientale. Nel 1938 Mussolini fa pubblicare il "Manifesto della razza", si accoda all'ideologia nazista e dichiara l'esistenza di una razza "pura italiana" che esclude gli ebrei. Lo stato liberale aveva consentito alla piccola comunità ebraica italiana di integrarsi perfettamente nella società civile e lo stesso regime fascista aveva di fatto tollerato benevolmente gli ebrei sino al 1938, quando l'alleato tedesco pretende il pagamento di un tributo d'amicizia e il regime è colto dall'ennesimo sussulto di emulazione.
Liliana Segre ci racconta lo sconcerto di una bambina, cresciuta in una famiglia laica, che di colpo si vede esclusa dalla scuola e dagli amici, emarginata nell' indifferenza di un di un paese che è sempre stato il proprio. E' davvero singolare la sorte degli ebrei italiani, una sorta di minoranza per disposizione di legge, italiani che di colpo si ritrovano stranieri in casa propria. Ci spiega lo sbigottimento di fronte all' improvviso voltafaccia di tanti amici, ma oggi soprattutto ricorda con amarezza l'indifferenza con cui un'intera nazione accolse leggi così assurde.
Ma la sua vita procede comunque con una certa tranquillità fino al 1943, quando l'alleato di una volta diviene nemico e inizia la persecuzione e la deportazione degli ebrei italiani. Liliana è costretta a nascondersi, celando la propria identità sotto il falso nome di Liliana Cherubini. Vive separata dal padre presso una famiglia che la ospita e la nasconde. Tenta la fuga in Svizzera con il padre e i nonni, ma sono scoperti e rinchiusi in carcere. Ci racconta gli interrogatori della Gestapo e le torture fino alla deportazione ad Auschwitz dove si separa dai familiari che non rivedrà mai più.
Il viaggio per giungere al campo non è diverso da quelli che ci ha raccontato il cinema e la televisione: i carri bestiame, la calca, lo smarrimento. Sentircelo raccontare però, da chi quel viaggio lo ha fatto, è stato diverso.
Anche l'arrivo ad Auschwitz e la vita nel campo è così simile a quello che tante volte ci è stato mostrato, che si legge nel libro di Primo Levi, che la descrizione potrebbe sembrare inutile, ma così non è. Ogni vita passata per quei luoghi è un dramma a parte, un tormento che deve essere ascoltato perché il dolore non è mai uguale. Ogni numero tatuato sulla pelle è un uomo a dispetto della maniacale organizzazione nazista.
Ci racconta anche i momenti belli vissuti nonostante la tragedia: l'incontro con un'insegnante belga di storia, l'amicizia con Janine, l'amica che non ce la farà. Anche Liliana come Primo levi si salverà grazie alla casualità di un lavoro forzato che la conduce fuori dall'inferno, nella fabbrica Union. C'è un aspetto della vita dei lager che non andrebbe mai dimenticato: è l'enorme quantità di lavoro, la grande ricchezza prodotta dagli schiavi dei campi di concentramento. E' una questione non secondaria, che apre una voragine nella presunta innocenza del popolo tedesco e di tanti che non sapevano o forse non volevano sapere.
Liliana parla senza interruzioni, senza domande. E' in grado di darci tutte le risposte senza che nessuno si alzi a chiedere. Ci descrive il suo attaccamento animale alla vita, la sua voglia di vivere al di là delle umiliazioni, della fatica, della fame, del dolore provocato dalle ossa dei fianchi che bucavano la pelle senza più carne. Ci rapisce con il racconto dell'incontro con Josef Mengele, l'angelo della morte, il medico nazista che sembra uscito da un film dell'orrore se non fosse vero. Ci racconta l'avventura della marcia della morte, quando, con i russi alle porte, i tedeschi tentano la cancellazione dei lager e del carico umano rimasto, fino al momento in cui il carnefice dismette la sua veste e si nasconde in mezzo alle vittime. Allora, di fronte ad una fin troppo facile occasione di giustizia, la nostra narratrice rinuncia a sparare al suo aguzzino per non smarrire mai, neanche in quel momento finale, la sua scelta per la vita.
Alla storia che ci ha raccontato Liliana Segre si addice il proverbio yddish: "quando il sorriso scaturisce dalle lacrime l'universo si spalanca".
Sono in molti a pensare che la Storia sia un fedele resoconto su basi sempre più scientifiche di eventi ed avvenimenti umani e la scientificità della Storia può solo dipendere dal metodo con cui viene compiuta la ricognizione in ogni tipo di vestigio, documento, testimonianza. Deve trattarsi di un metodo obiettivo che possa tramandarci, consegnarci la Storia distaccata dalla passione, senza astigmatismi, con orizzonti agli occhi. Ma se la vita è prevalentemente passione come può la storia parlare un linguaggio diverso ai viventi, ai posteri; perché non dovrebbe assumere essa stessa i toni della passione? Può la ricostruzione storica dei fatti prescindere dal dolore e dalla tragicità degli eventi narrati? Vi è in ciò una concezione fatalmente semplicistica che si compendia nella presunzione di una storia totalmente estranea alla sua stessa umanità.
E' una storia che si vorrebbe fatta di tracce materiali, di registrazioni filmate o di documentazioni scritte, una storia che assume con sospetto la testimonianza diretta, che rifugge dalla memoria dei sopravvissuti e che sovente rifiuta l'analisi critica degli eventi. L'era dell'elettronica potrà forse mutare definitivamente gli strumenti e le fonti della storiografia. Restano tuttavia eventi, anche recenti, che nella loro tragicità devono per essere raccontati, transitare dalla memoria dei sopravvissuti, rivivere nei racconti e nelle parole dei superstiti per divenire memoria collettiva, insegnamento e monito per le future generazioni: anche questa è storia.
La tragedia europea del novecento resta, anche e soprattutto, un momento di doverosa memoria collettiva.
C'è in questa vicenda, che attraversa il secolo trascorso, un contenuto che travalica i singoli eventi, la loro puntuale ricostruzione storica, c'è in questo secolo così vicino eppure così troppo spesso pudicamente dimenticato nei suoi più tragici momenti, un dato che oltrepassa la scientificità della storia e attiene all'essenza stessa dei valori della civiltà europea, dell'essere cittadino d'Europa: siamo e ci riconosciamo cittadini di un medesimo continente unito in primo luogo perché partecipi di un'identica tragedia collettiva oltre che di medesimi valori.
L'analisi storica ci permette di cogliere cause e ragioni dello sterminio degli ebrei; le responsabilità, individuali e collettive, quelle dirette e quelle indirette; si può giungere addirittura a riconoscere nei fatti della storia i chiari segni premonitori di una tragedia ampiamente prevedibile e anche prevista (anche in ciò sta l'identità comune degli europei). Ma ciò che alla fine emerge con assoluta certezza è l'appartenenza della Shoah a tutta l' Europa, alla sua memoria storica. Emerge allora l'importanza delle testimonianze dei sopravvissuti, del loro dolore, di ogni singolo episodio quotidiano che concorre a ricostruire, al di là dell'imponenza drammatica delle cifre (i sei milioni di morti), la tragicità umana di tale vicenda, la grandezza del dolore che è sempre comunque dolore del singolo e non può mai semplicemente sommarsi, ma deve essere letto e conosciuto ognuno per proprio conto.
Vi è, in certe ricorrenti tesi negazioniste (1) il tentativo di condurre la vicenda dello sterminio degli ebrei in Europa nel campo delle prove storiche, attraverso argomentazioni pseudoscientifiche a cui è purtroppo sin troppo facile rispondere con dovizia di particolari. Tra le argomentazioni ricorrenti usate dai negazionisti fa spicco quella che mira a screditare la valenza delle testimonianze dirette dei sopravvissuti. C' è in ciò un tentativo di mistificazione che va ben al di là della negazione della "Shoah": non è un fatto storico ad essere negato, ma addirittura il diritto individuale di ogni sopravvissuto a vedersi riconosciuto il proprio ruolo di portatore della memoria, di testimone vivente dei fatti. Di tale ruolo ci ha reso una testimonianza esemplare e indimenticabile Primo Levi con la sua opera letteraria, ma prima ancora con il suo sforzo umano nel ricordare. Ciò che per Levi costituì un dovere verso sé stesso e i suoi compagni di prigionia diviene per tutti noi un obbligo a salvaguardia di qui valori di libertà, tolleranza e democrazia che appunto perché valori autentici non possono mai darsi per scontati.
Riportiamo di seguito tre tra le innumerevoli testimonianze che si possono reperire sulla Shoah
La prima è stata raccolta direttamente durante un incontro didattico, le altre sono tratte da archivi documentaristici divenuti assai numerosi solo negli ultimi anni, dopo che la definitiva rimozione di quel velo omertoso che ha coinvolto le stesse forze alleate vincitrici del II conflitto, temuto sopra ogni altra cosa da Levi.
Ognuna di tali testimonianze arricchisce di particolari, spesso identici, la nostra conoscenza dei fatti: ma soprattutto, nella loro dovizia di dettagli, ci rinnova nella mente un evento che per la sua drammaticità rischia di essere confuso con l'immaginario.
Testimonianza di Liliana Segre resa il 29/11/2002 ad Arezzo nell'incontro con alcune scuole della Toscana
Liliana Segre è un'anziana signora ebrea di 72 anni, portamento elegante e distinto, voce energica, occhi vivi e volto sereno. E' seduta su una poltrona sopra il palco, davanti a lei un pubblico ammutolito, pietrificato.
Inizia la testimonianza, d'un fiato, con emozione, ma senza concessioni al pietismo.
La storia di questa donna si svolge in un tempo a noi molto lontano, così distante da essere quasi inimmaginabile. Si parla di guerra, di regimi, di leggi razziali, di deportazioni, di violenze inaudite, ma anche di indifferenza: è la storia dell'olocausto, mai troppo raccontata, mai troppo conosciuta.
Liliana Segre è figlia unica, appartiene ad una famiglia della piccola borghesia milanese. E' ancora bambina, frequenta la seconda elementare, quando nel 1938 conosce l'umiliazione delle leggi razziali. Il fascismo, con l'avallo di casa Savoia, si mostra ad un Italia indifferente e ancora ubriaca dei miti del regime con il suo volto più bieco: divieto di matrimoni misti, divieto di frequentare scuole pubbliche, divieto di ricoprire incarichi pubblici e di esercitare professioni. Le leggi razziali segnano l'inizio dell'antisemitismo in Italia, fino ad allora rimasta estranea al clima di odio che già da un secolo animava le nazioni dell'Europa centrale e orientale. Nel 1938 Mussolini fa pubblicare il "Manifesto della razza", si accoda all'ideologia nazista e dichiara l'esistenza di una razza "pura italiana" che esclude gli ebrei. Lo stato liberale aveva consentito alla piccola comunità ebraica italiana di integrarsi perfettamente nella società civile e lo stesso regime fascista aveva di fatto tollerato benevolmente gli ebrei sino al 1938, quando l'alleato tedesco pretende il pagamento di un tributo d'amicizia e il regime è colto dall'ennesimo sussulto di emulazione.
Liliana Segre ci racconta lo sconcerto di una bambina, cresciuta in una famiglia laica, che di colpo si vede esclusa dalla scuola e dagli amici, emarginata nell' indifferenza di un di un paese che è sempre stato il proprio. E' davvero singolare la sorte degli ebrei italiani, una sorta di minoranza per disposizione di legge, italiani che di colpo si ritrovano stranieri in casa propria. Ci spiega lo sbigottimento di fronte all' improvviso voltafaccia di tanti amici, ma oggi soprattutto ricorda con amarezza l'indifferenza con cui un'intera nazione accolse leggi così assurde.
Ma la sua vita procede comunque con una certa tranquillità fino al 1943, quando l'alleato di una volta diviene nemico e inizia la persecuzione e la deportazione degli ebrei italiani. Liliana è costretta a nascondersi, celando la propria identità sotto il falso nome di Liliana Cherubini. Vive separata dal padre presso una famiglia che la ospita e la nasconde. Tenta la fuga in Svizzera con il padre e i nonni, ma sono scoperti e rinchiusi in carcere. Ci racconta gli interrogatori della Gestapo e le torture fino alla deportazione ad Auschwitz dove si separa dai familiari che non rivedrà mai più.
Il viaggio per giungere al campo non è diverso da quelli che ci ha raccontato il cinema e la televisione: i carri bestiame, la calca, lo smarrimento. Sentircelo raccontare però, da chi quel viaggio lo ha fatto, è stato diverso.
Anche l'arrivo ad Auschwitz e la vita nel campo è così simile a quello che tante volte ci è stato mostrato, che si legge nel libro di Primo Levi, che la descrizione potrebbe sembrare inutile, ma così non è. Ogni vita passata per quei luoghi è un dramma a parte, un tormento che deve essere ascoltato perché il dolore non è mai uguale. Ogni numero tatuato sulla pelle è un uomo a dispetto della maniacale organizzazione nazista.
Ci racconta anche i momenti belli vissuti nonostante la tragedia: l'incontro con un'insegnante belga di storia, l'amicizia con Janine, l'amica che non ce la farà. Anche Liliana come Primo levi si salverà grazie alla casualità di un lavoro forzato che la conduce fuori dall'inferno, nella fabbrica Union. C'è un aspetto della vita dei lager che non andrebbe mai dimenticato: è l'enorme quantità di lavoro, la grande ricchezza prodotta dagli schiavi dei campi di concentramento. E' una questione non secondaria, che apre una voragine nella presunta innocenza del popolo tedesco e di tanti che non sapevano o forse non volevano sapere.
Liliana parla senza interruzioni, senza domande. E' in grado di darci tutte le risposte senza che nessuno si alzi a chiedere. Ci descrive il suo attaccamento animale alla vita, la sua voglia di vivere al di là delle umiliazioni, della fatica, della fame, del dolore provocato dalle ossa dei fianchi che bucavano la pelle senza più carne. Ci rapisce con il racconto dell'incontro con Josef Mengele, l'angelo della morte, il medico nazista che sembra uscito da un film dell'orrore se non fosse vero. Ci racconta l'avventura della marcia della morte, quando, con i russi alle porte, i tedeschi tentano la cancellazione dei lager e del carico umano rimasto, fino al momento in cui il carnefice dismette la sua veste e si nasconde in mezzo alle vittime. Allora, di fronte ad una fin troppo facile occasione di giustizia, la nostra narratrice rinuncia a sparare al suo aguzzino per non smarrire mai, neanche in quel momento finale, la sua scelta per la vita.
Alla storia che ci ha raccontato Liliana Segre si addice il proverbio yddish: "quando il sorriso scaturisce dalle lacrime l'universo si spalanca".
Re: Comincia oggi la settimana della Memoria
Testimonianza di Natalia Tedeschi
Natalia Tedeschinata a Genova nel 1922, residente a Torino
Arresto
Effettuato dalle SS, nel febbraio del 1944 a Casteldelfino (CN), con la madre e la nonna, dopo essere state denunciate come ebree.
Carcerazione
- a Venasca (CN), nelle scuole
- a Torino, all'Albergo Nazionale, sede SS
Deportazione
Nei Lager nazisti d'Italia: a Fossoli
Nei Lager nazisti d'oltralpe:
- in Polonia, ad Auschwitz-Birkenau, matricola n.A-5404
- in Germania, a Bergen Belsen, A Dessau (sottocampo di Buchenwald)-
- nella Repubblica Ceca, a Terezin
Liberazione
Avvenuta a Terezin, il 6 maggio 1945, da parte dell'Armata Rossa
Ritorno a casa
Non assistito, effettuato per lo più a piedi e con mezzi di fortuna
Note: la madre e la nonna morirono a Birkenau, dove fu ucciso anche il fratello di Natalia, Vittorio, arrestato però in un'altra occasione
La testimonianza
Sono Natalia Tedeschi, sono nata a Genova il 19 giugno del 1922. Sono di famiglia ebrea. I miei fratelli, al momento delle leggi razziali, erano tutti e tre all'università... Io nel 1938 - avevo sedici anni - ho dovuto interrompere gli studi. Poi, con tutte le varie vicissitudini della guerra, siamo sfollati con mia mamma e mia nonna a Saluzzo. Dei miei fratelli, uno era andato con i partigiani, uno era nascosto a Torino e l'altro è andato in Svizzera. Io sono rimasta sola con mia mamma e con mia nonna.
Un giorno, mentre eravamo lì a Saluzzo, sono scesa nella hall di questo piccolissimo albergo, dove eravamo, e sono arrivati due SS italiani. Sento che dicono "Siamo venuti ad arrestare quella famiglia di ebrei". Io sono corsa immediatamente ad avvisare mia mamma e mia nonna... Ancora adesso penso che, forse, sapendo che eravamo lì, penso, ma con molto ottimismo, solo adesso, che forse hanno voluto darci il tempo di metterci in salvo. Siamo andate a Sampéyre, in Val Varaita. Questo è successo nel febbraio del '44. Noi siamo state a Sampéyre, con mia mamma e mia nonna, anche lì in un piccolo alberghetto per un periodo di tempo, poi sono arrivati tutti i partigiani su e noi, più che mai, ci sentivamo tranquille. Da fondovalle sono arrivati i tedeschi, hanno cominciato a risalire la vallata. Cosa potevamo fare? Ci siamo portate, sempre con i partigiani, ancora un po' più verso il confine con la Francia, però lì c'è stata una carissima persona, un certo Flaminio Gazzano, guardia di finanza, che ci aveva viste a Saluzzo e ci ha denunciate. Ci ha denunciate ai tedeschi per la somma di cinquemila lire. Avevamo carte false, ma appena fatte, e poi praticamente non avevamo mica niente da nascondere noi, siamo stati un po' prese anche alla sprovvista. Appena arrivato, il comando tedesco ci ha detto" Tenetevi a disposizione, che all'una di questa notte veniamo a prendervi".
Ci hanno portate a Venasca, dove siamo state per tre, quattro giorni, non ricordo esattamente, ospiti delle scuole di Venasca. Di notte dormivamo sui tavolacci. Una mattina, ci hanno caricate su un treno e ci hanno portate all'Albergo Nazionale di Torino, dove ci hanno spogliato di quelle poche cose preziose che avevamo, perché avevamo ben poco, e dopo ci hanno trasferito alle carceri, alle Nuove di Torino, dove siamo state per venti giorni. Io ero in cella con mia mamma e mia nonna. In quelle celle tremende, tremende perché eravamo proprio in stretta sorveglianza e in sola compagnia delle cimici... Ce n'erano a profusione, specialmente di notte.
Così sono passati venti giorni, poi un mattino ci hanno caricato su un pullman - in realtà non era un pullman era un camion - ci hanno portate a Porta Nuova, da Porta Nuova, su un treno, siamo arrivate a Fossoli, nel campo di raccolta di Fossoli. Questo è avvenuto, io penso, i primissimi di marzo. Noi eravamo nel campo dei razziali, e siamo state lì venti giorni. Avevamo ancora i nostri vestiti, le nostre cose, la mattina ci hanno caricate su dei carri bestiame... Partenza con destinazione ignota, non si sapeva assolutamente. Però, da quel poco che avevamo saputo, si pensava di andare in Germania, in un campo di lavoro, perché tutti, senza sapere niente, dicevano che la nostra fine sarebbe stata quella. Era il 16 maggio, ci hanno portato alla stazione di Carpi e lì è stata l'ultima volta che ho visto mia nonna, perché il suo cognome da sposata era Sacerdote, mentre noi eravamo Tedeschi, così è salita nel vagone prima e non l'ho più vista... Io sono rimasta con la mia mamma... È stato il Transport più lungo che c'è stato, perché siamo partite il 16 maggio e io sono arrivata a Birkenau il 23 maggio, il più lungo di tutti, non so per quale motivo, abbiamo impiegato ben otto notti e sette giorni. Eravamo tutti stipati nel vagone, saremmo stati una ottantina.
Siamo arrivate di notte e siamo state nei vagoni fino al mattino dopo. Quando poi hanno aperto il portellone del carro bestiame, da cui siamo scese, tutti questi ordini in tedesco, che non si capivano. Abbiamo solo capito che dovevamo lasciare lì tutti i nostri bagagli, perché qualcuno, forse qualche interprete o qualcuno dei prigionieri che sapeva il tedesco, aveva capito che le nostre cose ci sarebbero poi state restituite in un secondo tempo. E noi, anche lì, ci abbiamo creduto. E poi hanno diviso immediatamente le persone giovani, le persone meno giovani, gli uomini dalle donne, selezionando quelli che potevano entrare in campo o meno. Io ero sotto braccio a mia mamma... La mia mamma, che non aveva ancora 50 anni, ne aveva 49, mi è stata proprio strappata via dal braccio, è una sensazione che provo ancora adesso... Sento questo braccio che trema, che mi viene portato via... Io sono andata nel gruppo di quelle che entravano in campo e mia mamma, senza che io me ne rendessi conto, è stata divisa.
Quando poi sono entrata in campo, dopo che ci hanno tolto completamente tutto, anche i vestiti che avevamo addosso, tutto completamente, quel poco che c'era rimasto… Ci hanno tatuato il numero sul braccio, il mio numero è: A5404, e siamo entrati in campo. Io, appena entrata in campo, dopo pochissimo, forse il giorno dopo, no il giorno stesso, vedo nel campo mia cugina Giuliana Tedeschi, che era stata deportata con mio fratello Vittorio, mio fratello che... Era nei partigiani ed è stato denunciato da un amico suo, che era nei partigiani con lui, e l'ha denunciato come ebreo. Poi destino ha voluto che lui sia morto il 25 aprile, il giorno della liberazione di Mauthausen, e questo amico che l'ha denunciato, non so per quali motivi, non l'ho mai voluto sapere, è morto a sua volta a Mauthausen, evidentemente qualcuno ha denunciato anche lui.
La vestizione è stata una cosa tragica... I vestiti erano stracci, non avevamo divise, assolutamente niente. Io, per tutto il tempo che sono stata a Birkenau, ho sempre avuto una scarpa e uno zoccolo, non ho mai avuto un paio di scarpe uguali. I capelli li han poi tagliati dopo.
Come sono entrata nel campo, mi avevano detto tutte: ricordati di morire nel campo, se devi morire, ma non passare dal Revier, perché se vai al Revier non esci più. E io, disgraziatamente, ho avuto un'infezione alla gamba, che non camminavo più, sono dovuta andare al Revier per forza. Durante quei due o tre giorni che ero lì, il nostro lavoro era stato quello di trasportare pietre. Trasportavamo le pietre da un mucchio, lo portavamo lontano nell'altro mucchio, poi viceversa… Ad ogni modo, sono entrata nel Revier. Sono stata seduta su una specie di sedia, con la gamba alzata, e ho fatto per terra una pozza di sangue, di pus, di tutto quanto... Mi hanno messo intorno alla caviglia della carta igienica, poi mi hanno mandato nuda come un verme in quei castelli di legno con una che aveva il tifo. E noi, tutte e due nude per dieci giorni, nude completamente, con questa, che aveva il tifo e naturalmente si sporcava in continuazione, e un'unica coperta. Sono stata al Revier immobile per quaranta giorni... E per quaranta giorni, ogni mattina entrava Mengele. Sai chi era Mengele? Era l'angelo della morte: un uomo bellissimo, elegantissimo, col frustino in mano, che indicava nei vari castelli chi doveva andare alla selezione. Andare alla selezione voleva dire che tu eri segnata, eri destinata ad andare ai forni crematori: ti mettevano in un blocco particolare, ti davano un supplemento di vitto, poi dopo c'era un... Sentivi tutte queste creature caricate sul camion che urlavano perché sapevano che andavano a morire... Uscendo dal Revier, non avevo più forze, non potevo stare in piedi, quando mi sedevo per terra se mi rialzavo tutte le ossa scricchiolavano. Entrata nel campo, dopo aver saputo che mia mamma e mia nonna erano passate per il camino - non l'ho saputo subito, ma dopo essere uscita dal Revier - ho pianto un giorno e una notte consecutivi, da allora non so più piangere, assolutamente.
Sono andata poi a lavorare nelle cucine. Il lavoro consisteva - era un lavoro anche abbastanza fortunato - nel prendere i bidoni di zuppa e portar da mangiare al Revier. Io non sono mai uscita dal campo a lavorare, e quella è stata una fortuna... Andando nel Revier, una delle cose, un ricordo terribile... C'erano delle donne che avevano partorito durante la notte e c'erano tutti quegli esserini messi in fila, su una specie di ripiano, erano tutti lì che si muovevano... Qualcuno si muoveva ancora, non erano ancora morti, si vede che qualcuno era nato dopo oppure era più forte degli altri e stentava a morire. C'erano tutti quei cadaverini di bambini, lì nell'anti-Revier, diciamo.
A novembre ci fu un appello particolare. Siamo state in appello fino a notte. Io avevo anche la febbre, avevo un febbrone... Poi a un certo momento ci hanno avviate e ci hanno detto che potevamo camminare incolonnate, non sapevamo dove saremmo andate, se ai forni crematori o in un altro campo. Siamo arrivate a Bergen Belsen... Mi ricordo che pioveva, non c'era la baracca per noi, così ci siamo buttate per terra a dormire sotto la pioggia, abbiamo dormito lì. Solo successivamente ci è stata assegnata la baracca. A Bergen Belsen non abbiamo lavorato, sono stata poco in quel campo. Cercavano personale per andare a lavorare in una fabbrica, a Dessau, che è un sottocampo di Buchenwald. In questa fabbrica, si faceva del materiale, dei pezzi di ricambio per aerei, pezzi di ricambio, bulloni, cose così, e si lavorava in gruppi da venticinque, venticinque di giorno e venticinque di notte, dalle sei del mattino alla sei di sera, e viceversa. All'interno di questo campo, comunque, il trattamento era leggermente più umano, benché noi si parlasse solo e sempre di mangiare e avevamo un unico argomento e un unico sogno, sempre quello.
Però devo dire una cosa, che la fame è terribile, perché chi non ha provato non può rendersi conto, è inutile che uno dica. Però la sete è peggio. La sete ti fa impazzire, ti porta proprio... La fame è terribile, perché noi avevamo sempre e solo quell'argomento, raccontarti e scambiarti le ricette, di cosa faceva la mamma, di cosa faceva la nonna, di cosa facevamo noi. Era solo quello, c'era un discorso unico, solo quello. Ho già raccontato in varie occasioni che una mia carissima compagna di sventura, Anna Cassutto, moglie del rabbino Cassutto di Firenze, aveva lasciato a Firenze, quando l'arrestarono con il marito, quattro bambini. L'ultima bimba aveva 40 giorni... Non l'ha più trovata... I nonni sono riusciti a portare i tre bambini più grandi in Israele. Lei è stata deportata col marito, che non è più tornato... Lui era oculista ed era anche rabbino di Firenze... Naturalmente una delazione, anche lì... E quando io le ho chiesto "Anna, ma cosa preferisci, un piatto di pastasciutta, o vedere i tuoi bambini?". E lei dice "Un piatto di pastasciutta". Guardate che cose... Il colmo... Questa è una cosa che mi è proprio sempre rimasta. Racconto ancora questo... Non riguarda me, ma è una cosa tragica... Anna è poi riuscita ad andare in Israele - allora era ancora Palestina credo - e ha ritrovato i suoi bambini; lavorava in un ospedale... Un attentato arabo sul pullman ed è saltata per aria... Portare a casa la pelle, dopo quella tragedia che c'è stata, e morire così poverina...
Comunque... Una mattina che dovevamo finire il turno, c'era già stato un cannoneggiamento russo, come è successo anche ad Auschwitz, ci hanno spostati. C'era già l'avanzata russa. Ci hanno portato a Terezin. Io poi ho avuto anche il tifo petecchiale, ho un ricordo terribile, di quella febbre che ho avuto, perché sono arrivata proprio al delirio.
E poi... Il 6 di maggio è avvenuta la liberazione. Io ho pensato. "Ce l'ho fatta fino adesso e non ce la faccio più". Allora mi sono imposta di... Quando stavo leggermente meglio, cercavo di fare qualche passo tutti i giorni, due passi, poi il terzo giorno farne tre, farne quattro, perché... Sono arrivata alla liberazione, perché mi avevano detto "Ci sono i russi, siamo liberi... Ci sono i russi e siamo liberi!". Ma poi, quando eravamo lì, nessuno veniva a prenderci, nessuno sapeva della nostra esistenza. Però i francesi erano venuti a prendere i francesi, anche i belgi, ma gli italiani niente. Allora, appena stavo un pochino meglio, in quattro siamo partite e siamo andate fino a Praga, con mezzi di fortuna, a piedi, siamo andate alla casa d'Italia, dove ci hanno accolte, ci hanno dato anche qualche soldo... Abbiamo girato un po' per Praga ed è venuta fuori tutta la nostra femminilità, perché con quei due soldi che avevamo, siamo andate a comprare il rossetto... Puoi immaginare: in quelle condizioni, magre, brutte, smunte, senza capelli, abbiamo comprato il rossetto. Che cose... Nelle cose tragiche, c'è persino una nota comica, perché è comica sì, in quelle condizioni...
Abbiamo cominciare a lanciare degli appelli, via radio, però non abbiamo mai avuto risposta. Allora un giorno abbiamo detto "Cosa facciamo?", "Andiamo via!", "Andiamo fino a Vienna? Da Vienna ci sarà qualche mezzo, qualcosa che ci porti in Italia...". Siamo state poi in case devastate, altri quaranta giorni lì, ma nessuno veniva a prenderci... Allora abbiamo deciso, abbiamo preso una strada una mattina e ce ne siamo andate e siamo arrivate a piedi fino in Ungheria. Di lì siamo arrivati poi, con un treno dei partigiani, fino al confine con la Jugoslavia, poi siamo arrivati a Lubiana. Ad ogni modo siamo arrivate a Trieste, e a Trieste siamo andate alla comunità ebraica, dove ci hanno accolte e ci hanno messo a disposizione delle brande, ma noi non eravamo più abituate a dormire nelle brande, così abbiamo dormito per terra. Poi con tutti i mezzi di fortuna che ho trovato ci ho impiegato otto giorni sono arrivata a Torino. E ho saputo lì che mio fratello era mancato il 25 aprile del 45, il giorno della liberazione.
Testimonianza di Mario Spizzichino
Superstite di Auschwitz, Sosnowitz e Mauthausen. Testimonianza reperita all'interno del sito web della Unione delle comunità ebraiche italiane.
Le selezioni, la fame, le marce e poi l'arrivo degli americani
Il 16 ottobre, in via Baccina il padrone del bar mi avvertì che un gruppo di tedeschi andava in cerca in tutte le case del quartiere degli ebrei. Tornai a casa e dissi a mia madre e a mio fratello di non uscire perché era molto pericoloso e allora presi il tram scendendo a Ponte Garibaldi mi tenni lontano dal ghetto e ai giardinetti di San Carlo al corso in via Arenula mi fermai nel centro di un gruppo di persone che stavano guardando da lontano lungo via di Santa Maria del Pianto. Fu una cosa terrificante: i tedeschi, in assetto di guerra, spingevano coi calci dei loro mitra della povera gente inerme per Teatro Marcello. Potei vedere uomini, donne, vecchi, paralitici, bambini, ammalati, e alcuni con le loro valigie che erano ad aspettare i cani delle SS.
Ebbi paura che nel gruppo qualcuno mi riconoscesse e tagliai la corda e ritornai a casa portando via mia madre e mio fratello.
Decisi di andare verso il quartiere San Paolo dove vi era un mio amico caro, Giuseppe Sala. Questo mio amico aveva un negozio, un magazzino più che altro, di carta da macero. Mi accolse e mi dette subito ospitalità nel suo magazzino dove mi tenne nascosto per qualche giorno a dormire sulle balle di carta.
Non durò a lungo questo nascondiglio, perché una donna urlò che dovevamo andar via perché se no avrebbe chiamato i tedeschi. Per la strada nel quartiere vidi una famiglia disperata che cercava un rifugio per nascondersi. Era la famiglia Di Veroli: marito e moglie con due figli. Li chiamai anche loro, per portarli nel mio nascondiglio. Così anche loro per qualche giorno si nascosero nel magazzino di carta, dormendo sopra le balle di carta. Dopo qualche giorno a causa di quella donna che insisteva dovemmo lasciare questo nascondiglio e andare ognuno per i fatti suoi. Non ci vedemmo più.
Non era rimasto altro che tornare a casa. Qui la signora Assunta ci rassicurò, dicendo di stare tranquilli perché tutti gli inquilini erano bravi e che non avrebbero mai tradito. Quando fui certo che mia madre e mio fratello potevano stare al sicuro mi andai via perché volevo andarmene da Roma. In via Arenula mi incontrai con un mio amico.
Decidemmo di partire verso le montagne in Abruzzo perchè ci informarono che vi erano dei soldati italiani che aspettavano di raggiungere gli alleati. Abbiamo preso un treno e siamo andati ad Avezzano. Ad Avezzano, di notte, un po' smarriti, abbiamo visto una signora in una casetta e abbiamo chiesto se poteva ospitarci per il fatto che c'era il coprifuoco. Questa donna ci dette ospitalità nelle sue stalle, ci dette anche un bicchiere di latte, poi ci disse che il giorno appresso avremmo dovuto andarcene, perché anche lei aveva paura.
Così la mattina seguente ci indicò dove dovevamo andare per stare tranquilli. Ci indicò di passare verso la montagna e arrivare a un paese, Sant'Aglione, un paesetto piccolo nel quale rimanemmo sbalorditi di vedere i soldati alleati che stavano giocando col pallone in piazza. Erano dei soldati che erano scappati dopo l'8 settembre dai campi di concentramento. Qui, in questa casa dove c'era scritto "Spaccio", vi era una brava signora con due figlie e il signor Antonio, che era una guardia campestre. Lì ci ospitò, ci dette anche da mangiare e noi ci confidammo che volevamo trovare il modo di incontrarci con le truppe alleate. Lui ci assicurò che il giorno seguente saremmo andati su per le montagne, dove vi era un accampamento di questi soldati. Così il giorno seguente ci siamo messi in marcia; dopo tante ore sulle montagne siamo arrivati nel campeggio, ma non c'era nessuno. La nostra vita continuò per qualche giorno così in questo paesetto di Sant'Aglione: gente buona, che quando passavamo ci offriva da mangiare quello che aveva. Poco tempo dopo Giovanni, il calzolaio di via della Reginella, ci dice che doveva ritornare a Roma.
Ritornando a Roma avevo bisogno di trovare qualche cosa da portare a casa da mia madre. Allora cercai un carrettino in affitto a via dei Vascellari e mi recai presso piazza Istria, da quelle parti, e trovai da compare delle bottiglie usate. Era l'unico modo che potevo trovare per sbarcare il lunario e rivenderle. Una fruttivendola mi disse che aveva molte bottiglie e io le dissi che volevo comprarle, però non avevo tanti soldi. Contrattati insomma un prezzo ma i soldi non mi arrivavano tanto per quanto era la sua richiesta. Allora le lasciai un po' di soldi, insieme alla mia carta d'identità, che il giorno seguente gliela avrei ripresa. Così fu che il giorno seguente io per andare a prendere queste bottiglie cercai il mio socio, Di Castro. Tante volte abbiamo fatto degli affari insieme; lo cercai all'isola Tiberina e lo chiamai di venire con me. Ho anche rimorso perché lo pregai tanto di venire a fare questo affare insieme. Così prendemmo un carrettino e andammo su. Però passando per via Goito, fui fermato da un agente di pubblica sicurezza, proprio davanti alla Questura e vi era uno della Vai, la polizia che aveva aderito alla Repubblica sociale. E mi disse: un momento, datemi i documenti. Io col mio compagno dissi: dagli te i documenti, ma anche lui non li aveva. Ma poi pensai: può darsi che sia un po' umano e comprensivo, insomma, di quello sta succedendo. Gli dissi che noi eravamo ebrei. E lui disse: soltanto un momento per identificarvi. In quel momento, quando entrò dentro il portone, ci prese a schiaffi e ci disse: sporchi giudii, e da lì cominciò il mio calvario.
Dentro il carcere trovai altri due miei amici, Angelo Vivanti e Raffaele Terracina, così lì dopo alcuni giorni fummo portati a Regina Coeli, al sesto braccio, dove si sentivano lamentele, spari, eccetera. Altri compagni miei trovai dentro al carcere, compagni di scuola, Davide Moresco, Anselmo Calò e altre persone.
Dopo poco tempo, alcuni giorni, ci chiamarono all'appello fuori dalle celle, tutti inquadrati, ammanettati. Fecero l'appello e uscimmo dal carcere. C'erano dei pullman ad aspettarci. In quel momento un altro pullman dietro noi arrivò: erano donne e bambini che erano stati catturati e portati al carcere minorile di Porta Portese. Queste famiglie ci raggiunsero coi loro mariti, i figli, eccetera e lì cominciò il nostro calvario. Da lì ci hanno messo in cammino per giorni e giorni su questi pullman con una guardia di sicurezza e i fascisti che ci facevano da scorta. Arrivammo al carcere di Castelfranco Bolognese. Qui passammo qualche nottata e poi riprendemmo il cammino, verso il campo di concentramento Fossoli di Carpi. Vi erano già tante persone là, che erano già state prese prima di noi, come le sorelle Di Veroli, Silvia e Giuditta Di Veroli e altre persone. Qui incontrai un zio mio, Alberto Spizzichino, fratello di mio padre, il quale mi raccontò di essere stato preso dalla banda Pollastrini, bastonato a Palazzo Braschi e poi dato in mano ai tedeschi. E qui mio zio un po' mi abbracciò e mi disse: figlio caro, se ti riesce di scappare, scappa via perché non sappiamo più che fine facciamo.
In questo campo c'erano anche dei carabinieri di servizio ma qualcheduno aveva pure il coraggio di scappare perché non ce la faceva a fare la sorveglianza e della povera gente, delle povere creature, dei poveri ragazzi che stavano in questo campo.
Io lavoravo con una ditta di Carpi a fare il muratore, aiutavo come apprendista, e mi dissero che se uno di noi tentava di fuggire avrebbero ucciso dieci persone. Avevo molte possibilità di scappare ma non avevo il coraggio se poi avrebbero ammazzato dieci persone per colpa mia. Così seguii la corrente.
Un giorno poi vennero dei camion, ci hanno portato a Modena nei vagoni, rinchiusi con donne, bambini, vecchi, dottori, avvocati, di alto e basso ceto, tutti insieme. Ogni vagone c'era un fascista di dietro e le SS davanti ai vagoni che davano ordini. Quando si arrivava nelle pianure aprivano gli sportelli e dovevamo fare i nostri bisogni sotto i binari dei vagoni, sotto il sorriso e le angherie dei fascisti e qualcuno che diceva: "Se volevate scappare scappate, così facciamo il tirassegno". Una cosa vergognosa per noi fare i nostri bisogni vicino a donne, uomini, alla meglio, come potevamo. Non c'era altra soluzione. E si riprende il cammino per giorni, quattro, cinque, sei giorni.
Entrati in Austria ci hanno fermato, ci dettero un latte, delle crocerossine, con del semolino caldo. Quello fu un ristoro che insomma, si poteva accettare, dopo tanti giorni dentro ai vagoni chiusi.
Arrivammo ad Auschwitz di notte, si sentivano le urla dei cani, delle lunghe file che cantavano una canzone che non si capiva. Alcuni portavano delle strisce rosse altri vestiti bianchi e azzurri, zebrati, come una zebra. La mattina ci aprirono i vagoni con delle urla "Schnell, alle heraus", fuori tutti. Là vi erano dei dottori, degli ufficiali vestiti con dei camici bianchi come se fossimo gente da macello e facevano le spartizioni di donne e bambini da una parte e dall'altra, le altre volevano il marito, una cosa straziante. Dovevamo seguire e stare zitti e venivamo bastonati. La nostra sosta a Birkenau fu di pochi minuti e poi ci misero in cammino verso il campo di Auschwitz. Non so se erano due o tre chilometri, dove c'era un cancello dove c'era scritto" Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi. Ci spogliarono tutti nel centro di un Block, tutti nudi e ci dissero di non tenere nulla di nostro che se avessero trovato una fotografia o qualsiasi oggetto ci avrebbero punito severamente.
Ci dissero di entrare dentro ad un posto dove c'era scritto Waschraum, bagno, ma non sapevamo che quel bagno era a doppio uso. Lì cominciarono prima a rasarci da tutte le parti del corpo, dopo fare il bagno con acqua bollente e acqua gelata. Appena fuori ci fecero il numero sul braccio a ciascuno di noi. Io divenni il numero 180098. Da lì avevamo un numero e un'etichetta sopra ogni vestito con la stella di Davide. Sulla stella, vicino, vi era il numero che noi portavamo sopra il braccio. Dopo aver fatto la quarantena fui messo al servizio interno del campo, portando contenitori, da mangiare.
Al campo le prime botte con malvagità le ebbi da un kapò perché scendendo dalle scale voleva che andavo più svelto. Così dopo alcuni giorni, qualche mese, ci trasferirono. Mi separai da mio zio ad Auschwitz, non lo rividi più. Con i camion ci portarono a una certa distanza da Auschwitz, a Sosnowitz. Qui a Sosnowitz abbiamo passato le più brutte giornate. Ci facevano lavorare notte e giorno in una fabbrica bellica dove si costruivano delle granate per bombe. La mattina quando si usciva dal campo dovevamo cantare gli inni nazisti, se qualcuno non cantava veniva tempestato di percosse. Così all'entrata e così all'uscita.
Un giorno, si avvicina Natale del '44, si sentono già le cannonate dei russi e allora aspettavamo la liberazione. Ma non fu così. Un giorno un gruppi di russi tentarono la fuga, e due di loro furono presi. In quel momento in mezzo al campo vi erano degli alberi per festeggiare il Natale. Questi due russi li hanno messi su un tavolone, dove hanno piazzato la forca e noi dovevamo assistere a questa impiccagione di questi due sventurati perché avevano tentato la fuga. Il capoblocco, che era un criminale tedesco internato, mentre gli mette la corda al collo li prese a schiaffi, che anche l'ufficiale deplorò questo fatto. Ecco un giorno, una mattina, una campanella suona: tutti fuori, prepararsi quello che avevamo e prendere la marcia, una marcia forzata. In diversi villaggi e in qualche città, quando passavamo, alcuni giovani ci gettavano addosso dei sassi, strillando "Maledetti ebrei". Queste sono parole sentite molte volte, qualche volta abbiamo incontrato anche qualche gruppo di soldati italiani che rimanevano impressionati dal fatto che camminavamo: eravamo degli scheletri umani che camminavano. Nelle città ci facevano andare piano ma quando si arrivava nei boschi chi non ce la faceva gli sparavano un colpo. Anch'io stavo per fare la stessa fine. Molte volte pensavo di camminare su uno straccio o qualche cosa sotto i piedi invece era un nostro compagno di sventura che cadeva in terra, non aveva più forza di camminare e veniva spacciato.
Diverse soste abbiamo fatto: una volta mi ricordo a una scuola, dei banchetti, di notte, come scolari. Sempre guardati. Un'altra volta un teatro, un'altra volta in una fattoria, un'altra volta in un mattatoio. Arrivammo in una città. Qui siamo ancora rimontati sopra dei vagoni bestiame e rinchiusi dentro, 40, 50 persone che ci battevamo uno con l'altro per stare più larghi.
Un giorno un grande bombardamento ci prese in pieno sulle rotaie dei nostri vagoni, balzavamo da una parte all'altra e pregavamo Dio che qualche bomba cadesse sopra di noi per farla finita con questa vita. Arrivammo a Mauthausen. Aperti i vagoni molti compagni nostri erano rimasti lì morti in quella stazione. Così vidi anche il mio compagno di scuola Davide Moscati, che non ebbe più la forza di rialzarsi.
Prendemmo a camminare su per la collina per arrivare su a Mauthausen. Mentre stavo per cadere Lungarino detto Vittorio Piazza mi alzò in tempo per non farmi sparare dalle SS. Arrivammo alla fortezza di Mauthausen. Lì ci spogliarono, ci dettero un nuovo numero, ci rimandarono al bagno, ci fecero dei segni, che non sapevamo dove dovevamo andare, e ci portarono alla baracca della quarantena. Lì dentro tutti sul pavimento messi testa e piedi e straziati dai dolori che avevamo: un kapò con una cinta e con bastoni ci tempestò di botte camminando sopra di qualsiasi persona che strillava, che si lamentava, dicendo: Ruhe! Silenzio! Ecco un'altra nuova selezione nella quale anch'io fui selezionato. Ero ridotto così malamente che fui portato nel Revier, il campo di sotto, vicino alla scala della morte. Lì vi si entrava vivi e si usciva morti. Ebbi modo di vedere tanti poveri detenuti deportati che portavano su le pietre in questa scala della morte di 186 scalini. Quando uno portava una pietra più piccola gli davano un calcio, e lo buttavano giù e sotto era un macello di ossa rotte e di sangue. Cercammo molte volte di uscire da questa baracca perché vedevo che quella era la mia fine. Mi incontrai con una persona, mi guardava, mi si abbraccicava ma non sapevo chi era. Era il mio excognato. Settimio Di Veroli, detto il Milanese perché era nato a Milano. Stentai molto a riconoscerlo perché eravamo irriconoscibili uno con l'altro. Talmente scheletriti eppure camminavamo, non so come avevamo questa forza di camminare.
Un giorno potei anche rivedere il mio amico, Teo Ducci, di Firenze, che serviva al meglio chiunque poteva avere bisogno delle sue cure come infermiere. Poi un altro giorno ebbi una grande bastonata sulla gamba sinistra e mi venne una grande suppurazione sulla gamba. Lì c'era il dottor Calore di Milano. Il dottor Calore era un grande chirurgo che era stato deportato per politica e mi disse che se volevo salvare la gamba bisognava fare un intervento. Mi tagliò alla meglio come poteva, e mi levò tutto quel pus che era nella gamba, che mi si era talmente gonfiata che non ce la facevo a tenerla. Poi incontrai un altro amico, Angelo Salmoni. Mi si abbraccicò e diceva che ormai gli americani stavano vicini. Un giorno -rammento la dissenteria- trovai un pezzo di carbone per potermi mangiare questo carbone da stufa per stringermi la dissenteria. Ma un kapò mi ha visto, mi ha dato tante di quelle bastonate e mi ha portato fuori dicendomi "Morgen Krematorium"; domani mattina al crematorio. Invece non so come è stato che il sabato, lo ricordo proprio come un sogno, sentii degli strilli, dei canti: "Americani, americani!".
Il giorno appresso mi son trovato in un altro ospedale, a Gusen. I letti, che erano a castello, erano stati tagliati e separati uno dall'altro con delle lenzuola candide, bianche, e avevano i cuscini: lì vidi qualche compagno mio di Rodi che era vicino a me e cercava di darmi la forza di resistere.
Gli americani subito ci dettero medicinali, viveri, amore e senso di solidarietà. Eravamo ridotti in pochi; tanti dei nostri erano morti in quella sorte maledetta e i vivi assomigliano a morti. Così dopo poco tempo a Gusen ci trasferimmo un'altra volta a Mauthausen. Qui incontrai un mio amico, Vito, che aveva paura di abbraccicarmi. Come dire: che, abbraccico un morto che cammina? Mi portò dentro una baracca e mi rividi con i miei compagni: Alberto Mieli, Giacomo Moscati e Raimondo.
Il mio cervello era ridotto come quello di un bambino, raccoglievo delle cose inutili per terra, con una sacchetta. Anzi, a Raimondo gli detti un vasetto e gli disse che era bello e lo doveva regalare alla sua fidanzata quando ritornava.
Io ero molto appassionato di musica, "Speranze perdute", e avevo molte sigarette che avevo chiesto agli americani ma io non fumavo mai, non ho mai fumato. Andai da Chicco Calò, Raimondo che avevano trovato dentro la baracca una chitarra e dissi loro: suonatemi "Speranze perdute" e vi regalo tutte queste sigarette. Loro accordarono e mi suonarono "Speranze perdute" e i piangendo sentivo questa musica che stava nel mio cuore.
Natalia Tedeschinata a Genova nel 1922, residente a Torino
Arresto
Effettuato dalle SS, nel febbraio del 1944 a Casteldelfino (CN), con la madre e la nonna, dopo essere state denunciate come ebree.
Carcerazione
- a Venasca (CN), nelle scuole
- a Torino, all'Albergo Nazionale, sede SS
Deportazione
Nei Lager nazisti d'Italia: a Fossoli
Nei Lager nazisti d'oltralpe:
- in Polonia, ad Auschwitz-Birkenau, matricola n.A-5404
- in Germania, a Bergen Belsen, A Dessau (sottocampo di Buchenwald)-
- nella Repubblica Ceca, a Terezin
Liberazione
Avvenuta a Terezin, il 6 maggio 1945, da parte dell'Armata Rossa
Ritorno a casa
Non assistito, effettuato per lo più a piedi e con mezzi di fortuna
Note: la madre e la nonna morirono a Birkenau, dove fu ucciso anche il fratello di Natalia, Vittorio, arrestato però in un'altra occasione
La testimonianza
Sono Natalia Tedeschi, sono nata a Genova il 19 giugno del 1922. Sono di famiglia ebrea. I miei fratelli, al momento delle leggi razziali, erano tutti e tre all'università... Io nel 1938 - avevo sedici anni - ho dovuto interrompere gli studi. Poi, con tutte le varie vicissitudini della guerra, siamo sfollati con mia mamma e mia nonna a Saluzzo. Dei miei fratelli, uno era andato con i partigiani, uno era nascosto a Torino e l'altro è andato in Svizzera. Io sono rimasta sola con mia mamma e con mia nonna.
Un giorno, mentre eravamo lì a Saluzzo, sono scesa nella hall di questo piccolissimo albergo, dove eravamo, e sono arrivati due SS italiani. Sento che dicono "Siamo venuti ad arrestare quella famiglia di ebrei". Io sono corsa immediatamente ad avvisare mia mamma e mia nonna... Ancora adesso penso che, forse, sapendo che eravamo lì, penso, ma con molto ottimismo, solo adesso, che forse hanno voluto darci il tempo di metterci in salvo. Siamo andate a Sampéyre, in Val Varaita. Questo è successo nel febbraio del '44. Noi siamo state a Sampéyre, con mia mamma e mia nonna, anche lì in un piccolo alberghetto per un periodo di tempo, poi sono arrivati tutti i partigiani su e noi, più che mai, ci sentivamo tranquille. Da fondovalle sono arrivati i tedeschi, hanno cominciato a risalire la vallata. Cosa potevamo fare? Ci siamo portate, sempre con i partigiani, ancora un po' più verso il confine con la Francia, però lì c'è stata una carissima persona, un certo Flaminio Gazzano, guardia di finanza, che ci aveva viste a Saluzzo e ci ha denunciate. Ci ha denunciate ai tedeschi per la somma di cinquemila lire. Avevamo carte false, ma appena fatte, e poi praticamente non avevamo mica niente da nascondere noi, siamo stati un po' prese anche alla sprovvista. Appena arrivato, il comando tedesco ci ha detto" Tenetevi a disposizione, che all'una di questa notte veniamo a prendervi".
Ci hanno portate a Venasca, dove siamo state per tre, quattro giorni, non ricordo esattamente, ospiti delle scuole di Venasca. Di notte dormivamo sui tavolacci. Una mattina, ci hanno caricate su un treno e ci hanno portate all'Albergo Nazionale di Torino, dove ci hanno spogliato di quelle poche cose preziose che avevamo, perché avevamo ben poco, e dopo ci hanno trasferito alle carceri, alle Nuove di Torino, dove siamo state per venti giorni. Io ero in cella con mia mamma e mia nonna. In quelle celle tremende, tremende perché eravamo proprio in stretta sorveglianza e in sola compagnia delle cimici... Ce n'erano a profusione, specialmente di notte.
Così sono passati venti giorni, poi un mattino ci hanno caricato su un pullman - in realtà non era un pullman era un camion - ci hanno portate a Porta Nuova, da Porta Nuova, su un treno, siamo arrivate a Fossoli, nel campo di raccolta di Fossoli. Questo è avvenuto, io penso, i primissimi di marzo. Noi eravamo nel campo dei razziali, e siamo state lì venti giorni. Avevamo ancora i nostri vestiti, le nostre cose, la mattina ci hanno caricate su dei carri bestiame... Partenza con destinazione ignota, non si sapeva assolutamente. Però, da quel poco che avevamo saputo, si pensava di andare in Germania, in un campo di lavoro, perché tutti, senza sapere niente, dicevano che la nostra fine sarebbe stata quella. Era il 16 maggio, ci hanno portato alla stazione di Carpi e lì è stata l'ultima volta che ho visto mia nonna, perché il suo cognome da sposata era Sacerdote, mentre noi eravamo Tedeschi, così è salita nel vagone prima e non l'ho più vista... Io sono rimasta con la mia mamma... È stato il Transport più lungo che c'è stato, perché siamo partite il 16 maggio e io sono arrivata a Birkenau il 23 maggio, il più lungo di tutti, non so per quale motivo, abbiamo impiegato ben otto notti e sette giorni. Eravamo tutti stipati nel vagone, saremmo stati una ottantina.
Siamo arrivate di notte e siamo state nei vagoni fino al mattino dopo. Quando poi hanno aperto il portellone del carro bestiame, da cui siamo scese, tutti questi ordini in tedesco, che non si capivano. Abbiamo solo capito che dovevamo lasciare lì tutti i nostri bagagli, perché qualcuno, forse qualche interprete o qualcuno dei prigionieri che sapeva il tedesco, aveva capito che le nostre cose ci sarebbero poi state restituite in un secondo tempo. E noi, anche lì, ci abbiamo creduto. E poi hanno diviso immediatamente le persone giovani, le persone meno giovani, gli uomini dalle donne, selezionando quelli che potevano entrare in campo o meno. Io ero sotto braccio a mia mamma... La mia mamma, che non aveva ancora 50 anni, ne aveva 49, mi è stata proprio strappata via dal braccio, è una sensazione che provo ancora adesso... Sento questo braccio che trema, che mi viene portato via... Io sono andata nel gruppo di quelle che entravano in campo e mia mamma, senza che io me ne rendessi conto, è stata divisa.
Quando poi sono entrata in campo, dopo che ci hanno tolto completamente tutto, anche i vestiti che avevamo addosso, tutto completamente, quel poco che c'era rimasto… Ci hanno tatuato il numero sul braccio, il mio numero è: A5404, e siamo entrati in campo. Io, appena entrata in campo, dopo pochissimo, forse il giorno dopo, no il giorno stesso, vedo nel campo mia cugina Giuliana Tedeschi, che era stata deportata con mio fratello Vittorio, mio fratello che... Era nei partigiani ed è stato denunciato da un amico suo, che era nei partigiani con lui, e l'ha denunciato come ebreo. Poi destino ha voluto che lui sia morto il 25 aprile, il giorno della liberazione di Mauthausen, e questo amico che l'ha denunciato, non so per quali motivi, non l'ho mai voluto sapere, è morto a sua volta a Mauthausen, evidentemente qualcuno ha denunciato anche lui.
La vestizione è stata una cosa tragica... I vestiti erano stracci, non avevamo divise, assolutamente niente. Io, per tutto il tempo che sono stata a Birkenau, ho sempre avuto una scarpa e uno zoccolo, non ho mai avuto un paio di scarpe uguali. I capelli li han poi tagliati dopo.
Come sono entrata nel campo, mi avevano detto tutte: ricordati di morire nel campo, se devi morire, ma non passare dal Revier, perché se vai al Revier non esci più. E io, disgraziatamente, ho avuto un'infezione alla gamba, che non camminavo più, sono dovuta andare al Revier per forza. Durante quei due o tre giorni che ero lì, il nostro lavoro era stato quello di trasportare pietre. Trasportavamo le pietre da un mucchio, lo portavamo lontano nell'altro mucchio, poi viceversa… Ad ogni modo, sono entrata nel Revier. Sono stata seduta su una specie di sedia, con la gamba alzata, e ho fatto per terra una pozza di sangue, di pus, di tutto quanto... Mi hanno messo intorno alla caviglia della carta igienica, poi mi hanno mandato nuda come un verme in quei castelli di legno con una che aveva il tifo. E noi, tutte e due nude per dieci giorni, nude completamente, con questa, che aveva il tifo e naturalmente si sporcava in continuazione, e un'unica coperta. Sono stata al Revier immobile per quaranta giorni... E per quaranta giorni, ogni mattina entrava Mengele. Sai chi era Mengele? Era l'angelo della morte: un uomo bellissimo, elegantissimo, col frustino in mano, che indicava nei vari castelli chi doveva andare alla selezione. Andare alla selezione voleva dire che tu eri segnata, eri destinata ad andare ai forni crematori: ti mettevano in un blocco particolare, ti davano un supplemento di vitto, poi dopo c'era un... Sentivi tutte queste creature caricate sul camion che urlavano perché sapevano che andavano a morire... Uscendo dal Revier, non avevo più forze, non potevo stare in piedi, quando mi sedevo per terra se mi rialzavo tutte le ossa scricchiolavano. Entrata nel campo, dopo aver saputo che mia mamma e mia nonna erano passate per il camino - non l'ho saputo subito, ma dopo essere uscita dal Revier - ho pianto un giorno e una notte consecutivi, da allora non so più piangere, assolutamente.
Sono andata poi a lavorare nelle cucine. Il lavoro consisteva - era un lavoro anche abbastanza fortunato - nel prendere i bidoni di zuppa e portar da mangiare al Revier. Io non sono mai uscita dal campo a lavorare, e quella è stata una fortuna... Andando nel Revier, una delle cose, un ricordo terribile... C'erano delle donne che avevano partorito durante la notte e c'erano tutti quegli esserini messi in fila, su una specie di ripiano, erano tutti lì che si muovevano... Qualcuno si muoveva ancora, non erano ancora morti, si vede che qualcuno era nato dopo oppure era più forte degli altri e stentava a morire. C'erano tutti quei cadaverini di bambini, lì nell'anti-Revier, diciamo.
A novembre ci fu un appello particolare. Siamo state in appello fino a notte. Io avevo anche la febbre, avevo un febbrone... Poi a un certo momento ci hanno avviate e ci hanno detto che potevamo camminare incolonnate, non sapevamo dove saremmo andate, se ai forni crematori o in un altro campo. Siamo arrivate a Bergen Belsen... Mi ricordo che pioveva, non c'era la baracca per noi, così ci siamo buttate per terra a dormire sotto la pioggia, abbiamo dormito lì. Solo successivamente ci è stata assegnata la baracca. A Bergen Belsen non abbiamo lavorato, sono stata poco in quel campo. Cercavano personale per andare a lavorare in una fabbrica, a Dessau, che è un sottocampo di Buchenwald. In questa fabbrica, si faceva del materiale, dei pezzi di ricambio per aerei, pezzi di ricambio, bulloni, cose così, e si lavorava in gruppi da venticinque, venticinque di giorno e venticinque di notte, dalle sei del mattino alla sei di sera, e viceversa. All'interno di questo campo, comunque, il trattamento era leggermente più umano, benché noi si parlasse solo e sempre di mangiare e avevamo un unico argomento e un unico sogno, sempre quello.
Però devo dire una cosa, che la fame è terribile, perché chi non ha provato non può rendersi conto, è inutile che uno dica. Però la sete è peggio. La sete ti fa impazzire, ti porta proprio... La fame è terribile, perché noi avevamo sempre e solo quell'argomento, raccontarti e scambiarti le ricette, di cosa faceva la mamma, di cosa faceva la nonna, di cosa facevamo noi. Era solo quello, c'era un discorso unico, solo quello. Ho già raccontato in varie occasioni che una mia carissima compagna di sventura, Anna Cassutto, moglie del rabbino Cassutto di Firenze, aveva lasciato a Firenze, quando l'arrestarono con il marito, quattro bambini. L'ultima bimba aveva 40 giorni... Non l'ha più trovata... I nonni sono riusciti a portare i tre bambini più grandi in Israele. Lei è stata deportata col marito, che non è più tornato... Lui era oculista ed era anche rabbino di Firenze... Naturalmente una delazione, anche lì... E quando io le ho chiesto "Anna, ma cosa preferisci, un piatto di pastasciutta, o vedere i tuoi bambini?". E lei dice "Un piatto di pastasciutta". Guardate che cose... Il colmo... Questa è una cosa che mi è proprio sempre rimasta. Racconto ancora questo... Non riguarda me, ma è una cosa tragica... Anna è poi riuscita ad andare in Israele - allora era ancora Palestina credo - e ha ritrovato i suoi bambini; lavorava in un ospedale... Un attentato arabo sul pullman ed è saltata per aria... Portare a casa la pelle, dopo quella tragedia che c'è stata, e morire così poverina...
Comunque... Una mattina che dovevamo finire il turno, c'era già stato un cannoneggiamento russo, come è successo anche ad Auschwitz, ci hanno spostati. C'era già l'avanzata russa. Ci hanno portato a Terezin. Io poi ho avuto anche il tifo petecchiale, ho un ricordo terribile, di quella febbre che ho avuto, perché sono arrivata proprio al delirio.
E poi... Il 6 di maggio è avvenuta la liberazione. Io ho pensato. "Ce l'ho fatta fino adesso e non ce la faccio più". Allora mi sono imposta di... Quando stavo leggermente meglio, cercavo di fare qualche passo tutti i giorni, due passi, poi il terzo giorno farne tre, farne quattro, perché... Sono arrivata alla liberazione, perché mi avevano detto "Ci sono i russi, siamo liberi... Ci sono i russi e siamo liberi!". Ma poi, quando eravamo lì, nessuno veniva a prenderci, nessuno sapeva della nostra esistenza. Però i francesi erano venuti a prendere i francesi, anche i belgi, ma gli italiani niente. Allora, appena stavo un pochino meglio, in quattro siamo partite e siamo andate fino a Praga, con mezzi di fortuna, a piedi, siamo andate alla casa d'Italia, dove ci hanno accolte, ci hanno dato anche qualche soldo... Abbiamo girato un po' per Praga ed è venuta fuori tutta la nostra femminilità, perché con quei due soldi che avevamo, siamo andate a comprare il rossetto... Puoi immaginare: in quelle condizioni, magre, brutte, smunte, senza capelli, abbiamo comprato il rossetto. Che cose... Nelle cose tragiche, c'è persino una nota comica, perché è comica sì, in quelle condizioni...
Abbiamo cominciare a lanciare degli appelli, via radio, però non abbiamo mai avuto risposta. Allora un giorno abbiamo detto "Cosa facciamo?", "Andiamo via!", "Andiamo fino a Vienna? Da Vienna ci sarà qualche mezzo, qualcosa che ci porti in Italia...". Siamo state poi in case devastate, altri quaranta giorni lì, ma nessuno veniva a prenderci... Allora abbiamo deciso, abbiamo preso una strada una mattina e ce ne siamo andate e siamo arrivate a piedi fino in Ungheria. Di lì siamo arrivati poi, con un treno dei partigiani, fino al confine con la Jugoslavia, poi siamo arrivati a Lubiana. Ad ogni modo siamo arrivate a Trieste, e a Trieste siamo andate alla comunità ebraica, dove ci hanno accolte e ci hanno messo a disposizione delle brande, ma noi non eravamo più abituate a dormire nelle brande, così abbiamo dormito per terra. Poi con tutti i mezzi di fortuna che ho trovato ci ho impiegato otto giorni sono arrivata a Torino. E ho saputo lì che mio fratello era mancato il 25 aprile del 45, il giorno della liberazione.
Testimonianza di Mario Spizzichino
Superstite di Auschwitz, Sosnowitz e Mauthausen. Testimonianza reperita all'interno del sito web della Unione delle comunità ebraiche italiane.
Le selezioni, la fame, le marce e poi l'arrivo degli americani
Il 16 ottobre, in via Baccina il padrone del bar mi avvertì che un gruppo di tedeschi andava in cerca in tutte le case del quartiere degli ebrei. Tornai a casa e dissi a mia madre e a mio fratello di non uscire perché era molto pericoloso e allora presi il tram scendendo a Ponte Garibaldi mi tenni lontano dal ghetto e ai giardinetti di San Carlo al corso in via Arenula mi fermai nel centro di un gruppo di persone che stavano guardando da lontano lungo via di Santa Maria del Pianto. Fu una cosa terrificante: i tedeschi, in assetto di guerra, spingevano coi calci dei loro mitra della povera gente inerme per Teatro Marcello. Potei vedere uomini, donne, vecchi, paralitici, bambini, ammalati, e alcuni con le loro valigie che erano ad aspettare i cani delle SS.
Ebbi paura che nel gruppo qualcuno mi riconoscesse e tagliai la corda e ritornai a casa portando via mia madre e mio fratello.
Decisi di andare verso il quartiere San Paolo dove vi era un mio amico caro, Giuseppe Sala. Questo mio amico aveva un negozio, un magazzino più che altro, di carta da macero. Mi accolse e mi dette subito ospitalità nel suo magazzino dove mi tenne nascosto per qualche giorno a dormire sulle balle di carta.
Non durò a lungo questo nascondiglio, perché una donna urlò che dovevamo andar via perché se no avrebbe chiamato i tedeschi. Per la strada nel quartiere vidi una famiglia disperata che cercava un rifugio per nascondersi. Era la famiglia Di Veroli: marito e moglie con due figli. Li chiamai anche loro, per portarli nel mio nascondiglio. Così anche loro per qualche giorno si nascosero nel magazzino di carta, dormendo sopra le balle di carta. Dopo qualche giorno a causa di quella donna che insisteva dovemmo lasciare questo nascondiglio e andare ognuno per i fatti suoi. Non ci vedemmo più.
Non era rimasto altro che tornare a casa. Qui la signora Assunta ci rassicurò, dicendo di stare tranquilli perché tutti gli inquilini erano bravi e che non avrebbero mai tradito. Quando fui certo che mia madre e mio fratello potevano stare al sicuro mi andai via perché volevo andarmene da Roma. In via Arenula mi incontrai con un mio amico.
Decidemmo di partire verso le montagne in Abruzzo perchè ci informarono che vi erano dei soldati italiani che aspettavano di raggiungere gli alleati. Abbiamo preso un treno e siamo andati ad Avezzano. Ad Avezzano, di notte, un po' smarriti, abbiamo visto una signora in una casetta e abbiamo chiesto se poteva ospitarci per il fatto che c'era il coprifuoco. Questa donna ci dette ospitalità nelle sue stalle, ci dette anche un bicchiere di latte, poi ci disse che il giorno appresso avremmo dovuto andarcene, perché anche lei aveva paura.
Così la mattina seguente ci indicò dove dovevamo andare per stare tranquilli. Ci indicò di passare verso la montagna e arrivare a un paese, Sant'Aglione, un paesetto piccolo nel quale rimanemmo sbalorditi di vedere i soldati alleati che stavano giocando col pallone in piazza. Erano dei soldati che erano scappati dopo l'8 settembre dai campi di concentramento. Qui, in questa casa dove c'era scritto "Spaccio", vi era una brava signora con due figlie e il signor Antonio, che era una guardia campestre. Lì ci ospitò, ci dette anche da mangiare e noi ci confidammo che volevamo trovare il modo di incontrarci con le truppe alleate. Lui ci assicurò che il giorno seguente saremmo andati su per le montagne, dove vi era un accampamento di questi soldati. Così il giorno seguente ci siamo messi in marcia; dopo tante ore sulle montagne siamo arrivati nel campeggio, ma non c'era nessuno. La nostra vita continuò per qualche giorno così in questo paesetto di Sant'Aglione: gente buona, che quando passavamo ci offriva da mangiare quello che aveva. Poco tempo dopo Giovanni, il calzolaio di via della Reginella, ci dice che doveva ritornare a Roma.
Ritornando a Roma avevo bisogno di trovare qualche cosa da portare a casa da mia madre. Allora cercai un carrettino in affitto a via dei Vascellari e mi recai presso piazza Istria, da quelle parti, e trovai da compare delle bottiglie usate. Era l'unico modo che potevo trovare per sbarcare il lunario e rivenderle. Una fruttivendola mi disse che aveva molte bottiglie e io le dissi che volevo comprarle, però non avevo tanti soldi. Contrattati insomma un prezzo ma i soldi non mi arrivavano tanto per quanto era la sua richiesta. Allora le lasciai un po' di soldi, insieme alla mia carta d'identità, che il giorno seguente gliela avrei ripresa. Così fu che il giorno seguente io per andare a prendere queste bottiglie cercai il mio socio, Di Castro. Tante volte abbiamo fatto degli affari insieme; lo cercai all'isola Tiberina e lo chiamai di venire con me. Ho anche rimorso perché lo pregai tanto di venire a fare questo affare insieme. Così prendemmo un carrettino e andammo su. Però passando per via Goito, fui fermato da un agente di pubblica sicurezza, proprio davanti alla Questura e vi era uno della Vai, la polizia che aveva aderito alla Repubblica sociale. E mi disse: un momento, datemi i documenti. Io col mio compagno dissi: dagli te i documenti, ma anche lui non li aveva. Ma poi pensai: può darsi che sia un po' umano e comprensivo, insomma, di quello sta succedendo. Gli dissi che noi eravamo ebrei. E lui disse: soltanto un momento per identificarvi. In quel momento, quando entrò dentro il portone, ci prese a schiaffi e ci disse: sporchi giudii, e da lì cominciò il mio calvario.
Dentro il carcere trovai altri due miei amici, Angelo Vivanti e Raffaele Terracina, così lì dopo alcuni giorni fummo portati a Regina Coeli, al sesto braccio, dove si sentivano lamentele, spari, eccetera. Altri compagni miei trovai dentro al carcere, compagni di scuola, Davide Moresco, Anselmo Calò e altre persone.
Dopo poco tempo, alcuni giorni, ci chiamarono all'appello fuori dalle celle, tutti inquadrati, ammanettati. Fecero l'appello e uscimmo dal carcere. C'erano dei pullman ad aspettarci. In quel momento un altro pullman dietro noi arrivò: erano donne e bambini che erano stati catturati e portati al carcere minorile di Porta Portese. Queste famiglie ci raggiunsero coi loro mariti, i figli, eccetera e lì cominciò il nostro calvario. Da lì ci hanno messo in cammino per giorni e giorni su questi pullman con una guardia di sicurezza e i fascisti che ci facevano da scorta. Arrivammo al carcere di Castelfranco Bolognese. Qui passammo qualche nottata e poi riprendemmo il cammino, verso il campo di concentramento Fossoli di Carpi. Vi erano già tante persone là, che erano già state prese prima di noi, come le sorelle Di Veroli, Silvia e Giuditta Di Veroli e altre persone. Qui incontrai un zio mio, Alberto Spizzichino, fratello di mio padre, il quale mi raccontò di essere stato preso dalla banda Pollastrini, bastonato a Palazzo Braschi e poi dato in mano ai tedeschi. E qui mio zio un po' mi abbracciò e mi disse: figlio caro, se ti riesce di scappare, scappa via perché non sappiamo più che fine facciamo.
In questo campo c'erano anche dei carabinieri di servizio ma qualcheduno aveva pure il coraggio di scappare perché non ce la faceva a fare la sorveglianza e della povera gente, delle povere creature, dei poveri ragazzi che stavano in questo campo.
Io lavoravo con una ditta di Carpi a fare il muratore, aiutavo come apprendista, e mi dissero che se uno di noi tentava di fuggire avrebbero ucciso dieci persone. Avevo molte possibilità di scappare ma non avevo il coraggio se poi avrebbero ammazzato dieci persone per colpa mia. Così seguii la corrente.
Un giorno poi vennero dei camion, ci hanno portato a Modena nei vagoni, rinchiusi con donne, bambini, vecchi, dottori, avvocati, di alto e basso ceto, tutti insieme. Ogni vagone c'era un fascista di dietro e le SS davanti ai vagoni che davano ordini. Quando si arrivava nelle pianure aprivano gli sportelli e dovevamo fare i nostri bisogni sotto i binari dei vagoni, sotto il sorriso e le angherie dei fascisti e qualcuno che diceva: "Se volevate scappare scappate, così facciamo il tirassegno". Una cosa vergognosa per noi fare i nostri bisogni vicino a donne, uomini, alla meglio, come potevamo. Non c'era altra soluzione. E si riprende il cammino per giorni, quattro, cinque, sei giorni.
Entrati in Austria ci hanno fermato, ci dettero un latte, delle crocerossine, con del semolino caldo. Quello fu un ristoro che insomma, si poteva accettare, dopo tanti giorni dentro ai vagoni chiusi.
Arrivammo ad Auschwitz di notte, si sentivano le urla dei cani, delle lunghe file che cantavano una canzone che non si capiva. Alcuni portavano delle strisce rosse altri vestiti bianchi e azzurri, zebrati, come una zebra. La mattina ci aprirono i vagoni con delle urla "Schnell, alle heraus", fuori tutti. Là vi erano dei dottori, degli ufficiali vestiti con dei camici bianchi come se fossimo gente da macello e facevano le spartizioni di donne e bambini da una parte e dall'altra, le altre volevano il marito, una cosa straziante. Dovevamo seguire e stare zitti e venivamo bastonati. La nostra sosta a Birkenau fu di pochi minuti e poi ci misero in cammino verso il campo di Auschwitz. Non so se erano due o tre chilometri, dove c'era un cancello dove c'era scritto" Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi. Ci spogliarono tutti nel centro di un Block, tutti nudi e ci dissero di non tenere nulla di nostro che se avessero trovato una fotografia o qualsiasi oggetto ci avrebbero punito severamente.
Ci dissero di entrare dentro ad un posto dove c'era scritto Waschraum, bagno, ma non sapevamo che quel bagno era a doppio uso. Lì cominciarono prima a rasarci da tutte le parti del corpo, dopo fare il bagno con acqua bollente e acqua gelata. Appena fuori ci fecero il numero sul braccio a ciascuno di noi. Io divenni il numero 180098. Da lì avevamo un numero e un'etichetta sopra ogni vestito con la stella di Davide. Sulla stella, vicino, vi era il numero che noi portavamo sopra il braccio. Dopo aver fatto la quarantena fui messo al servizio interno del campo, portando contenitori, da mangiare.
Al campo le prime botte con malvagità le ebbi da un kapò perché scendendo dalle scale voleva che andavo più svelto. Così dopo alcuni giorni, qualche mese, ci trasferirono. Mi separai da mio zio ad Auschwitz, non lo rividi più. Con i camion ci portarono a una certa distanza da Auschwitz, a Sosnowitz. Qui a Sosnowitz abbiamo passato le più brutte giornate. Ci facevano lavorare notte e giorno in una fabbrica bellica dove si costruivano delle granate per bombe. La mattina quando si usciva dal campo dovevamo cantare gli inni nazisti, se qualcuno non cantava veniva tempestato di percosse. Così all'entrata e così all'uscita.
Un giorno, si avvicina Natale del '44, si sentono già le cannonate dei russi e allora aspettavamo la liberazione. Ma non fu così. Un giorno un gruppi di russi tentarono la fuga, e due di loro furono presi. In quel momento in mezzo al campo vi erano degli alberi per festeggiare il Natale. Questi due russi li hanno messi su un tavolone, dove hanno piazzato la forca e noi dovevamo assistere a questa impiccagione di questi due sventurati perché avevano tentato la fuga. Il capoblocco, che era un criminale tedesco internato, mentre gli mette la corda al collo li prese a schiaffi, che anche l'ufficiale deplorò questo fatto. Ecco un giorno, una mattina, una campanella suona: tutti fuori, prepararsi quello che avevamo e prendere la marcia, una marcia forzata. In diversi villaggi e in qualche città, quando passavamo, alcuni giovani ci gettavano addosso dei sassi, strillando "Maledetti ebrei". Queste sono parole sentite molte volte, qualche volta abbiamo incontrato anche qualche gruppo di soldati italiani che rimanevano impressionati dal fatto che camminavamo: eravamo degli scheletri umani che camminavano. Nelle città ci facevano andare piano ma quando si arrivava nei boschi chi non ce la faceva gli sparavano un colpo. Anch'io stavo per fare la stessa fine. Molte volte pensavo di camminare su uno straccio o qualche cosa sotto i piedi invece era un nostro compagno di sventura che cadeva in terra, non aveva più forza di camminare e veniva spacciato.
Diverse soste abbiamo fatto: una volta mi ricordo a una scuola, dei banchetti, di notte, come scolari. Sempre guardati. Un'altra volta un teatro, un'altra volta in una fattoria, un'altra volta in un mattatoio. Arrivammo in una città. Qui siamo ancora rimontati sopra dei vagoni bestiame e rinchiusi dentro, 40, 50 persone che ci battevamo uno con l'altro per stare più larghi.
Un giorno un grande bombardamento ci prese in pieno sulle rotaie dei nostri vagoni, balzavamo da una parte all'altra e pregavamo Dio che qualche bomba cadesse sopra di noi per farla finita con questa vita. Arrivammo a Mauthausen. Aperti i vagoni molti compagni nostri erano rimasti lì morti in quella stazione. Così vidi anche il mio compagno di scuola Davide Moscati, che non ebbe più la forza di rialzarsi.
Prendemmo a camminare su per la collina per arrivare su a Mauthausen. Mentre stavo per cadere Lungarino detto Vittorio Piazza mi alzò in tempo per non farmi sparare dalle SS. Arrivammo alla fortezza di Mauthausen. Lì ci spogliarono, ci dettero un nuovo numero, ci rimandarono al bagno, ci fecero dei segni, che non sapevamo dove dovevamo andare, e ci portarono alla baracca della quarantena. Lì dentro tutti sul pavimento messi testa e piedi e straziati dai dolori che avevamo: un kapò con una cinta e con bastoni ci tempestò di botte camminando sopra di qualsiasi persona che strillava, che si lamentava, dicendo: Ruhe! Silenzio! Ecco un'altra nuova selezione nella quale anch'io fui selezionato. Ero ridotto così malamente che fui portato nel Revier, il campo di sotto, vicino alla scala della morte. Lì vi si entrava vivi e si usciva morti. Ebbi modo di vedere tanti poveri detenuti deportati che portavano su le pietre in questa scala della morte di 186 scalini. Quando uno portava una pietra più piccola gli davano un calcio, e lo buttavano giù e sotto era un macello di ossa rotte e di sangue. Cercammo molte volte di uscire da questa baracca perché vedevo che quella era la mia fine. Mi incontrai con una persona, mi guardava, mi si abbraccicava ma non sapevo chi era. Era il mio excognato. Settimio Di Veroli, detto il Milanese perché era nato a Milano. Stentai molto a riconoscerlo perché eravamo irriconoscibili uno con l'altro. Talmente scheletriti eppure camminavamo, non so come avevamo questa forza di camminare.
Un giorno potei anche rivedere il mio amico, Teo Ducci, di Firenze, che serviva al meglio chiunque poteva avere bisogno delle sue cure come infermiere. Poi un altro giorno ebbi una grande bastonata sulla gamba sinistra e mi venne una grande suppurazione sulla gamba. Lì c'era il dottor Calore di Milano. Il dottor Calore era un grande chirurgo che era stato deportato per politica e mi disse che se volevo salvare la gamba bisognava fare un intervento. Mi tagliò alla meglio come poteva, e mi levò tutto quel pus che era nella gamba, che mi si era talmente gonfiata che non ce la facevo a tenerla. Poi incontrai un altro amico, Angelo Salmoni. Mi si abbraccicò e diceva che ormai gli americani stavano vicini. Un giorno -rammento la dissenteria- trovai un pezzo di carbone per potermi mangiare questo carbone da stufa per stringermi la dissenteria. Ma un kapò mi ha visto, mi ha dato tante di quelle bastonate e mi ha portato fuori dicendomi "Morgen Krematorium"; domani mattina al crematorio. Invece non so come è stato che il sabato, lo ricordo proprio come un sogno, sentii degli strilli, dei canti: "Americani, americani!".
Il giorno appresso mi son trovato in un altro ospedale, a Gusen. I letti, che erano a castello, erano stati tagliati e separati uno dall'altro con delle lenzuola candide, bianche, e avevano i cuscini: lì vidi qualche compagno mio di Rodi che era vicino a me e cercava di darmi la forza di resistere.
Gli americani subito ci dettero medicinali, viveri, amore e senso di solidarietà. Eravamo ridotti in pochi; tanti dei nostri erano morti in quella sorte maledetta e i vivi assomigliano a morti. Così dopo poco tempo a Gusen ci trasferimmo un'altra volta a Mauthausen. Qui incontrai un mio amico, Vito, che aveva paura di abbraccicarmi. Come dire: che, abbraccico un morto che cammina? Mi portò dentro una baracca e mi rividi con i miei compagni: Alberto Mieli, Giacomo Moscati e Raimondo.
Il mio cervello era ridotto come quello di un bambino, raccoglievo delle cose inutili per terra, con una sacchetta. Anzi, a Raimondo gli detti un vasetto e gli disse che era bello e lo doveva regalare alla sua fidanzata quando ritornava.
Io ero molto appassionato di musica, "Speranze perdute", e avevo molte sigarette che avevo chiesto agli americani ma io non fumavo mai, non ho mai fumato. Andai da Chicco Calò, Raimondo che avevano trovato dentro la baracca una chitarra e dissi loro: suonatemi "Speranze perdute" e vi regalo tutte queste sigarette. Loro accordarono e mi suonarono "Speranze perdute" e i piangendo sentivo questa musica che stava nel mio cuore.
Shoah, in mostra le carte della Demorazza e le liste date ai nazisti per le deportazioni
Shoah, in mostra le carte della Demorazza e le liste date ai nazisti per le deportazioni
Decine di documenti rari e d'epoca esposti per la prima volta a Roma dall'Archivio di Stato: dalle schede del censimento con nomi e indirizzi degli ebrei alle circolari del ministero dell'Interno sui divieti previsti dalle leggi razziali fino ai giornali della propaganda antisemita
Poco prima dell'estate del 1938 il ministero dell'Interno trasformava l'Ufficio demografico centrale in Direzione generale per la demografia e razza, la famosa "Demorazza", col compito di dirigere la politica antisemita. Tra le prime iniziative messe in campo ci fu quella di realizzare un censimento di tutti gli ebrei presenti a Roma e in Italia. E alcune di quelle schede del censimento ordinato dal regime fascista, dove figurano nomi e cognomi, data, luogo di nascita e residenza di cittadini romani di religione ebraica, vengono esposte per la prima volta all'Archivio di Stato di Roma, che il 27 gennaio celebra la Giornata della Memoria con l'esposizione di una sessantina di documenti rari ancora in larga parte da studiare, selezionati tra quelli originari dei fondi della Questura e della Prefettura di Roma.
"Le schede del censimento sono proprio quelle che permisero ai tedeschi di effettuare la razzia del 16 ottobre del '43 al Ghetto e in altri quartieri di Roma, avendo liste precise per individuare, arrestare e deportare ", racconta Manola Ida Venzo, coordinatrice dell'evento con Augusto Pompeo.
Le schede sono solo alcune delle testimonianze più suggestive della mostra "La persecuzione degli Ebrei a Roma. Documenti e voci" - allestita per due settimane nella Sala Alessandrina - che ripercorre la politica antisemita dal 1938, anno dell'emanazione delle prime leggi razziali, al 1945, attraverso testi emersi da un'accurata ricerca compiuta dallo staff dell'Archivio diretto da Eugenio Lo Sardo (Elvira Grantaliano, Luigi Arbia, Simonetta Ceglie, Carla Cerati, Rosanna Dominici, Paola Ferraris, Roberto Leggio, Antonella Parisi, Luca Saletti, Luisa Salvatori).
Si possono leggere le circolari originali inviate dal Ministero dell'Interno a Questura e Prefettura di Roma per ricordare i divieti sanciti dalla normativa antiebraica: "Sono testi che ribadiscono in modo capillare, ossessivo e grottesco i vari divieti in cui incorrevano gli ebrei - dice Venzo - . Oltre ai divieti di svolgere professioni, all'istruzione nelle scuole del regno, a possedere proprietà mobili e immobili, si estendevano anche ad aspetti minimi della vita associativa e relazionale. Per esempio, si vietava l'accesso a biblioteche, ma anche a luoghi di villeggiatura di lusso frequentati da ariani, o di dormire in dormitori pubblici. Una delle circolari più ridicole ribadiva che gli ebrei non potevano partecipare ad associazioni per la protezione degli animali. Sono testi che evidenziano lo scopo perseguito dal fascismo, cioè l'isolamento dal resto della collettività".
Accanto alle circolari, spiccano giornali d'epoca che fomentavano la propaganda antisemita, come "La difesa della razza". Tra gli atti dei processi ai collaborazionisti che si svolsero nel '46, è stato ritrovato un opuscolo diffamatorio contro Celeste Di Porto, chiamata Stella per la sua bellezza, poi soprannominata "Pantera nera", controversa e spregiudicata figura di ragazza ebrea romana che passò tristemente alla storia per aver denunciato ai tedeschi i suoi correligionari. Condannata nel Dopoguerra, ha beneficiato dell'amnistia per poi far perdere le sue tracce.
Sempre nei fascicoli dei processi spiccano lettere di un giovane deportato a Fossoli, scritte alla fidanzata collaborazionista, poi assolta per mancanza di prove: "Tra queste abbiamo ritrovato una lettera mandata di nascosto, scritta in codice, metà a penna e metà a matita - dice Venzo -Per paura che venisse intercettata, il ragazzo si finge un'amica della destinataria che vuole liberarsi del marito, ossia i tedeschi, che vuole obbligarla a seguirlo contro la sua volontà. Il ragazzo finirà in un lager tedesco e morirà".
Tra le curiosità proposte dall'Archivio di Stato anche la mappa del percorso trionfale di Hitler quando arrivò a Roma l'8 maggio 1843: "Il corteo parte dalla stazione Ostiense, dove Hitler arriva in treno e viene ricevuto dal re e da Mussolini, e raggiunge piazza Venezia passando per il Colosseo e via dell'Impero fastosamente illuminati. E' la mappa originale della prefettura, studiata per provvedere alla sicurezza del percorso", racconta Venzo.
Ancora in mostra, le richieste-suppliche da parte degli ebrei: "La normativa imponeva divieti, ma prevedeva anche deroghe per gli ebrei discriminati, in un'accezione positiva, per vari meriti, tra chi aveva servito la patria nella prima guerra mondiale o era iscritto al partito fascista. In quei casi potevano vedersi accordare dei permessi. In mostra ci sono richieste per tenere un apparecchio radio o una cameriera ariana".
In occasione della Giornata della Memoria, venerdì 27 gennaio, l'Archivio di Stato collaborerà con gli attori del teatro Valle Occupato per la lettura dei documenti con l'interpretazione dell'attrice Veronica Visentin (Sant'Ivo alla Sapienza, Corso Rinascimento 40, dalle ore 11, ingresso libero).
Fonte:http://www.repubblica.it/cronaca/2012/01/25/foto/shoah_i_documenti_nell_archivio_di_stato-28761941/1/?ref=HREC2-3
Decine di documenti rari e d'epoca esposti per la prima volta a Roma dall'Archivio di Stato: dalle schede del censimento con nomi e indirizzi degli ebrei alle circolari del ministero dell'Interno sui divieti previsti dalle leggi razziali fino ai giornali della propaganda antisemita
Poco prima dell'estate del 1938 il ministero dell'Interno trasformava l'Ufficio demografico centrale in Direzione generale per la demografia e razza, la famosa "Demorazza", col compito di dirigere la politica antisemita. Tra le prime iniziative messe in campo ci fu quella di realizzare un censimento di tutti gli ebrei presenti a Roma e in Italia. E alcune di quelle schede del censimento ordinato dal regime fascista, dove figurano nomi e cognomi, data, luogo di nascita e residenza di cittadini romani di religione ebraica, vengono esposte per la prima volta all'Archivio di Stato di Roma, che il 27 gennaio celebra la Giornata della Memoria con l'esposizione di una sessantina di documenti rari ancora in larga parte da studiare, selezionati tra quelli originari dei fondi della Questura e della Prefettura di Roma.
"Le schede del censimento sono proprio quelle che permisero ai tedeschi di effettuare la razzia del 16 ottobre del '43 al Ghetto e in altri quartieri di Roma, avendo liste precise per individuare, arrestare e deportare ", racconta Manola Ida Venzo, coordinatrice dell'evento con Augusto Pompeo.
Le schede sono solo alcune delle testimonianze più suggestive della mostra "La persecuzione degli Ebrei a Roma. Documenti e voci" - allestita per due settimane nella Sala Alessandrina - che ripercorre la politica antisemita dal 1938, anno dell'emanazione delle prime leggi razziali, al 1945, attraverso testi emersi da un'accurata ricerca compiuta dallo staff dell'Archivio diretto da Eugenio Lo Sardo (Elvira Grantaliano, Luigi Arbia, Simonetta Ceglie, Carla Cerati, Rosanna Dominici, Paola Ferraris, Roberto Leggio, Antonella Parisi, Luca Saletti, Luisa Salvatori).
Si possono leggere le circolari originali inviate dal Ministero dell'Interno a Questura e Prefettura di Roma per ricordare i divieti sanciti dalla normativa antiebraica: "Sono testi che ribadiscono in modo capillare, ossessivo e grottesco i vari divieti in cui incorrevano gli ebrei - dice Venzo - . Oltre ai divieti di svolgere professioni, all'istruzione nelle scuole del regno, a possedere proprietà mobili e immobili, si estendevano anche ad aspetti minimi della vita associativa e relazionale. Per esempio, si vietava l'accesso a biblioteche, ma anche a luoghi di villeggiatura di lusso frequentati da ariani, o di dormire in dormitori pubblici. Una delle circolari più ridicole ribadiva che gli ebrei non potevano partecipare ad associazioni per la protezione degli animali. Sono testi che evidenziano lo scopo perseguito dal fascismo, cioè l'isolamento dal resto della collettività".
Accanto alle circolari, spiccano giornali d'epoca che fomentavano la propaganda antisemita, come "La difesa della razza". Tra gli atti dei processi ai collaborazionisti che si svolsero nel '46, è stato ritrovato un opuscolo diffamatorio contro Celeste Di Porto, chiamata Stella per la sua bellezza, poi soprannominata "Pantera nera", controversa e spregiudicata figura di ragazza ebrea romana che passò tristemente alla storia per aver denunciato ai tedeschi i suoi correligionari. Condannata nel Dopoguerra, ha beneficiato dell'amnistia per poi far perdere le sue tracce.
Sempre nei fascicoli dei processi spiccano lettere di un giovane deportato a Fossoli, scritte alla fidanzata collaborazionista, poi assolta per mancanza di prove: "Tra queste abbiamo ritrovato una lettera mandata di nascosto, scritta in codice, metà a penna e metà a matita - dice Venzo -Per paura che venisse intercettata, il ragazzo si finge un'amica della destinataria che vuole liberarsi del marito, ossia i tedeschi, che vuole obbligarla a seguirlo contro la sua volontà. Il ragazzo finirà in un lager tedesco e morirà".
Tra le curiosità proposte dall'Archivio di Stato anche la mappa del percorso trionfale di Hitler quando arrivò a Roma l'8 maggio 1843: "Il corteo parte dalla stazione Ostiense, dove Hitler arriva in treno e viene ricevuto dal re e da Mussolini, e raggiunge piazza Venezia passando per il Colosseo e via dell'Impero fastosamente illuminati. E' la mappa originale della prefettura, studiata per provvedere alla sicurezza del percorso", racconta Venzo.
Ancora in mostra, le richieste-suppliche da parte degli ebrei: "La normativa imponeva divieti, ma prevedeva anche deroghe per gli ebrei discriminati, in un'accezione positiva, per vari meriti, tra chi aveva servito la patria nella prima guerra mondiale o era iscritto al partito fascista. In quei casi potevano vedersi accordare dei permessi. In mostra ci sono richieste per tenere un apparecchio radio o una cameriera ariana".
In occasione della Giornata della Memoria, venerdì 27 gennaio, l'Archivio di Stato collaborerà con gli attori del teatro Valle Occupato per la lettura dei documenti con l'interpretazione dell'attrice Veronica Visentin (Sant'Ivo alla Sapienza, Corso Rinascimento 40, dalle ore 11, ingresso libero).
Fonte:http://www.repubblica.it/cronaca/2012/01/25/foto/shoah_i_documenti_nell_archivio_di_stato-28761941/1/?ref=HREC2-3
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Re: Comincia oggi la settimana della Memoria
Shoah, la giornata della memoria : "Stroncare rigurgiti di antisemitismo"
Il presidente della Repubblica: "Ricordare, miglior antidoto contro negazionismo, intolleranza e violenza". La cerimonia istituzionale aperta dal messaggio di Monti: "Momento molto delicato per Italia ed Europa, xenofobia e intolleranza non intacchino i nostri valori fondanti"
ROMA - Ricordare. Una "scuola di memoria" come antidoto a "quei rigurgiti di negazionismo e antisemitismo, di intolleranza e di violenza che per quanto marginali sono da stroncare sul nascere": è netto l'intervento di Giorgio Napolitano al Quirinale in occasione della giornata della memoria dell'Olocausto, che si celebra in Italia e in tutto il mondo a 67 anni dal giorno in cui le truppe sovietiche arrivarono ad Auschwitz.
Di fronte ad una platea folta di studenti, il presidente della Repubblica ha inquadrato il tema in prospettiva europea, ricordando l'articolo 2 del Trattato sull'Unione, invitando a non dimenticare i valori della Ue: il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti alle minoranze. "L'Europa è questo", ha detto il capo dello Stato. E non bisogna dimenticarsene "solo perché la nostra attenzione è oggi spasmodicamente concentrata sulla grave crisi finanziaria ed economica in atto da tre anni, sull'emergenza che ha investito l'eurozona, sulle quotazioni giorno per giorno, dei titoli del debito pubblico. Dobbiamo fare i conti con queste assillanti realtà, ma non perdiamo di vista il senso e i valori della costruzione europea".
Per il capo dello Stato le ragioni del nostro stare insieme "sono lì" in quel fondamento di pace e di civiltà su cui l'Europa ha trovato la sua unità ed è chiamata a far leva per il suo futuro".
Un messaggio altrettanto chiaro, con un preciso richiamo alle radici dell'Europa, è giunto da Mario Monti, che ha aperto in mattinata le celebrazioni. Il momento che Italia ed Europa stanno vivendo è molto delicato e "in questo contesto, più che mai, occorre vigilare perché rigurgiti di antisemitismo, xenofobia, intolleranza non intacchino i nostri valori fondanti, vanificando lo sforzo che tutti insieme stiamo compiendo per consolidare la nostra convivenza civile", ha detto il presidente del Consiglio, celebrando la ricorrenza "che vede la comunità ebraica dolorosamente protagonista nel ricordo della disumana criminalità nazista che ha generato la tragedia della Shoah".
Il ricordo della Shoah, sottolinea il premier, è alla base dei valori della Ue. "Il nostro Paese ha tratto insegnamento dagli errori e dagli orrori del passato e da questi ha costruito la sua identità sui valori di dignità umana, libertà, democrazia e uguaglianza: gli stessi valori sui quali è nata e si è rafforzata l'Unione europea". E oggi più che mai, secondo il presidente del Consiglio, "la storia e la sua memoria chiedono l'impegno ed il coraggio di tutti ad ogni livello".
Monti ricorda di avere avuto già modo di dire che "la crisi (ogni crisi, aggiungo) per essere superata in tutti i suoi gravi profili richiede di guardare in avanti con coraggio, con speranza, ma anche di riscoprire le proprie radici; lo ribadisco oggi, anche con maggiore forza. La memoria della Shoah", dice ancora, "è la parte costitutiva di queste radici, ancoraggio che impedisce di abbandonare la meta, che resta sempre quella della pace, della giustizia, della libertà per ogni uomo e per ogni popolo".
Il presidente della Repubblica: "Ricordare, miglior antidoto contro negazionismo, intolleranza e violenza". La cerimonia istituzionale aperta dal messaggio di Monti: "Momento molto delicato per Italia ed Europa, xenofobia e intolleranza non intacchino i nostri valori fondanti"
ROMA - Ricordare. Una "scuola di memoria" come antidoto a "quei rigurgiti di negazionismo e antisemitismo, di intolleranza e di violenza che per quanto marginali sono da stroncare sul nascere": è netto l'intervento di Giorgio Napolitano al Quirinale in occasione della giornata della memoria dell'Olocausto, che si celebra in Italia e in tutto il mondo a 67 anni dal giorno in cui le truppe sovietiche arrivarono ad Auschwitz.
Di fronte ad una platea folta di studenti, il presidente della Repubblica ha inquadrato il tema in prospettiva europea, ricordando l'articolo 2 del Trattato sull'Unione, invitando a non dimenticare i valori della Ue: il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti alle minoranze. "L'Europa è questo", ha detto il capo dello Stato. E non bisogna dimenticarsene "solo perché la nostra attenzione è oggi spasmodicamente concentrata sulla grave crisi finanziaria ed economica in atto da tre anni, sull'emergenza che ha investito l'eurozona, sulle quotazioni giorno per giorno, dei titoli del debito pubblico. Dobbiamo fare i conti con queste assillanti realtà, ma non perdiamo di vista il senso e i valori della costruzione europea".
Per il capo dello Stato le ragioni del nostro stare insieme "sono lì" in quel fondamento di pace e di civiltà su cui l'Europa ha trovato la sua unità ed è chiamata a far leva per il suo futuro".
Un messaggio altrettanto chiaro, con un preciso richiamo alle radici dell'Europa, è giunto da Mario Monti, che ha aperto in mattinata le celebrazioni. Il momento che Italia ed Europa stanno vivendo è molto delicato e "in questo contesto, più che mai, occorre vigilare perché rigurgiti di antisemitismo, xenofobia, intolleranza non intacchino i nostri valori fondanti, vanificando lo sforzo che tutti insieme stiamo compiendo per consolidare la nostra convivenza civile", ha detto il presidente del Consiglio, celebrando la ricorrenza "che vede la comunità ebraica dolorosamente protagonista nel ricordo della disumana criminalità nazista che ha generato la tragedia della Shoah".
Il ricordo della Shoah, sottolinea il premier, è alla base dei valori della Ue. "Il nostro Paese ha tratto insegnamento dagli errori e dagli orrori del passato e da questi ha costruito la sua identità sui valori di dignità umana, libertà, democrazia e uguaglianza: gli stessi valori sui quali è nata e si è rafforzata l'Unione europea". E oggi più che mai, secondo il presidente del Consiglio, "la storia e la sua memoria chiedono l'impegno ed il coraggio di tutti ad ogni livello".
Monti ricorda di avere avuto già modo di dire che "la crisi (ogni crisi, aggiungo) per essere superata in tutti i suoi gravi profili richiede di guardare in avanti con coraggio, con speranza, ma anche di riscoprire le proprie radici; lo ribadisco oggi, anche con maggiore forza. La memoria della Shoah", dice ancora, "è la parte costitutiva di queste radici, ancoraggio che impedisce di abbandonare la meta, che resta sempre quella della pace, della giustizia, della libertà per ogni uomo e per ogni popolo".
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Re: Comincia oggi la settimana della Memoria
La Storia: Io tra i malati da sterminare
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Re: Comincia oggi la settimana della Memoria
Weisz, l'ebreo che fece grande il Bologna
Un trofeo per ricordare il tecnico ungherese che morì ad Auschwitz nel 1944. Scoprì il talento di Giuseppe Meazza e inventò i ritiri estivi. Con lui la squadra emiliana, negli anni Trenta, "faceva tremare il mondo", come recita uno slogan ancora in voga oggi fra i tifosi. L'idea di Gianni Mura accolta da tanti sostenitori in cittàdi SIMONE MONARI
Lo leggo dopo
BOLOGNA - Un trofeo nel nome di Arpad Weisz. Che non è una birra e nulla ha a che vedere con i diritti televisivi, il merchandising e il marketing. Per una volta, e senza volerla demonizzare, la pubblicità non c'entra nulla. L'idea é di Gianni Mura, che ne ha scritto domenica nella sua rubrica settimanale "I cattivi pensieri". Repubblica Bologna l'ha subito rilanciata con un articolo di Paolo Soglia. Perché Bologna e Inter non organizzano una partita in memoria di Weisz? Vedremo adesso se il calcio troverà la forza di guardare avanti voltandosi indietro. Roberto Zanzi, dg del Bologna, ha preso posizione. I primi segnali sono incoraggianti. "Appena possibile ne parleremo con l'Inter, per trovare una data che si presti a questo tipo di iniziativa".
Nell'imminenza del 27 gennaio, il giorno della memoria dedicato alle vittime della Shoah, si torna dunque a parlare di questo tecnico ebreo ungherese che potremmo tranquillamente definire uno dei padri nobili del calcio moderno. Un padre, però, che per tanti anni è stato letteralmente dimenticato. Eppure fu l'uomo che inventò i ritiri estivi, che scoprì nientemeno che Giuseppe Meazza (lanciandolo in prima squadra a 17 anni) e che contribuì a fare grande, grandissimo, il Bologna. Con una metodologia di lavoro decisamente all'avanguardia.
Erano gli anni '30 e ancora oggi quella rossoblù è ricordata come la squadra che faceva tremare il mondo. Il gruppo Weisz non si limitò a vincere in patria, ma diede lezione persino ai maestri inglesi che sin lì avevano snobbato il calco d'oltreconfine e che invece nel '37, nella finale del Trofeo dell'Esposizione (una sorta di Champions League di quegli anni), subirono l'onta di una sconfitta che fece epoca, ridimensionò il Chelsea battuto 4-1 e issò il Bologna sulla ribalta continentale. Era il Bologna dell'ultimo Schiavio, l'eroe che nel '34 aveva permesso all'Italia di vincere il suo primo mondiale, di Biavati, l'inventore del passo doppio che sarebbe stato fondamentale nella replica azzurra del '38 , degli uruguagi Andreolo, Sansone, Fedullo e Puricelli, di tanti altri e di sicuro in panchina di Weisz che in quegli anni di autarchia era obbligatorio scrivere con la V iniziale, all'italiana.
A Bologna aveva aperto un ciclo, vincendo gli scudetti del '36 e del '37 dopo averne centrato uno anche con l'Inter, che allora si chiamava Ambrosiana, nel 29-30, in quello che fu il primo campionato a girone unico.
Se Weisz é stato riscoperto, seppur tardivamente, il merito è di un giornalista bolognese, Matteo Marani, che oggi dirige Il Guerin Sportivo e che nel 2007 gli ha dedicato un libro ( "Dallo scudetto ad Auschwitz" ) ripercorrendone le vicende col passo del cronista autentico e con la passione per la ricerca storica. Quella di Weisz è senza dubbia un'avventura esaltante dal punto di vista sportivo, drammatica da quello umano perché l'intera famiglia dell'allenatore ungherese pagò con la vita nei campi di concentramento la barbarie delle leggi razziali. Weisz, la moglie Elena (nata Ilona Rechnitzer, anche lei ebrea ungherese) e i figli Roberto e Clara, furono costretti a fuggire prima a Parigi poi in un piccolo centro nei Paesi Bassi. E anche lì, alla guida del Fc Dordrecht, Weisz in panchina fece miracoli, illudendosi di riprendere una vita quasi normale. Ma quando i tedeschi occuparono anche quelle terre, i Weisz finirono per essere deportati ad Auschwitz. E da lì non ne uscirono più. "Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chissa come è finito", scrisse tanti anni fa Enzo Biagi.
A seguito del libro di Marani nel gennaio del 2009, su iniziativa del Comune di Bologna nell'anno del centenario del club rossoblù fu posta una targa allo stadio Dall'Ara per rendere omaggio a Weisz e ora anche Milano ricorderà, all'interno dell'impianto di San Siro intitolato proprio a Meazza, l'allenatore che per primo ne intuì il talento. Venerdì 27 si terrà la cerimonia alla presenza del presidente Moratti, del tecnico Ranieri e del capitano Zanetti. Che possa presto svolgersi un trofeo fra Bologna e Inter, le squadre che segnarono in maniera indelebile la carriera di tecnico di Weisz (che allenò anche il Bari e il Novara) per adesso è una possibilità.
Un trofeo per ricordare il tecnico ungherese che morì ad Auschwitz nel 1944. Scoprì il talento di Giuseppe Meazza e inventò i ritiri estivi. Con lui la squadra emiliana, negli anni Trenta, "faceva tremare il mondo", come recita uno slogan ancora in voga oggi fra i tifosi. L'idea di Gianni Mura accolta da tanti sostenitori in cittàdi SIMONE MONARI
Lo leggo dopo
BOLOGNA - Un trofeo nel nome di Arpad Weisz. Che non è una birra e nulla ha a che vedere con i diritti televisivi, il merchandising e il marketing. Per una volta, e senza volerla demonizzare, la pubblicità non c'entra nulla. L'idea é di Gianni Mura, che ne ha scritto domenica nella sua rubrica settimanale "I cattivi pensieri". Repubblica Bologna l'ha subito rilanciata con un articolo di Paolo Soglia. Perché Bologna e Inter non organizzano una partita in memoria di Weisz? Vedremo adesso se il calcio troverà la forza di guardare avanti voltandosi indietro. Roberto Zanzi, dg del Bologna, ha preso posizione. I primi segnali sono incoraggianti. "Appena possibile ne parleremo con l'Inter, per trovare una data che si presti a questo tipo di iniziativa".
Nell'imminenza del 27 gennaio, il giorno della memoria dedicato alle vittime della Shoah, si torna dunque a parlare di questo tecnico ebreo ungherese che potremmo tranquillamente definire uno dei padri nobili del calcio moderno. Un padre, però, che per tanti anni è stato letteralmente dimenticato. Eppure fu l'uomo che inventò i ritiri estivi, che scoprì nientemeno che Giuseppe Meazza (lanciandolo in prima squadra a 17 anni) e che contribuì a fare grande, grandissimo, il Bologna. Con una metodologia di lavoro decisamente all'avanguardia.
Erano gli anni '30 e ancora oggi quella rossoblù è ricordata come la squadra che faceva tremare il mondo. Il gruppo Weisz non si limitò a vincere in patria, ma diede lezione persino ai maestri inglesi che sin lì avevano snobbato il calco d'oltreconfine e che invece nel '37, nella finale del Trofeo dell'Esposizione (una sorta di Champions League di quegli anni), subirono l'onta di una sconfitta che fece epoca, ridimensionò il Chelsea battuto 4-1 e issò il Bologna sulla ribalta continentale. Era il Bologna dell'ultimo Schiavio, l'eroe che nel '34 aveva permesso all'Italia di vincere il suo primo mondiale, di Biavati, l'inventore del passo doppio che sarebbe stato fondamentale nella replica azzurra del '38 , degli uruguagi Andreolo, Sansone, Fedullo e Puricelli, di tanti altri e di sicuro in panchina di Weisz che in quegli anni di autarchia era obbligatorio scrivere con la V iniziale, all'italiana.
A Bologna aveva aperto un ciclo, vincendo gli scudetti del '36 e del '37 dopo averne centrato uno anche con l'Inter, che allora si chiamava Ambrosiana, nel 29-30, in quello che fu il primo campionato a girone unico.
Se Weisz é stato riscoperto, seppur tardivamente, il merito è di un giornalista bolognese, Matteo Marani, che oggi dirige Il Guerin Sportivo e che nel 2007 gli ha dedicato un libro ( "Dallo scudetto ad Auschwitz" ) ripercorrendone le vicende col passo del cronista autentico e con la passione per la ricerca storica. Quella di Weisz è senza dubbia un'avventura esaltante dal punto di vista sportivo, drammatica da quello umano perché l'intera famiglia dell'allenatore ungherese pagò con la vita nei campi di concentramento la barbarie delle leggi razziali. Weisz, la moglie Elena (nata Ilona Rechnitzer, anche lei ebrea ungherese) e i figli Roberto e Clara, furono costretti a fuggire prima a Parigi poi in un piccolo centro nei Paesi Bassi. E anche lì, alla guida del Fc Dordrecht, Weisz in panchina fece miracoli, illudendosi di riprendere una vita quasi normale. Ma quando i tedeschi occuparono anche quelle terre, i Weisz finirono per essere deportati ad Auschwitz. E da lì non ne uscirono più. "Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chissa come è finito", scrisse tanti anni fa Enzo Biagi.
A seguito del libro di Marani nel gennaio del 2009, su iniziativa del Comune di Bologna nell'anno del centenario del club rossoblù fu posta una targa allo stadio Dall'Ara per rendere omaggio a Weisz e ora anche Milano ricorderà, all'interno dell'impianto di San Siro intitolato proprio a Meazza, l'allenatore che per primo ne intuì il talento. Venerdì 27 si terrà la cerimonia alla presenza del presidente Moratti, del tecnico Ranieri e del capitano Zanetti. Che possa presto svolgersi un trofeo fra Bologna e Inter, le squadre che segnarono in maniera indelebile la carriera di tecnico di Weisz (che allenò anche il Bari e il Novara) per adesso è una possibilità.
szwaby82- Messaggi : 4159
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Re: Comincia oggi la settimana della Memoria
LA SHOA VISTA DAGLI STUDENTI DEL LICEO MANZONI DI ROMA
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Re: Comincia oggi la settimana della Memoria
GIORNATA DELLA MEMORIA
Omosessuali, rom, disabili
le vittime senza nome dell'Olocausto
Eccidi dimenticati. Sperimentazioni a lungo negate, per lo più su bambini. Accanto agli ebrei, sono centinaia di migliaia le persone morte nei campi di sterminio nazisti. Alcune associazioni stanno provando a dar loro un volto e una voce
Aktion T4, Porrajmos e Omocausto. Hanno un nome, quelli che in molti definiscono gli Olocausti dimenticati. Disabili, rom e omosessuali sterminati durante gli anni del nazismo, grazie anche al ruolo svolto dai regimi fascisti collaborazionisti.
Spesso non hanno più un volto e una voce, perché furono in pochi a sopravvivere ai folli piani di sterminio messi in atto da Hitler e a poter, quindi, trasmettere quella Memoria, fondamentale per tramandare le atrocità commesse dall'uomo. Anche la matematica dell'orrore, quella che dovrebbe documentare e far comprendere nella sua brutalità numerica, con le cifre delle persone morte, la portata di questo sterminio, deve fare i conti con documenti fatti sparire o con (è il caso dei rom) l'assenza di una tradizione scritta. Oppure, come avviene per i gay, con la negazione della loro omosessualità, anche dopo la liberazione dai campi di concentramento.
Anche i Testimoni di Geova furono perseguitati, tra il 1933 e il 1945 (diecimila internati, prevalentemente tedeschi): a loro veniva anche offerta - invano - la possibilità di rinunciare al loro credo religioso, in cambio della libertà. Olocausti che - come hanno fatto notare, non senza qualche polemica, alcune associazioni - si è spesso cercato di dimenticare. E sono proprio le associazioni come l'Avi (per la tutela delle persone disabili), Arcigay e Gay Center, Opera Nomadi e Aizo (rom e sinti) ad aver organizzato, nella settimana della Memoria, alcuni eventi, in tutta Italia, per cercare di far conoscere, ad esempio, l'Aktion T4, il programma nazista di eutanasia che, in nome dell'igiene della razza cara ai nazisti, portò alla soppressione di almeno 70mila persone affette da malattie genetiche, inguaribili o da malformazioni fisiche.
O l'Omocausto, che portò alla morte di almeno 7mila omosessuali nei campi di sterminio nazisti (oltre alle decine di migliaia di persone che vennero condannate sulla base del Paragrafo 175, quello che puniva gli atti e, persino, le fantasie omosessuali). E, infine, lo Porrajmos, che in lingua romaní indica la "devastazione": furono più di mezzo milione i rom e i sinti morti nei campi di sterminio. I piani di sterminio degli zingari vennero attuati non soltanto nei territori annessi dal dominio nazista, ma anche da parte dei governi collaborazionisti, come la Romania e la Jugoslavia, che furono, insieme alla Polonia, tra i principali teatri di questa persecuzione. Ad Auschwitz erano rinchiusi nel tristemente noto Zigeunerlager, ed erano contraddistinti dal triangolo marrone. Come Barbara Ritter, cecoslovacca rom, scomparsa due anni fa. Una delle poche persone a raccogliere la sua testimonianza, durante un incontro che si è tenuto a Ginevra, è stata Carla Osella, presidente dell'Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi). A lei ha raccontato della deportazione nel campo, nel reparto dell'"angelo della Morte", quel Josef Mengele noto per i suoi esperimenti medici e di eugenetica che svolse usando come cavie umane i deportati, anche bambini. "Barbara venne rinchiusa nel lager di Mengele, e qui sottoposta ad una serie di esperimenti. Le inocularono la malaria, per vedere se era in grado di guarire. Non morì, a differenza di tante persone, tutti bambini, che erano con lei", racconta Osella. "Uno dei racconti più atroci che mi fece, fu quello che vide per protagonista un bimbo, ad Auschwitz. Per tenere buoni i bambini, Mengele era solito dar loro della cioccolata. Un giorno prese uno di questi e, proprio di fronte a Barbara, gli sparò, senza alcuna apparente motivo".
Barbara assistette anche a numerosi tentativi di ribellione, da parte dei rom, nei confronti dei soldati nazisti. "La Ritter si salvò, perché, dopo essere stata trasferita a Buchenwald, riuscì a fuggire, mentre chi era rimasto ad Auschwitz fu ucciso", ricorda ancora la presidente dell'associazione. Ma i racconti come questo sono pochi. "Non ho notizia, in Italia, di nessun rom sopravvissuto all'Olocausto, che sia ancora in vita - dice Massimo Converso, presidente dell'Opera Nomadi - E poi c'è il problema, a livello di trasmissione della memoria, dell'assenza di una tradizione scritta. I rom erano spesso analfabeti". Mezzo milione i morti certi, anche se di moltissimi zingari si è persa ogni traccia, senza che si possa dire con certezza che siano stati uccisi dai nazisti. E questo potrebbe spiegare perché altre stime parlino di un milione e mezzo di morti. In provincia di Viterbo, a Blera, ne vennero chiusi una cinquantina in un campo di concentramento repubblichino, sconosciuto ai più. "Dal settembre del 1943 al giugno del 1944", spiega Converso, che ieri, a Roma, ha preso parte alla tradizionale fiaccolata che ricorda i rom uccisi. Silvia Cutrera, a capo dell'Avi (associazione per la vita indipendente) è, invece, riuscita a intervistare il tedesco Friedrich Zawrel: classe 1929, venne internato nello "Am Spiegelgrund", un ricovero, a Vienna, per bambini "disturbati mentalmente", e che, sotto il Terzo Reich, fu trasformato in "centro dell'orrore". Era considerato affetto da comportamento deviato, perché figlio di un alcolizzato non in grado di prestare servizio militare: in più aveva anche marinato alcune lezioni, a scuola. "Ha personalmente assistito agli esperimenti condotti sui bambini, ricoverati insieme a lui - racconta la Cutrera - Non venivano uccisi, ma si somministravano loro farmaci, per vedere chi riusciva a vivere più a lungo oppure per studiare le loro reazioni. Anche lui fu costretto a prendere medicine letali". Dopo aver subito molestie e violenze, ha cercato di fuggire. Riacciuffato, è stato segregato per un anno in una cella di isolamento: è riuscito a salvarsi soltanto grazie all'aiuto di una infermiera.
Rosa era, invece, il colore del triangolo che indicava, nei campi di concentramento, gli omosessuali. "Le stime sui morti, in questo caso, sono difficilissime - racconta Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center - perché molti non volevano ammettere di essere omosessuali. Altri vennero portati nei campi di concentramento per altri motivi e, quindi, la loro omosessualità non emergeva". "E' una storia cancellata, la loro", dice Porpora Marcasciano, presidente del MIT (movimento di identità transessuale), "anche per colpa di quel pudore cattolico che porta a censurare determinati argomenti. E bisogna considerare che molti gay erano anche deportati politici e non avevano alcuna intenzione di dichiarare il loro orientamento sessuale, anche una volta liberati". Tra i pochi - è forse l'unica, in Italia, a poter ancora ricordare quegli anni di persecuzioni - c'è la transessuale Lucy, che entrò nel campo di sterminio di Dachau come Luciano. E che, nel 2010, per la prima volta, è tornata a visitare il luogo dal quale è riuscita miracolosamente a salvarsi. Alcuni volti di omosessuali internati ad Auschwitz sono esposti, da giovedì, nell'ambito di una mostra, allestita a Roma, nella sede del Municipio XI, curata da Gay Center e Arcigay Roma, con il supporto della comunità ebraica di Roma e dell'Ucei. "Di Omocausto si è iniziato a discutere in Italia grazie a quegli studiosi, soprattutto tedeschi, che hanno sollevato il caso - osserva Aurelio Mancuso, presidente di Equality - Fino a non molto tempo fa, una ventina di anni fa, non si parlava affatto delle vittime omosessuali. C'erano anche difficoltà relative alle fonti e ai documenti". "Bisogna poi ricordare quelle centinaia di persone mandate al confino dal regime fascista - aggiunge Mancuso - e che, comunque, rientravano nelle persecuzioni dell'epoca contro gli omosessuali". Mancuso evidenzia anche il ruolo chiave svolto dalle comunità ebraiche italiane nel portare alla luce la questione dell'Omocausto: "Si è fatto molto lavoro comune, fondamentale per una memoria condivisa, e tanti rabbini si sono pronunciati in merito alle persecuzioni dei gay durante il periodo nazista".
Omosessuali, rom, disabili
le vittime senza nome dell'Olocausto
Eccidi dimenticati. Sperimentazioni a lungo negate, per lo più su bambini. Accanto agli ebrei, sono centinaia di migliaia le persone morte nei campi di sterminio nazisti. Alcune associazioni stanno provando a dar loro un volto e una voce
Aktion T4, Porrajmos e Omocausto. Hanno un nome, quelli che in molti definiscono gli Olocausti dimenticati. Disabili, rom e omosessuali sterminati durante gli anni del nazismo, grazie anche al ruolo svolto dai regimi fascisti collaborazionisti.
Spesso non hanno più un volto e una voce, perché furono in pochi a sopravvivere ai folli piani di sterminio messi in atto da Hitler e a poter, quindi, trasmettere quella Memoria, fondamentale per tramandare le atrocità commesse dall'uomo. Anche la matematica dell'orrore, quella che dovrebbe documentare e far comprendere nella sua brutalità numerica, con le cifre delle persone morte, la portata di questo sterminio, deve fare i conti con documenti fatti sparire o con (è il caso dei rom) l'assenza di una tradizione scritta. Oppure, come avviene per i gay, con la negazione della loro omosessualità, anche dopo la liberazione dai campi di concentramento.
Anche i Testimoni di Geova furono perseguitati, tra il 1933 e il 1945 (diecimila internati, prevalentemente tedeschi): a loro veniva anche offerta - invano - la possibilità di rinunciare al loro credo religioso, in cambio della libertà. Olocausti che - come hanno fatto notare, non senza qualche polemica, alcune associazioni - si è spesso cercato di dimenticare. E sono proprio le associazioni come l'Avi (per la tutela delle persone disabili), Arcigay e Gay Center, Opera Nomadi e Aizo (rom e sinti) ad aver organizzato, nella settimana della Memoria, alcuni eventi, in tutta Italia, per cercare di far conoscere, ad esempio, l'Aktion T4, il programma nazista di eutanasia che, in nome dell'igiene della razza cara ai nazisti, portò alla soppressione di almeno 70mila persone affette da malattie genetiche, inguaribili o da malformazioni fisiche.
O l'Omocausto, che portò alla morte di almeno 7mila omosessuali nei campi di sterminio nazisti (oltre alle decine di migliaia di persone che vennero condannate sulla base del Paragrafo 175, quello che puniva gli atti e, persino, le fantasie omosessuali). E, infine, lo Porrajmos, che in lingua romaní indica la "devastazione": furono più di mezzo milione i rom e i sinti morti nei campi di sterminio. I piani di sterminio degli zingari vennero attuati non soltanto nei territori annessi dal dominio nazista, ma anche da parte dei governi collaborazionisti, come la Romania e la Jugoslavia, che furono, insieme alla Polonia, tra i principali teatri di questa persecuzione. Ad Auschwitz erano rinchiusi nel tristemente noto Zigeunerlager, ed erano contraddistinti dal triangolo marrone. Come Barbara Ritter, cecoslovacca rom, scomparsa due anni fa. Una delle poche persone a raccogliere la sua testimonianza, durante un incontro che si è tenuto a Ginevra, è stata Carla Osella, presidente dell'Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi). A lei ha raccontato della deportazione nel campo, nel reparto dell'"angelo della Morte", quel Josef Mengele noto per i suoi esperimenti medici e di eugenetica che svolse usando come cavie umane i deportati, anche bambini. "Barbara venne rinchiusa nel lager di Mengele, e qui sottoposta ad una serie di esperimenti. Le inocularono la malaria, per vedere se era in grado di guarire. Non morì, a differenza di tante persone, tutti bambini, che erano con lei", racconta Osella. "Uno dei racconti più atroci che mi fece, fu quello che vide per protagonista un bimbo, ad Auschwitz. Per tenere buoni i bambini, Mengele era solito dar loro della cioccolata. Un giorno prese uno di questi e, proprio di fronte a Barbara, gli sparò, senza alcuna apparente motivo".
Barbara assistette anche a numerosi tentativi di ribellione, da parte dei rom, nei confronti dei soldati nazisti. "La Ritter si salvò, perché, dopo essere stata trasferita a Buchenwald, riuscì a fuggire, mentre chi era rimasto ad Auschwitz fu ucciso", ricorda ancora la presidente dell'associazione. Ma i racconti come questo sono pochi. "Non ho notizia, in Italia, di nessun rom sopravvissuto all'Olocausto, che sia ancora in vita - dice Massimo Converso, presidente dell'Opera Nomadi - E poi c'è il problema, a livello di trasmissione della memoria, dell'assenza di una tradizione scritta. I rom erano spesso analfabeti". Mezzo milione i morti certi, anche se di moltissimi zingari si è persa ogni traccia, senza che si possa dire con certezza che siano stati uccisi dai nazisti. E questo potrebbe spiegare perché altre stime parlino di un milione e mezzo di morti. In provincia di Viterbo, a Blera, ne vennero chiusi una cinquantina in un campo di concentramento repubblichino, sconosciuto ai più. "Dal settembre del 1943 al giugno del 1944", spiega Converso, che ieri, a Roma, ha preso parte alla tradizionale fiaccolata che ricorda i rom uccisi. Silvia Cutrera, a capo dell'Avi (associazione per la vita indipendente) è, invece, riuscita a intervistare il tedesco Friedrich Zawrel: classe 1929, venne internato nello "Am Spiegelgrund", un ricovero, a Vienna, per bambini "disturbati mentalmente", e che, sotto il Terzo Reich, fu trasformato in "centro dell'orrore". Era considerato affetto da comportamento deviato, perché figlio di un alcolizzato non in grado di prestare servizio militare: in più aveva anche marinato alcune lezioni, a scuola. "Ha personalmente assistito agli esperimenti condotti sui bambini, ricoverati insieme a lui - racconta la Cutrera - Non venivano uccisi, ma si somministravano loro farmaci, per vedere chi riusciva a vivere più a lungo oppure per studiare le loro reazioni. Anche lui fu costretto a prendere medicine letali". Dopo aver subito molestie e violenze, ha cercato di fuggire. Riacciuffato, è stato segregato per un anno in una cella di isolamento: è riuscito a salvarsi soltanto grazie all'aiuto di una infermiera.
Rosa era, invece, il colore del triangolo che indicava, nei campi di concentramento, gli omosessuali. "Le stime sui morti, in questo caso, sono difficilissime - racconta Fabrizio Marrazzo, portavoce di Gay Center - perché molti non volevano ammettere di essere omosessuali. Altri vennero portati nei campi di concentramento per altri motivi e, quindi, la loro omosessualità non emergeva". "E' una storia cancellata, la loro", dice Porpora Marcasciano, presidente del MIT (movimento di identità transessuale), "anche per colpa di quel pudore cattolico che porta a censurare determinati argomenti. E bisogna considerare che molti gay erano anche deportati politici e non avevano alcuna intenzione di dichiarare il loro orientamento sessuale, anche una volta liberati". Tra i pochi - è forse l'unica, in Italia, a poter ancora ricordare quegli anni di persecuzioni - c'è la transessuale Lucy, che entrò nel campo di sterminio di Dachau come Luciano. E che, nel 2010, per la prima volta, è tornata a visitare il luogo dal quale è riuscita miracolosamente a salvarsi. Alcuni volti di omosessuali internati ad Auschwitz sono esposti, da giovedì, nell'ambito di una mostra, allestita a Roma, nella sede del Municipio XI, curata da Gay Center e Arcigay Roma, con il supporto della comunità ebraica di Roma e dell'Ucei. "Di Omocausto si è iniziato a discutere in Italia grazie a quegli studiosi, soprattutto tedeschi, che hanno sollevato il caso - osserva Aurelio Mancuso, presidente di Equality - Fino a non molto tempo fa, una ventina di anni fa, non si parlava affatto delle vittime omosessuali. C'erano anche difficoltà relative alle fonti e ai documenti". "Bisogna poi ricordare quelle centinaia di persone mandate al confino dal regime fascista - aggiunge Mancuso - e che, comunque, rientravano nelle persecuzioni dell'epoca contro gli omosessuali". Mancuso evidenzia anche il ruolo chiave svolto dalle comunità ebraiche italiane nel portare alla luce la questione dell'Omocausto: "Si è fatto molto lavoro comune, fondamentale per una memoria condivisa, e tanti rabbini si sono pronunciati in merito alle persecuzioni dei gay durante il periodo nazista".
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