Grandi personaggi della storia
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Grandi personaggi della storia
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4evermichael- Moderator
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Re: Grandi personaggi della storia
Paolo Borsellino
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19/1/1940 dove la sua famiglia vive e vivrà in un quartiere borghese di Palermo: la Magione. Borsellino è molto attaccato a questo quartiere dove ha trascorso tutta la giovinezza. I genitori erano entrambi farmacisti.
Al momento dello sbarco degli alleati in Sicilia la madre di Paolo Borsellino vieta ai figli di accettare qualsiasi dono dai soldati americani. "La Patria è sconfitta, i sacrifici sono stati inutili, non c’è da essere felici..." è una delle frasi della madre di Borsellino in quel momento.
Queste vicende e i racconti di "Zio Ciccio", reduce della Campagna d’Africa, gli suscitano curiosità sulle vicende del periodo fascista, di cui la sua famiglia è stata protagonista. Anche il rapporto con i figli è molto forte. Cerca di proteggerli dalla realtà che è intorno a lui e, nello stesso tempo, di trasmettergli il proprio modo di essere e di agire. Un episodio per comprendere la fatica e la difficoltà di questo rapporto lo si può trovare nel momento in cui, in piena attività antimafia, Paolo Borsellino viene trasferito insieme con Giovanni Falcone sull’isola dell’Asinara per motivi di sicurezza. La figlia di Paolo Borsellino, "Fiammetta" viene allontanata dall’isola in quanto malata di anoressia. Paolo Borsellino la veglia ogni notte e cerca di aiutarla in tutti i modi. Per tutta la sua esistenza quel senso di protezione, quel senso di colpa per aver provocato problemi così grandi alla sua famiglia e, soprattutto, la volontà di stare vicino a sua figlia non lo abbandoneranno mai.
Paolo borsellino, dopo avere frequentato il Liceo classico "Meli" si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Palermo e successivamente nel 1959 si iscrive all’organizzazione FUAN Fanalino. Membro dell’esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, viene eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino. In questi anni l’attività politica lo prende molto e riesce a conciliare politica e studio senza grossi problemi. Il 27 giugno 1962, all'età di appena 22 anni, Paolo Borsellino si laurea con 110 e lode e, pochi giorni dopo, subisce la perdita del padre. Ora è affidato a lui il compito di provvedere alla famiglia. Si impegna con l’ordine dei farmacisti a tenere la farmacia del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia di sua sorella. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Paolo Borsellino studia per superare il concorso in magistratura, riuscendoci nel 1963. Fare il magistrato a Palermo ha un senso profondo, non è una professione qualunque. L’amore per la sua terra, per la giustizia gli danno quella spinta interiore che lo porta a diventare magistrato senza trascurare i doveri verso la sua famiglia.
Paolo Borsellino nel 1965 viene mandato al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Nel 1967 ha il primo incarico direttivo, Pretore a Mazara del Vallo nel periodo del dopo terremoto. Il 23 dicembre del 1968 Borsellino si sposa, continua a lavorare a Mazara facendo avanti e indietro da Palermo, anche più volte al giorno. Nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavora fianco a fianco con il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Nel 1975 Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo e a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia e da questo momento comincia il suo impegno senza sosta per sconfiggere l’organizzazione mafiosa.
Nel 1980 arriva l’arresto dei primi sei mafiosi. Nello stesso anno il capitano viene ucciso in un agguato. Per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta con le difficoltà che ne conseguono. Da questo momento il clima in casa Borsellino cambia e il giudice stesso deve relazionarsi con "quei ragazzi" che gli sono sempre a fianco e che cambieranno per sempre le abitudini sue e della sua famiglia. Il suo modo di fare, la sua decisione influenzano il "sentire" dei suoi familiari. Dalle parole della moglie, ancora, si può comprendere il rispetto e la sofferenza che si alternano nei loro cuori.Biografia
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19/1/1940 dove la sua famiglia vive e vivrà in un quartiere borghese di Palermo: la Magione. Borsellino è molto attaccato a questo quartiere dove ha trascorso tutta la giovinezza. I genitori erano entrambi farmacisti.
Al momento dello sbarco degli alleati in Sicilia la madre di Paolo Borsellino vieta ai figli di accettare qualsiasi dono dai soldati americani. "La Patria è sconfitta, i sacrifici sono stati inutili, non c’è da essere felici..." è una delle frasi della madre di Borsellino in quel momento.
Queste vicende e i racconti di "Zio Ciccio", reduce della Campagna d’Africa, gli suscitano curiosità sulle vicende del periodo fascista, di cui la sua famiglia è stata protagonista. Anche il rapporto con i figli è molto forte. Cerca di proteggerli dalla realtà che è intorno a lui e, nello stesso tempo, di trasmettergli il proprio modo di essere e di agire. Un episodio per comprendere la fatica e la difficoltà di questo rapporto lo si può trovare nel momento in cui, in piena attività antimafia, Paolo Borsellino viene trasferito insieme con Giovanni Falcone sull’isola dell’Asinara per motivi di sicurezza. La figlia di Paolo Borsellino, "Fiammetta" viene allontanata dall’isola in quanto malata di anoressia. Paolo Borsellino la veglia ogni notte e cerca di aiutarla in tutti i modi. Per tutta la sua esistenza quel senso di protezione, quel senso di colpa per aver provocato problemi così grandi alla sua famiglia e, soprattutto, la volontà di stare vicino a sua figlia non lo abbandoneranno mai.
Paolo borsellino, dopo avere frequentato il Liceo classico "Meli" si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Palermo e successivamente nel 1959 si iscrive all’organizzazione FUAN Fanalino. Membro dell’esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, viene eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino. In questi anni l’attività politica lo prende molto e riesce a conciliare politica e studio senza grossi problemi. Il 27 giugno 1962, all'età di appena 22 anni, Paolo Borsellino si laurea con 110 e lode e, pochi giorni dopo, subisce la perdita del padre. Ora è affidato a lui il compito di provvedere alla famiglia. Si impegna con l’ordine dei farmacisti a tenere la farmacia del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia di sua sorella. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Paolo Borsellino studia per superare il concorso in magistratura, riuscendoci nel 1963. Fare il magistrato a Palermo ha un senso profondo, non è una professione qualunque. L’amore per la sua terra, per la giustizia gli danno quella spinta interiore che lo porta a diventare magistrato senza trascurare i doveri verso la sua famiglia.
Paolo Borsellino nel 1965 viene mandato al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Nel 1967 ha il primo incarico direttivo, Pretore a Mazara del Vallo nel periodo del dopo terremoto. Il 23 dicembre del 1968 Borsellino si sposa, continua a lavorare a Mazara facendo avanti e indietro da Palermo, anche più volte al giorno. Nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavora fianco a fianco con il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Nel 1975 Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo e a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia e da questo momento comincia il suo impegno senza sosta per sconfiggere l’organizzazione mafiosa.
Nel 1980 arriva l’arresto dei primi sei mafiosi. Nello stesso anno il capitano viene ucciso in un agguato. Per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta con le difficoltà che ne conseguono. Da questo momento il clima in casa Borsellino cambia e il giudice stesso deve relazionarsi con "quei ragazzi" che gli sono sempre a fianco e che cambieranno per sempre le abitudini sue e della sua famiglia. Il suo modo di fare, la sua decisione influenzano il "sentire" dei suoi familiari. Dalle parole della moglie, ancora, si può comprendere il rispetto e la sofferenza che si alternano nei loro cuori.
"Il suo modo di esercitare la funzione di giudice lo condivido perché anch’io credo nei valori che lo ispirano....Non penso mai, per egoismo, per desiderio di una vita facile di ostacolarlo....Non è stato un sacrificio immolare la sua vita al mestiere di giudice: ama tantissimo cercare la verità, qualunque essa sia." La scorta costringe il giudice e la sua famiglia a convivere con un nuovo sentimento: la paura. E’ così che Borsellino ne parla e la affronta: "La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti."
Il Pool comprende quattro magistrati. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giovanni Barrile lavorano uno a fianco all’altro, sotto la guida di Rocco Chinnici. Si intravede e, lentamente, si instaura un legame comunitario tra i giudici che appartengono al pool. E’ nei giovani la forza su cui contare per cambiare la mentalità della gente e i magistrati lo sanno. Vogliono scuotere le coscienze e sentire intorno a sé la stima della gente. Sia Falcone sia Borsellino hanno sempre cercato la gente. Borsellino comincia a promuovere e a partecipare ai dibattiti nelle scuole, parla ai giovani nelle feste giovanili di piazza, alle tavole rotonde per spiegare e per sconfiggere una volta per sempre la cultura mafiosa. Fino alla fine della sua vita Borsellino, nel tempo che gli rimane dopo il lavoro, cercherà di incontrare i giovani, di comunicargli questi nuovi sentimenti e di renderli protagonisti della lotta alla mafia. Parallelamente continua il lavoro nel pool. Questa squadra funziona bene, ma si comprende che per sconfiggere la mafia il pool, da solo, non è sufficiente. Si chiede la promozione di pool di giudici inquirenti, coordinati tra loro ed in continuo contatto, il potenziamento della polizia giudiziaria, l’istituzione di nuove regole per la scelta dei giudici popolari e di controlli bancari per rintracciare i capitali mafiosi. I magistrati del pool pretendono l’intervento dello stato perché si rendono conto che il loro lavoro, da solo, non basta.Biografia
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19/1/1940 dove la sua famiglia vive e vivrà in un quartiere borghese di Palermo: la Magione. Borsellino è molto attaccato a questo quartiere dove ha trascorso tutta la giovinezza. I genitori erano entrambi farmacisti.
Al momento dello sbarco degli alleati in Sicilia la madre di Paolo Borsellino vieta ai figli di accettare qualsiasi dono dai soldati americani. "La Patria è sconfitta, i sacrifici sono stati inutili, non c’è da essere felici..." è una delle frasi della madre di Borsellino in quel momento.
Queste vicende e i racconti di "Zio Ciccio", reduce della Campagna d’Africa, gli suscitano curiosità sulle vicende del periodo fascista, di cui la sua famiglia è stata protagonista. Anche il rapporto con i figli è molto forte. Cerca di proteggerli dalla realtà che è intorno a lui e, nello stesso tempo, di trasmettergli il proprio modo di essere e di agire. Un episodio per comprendere la fatica e la difficoltà di questo rapporto lo si può trovare nel momento in cui, in piena attività antimafia, Paolo Borsellino viene trasferito insieme con Giovanni Falcone sull’isola dell’Asinara per motivi di sicurezza. La figlia di Paolo Borsellino, "Fiammetta" viene allontanata dall’isola in quanto malata di anoressia. Paolo Borsellino la veglia ogni notte e cerca di aiutarla in tutti i modi. Per tutta la sua esistenza quel senso di protezione, quel senso di colpa per aver provocato problemi così grandi alla sua famiglia e, soprattutto, la volontà di stare vicino a sua figlia non lo abbandoneranno mai.
Paolo borsellino, dopo avere frequentato il Liceo classico "Meli" si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Palermo e successivamente nel 1959 si iscrive all’organizzazione FUAN Fanalino. Membro dell’esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, viene eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino. In questi anni l’attività politica lo prende molto e riesce a conciliare politica e studio senza grossi problemi. Il 27 giugno 1962, all'età di appena 22 anni, Paolo Borsellino si laurea con 110 e lode e, pochi giorni dopo, subisce la perdita del padre. Ora è affidato a lui il compito di provvedere alla famiglia. Si impegna con l’ordine dei farmacisti a tenere la farmacia del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia di sua sorella. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Paolo Borsellino studia per superare il concorso in magistratura, riuscendoci nel 1963. Fare il magistrato a Palermo ha un senso profondo, non è una professione qualunque. L’amore per la sua terra, per la giustizia gli danno quella spinta interiore che lo porta a diventare magistrato senza trascurare i doveri verso la sua famiglia.
Paolo Borsellino nel 1965 viene mandato al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Nel 1967 ha il primo incarico direttivo, Pretore a Mazara del Vallo nel periodo del dopo terremoto. Il 23 dicembre del 1968 Borsellino si sposa, continua a lavorare a Mazara facendo avanti e indietro da Palermo, anche più volte al giorno. Nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavora fianco a fianco con il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Nel 1975 Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo e a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia e da questo momento comincia il suo impegno senza sosta per sconfiggere l’organizzazione mafiosa.
Nel 1980 arriva l’arresto dei primi sei mafiosi. Nello stesso anno il capitano viene ucciso in un agguato. Per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta con le difficoltà che ne conseguono. Da questo momento il clima in casa Borsellino cambia e il giudice stesso deve relazionarsi con "quei ragazzi" che gli sono sempre a fianco e che cambieranno per sempre le abitudini sue e della sua famiglia. Il suo modo di fare, la sua decisione influenzano il "sentire" dei suoi familiari. Dalle parole della moglie, ancora, si può comprendere il rispetto e la sofferenza che si alternano nei loro cuori.
"Il suo modo di esercitare la funzione di giudice lo condivido perché anch’io credo nei valori che lo ispirano....Non penso mai, per egoismo, per desiderio di una vita facile di ostacolarlo....Non è stato un sacrificio immolare la sua vita al mestiere di giudice: ama tantissimo cercare la verità, qualunque essa sia." La scorta costringe il giudice e la sua famiglia a convivere con un nuovo sentimento: la paura. E’ così che Borsellino ne parla e la affronta: "La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti."
Il Pool comprende quattro magistrati. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giovanni Barrile lavorano uno a fianco all’altro, sotto la guida di Rocco Chinnici. Si intravede e, lentamente, si instaura un legame comunitario tra i giudici che appartengono al pool. E’ nei giovani la forza su cui contare per cambiare la mentalità della gente e i magistrati lo sanno. Vogliono scuotere le coscienze e sentire intorno a sé la stima della gente. Sia Falcone sia Borsellino hanno sempre cercato la gente. Borsellino comincia a promuovere e a partecipare ai dibattiti nelle scuole, parla ai giovani nelle feste giovanili di piazza, alle tavole rotonde per spiegare e per sconfiggere una volta per sempre la cultura mafiosa. Fino alla fine della sua vita Borsellino, nel tempo che gli rimane dopo il lavoro, cercherà di incontrare i giovani, di comunicargli questi nuovi sentimenti e di renderli protagonisti della lotta alla mafia. Parallelamente continua il lavoro nel pool. Questa squadra funziona bene, ma si comprende che per sconfiggere la mafia il pool, da solo, non è sufficiente. Si chiede la promozione di pool di giudici inquirenti, coordinati tra loro ed in continuo contatto, il potenziamento della polizia giudiziaria, l’istituzione di nuove regole per la scelta dei giudici popolari e di controlli bancari per rintracciare i capitali mafiosi. I magistrati del pool pretendono l’intervento dello stato perché si rendono conto che il loro lavoro, da solo, non basta.
Paolo Borsellino lavora senza sosta, firma provvedimenti, indaga, ascolta con dedizione e responsabilità. Per questo Rocco Chinnici scrive una lettera al presidente del tribunale di Palermo per sollecitare un encomio nei confronti suoi e di Giovanni Falcone, importante per eventuali incarichi direttivi futuri. A proposito di Paolo Borsellino così scrive Rocco Chinnici: " Magistrato degno di ammirazione, dotato di raro intuito, di eccezionale coraggio, di non comune senso di responsabilità, oggetto di gravi minacce, ha condotto a termine l’istruzione di procedimenti a carico di pericolose associazioni a delinquere di stampo mafioso". L’encomio richiesto, non è mai arrivato.
Poi il dramma. Il 4 agosto 1983 viene ucciso il giudice Rocco Chinnici con un’autobomba. Borsellino è distrutto dopo Basile anche Chinnici viene strappato alla vita e il vuoto si fa sentire molto. Ancora la moglie di Borsellino racconta il legame di Borsellino con Chinnici: "Con Rocco, mio marito ha un rapporto di amicizia e di fiducia intensa e reciproca. Una collaborazione durata tanti anni, fondata sulla massima intesa...per Paolo la sua uccisione è un altro dolore atroce...". Il "capo" del pool, il punto di riferimento, viene a mancare e si ha l’impressione che la mafia, questa entità che tutto vede e tutto osserva, abbia ben compreso lo spirito ed il nuovo modo di lavorare dei giudici siciliani. Borsellino con molta preoccupazione commenta: "La mafia ha capito tutto: è Chinnici la testa che dirige il Pool".
A sostituire Rocco Chinnici arriva a Palermo il giudice Antonino Caponnetto e il pool, sempre più affiatato continua nell’incessante lavoro raggiungendo i primi risultati: "Sentiamo la gente fare il tifo per noi". Il Pool non vuole sentirsi solo, cerca lo Stato e i cittadini, vuole una mobilitazione generale contro la mafia. Nel 1984 viene arrestato Vito Ciancimino e si pente Buscetta, Paolo Borsellino sottolinea in ogni momento il ruolo fondamentale dei pentiti nelle indagini e nella preparazione dei processi. Comincia la preparazione del Maxiprocesso e viene ucciso il commissario Beppe Montana . Ancora sangue, per fermare le persone più importanti nelle indagini sulla mafia e l’elenco dei morti è destinato ad aumentare. Il clima è terribile Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengono immediatamente trasferiti all’Asinara per concludere le memorie, predisporre gli atti senza correre ulteriori rischi. All’inizio del maxiprocesso l’opinione pubblica inizia a criticare i magistrati, le scorte e il ruolo che si sono costruiti.
Paolo Borsellino chiede il trasferimento alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Marsala per ricoprire l'incarico di Procuratore Capo. Il Consiglio Superiore della Magistratura, con una decisione storica e non priva di strascichi polemici - si veda l'articolo di Leonardo Sciascia sui "Professionisti dell' antimafia" - accoglie la relativa istanza sulla base dei soli meriti professionali e dell'esperienza acquisita da Paolo Borsellino negando per la prima volta validità assoluta al criterio dell'anzianità. Sicché il 19.12.1986 Paolo Borsellino prende servizio a Marsala dove per cinque anni guiderà una delle Procure più impegnate sul fronte della lotta alla criminalità organizzata. Al centro (Palermo) Falcone e a Marsala Borsellino in modo da scoprire tutti i collegamenti esistenti tra la mafia di Palermo e quella della provincia. Nel corso di questo quinquennio, denso di scottanti inchieste giudiziarie e numerose soddisfazioni personali, Paolo Borsellino è dapprima nominato Segretario provinciale della corrente di Magistratura Indipendente, e, successivamente, Presidente nazionale dell'Associazione Nazionale Magistrati. Vive in un appartamento nella caserma dei carabinieri per risparmiare gli uomini della scorta. In suo aiuto arriva Diego Cavaliero, magistrato di prima nomina, lavorano tanto e con passione. Sempre fianco a fianco, Paolo Borsellino è un esempio per il giovane, non si risparmia mai. Teme che la conclusione del maxiprocesso attenui l’attenzione sulla lotta alla mafia, che il clima scemi e si torni alla normalità. Per questo Paolo Borsellino cerca la presenza dello Stato, incita la società civile a continuare le mobilitazioni per tenere desta l’attenzione sulla mafia e frenare chi pensa di poter piano piano ritornare alla normalità.
Invece, il clima comincia a cambiare. Il fronte unico che aveva portato a grandi vittorie della magistratura siciliana e che aveva visto l’opinione pubblica avvicinarsi agli uomini in prima linea e stringersi intorno a loro, comincia a cedere. Nel 1987 Caponnetto è costretto a lasciare la guida del Pool a causa di motivi di salute. Tutti a Palermo aspettavano la nomina di Giovanni Falcone al suo posto, anche Paolo Borsellino è ottimista. Presto, però, si rende conto che il Consiglio Superiore della Magistratura non è dello stesso parere e si diffonde il terrore di veder distruggere il Pool. Paolo Borsellino scende in campo e comincia una vera e propria guerra, parla ovunque e racconta cosa stia accadendo alla procura di Palermo; sui giornali, in televisione nei convegni, continua a lanciare l’allarme. A causa delle sue dichiarazioni Paolo Borsellino rischia il provvedimento disciplinare. Solo il Presidente della Repubblica Cossiga interviene in suo appoggio chiedendo di indagare sulle dichiarazioni del magistrato per accertare cosa stesse accadendo nel palazzo di giustizia di Palermo.
Il 31 luglio il Consiglio Superiore della Magistrature convoca Paolo Borsellino che rinnova le accuse e le sue perplessità.
Il 14 settembre il Consiglio Superiore della Magistratura si pronuncia e Giovanni Falcone perde, mentre e Antonino Meli, per anzianità, prende il posto che doveva essere suo. Paolo Borsellino viene riabilitato, torna a Marsala e riprende a capofitto a lavorare. Nuovi magistrati arrivano a dargli una mano, giovani e, a volte di prima nomina. Il suo modo di fare, il suo carisma ed i suo impegno in prima linea li contagiano; lo affiancano con lo stesso fervore e con lo stesso coraggio nelle indagini su fatti di mafia. Cominciano a parlare i pentiti e le indagini su connessioni tra mafia e politica a prendere forma. Paolo Borsellino è convinto che per sconfiggere la mafia i pentiti abbiano un ruolo fondamentale. Anche i giudici, però, dovranno essere attenti, controllare e ricontrollare ogni dichiarazione, ricercare i riscontri ed intervenire solo quando ogni fatto possa essere provato. E’ un’opera lunga ma i risultati non tarderanno ad arrivare.
Da questo momento gli attacchi a Paolo Borsellino diventano forti ed incessanti. Le indiscrezioni su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono ormai quotidiane; si parla di candidature alla Camera o alla carica di Sindaco. I due magistrati smentiscono ogni cosa. Comincia, intanto, il dibattito sull’istituzione della Superprocura e su chi porre a capo del nuovo organismo. Giovanni Falcone, intanto, va a Roma come direttore degli affari penali e preme per l’istituzione della Superprocura. A Palermo era stato isolato, i magistrati del vecchio Pool vengono ormai assediati all’interno e all’esterno del Palazzo di giustizia. Per questo si sente la necessità di coinvolgere le più alte cariche dello stato nella lotta alla mafia. La magistratura da sola non può farcela, con Falcone a Roma si sente di avere un appoggio in più, Paolo Borsellino decide di tornare a Palermo, lo seguono il sostituto Antonio Ingroia e il maresciallo Carmelo Canale. E’ in prima fila e tenta di ricostruire quel clima che, ai tempi del Pool, aveva permesso di raggiungere grossi risultati. Così, maturati i requisiti per essere dichiarato idoneo alle funzioni direttive superiori - sia requirenti che giudicanti - Paolo Borsellino, pur rimanendo applicato alla Procura della Repubblica di Marsala chiede e ottiene di essere trasferito alla Procura della Repubblica di Palermo con funzioni di Procuratore Aggiunto. Grazie alle sue indiscusse capacità investigative, una volta insediatesi presso la Procura di Palermo in data 11.12.1991 è delegato al coordinamento dell'attività dei Sostituti facenti parte della Direzione Distrettuale Antimafia.
I Magistrati, con l’arrivo di Paolo Borsellino trovano nuova fiducia. A Paolo Borsellino vengono tolte le indagini sulla mafia di Palermo dal procuratore Giammanco, e gli vengono assegnate quelle di Agrigento e Trapani. Ricomincia a lavorare con l’impegno e la dedizione di sempre. Nuovi pentiti, nuove rivelazioni confermano il legame tra la mafia e la politica, riprendono gli attacchi al magistrato e lo sconforto ogni tanto si manifesta. In una dichiarazione si può riassumere lo stato d’animo di Paolo Borsellino in quel momento: "Un pentito è credibile solo se si trovano i riscontri alle sue dichiarazioni. Se non ci sono gli elementi di prova, la sua confessione non vale nulla. E’ la legge che lo dice...e io sono un giudice che questa legge deve applicarla. I rapporti tra mafia e politica? Sono convinto che ci siano. E ne sono convinto non per gli esempi processuali, che sono pochissimi, ma per un assunto logico: è l’essenza stessa della mafia che costringe l’organizzazione a cercare il contatto con il mondo politico. ...è maturata nello stato e nei politici la volontà di recidere questi legami con la mafia? A questa volontà del mondo politico non ho mai creduto". Con questa consapevolezza il giudice, invece di scoraggiarsi, si immerge nel lavoro con ancora più convinzione, come se la sconfitta della mafia dipendesse solo dal suo operato e quello dei magistrati che lo circondano. Intanto a Roma viene finalmente istituita la superprocura e vengono aperte le candidature; Falcone è il numero uno ma, anche questa volta, sa che non sarà facile. Paolo Borsellino lo sostiene a spada tratta sebbene non fosse d’accordo sulla sua partenza da Palermo. Il suo impegno aumenta quando viene resa nota la candidatura di Agostino Cordova. Paolo Borsellino esce allo scoperto, parla, dichiara, si muove: è di nuovo in prima linea. I due magistrati lottano uno a fianco all’altro, temono che la superprocura possa divenire un arma pericolosa se in possesso di magistrati che non conoscono la mafia siciliana.
Nel Maggio 1992 finalmente Falcone raggiunge i numeri necessari per vincere l’elezione a superprocuratore. Paolo Borsellino e Giovanni Falcone esultano, ma il giorno dopo Giovanni Falcone viene ucciso insieme alla moglie, a Capaci; la mafia sa che in quel posto il giudice Giovanni Falcone era troppo pericoloso. Paolo Borsellino soffre molto, il legame che ha con Giovanni Falcone è speciale e lui è morto tra le sue braccia. Tutti i momenti trascorsi insieme, da quelli più belli a quelli più brutti, gli tornano alla mente. Dalle prime indagini nel pool, alle serate insieme, alle battute per sdrammatizzare, ai momenti di lotta più dura quando insieme sembravano "intoccabili", al periodo forzato all’Asinara fino al distacco per Roma. Una vita speciale, quella dei due amici-magistrati, densa di passione e di amore per la propria terra. Due caratteri diversi, complementari tra loro, uno un po’ più razionale l’altro più passionale, entrambi con un carisma, una forza d’animo ed uno spirito di abnegazione esemplari. Gli viene offerto di prendere il posto di Giovanni Falcone nella candidatura alla superprocura, ma Paolo Borsellino rifiuta, sebbene sia consapevole che quella sia l’unica maniera che ha per condurre in prima persona le indagini sulla strage di Capaci. Così risponde al Ministro: "...La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento....". Resta a Palermo, nella procura dei veleni per continuare la lotta alla mafia, diventando sempre più consapevole che qualcosa si è rotto, che il suo momento è vicino. Biografia
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19/1/1940 dove la sua famiglia vive e vivrà in un quartiere borghese di Palermo: la Magione. Borsellino è molto attaccato a questo quartiere dove ha trascorso tutta la giovinezza. I genitori erano entrambi farmacisti.
Al momento dello sbarco degli alleati in Sicilia la madre di Paolo Borsellino vieta ai figli di accettare qualsiasi dono dai soldati americani. "La Patria è sconfitta, i sacrifici sono stati inutili, non c’è da essere felici..." è una delle frasi della madre di Borsellino in quel momento.
Queste vicende e i racconti di "Zio Ciccio", reduce della Campagna d’Africa, gli suscitano curiosità sulle vicende del periodo fascista, di cui la sua famiglia è stata protagonista. Anche il rapporto con i figli è molto forte. Cerca di proteggerli dalla realtà che è intorno a lui e, nello stesso tempo, di trasmettergli il proprio modo di essere e di agire. Un episodio per comprendere la fatica e la difficoltà di questo rapporto lo si può trovare nel momento in cui, in piena attività antimafia, Paolo Borsellino viene trasferito insieme con Giovanni Falcone sull’isola dell’Asinara per motivi di sicurezza. La figlia di Paolo Borsellino, "Fiammetta" viene allontanata dall’isola in quanto malata di anoressia. Paolo Borsellino la veglia ogni notte e cerca di aiutarla in tutti i modi. Per tutta la sua esistenza quel senso di protezione, quel senso di colpa per aver provocato problemi così grandi alla sua famiglia e, soprattutto, la volontà di stare vicino a sua figlia non lo abbandoneranno mai.
Paolo borsellino, dopo avere frequentato il Liceo classico "Meli" si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Palermo e successivamente nel 1959 si iscrive all’organizzazione FUAN Fanalino. Membro dell’esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, viene eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino. In questi anni l’attività politica lo prende molto e riesce a conciliare politica e studio senza grossi problemi. Il 27 giugno 1962, all'età di appena 22 anni, Paolo Borsellino si laurea con 110 e lode e, pochi giorni dopo, subisce la perdita del padre. Ora è affidato a lui il compito di provvedere alla famiglia. Si impegna con l’ordine dei farmacisti a tenere la farmacia del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia di sua sorella. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Paolo Borsellino studia per superare il concorso in magistratura, riuscendoci nel 1963. Fare il magistrato a Palermo ha un senso profondo, non è una professione qualunque. L’amore per la sua terra, per la giustizia gli danno quella spinta interiore che lo porta a diventare magistrato senza trascurare i doveri verso la sua famiglia.
Paolo Borsellino nel 1965 viene mandato al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Nel 1967 ha il primo incarico direttivo, Pretore a Mazara del Vallo nel periodo del dopo terremoto. Il 23 dicembre del 1968 Borsellino si sposa, continua a lavorare a Mazara facendo avanti e indietro da Palermo, anche più volte al giorno. Nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavora fianco a fianco con il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Nel 1975 Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo e a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia e da questo momento comincia il suo impegno senza sosta per sconfiggere l’organizzazione mafiosa.
Nel 1980 arriva l’arresto dei primi sei mafiosi. Nello stesso anno il capitano viene ucciso in un agguato. Per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta con le difficoltà che ne conseguono. Da questo momento il clima in casa Borsellino cambia e il giudice stesso deve relazionarsi con "quei ragazzi" che gli sono sempre a fianco e che cambieranno per sempre le abitudini sue e della sua famiglia. Il suo modo di fare, la sua decisione influenzano il "sentire" dei suoi familiari. Dalle parole della moglie, ancora, si può comprendere il rispetto e la sofferenza che si alternano nei loro cuori.
"Il suo modo di esercitare la funzione di giudice lo condivido perché anch’io credo nei valori che lo ispirano....Non penso mai, per egoismo, per desiderio di una vita facile di ostacolarlo....Non è stato un sacrificio immolare la sua vita al mestiere di giudice: ama tantissimo cercare la verità, qualunque essa sia." La scorta costringe il giudice e la sua famiglia a convivere con un nuovo sentimento: la paura. E’ così che Borsellino ne parla e la affronta: "La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti."
Il Pool comprende quattro magistrati. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giovanni Barrile lavorano uno a fianco all’altro, sotto la guida di Rocco Chinnici. Si intravede e, lentamente, si instaura un legame comunitario tra i giudici che appartengono al pool. E’ nei giovani la forza su cui contare per cambiare la mentalità della gente e i magistrati lo sanno. Vogliono scuotere le coscienze e sentire intorno a sé la stima della gente. Sia Falcone sia Borsellino hanno sempre cercato la gente. Borsellino comincia a promuovere e a partecipare ai dibattiti nelle scuole, parla ai giovani nelle feste giovanili di piazza, alle tavole rotonde per spiegare e per sconfiggere una volta per sempre la cultura mafiosa. Fino alla fine della sua vita Borsellino, nel tempo che gli rimane dopo il lavoro, cercherà di incontrare i giovani, di comunicargli questi nuovi sentimenti e di renderli protagonisti della lotta alla mafia. Parallelamente continua il lavoro nel pool. Questa squadra funziona bene, ma si comprende che per sconfiggere la mafia il pool, da solo, non è sufficiente. Si chiede la promozione di pool di giudici inquirenti, coordinati tra loro ed in continuo contatto, il potenziamento della polizia giudiziaria, l’istituzione di nuove regole per la scelta dei giudici popolari e di controlli bancari per rintracciare i capitali mafiosi. I magistrati del pool pretendono l’intervento dello stato perché si rendono conto che il loro lavoro, da solo, non basta.
Paolo Borsellino lavora senza sosta, firma provvedimenti, indaga, ascolta con dedizione e responsabilità. Per questo Rocco Chinnici scrive una lettera al presidente del tribunale di Palermo per sollecitare un encomio nei confronti suoi e di Giovanni Falcone, importante per eventuali incarichi direttivi futuri. A proposito di Paolo Borsellino così scrive Rocco Chinnici: " Magistrato degno di ammirazione, dotato di raro intuito, di eccezionale coraggio, di non comune senso di responsabilità, oggetto di gravi minacce, ha condotto a termine l’istruzione di procedimenti a carico di pericolose associazioni a delinquere di stampo mafioso". L’encomio richiesto, non è mai arrivato.
Poi il dramma. Il 4 agosto 1983 viene ucciso il giudice Rocco Chinnici con un’autobomba. Borsellino è distrutto dopo Basile anche Chinnici viene strappato alla vita e il vuoto si fa sentire molto. Ancora la moglie di Borsellino racconta il legame di Borsellino con Chinnici: "Con Rocco, mio marito ha un rapporto di amicizia e di fiducia intensa e reciproca. Una collaborazione durata tanti anni, fondata sulla massima intesa...per Paolo la sua uccisione è un altro dolore atroce...". Il "capo" del pool, il punto di riferimento, viene a mancare e si ha l’impressione che la mafia, questa entità che tutto vede e tutto osserva, abbia ben compreso lo spirito ed il nuovo modo di lavorare dei giudici siciliani. Borsellino con molta preoccupazione commenta: "La mafia ha capito tutto: è Chinnici la testa che dirige il Pool".
A sostituire Rocco Chinnici arriva a Palermo il giudice Antonino Caponnetto e il pool, sempre più affiatato continua nell’incessante lavoro raggiungendo i primi risultati: "Sentiamo la gente fare il tifo per noi". Il Pool non vuole sentirsi solo, cerca lo Stato e i cittadini, vuole una mobilitazione generale contro la mafia. Nel 1984 viene arrestato Vito Ciancimino e si pente Buscetta, Paolo Borsellino sottolinea in ogni momento il ruolo fondamentale dei pentiti nelle indagini e nella preparazione dei processi. Comincia la preparazione del Maxiprocesso e viene ucciso il commissario Beppe Montana . Ancora sangue, per fermare le persone più importanti nelle indagini sulla mafia e l’elenco dei morti è destinato ad aumentare. Il clima è terribile Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengono immediatamente trasferiti all’Asinara per concludere le memorie, predisporre gli atti senza correre ulteriori rischi. All’inizio del maxiprocesso l’opinione pubblica inizia a criticare i magistrati, le scorte e il ruolo che si sono costruiti.
Paolo Borsellino chiede il trasferimento alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Marsala per ricoprire l'incarico di Procuratore Capo. Il Consiglio Superiore della Magistratura, con una decisione storica e non priva di strascichi polemici - si veda l'articolo di Leonardo Sciascia sui "Professionisti dell' antimafia" - accoglie la relativa istanza sulla base dei soli meriti professionali e dell'esperienza acquisita da Paolo Borsellino negando per la prima volta validità assoluta al criterio dell'anzianità. Sicché il 19.12.1986 Paolo Borsellino prende servizio a Marsala dove per cinque anni guiderà una delle Procure più impegnate sul fronte della lotta alla criminalità organizzata. Al centro (Palermo) Falcone e a Marsala Borsellino in modo da scoprire tutti i collegamenti esistenti tra la mafia di Palermo e quella della provincia. Nel corso di questo quinquennio, denso di scottanti inchieste giudiziarie e numerose soddisfazioni personali, Paolo Borsellino è dapprima nominato Segretario provinciale della corrente di Magistratura Indipendente, e, successivamente, Presidente nazionale dell'Associazione Nazionale Magistrati. Vive in un appartamento nella caserma dei carabinieri per risparmiare gli uomini della scorta. In suo aiuto arriva Diego Cavaliero, magistrato di prima nomina, lavorano tanto e con passione. Sempre fianco a fianco, Paolo Borsellino è un esempio per il giovane, non si risparmia mai. Teme che la conclusione del maxiprocesso attenui l’attenzione sulla lotta alla mafia, che il clima scemi e si torni alla normalità. Per questo Paolo Borsellino cerca la presenza dello Stato, incita la società civile a continuare le mobilitazioni per tenere desta l’attenzione sulla mafia e frenare chi pensa di poter piano piano ritornare alla normalità.
Invece, il clima comincia a cambiare. Il fronte unico che aveva portato a grandi vittorie della magistratura siciliana e che aveva visto l’opinione pubblica avvicinarsi agli uomini in prima linea e stringersi intorno a loro, comincia a cedere. Nel 1987 Caponnetto è costretto a lasciare la guida del Pool a causa di motivi di salute. Tutti a Palermo aspettavano la nomina di Giovanni Falcone al suo posto, anche Paolo Borsellino è ottimista. Presto, però, si rende conto che il Consiglio Superiore della Magistratura non è dello stesso parere e si diffonde il terrore di veder distruggere il Pool. Paolo Borsellino scende in campo e comincia una vera e propria guerra, parla ovunque e racconta cosa stia accadendo alla procura di Palermo; sui giornali, in televisione nei convegni, continua a lanciare l’allarme. A causa delle sue dichiarazioni Paolo Borsellino rischia il provvedimento disciplinare. Solo il Presidente della Repubblica Cossiga interviene in suo appoggio chiedendo di indagare sulle dichiarazioni del magistrato per accertare cosa stesse accadendo nel palazzo di giustizia di Palermo.
Il 31 luglio il Consiglio Superiore della Magistrature convoca Paolo Borsellino che rinnova le accuse e le sue perplessità.
Il 14 settembre il Consiglio Superiore della Magistratura si pronuncia e Giovanni Falcone perde, mentre e Antonino Meli, per anzianità, prende il posto che doveva essere suo. Paolo Borsellino viene riabilitato, torna a Marsala e riprende a capofitto a lavorare. Nuovi magistrati arrivano a dargli una mano, giovani e, a volte di prima nomina. Il suo modo di fare, il suo carisma ed i suo impegno in prima linea li contagiano; lo affiancano con lo stesso fervore e con lo stesso coraggio nelle indagini su fatti di mafia. Cominciano a parlare i pentiti e le indagini su connessioni tra mafia e politica a prendere forma. Paolo Borsellino è convinto che per sconfiggere la mafia i pentiti abbiano un ruolo fondamentale. Anche i giudici, però, dovranno essere attenti, controllare e ricontrollare ogni dichiarazione, ricercare i riscontri ed intervenire solo quando ogni fatto possa essere provato. E’ un’opera lunga ma i risultati non tarderanno ad arrivare.
Da questo momento gli attacchi a Paolo Borsellino diventano forti ed incessanti. Le indiscrezioni su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono ormai quotidiane; si parla di candidature alla Camera o alla carica di Sindaco. I due magistrati smentiscono ogni cosa. Comincia, intanto, il dibattito sull’istituzione della Superprocura e su chi porre a capo del nuovo organismo. Giovanni Falcone, intanto, va a Roma come direttore degli affari penali e preme per l’istituzione della Superprocura. A Palermo era stato isolato, i magistrati del vecchio Pool vengono ormai assediati all’interno e all’esterno del Palazzo di giustizia. Per questo si sente la necessità di coinvolgere le più alte cariche dello stato nella lotta alla mafia. La magistratura da sola non può farcela, con Falcone a Roma si sente di avere un appoggio in più, Paolo Borsellino decide di tornare a Palermo, lo seguono il sostituto Antonio Ingroia e il maresciallo Carmelo Canale. E’ in prima fila e tenta di ricostruire quel clima che, ai tempi del Pool, aveva permesso di raggiungere grossi risultati. Così, maturati i requisiti per essere dichiarato idoneo alle funzioni direttive superiori - sia requirenti che giudicanti - Paolo Borsellino, pur rimanendo applicato alla Procura della Repubblica di Marsala chiede e ottiene di essere trasferito alla Procura della Repubblica di Palermo con funzioni di Procuratore Aggiunto. Grazie alle sue indiscusse capacità investigative, una volta insediatesi presso la Procura di Palermo in data 11.12.1991 è delegato al coordinamento dell'attività dei Sostituti facenti parte della Direzione Distrettuale Antimafia.
I Magistrati, con l’arrivo di Paolo Borsellino trovano nuova fiducia. A Paolo Borsellino vengono tolte le indagini sulla mafia di Palermo dal procuratore Giammanco, e gli vengono assegnate quelle di Agrigento e Trapani. Ricomincia a lavorare con l’impegno e la dedizione di sempre. Nuovi pentiti, nuove rivelazioni confermano il legame tra la mafia e la politica, riprendono gli attacchi al magistrato e lo sconforto ogni tanto si manifesta. In una dichiarazione si può riassumere lo stato d’animo di Paolo Borsellino in quel momento: "Un pentito è credibile solo se si trovano i riscontri alle sue dichiarazioni. Se non ci sono gli elementi di prova, la sua confessione non vale nulla. E’ la legge che lo dice...e io sono un giudice che questa legge deve applicarla. I rapporti tra mafia e politica? Sono convinto che ci siano. E ne sono convinto non per gli esempi processuali, che sono pochissimi, ma per un assunto logico: è l’essenza stessa della mafia che costringe l’organizzazione a cercare il contatto con il mondo politico. ...è maturata nello stato e nei politici la volontà di recidere questi legami con la mafia? A questa volontà del mondo politico non ho mai creduto". Con questa consapevolezza il giudice, invece di scoraggiarsi, si immerge nel lavoro con ancora più convinzione, come se la sconfitta della mafia dipendesse solo dal suo operato e quello dei magistrati che lo circondano. Intanto a Roma viene finalmente istituita la superprocura e vengono aperte le candidature; Falcone è il numero uno ma, anche questa volta, sa che non sarà facile. Paolo Borsellino lo sostiene a spada tratta sebbene non fosse d’accordo sulla sua partenza da Palermo. Il suo impegno aumenta quando viene resa nota la candidatura di Agostino Cordova. Paolo Borsellino esce allo scoperto, parla, dichiara, si muove: è di nuovo in prima linea. I due magistrati lottano uno a fianco all’altro, temono che la superprocura possa divenire un arma pericolosa se in possesso di magistrati che non conoscono la mafia siciliana.
Nel Maggio 1992 finalmente Falcone raggiunge i numeri necessari per vincere l’elezione a superprocuratore. Paolo Borsellino e Giovanni Falcone esultano, ma il giorno dopo Giovanni Falcone viene ucciso insieme alla moglie, a Capaci; la mafia sa che in quel posto il giudice Giovanni Falcone era troppo pericoloso. Paolo Borsellino soffre molto, il legame che ha con Giovanni Falcone è speciale e lui è morto tra le sue braccia. Tutti i momenti trascorsi insieme, da quelli più belli a quelli più brutti, gli tornano alla mente. Dalle prime indagini nel pool, alle serate insieme, alle battute per sdrammatizzare, ai momenti di lotta più dura quando insieme sembravano "intoccabili", al periodo forzato all’Asinara fino al distacco per Roma. Una vita speciale, quella dei due amici-magistrati, densa di passione e di amore per la propria terra. Due caratteri diversi, complementari tra loro, uno un po’ più razionale l’altro più passionale, entrambi con un carisma, una forza d’animo ed uno spirito di abnegazione esemplari. Gli viene offerto di prendere il posto di Giovanni Falcone nella candidatura alla superprocura, ma Paolo Borsellino rifiuta, sebbene sia consapevole che quella sia l’unica maniera che ha per condurre in prima persona le indagini sulla strage di Capaci. Così risponde al Ministro: "...La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento....". Resta a Palermo, nella procura dei veleni per continuare la lotta alla mafia, diventando sempre più consapevole che qualcosa si è rotto, che il suo momento è vicino.
Ad un mese dalla morte dell’Amico Falcone, tra le fiaccole e con molta emozione parla di lui, cerca di raccontarlo: "Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione....per amore. La sua vita è stata un atto d’amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. ..Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo, continuando la loro opera...dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo". Vuole collaborare alle indagini sull’attentato di Capaci di competenza della procura di Caltanissetta. Le indagini proseguono, i pentiti aumentano e il giudice cerca di sentirne il più possibile. Arriva la volta dei pentiti Messina e Mutolo, ormai Cosa Nostra comincia ad avere sembianze conosciute. Spesso i pentiti hanno chiesto di palare con Giovanni Falcone o con Paolo Borsellino perché sapevano di potersi fidare, perché ne conoscevano le qualità morali e l’intuito investigativo. Continua a lottare per poter avere la delega per ascoltare il pentito Mutolo. Insiste e alla fine il 19 luglio 1992 alle 7 di mattina Giammanco gli comunica telefonicamente che finalmente avrà quella delega e potrà ascoltare Mutolo.
Lo stesso giorno Paolo Borsellino va nella casa del mare, a Villagrazia, con la scorta. Si distende, va in barca con uno dei pochi amici rimasti. Dopo pranzo torna a Palermo per accompagnare la mamma dal medico e con l’esplosione dell’autobomba sotto la casa, in via D’Amelio, muore con tutta la scorta. E’ il 19 luglio del 1992.
Paolo Borsellino ha un forte rapporto con la morte; è presente in ogni parte della sua vita. Teme per gli altri, per la sua famiglia, per I ragazzi della scorta. E’ molto protettivo con i suoi collaboratori e con la sua famiglia. Parla spesso della morte un po’ per scherzarci sopra un po’ per ricordarsi sempre che non è poi così lontana. "Se muoio adesso, il mio compito l’ho svolto". Ha visto morire molte persone, uomini di valore morale ed intellettuale e sa benissimo di non essere esente da una fine simile. Eppure a volte scherza con la morte, se ne prende gioco, ci ride sopra con un unico cruccio: quello di aver preparato i propri figli ad affrontare la vita. "Non sono né un eroe né un kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento...Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno".
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19/1/1940 dove la sua famiglia vive e vivrà in un quartiere borghese di Palermo: la Magione. Borsellino è molto attaccato a questo quartiere dove ha trascorso tutta la giovinezza. I genitori erano entrambi farmacisti.
Al momento dello sbarco degli alleati in Sicilia la madre di Paolo Borsellino vieta ai figli di accettare qualsiasi dono dai soldati americani. "La Patria è sconfitta, i sacrifici sono stati inutili, non c’è da essere felici..." è una delle frasi della madre di Borsellino in quel momento.
Queste vicende e i racconti di "Zio Ciccio", reduce della Campagna d’Africa, gli suscitano curiosità sulle vicende del periodo fascista, di cui la sua famiglia è stata protagonista. Anche il rapporto con i figli è molto forte. Cerca di proteggerli dalla realtà che è intorno a lui e, nello stesso tempo, di trasmettergli il proprio modo di essere e di agire. Un episodio per comprendere la fatica e la difficoltà di questo rapporto lo si può trovare nel momento in cui, in piena attività antimafia, Paolo Borsellino viene trasferito insieme con Giovanni Falcone sull’isola dell’Asinara per motivi di sicurezza. La figlia di Paolo Borsellino, "Fiammetta" viene allontanata dall’isola in quanto malata di anoressia. Paolo Borsellino la veglia ogni notte e cerca di aiutarla in tutti i modi. Per tutta la sua esistenza quel senso di protezione, quel senso di colpa per aver provocato problemi così grandi alla sua famiglia e, soprattutto, la volontà di stare vicino a sua figlia non lo abbandoneranno mai.
Paolo borsellino, dopo avere frequentato il Liceo classico "Meli" si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Palermo e successivamente nel 1959 si iscrive all’organizzazione FUAN Fanalino. Membro dell’esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, viene eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino. In questi anni l’attività politica lo prende molto e riesce a conciliare politica e studio senza grossi problemi. Il 27 giugno 1962, all'età di appena 22 anni, Paolo Borsellino si laurea con 110 e lode e, pochi giorni dopo, subisce la perdita del padre. Ora è affidato a lui il compito di provvedere alla famiglia. Si impegna con l’ordine dei farmacisti a tenere la farmacia del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia di sua sorella. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Paolo Borsellino studia per superare il concorso in magistratura, riuscendoci nel 1963. Fare il magistrato a Palermo ha un senso profondo, non è una professione qualunque. L’amore per la sua terra, per la giustizia gli danno quella spinta interiore che lo porta a diventare magistrato senza trascurare i doveri verso la sua famiglia.
Paolo Borsellino nel 1965 viene mandato al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Nel 1967 ha il primo incarico direttivo, Pretore a Mazara del Vallo nel periodo del dopo terremoto. Il 23 dicembre del 1968 Borsellino si sposa, continua a lavorare a Mazara facendo avanti e indietro da Palermo, anche più volte al giorno. Nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavora fianco a fianco con il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Nel 1975 Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo e a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia e da questo momento comincia il suo impegno senza sosta per sconfiggere l’organizzazione mafiosa.
Nel 1980 arriva l’arresto dei primi sei mafiosi. Nello stesso anno il capitano viene ucciso in un agguato. Per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta con le difficoltà che ne conseguono. Da questo momento il clima in casa Borsellino cambia e il giudice stesso deve relazionarsi con "quei ragazzi" che gli sono sempre a fianco e che cambieranno per sempre le abitudini sue e della sua famiglia. Il suo modo di fare, la sua decisione influenzano il "sentire" dei suoi familiari. Dalle parole della moglie, ancora, si può comprendere il rispetto e la sofferenza che si alternano nei loro cuori.Biografia
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19/1/1940 dove la sua famiglia vive e vivrà in un quartiere borghese di Palermo: la Magione. Borsellino è molto attaccato a questo quartiere dove ha trascorso tutta la giovinezza. I genitori erano entrambi farmacisti.
Al momento dello sbarco degli alleati in Sicilia la madre di Paolo Borsellino vieta ai figli di accettare qualsiasi dono dai soldati americani. "La Patria è sconfitta, i sacrifici sono stati inutili, non c’è da essere felici..." è una delle frasi della madre di Borsellino in quel momento.
Queste vicende e i racconti di "Zio Ciccio", reduce della Campagna d’Africa, gli suscitano curiosità sulle vicende del periodo fascista, di cui la sua famiglia è stata protagonista. Anche il rapporto con i figli è molto forte. Cerca di proteggerli dalla realtà che è intorno a lui e, nello stesso tempo, di trasmettergli il proprio modo di essere e di agire. Un episodio per comprendere la fatica e la difficoltà di questo rapporto lo si può trovare nel momento in cui, in piena attività antimafia, Paolo Borsellino viene trasferito insieme con Giovanni Falcone sull’isola dell’Asinara per motivi di sicurezza. La figlia di Paolo Borsellino, "Fiammetta" viene allontanata dall’isola in quanto malata di anoressia. Paolo Borsellino la veglia ogni notte e cerca di aiutarla in tutti i modi. Per tutta la sua esistenza quel senso di protezione, quel senso di colpa per aver provocato problemi così grandi alla sua famiglia e, soprattutto, la volontà di stare vicino a sua figlia non lo abbandoneranno mai.
Paolo borsellino, dopo avere frequentato il Liceo classico "Meli" si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Palermo e successivamente nel 1959 si iscrive all’organizzazione FUAN Fanalino. Membro dell’esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, viene eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino. In questi anni l’attività politica lo prende molto e riesce a conciliare politica e studio senza grossi problemi. Il 27 giugno 1962, all'età di appena 22 anni, Paolo Borsellino si laurea con 110 e lode e, pochi giorni dopo, subisce la perdita del padre. Ora è affidato a lui il compito di provvedere alla famiglia. Si impegna con l’ordine dei farmacisti a tenere la farmacia del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia di sua sorella. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Paolo Borsellino studia per superare il concorso in magistratura, riuscendoci nel 1963. Fare il magistrato a Palermo ha un senso profondo, non è una professione qualunque. L’amore per la sua terra, per la giustizia gli danno quella spinta interiore che lo porta a diventare magistrato senza trascurare i doveri verso la sua famiglia.
Paolo Borsellino nel 1965 viene mandato al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Nel 1967 ha il primo incarico direttivo, Pretore a Mazara del Vallo nel periodo del dopo terremoto. Il 23 dicembre del 1968 Borsellino si sposa, continua a lavorare a Mazara facendo avanti e indietro da Palermo, anche più volte al giorno. Nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavora fianco a fianco con il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Nel 1975 Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo e a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia e da questo momento comincia il suo impegno senza sosta per sconfiggere l’organizzazione mafiosa.
Nel 1980 arriva l’arresto dei primi sei mafiosi. Nello stesso anno il capitano viene ucciso in un agguato. Per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta con le difficoltà che ne conseguono. Da questo momento il clima in casa Borsellino cambia e il giudice stesso deve relazionarsi con "quei ragazzi" che gli sono sempre a fianco e che cambieranno per sempre le abitudini sue e della sua famiglia. Il suo modo di fare, la sua decisione influenzano il "sentire" dei suoi familiari. Dalle parole della moglie, ancora, si può comprendere il rispetto e la sofferenza che si alternano nei loro cuori.
"Il suo modo di esercitare la funzione di giudice lo condivido perché anch’io credo nei valori che lo ispirano....Non penso mai, per egoismo, per desiderio di una vita facile di ostacolarlo....Non è stato un sacrificio immolare la sua vita al mestiere di giudice: ama tantissimo cercare la verità, qualunque essa sia." La scorta costringe il giudice e la sua famiglia a convivere con un nuovo sentimento: la paura. E’ così che Borsellino ne parla e la affronta: "La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti."
Il Pool comprende quattro magistrati. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giovanni Barrile lavorano uno a fianco all’altro, sotto la guida di Rocco Chinnici. Si intravede e, lentamente, si instaura un legame comunitario tra i giudici che appartengono al pool. E’ nei giovani la forza su cui contare per cambiare la mentalità della gente e i magistrati lo sanno. Vogliono scuotere le coscienze e sentire intorno a sé la stima della gente. Sia Falcone sia Borsellino hanno sempre cercato la gente. Borsellino comincia a promuovere e a partecipare ai dibattiti nelle scuole, parla ai giovani nelle feste giovanili di piazza, alle tavole rotonde per spiegare e per sconfiggere una volta per sempre la cultura mafiosa. Fino alla fine della sua vita Borsellino, nel tempo che gli rimane dopo il lavoro, cercherà di incontrare i giovani, di comunicargli questi nuovi sentimenti e di renderli protagonisti della lotta alla mafia. Parallelamente continua il lavoro nel pool. Questa squadra funziona bene, ma si comprende che per sconfiggere la mafia il pool, da solo, non è sufficiente. Si chiede la promozione di pool di giudici inquirenti, coordinati tra loro ed in continuo contatto, il potenziamento della polizia giudiziaria, l’istituzione di nuove regole per la scelta dei giudici popolari e di controlli bancari per rintracciare i capitali mafiosi. I magistrati del pool pretendono l’intervento dello stato perché si rendono conto che il loro lavoro, da solo, non basta.Biografia
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19/1/1940 dove la sua famiglia vive e vivrà in un quartiere borghese di Palermo: la Magione. Borsellino è molto attaccato a questo quartiere dove ha trascorso tutta la giovinezza. I genitori erano entrambi farmacisti.
Al momento dello sbarco degli alleati in Sicilia la madre di Paolo Borsellino vieta ai figli di accettare qualsiasi dono dai soldati americani. "La Patria è sconfitta, i sacrifici sono stati inutili, non c’è da essere felici..." è una delle frasi della madre di Borsellino in quel momento.
Queste vicende e i racconti di "Zio Ciccio", reduce della Campagna d’Africa, gli suscitano curiosità sulle vicende del periodo fascista, di cui la sua famiglia è stata protagonista. Anche il rapporto con i figli è molto forte. Cerca di proteggerli dalla realtà che è intorno a lui e, nello stesso tempo, di trasmettergli il proprio modo di essere e di agire. Un episodio per comprendere la fatica e la difficoltà di questo rapporto lo si può trovare nel momento in cui, in piena attività antimafia, Paolo Borsellino viene trasferito insieme con Giovanni Falcone sull’isola dell’Asinara per motivi di sicurezza. La figlia di Paolo Borsellino, "Fiammetta" viene allontanata dall’isola in quanto malata di anoressia. Paolo Borsellino la veglia ogni notte e cerca di aiutarla in tutti i modi. Per tutta la sua esistenza quel senso di protezione, quel senso di colpa per aver provocato problemi così grandi alla sua famiglia e, soprattutto, la volontà di stare vicino a sua figlia non lo abbandoneranno mai.
Paolo borsellino, dopo avere frequentato il Liceo classico "Meli" si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Palermo e successivamente nel 1959 si iscrive all’organizzazione FUAN Fanalino. Membro dell’esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, viene eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino. In questi anni l’attività politica lo prende molto e riesce a conciliare politica e studio senza grossi problemi. Il 27 giugno 1962, all'età di appena 22 anni, Paolo Borsellino si laurea con 110 e lode e, pochi giorni dopo, subisce la perdita del padre. Ora è affidato a lui il compito di provvedere alla famiglia. Si impegna con l’ordine dei farmacisti a tenere la farmacia del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia di sua sorella. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Paolo Borsellino studia per superare il concorso in magistratura, riuscendoci nel 1963. Fare il magistrato a Palermo ha un senso profondo, non è una professione qualunque. L’amore per la sua terra, per la giustizia gli danno quella spinta interiore che lo porta a diventare magistrato senza trascurare i doveri verso la sua famiglia.
Paolo Borsellino nel 1965 viene mandato al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Nel 1967 ha il primo incarico direttivo, Pretore a Mazara del Vallo nel periodo del dopo terremoto. Il 23 dicembre del 1968 Borsellino si sposa, continua a lavorare a Mazara facendo avanti e indietro da Palermo, anche più volte al giorno. Nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavora fianco a fianco con il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Nel 1975 Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo e a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia e da questo momento comincia il suo impegno senza sosta per sconfiggere l’organizzazione mafiosa.
Nel 1980 arriva l’arresto dei primi sei mafiosi. Nello stesso anno il capitano viene ucciso in un agguato. Per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta con le difficoltà che ne conseguono. Da questo momento il clima in casa Borsellino cambia e il giudice stesso deve relazionarsi con "quei ragazzi" che gli sono sempre a fianco e che cambieranno per sempre le abitudini sue e della sua famiglia. Il suo modo di fare, la sua decisione influenzano il "sentire" dei suoi familiari. Dalle parole della moglie, ancora, si può comprendere il rispetto e la sofferenza che si alternano nei loro cuori.
"Il suo modo di esercitare la funzione di giudice lo condivido perché anch’io credo nei valori che lo ispirano....Non penso mai, per egoismo, per desiderio di una vita facile di ostacolarlo....Non è stato un sacrificio immolare la sua vita al mestiere di giudice: ama tantissimo cercare la verità, qualunque essa sia." La scorta costringe il giudice e la sua famiglia a convivere con un nuovo sentimento: la paura. E’ così che Borsellino ne parla e la affronta: "La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti."
Il Pool comprende quattro magistrati. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giovanni Barrile lavorano uno a fianco all’altro, sotto la guida di Rocco Chinnici. Si intravede e, lentamente, si instaura un legame comunitario tra i giudici che appartengono al pool. E’ nei giovani la forza su cui contare per cambiare la mentalità della gente e i magistrati lo sanno. Vogliono scuotere le coscienze e sentire intorno a sé la stima della gente. Sia Falcone sia Borsellino hanno sempre cercato la gente. Borsellino comincia a promuovere e a partecipare ai dibattiti nelle scuole, parla ai giovani nelle feste giovanili di piazza, alle tavole rotonde per spiegare e per sconfiggere una volta per sempre la cultura mafiosa. Fino alla fine della sua vita Borsellino, nel tempo che gli rimane dopo il lavoro, cercherà di incontrare i giovani, di comunicargli questi nuovi sentimenti e di renderli protagonisti della lotta alla mafia. Parallelamente continua il lavoro nel pool. Questa squadra funziona bene, ma si comprende che per sconfiggere la mafia il pool, da solo, non è sufficiente. Si chiede la promozione di pool di giudici inquirenti, coordinati tra loro ed in continuo contatto, il potenziamento della polizia giudiziaria, l’istituzione di nuove regole per la scelta dei giudici popolari e di controlli bancari per rintracciare i capitali mafiosi. I magistrati del pool pretendono l’intervento dello stato perché si rendono conto che il loro lavoro, da solo, non basta.
Paolo Borsellino lavora senza sosta, firma provvedimenti, indaga, ascolta con dedizione e responsabilità. Per questo Rocco Chinnici scrive una lettera al presidente del tribunale di Palermo per sollecitare un encomio nei confronti suoi e di Giovanni Falcone, importante per eventuali incarichi direttivi futuri. A proposito di Paolo Borsellino così scrive Rocco Chinnici: " Magistrato degno di ammirazione, dotato di raro intuito, di eccezionale coraggio, di non comune senso di responsabilità, oggetto di gravi minacce, ha condotto a termine l’istruzione di procedimenti a carico di pericolose associazioni a delinquere di stampo mafioso". L’encomio richiesto, non è mai arrivato.
Poi il dramma. Il 4 agosto 1983 viene ucciso il giudice Rocco Chinnici con un’autobomba. Borsellino è distrutto dopo Basile anche Chinnici viene strappato alla vita e il vuoto si fa sentire molto. Ancora la moglie di Borsellino racconta il legame di Borsellino con Chinnici: "Con Rocco, mio marito ha un rapporto di amicizia e di fiducia intensa e reciproca. Una collaborazione durata tanti anni, fondata sulla massima intesa...per Paolo la sua uccisione è un altro dolore atroce...". Il "capo" del pool, il punto di riferimento, viene a mancare e si ha l’impressione che la mafia, questa entità che tutto vede e tutto osserva, abbia ben compreso lo spirito ed il nuovo modo di lavorare dei giudici siciliani. Borsellino con molta preoccupazione commenta: "La mafia ha capito tutto: è Chinnici la testa che dirige il Pool".
A sostituire Rocco Chinnici arriva a Palermo il giudice Antonino Caponnetto e il pool, sempre più affiatato continua nell’incessante lavoro raggiungendo i primi risultati: "Sentiamo la gente fare il tifo per noi". Il Pool non vuole sentirsi solo, cerca lo Stato e i cittadini, vuole una mobilitazione generale contro la mafia. Nel 1984 viene arrestato Vito Ciancimino e si pente Buscetta, Paolo Borsellino sottolinea in ogni momento il ruolo fondamentale dei pentiti nelle indagini e nella preparazione dei processi. Comincia la preparazione del Maxiprocesso e viene ucciso il commissario Beppe Montana . Ancora sangue, per fermare le persone più importanti nelle indagini sulla mafia e l’elenco dei morti è destinato ad aumentare. Il clima è terribile Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengono immediatamente trasferiti all’Asinara per concludere le memorie, predisporre gli atti senza correre ulteriori rischi. All’inizio del maxiprocesso l’opinione pubblica inizia a criticare i magistrati, le scorte e il ruolo che si sono costruiti.
Paolo Borsellino chiede il trasferimento alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Marsala per ricoprire l'incarico di Procuratore Capo. Il Consiglio Superiore della Magistratura, con una decisione storica e non priva di strascichi polemici - si veda l'articolo di Leonardo Sciascia sui "Professionisti dell' antimafia" - accoglie la relativa istanza sulla base dei soli meriti professionali e dell'esperienza acquisita da Paolo Borsellino negando per la prima volta validità assoluta al criterio dell'anzianità. Sicché il 19.12.1986 Paolo Borsellino prende servizio a Marsala dove per cinque anni guiderà una delle Procure più impegnate sul fronte della lotta alla criminalità organizzata. Al centro (Palermo) Falcone e a Marsala Borsellino in modo da scoprire tutti i collegamenti esistenti tra la mafia di Palermo e quella della provincia. Nel corso di questo quinquennio, denso di scottanti inchieste giudiziarie e numerose soddisfazioni personali, Paolo Borsellino è dapprima nominato Segretario provinciale della corrente di Magistratura Indipendente, e, successivamente, Presidente nazionale dell'Associazione Nazionale Magistrati. Vive in un appartamento nella caserma dei carabinieri per risparmiare gli uomini della scorta. In suo aiuto arriva Diego Cavaliero, magistrato di prima nomina, lavorano tanto e con passione. Sempre fianco a fianco, Paolo Borsellino è un esempio per il giovane, non si risparmia mai. Teme che la conclusione del maxiprocesso attenui l’attenzione sulla lotta alla mafia, che il clima scemi e si torni alla normalità. Per questo Paolo Borsellino cerca la presenza dello Stato, incita la società civile a continuare le mobilitazioni per tenere desta l’attenzione sulla mafia e frenare chi pensa di poter piano piano ritornare alla normalità.
Invece, il clima comincia a cambiare. Il fronte unico che aveva portato a grandi vittorie della magistratura siciliana e che aveva visto l’opinione pubblica avvicinarsi agli uomini in prima linea e stringersi intorno a loro, comincia a cedere. Nel 1987 Caponnetto è costretto a lasciare la guida del Pool a causa di motivi di salute. Tutti a Palermo aspettavano la nomina di Giovanni Falcone al suo posto, anche Paolo Borsellino è ottimista. Presto, però, si rende conto che il Consiglio Superiore della Magistratura non è dello stesso parere e si diffonde il terrore di veder distruggere il Pool. Paolo Borsellino scende in campo e comincia una vera e propria guerra, parla ovunque e racconta cosa stia accadendo alla procura di Palermo; sui giornali, in televisione nei convegni, continua a lanciare l’allarme. A causa delle sue dichiarazioni Paolo Borsellino rischia il provvedimento disciplinare. Solo il Presidente della Repubblica Cossiga interviene in suo appoggio chiedendo di indagare sulle dichiarazioni del magistrato per accertare cosa stesse accadendo nel palazzo di giustizia di Palermo.
Il 31 luglio il Consiglio Superiore della Magistrature convoca Paolo Borsellino che rinnova le accuse e le sue perplessità.
Il 14 settembre il Consiglio Superiore della Magistratura si pronuncia e Giovanni Falcone perde, mentre e Antonino Meli, per anzianità, prende il posto che doveva essere suo. Paolo Borsellino viene riabilitato, torna a Marsala e riprende a capofitto a lavorare. Nuovi magistrati arrivano a dargli una mano, giovani e, a volte di prima nomina. Il suo modo di fare, il suo carisma ed i suo impegno in prima linea li contagiano; lo affiancano con lo stesso fervore e con lo stesso coraggio nelle indagini su fatti di mafia. Cominciano a parlare i pentiti e le indagini su connessioni tra mafia e politica a prendere forma. Paolo Borsellino è convinto che per sconfiggere la mafia i pentiti abbiano un ruolo fondamentale. Anche i giudici, però, dovranno essere attenti, controllare e ricontrollare ogni dichiarazione, ricercare i riscontri ed intervenire solo quando ogni fatto possa essere provato. E’ un’opera lunga ma i risultati non tarderanno ad arrivare.
Da questo momento gli attacchi a Paolo Borsellino diventano forti ed incessanti. Le indiscrezioni su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono ormai quotidiane; si parla di candidature alla Camera o alla carica di Sindaco. I due magistrati smentiscono ogni cosa. Comincia, intanto, il dibattito sull’istituzione della Superprocura e su chi porre a capo del nuovo organismo. Giovanni Falcone, intanto, va a Roma come direttore degli affari penali e preme per l’istituzione della Superprocura. A Palermo era stato isolato, i magistrati del vecchio Pool vengono ormai assediati all’interno e all’esterno del Palazzo di giustizia. Per questo si sente la necessità di coinvolgere le più alte cariche dello stato nella lotta alla mafia. La magistratura da sola non può farcela, con Falcone a Roma si sente di avere un appoggio in più, Paolo Borsellino decide di tornare a Palermo, lo seguono il sostituto Antonio Ingroia e il maresciallo Carmelo Canale. E’ in prima fila e tenta di ricostruire quel clima che, ai tempi del Pool, aveva permesso di raggiungere grossi risultati. Così, maturati i requisiti per essere dichiarato idoneo alle funzioni direttive superiori - sia requirenti che giudicanti - Paolo Borsellino, pur rimanendo applicato alla Procura della Repubblica di Marsala chiede e ottiene di essere trasferito alla Procura della Repubblica di Palermo con funzioni di Procuratore Aggiunto. Grazie alle sue indiscusse capacità investigative, una volta insediatesi presso la Procura di Palermo in data 11.12.1991 è delegato al coordinamento dell'attività dei Sostituti facenti parte della Direzione Distrettuale Antimafia.
I Magistrati, con l’arrivo di Paolo Borsellino trovano nuova fiducia. A Paolo Borsellino vengono tolte le indagini sulla mafia di Palermo dal procuratore Giammanco, e gli vengono assegnate quelle di Agrigento e Trapani. Ricomincia a lavorare con l’impegno e la dedizione di sempre. Nuovi pentiti, nuove rivelazioni confermano il legame tra la mafia e la politica, riprendono gli attacchi al magistrato e lo sconforto ogni tanto si manifesta. In una dichiarazione si può riassumere lo stato d’animo di Paolo Borsellino in quel momento: "Un pentito è credibile solo se si trovano i riscontri alle sue dichiarazioni. Se non ci sono gli elementi di prova, la sua confessione non vale nulla. E’ la legge che lo dice...e io sono un giudice che questa legge deve applicarla. I rapporti tra mafia e politica? Sono convinto che ci siano. E ne sono convinto non per gli esempi processuali, che sono pochissimi, ma per un assunto logico: è l’essenza stessa della mafia che costringe l’organizzazione a cercare il contatto con il mondo politico. ...è maturata nello stato e nei politici la volontà di recidere questi legami con la mafia? A questa volontà del mondo politico non ho mai creduto". Con questa consapevolezza il giudice, invece di scoraggiarsi, si immerge nel lavoro con ancora più convinzione, come se la sconfitta della mafia dipendesse solo dal suo operato e quello dei magistrati che lo circondano. Intanto a Roma viene finalmente istituita la superprocura e vengono aperte le candidature; Falcone è il numero uno ma, anche questa volta, sa che non sarà facile. Paolo Borsellino lo sostiene a spada tratta sebbene non fosse d’accordo sulla sua partenza da Palermo. Il suo impegno aumenta quando viene resa nota la candidatura di Agostino Cordova. Paolo Borsellino esce allo scoperto, parla, dichiara, si muove: è di nuovo in prima linea. I due magistrati lottano uno a fianco all’altro, temono che la superprocura possa divenire un arma pericolosa se in possesso di magistrati che non conoscono la mafia siciliana.
Nel Maggio 1992 finalmente Falcone raggiunge i numeri necessari per vincere l’elezione a superprocuratore. Paolo Borsellino e Giovanni Falcone esultano, ma il giorno dopo Giovanni Falcone viene ucciso insieme alla moglie, a Capaci; la mafia sa che in quel posto il giudice Giovanni Falcone era troppo pericoloso. Paolo Borsellino soffre molto, il legame che ha con Giovanni Falcone è speciale e lui è morto tra le sue braccia. Tutti i momenti trascorsi insieme, da quelli più belli a quelli più brutti, gli tornano alla mente. Dalle prime indagini nel pool, alle serate insieme, alle battute per sdrammatizzare, ai momenti di lotta più dura quando insieme sembravano "intoccabili", al periodo forzato all’Asinara fino al distacco per Roma. Una vita speciale, quella dei due amici-magistrati, densa di passione e di amore per la propria terra. Due caratteri diversi, complementari tra loro, uno un po’ più razionale l’altro più passionale, entrambi con un carisma, una forza d’animo ed uno spirito di abnegazione esemplari. Gli viene offerto di prendere il posto di Giovanni Falcone nella candidatura alla superprocura, ma Paolo Borsellino rifiuta, sebbene sia consapevole che quella sia l’unica maniera che ha per condurre in prima persona le indagini sulla strage di Capaci. Così risponde al Ministro: "...La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento....". Resta a Palermo, nella procura dei veleni per continuare la lotta alla mafia, diventando sempre più consapevole che qualcosa si è rotto, che il suo momento è vicino. Biografia
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19/1/1940 dove la sua famiglia vive e vivrà in un quartiere borghese di Palermo: la Magione. Borsellino è molto attaccato a questo quartiere dove ha trascorso tutta la giovinezza. I genitori erano entrambi farmacisti.
Al momento dello sbarco degli alleati in Sicilia la madre di Paolo Borsellino vieta ai figli di accettare qualsiasi dono dai soldati americani. "La Patria è sconfitta, i sacrifici sono stati inutili, non c’è da essere felici..." è una delle frasi della madre di Borsellino in quel momento.
Queste vicende e i racconti di "Zio Ciccio", reduce della Campagna d’Africa, gli suscitano curiosità sulle vicende del periodo fascista, di cui la sua famiglia è stata protagonista. Anche il rapporto con i figli è molto forte. Cerca di proteggerli dalla realtà che è intorno a lui e, nello stesso tempo, di trasmettergli il proprio modo di essere e di agire. Un episodio per comprendere la fatica e la difficoltà di questo rapporto lo si può trovare nel momento in cui, in piena attività antimafia, Paolo Borsellino viene trasferito insieme con Giovanni Falcone sull’isola dell’Asinara per motivi di sicurezza. La figlia di Paolo Borsellino, "Fiammetta" viene allontanata dall’isola in quanto malata di anoressia. Paolo Borsellino la veglia ogni notte e cerca di aiutarla in tutti i modi. Per tutta la sua esistenza quel senso di protezione, quel senso di colpa per aver provocato problemi così grandi alla sua famiglia e, soprattutto, la volontà di stare vicino a sua figlia non lo abbandoneranno mai.
Paolo borsellino, dopo avere frequentato il Liceo classico "Meli" si iscrive alla facoltà di giurisprudenza di Palermo e successivamente nel 1959 si iscrive all’organizzazione FUAN Fanalino. Membro dell’esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, viene eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino. In questi anni l’attività politica lo prende molto e riesce a conciliare politica e studio senza grossi problemi. Il 27 giugno 1962, all'età di appena 22 anni, Paolo Borsellino si laurea con 110 e lode e, pochi giorni dopo, subisce la perdita del padre. Ora è affidato a lui il compito di provvedere alla famiglia. Si impegna con l’ordine dei farmacisti a tenere la farmacia del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia di sua sorella. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Paolo Borsellino studia per superare il concorso in magistratura, riuscendoci nel 1963. Fare il magistrato a Palermo ha un senso profondo, non è una professione qualunque. L’amore per la sua terra, per la giustizia gli danno quella spinta interiore che lo porta a diventare magistrato senza trascurare i doveri verso la sua famiglia.
Paolo Borsellino nel 1965 viene mandato al tribunale civile di Enna come uditore giudiziario. Nel 1967 ha il primo incarico direttivo, Pretore a Mazara del Vallo nel periodo del dopo terremoto. Il 23 dicembre del 1968 Borsellino si sposa, continua a lavorare a Mazara facendo avanti e indietro da Palermo, anche più volte al giorno. Nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavora fianco a fianco con il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile. Nel 1975 Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo e a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia e da questo momento comincia il suo impegno senza sosta per sconfiggere l’organizzazione mafiosa.
Nel 1980 arriva l’arresto dei primi sei mafiosi. Nello stesso anno il capitano viene ucciso in un agguato. Per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta con le difficoltà che ne conseguono. Da questo momento il clima in casa Borsellino cambia e il giudice stesso deve relazionarsi con "quei ragazzi" che gli sono sempre a fianco e che cambieranno per sempre le abitudini sue e della sua famiglia. Il suo modo di fare, la sua decisione influenzano il "sentire" dei suoi familiari. Dalle parole della moglie, ancora, si può comprendere il rispetto e la sofferenza che si alternano nei loro cuori.
"Il suo modo di esercitare la funzione di giudice lo condivido perché anch’io credo nei valori che lo ispirano....Non penso mai, per egoismo, per desiderio di una vita facile di ostacolarlo....Non è stato un sacrificio immolare la sua vita al mestiere di giudice: ama tantissimo cercare la verità, qualunque essa sia." La scorta costringe il giudice e la sua famiglia a convivere con un nuovo sentimento: la paura. E’ così che Borsellino ne parla e la affronta: "La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti."
Il Pool comprende quattro magistrati. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giovanni Barrile lavorano uno a fianco all’altro, sotto la guida di Rocco Chinnici. Si intravede e, lentamente, si instaura un legame comunitario tra i giudici che appartengono al pool. E’ nei giovani la forza su cui contare per cambiare la mentalità della gente e i magistrati lo sanno. Vogliono scuotere le coscienze e sentire intorno a sé la stima della gente. Sia Falcone sia Borsellino hanno sempre cercato la gente. Borsellino comincia a promuovere e a partecipare ai dibattiti nelle scuole, parla ai giovani nelle feste giovanili di piazza, alle tavole rotonde per spiegare e per sconfiggere una volta per sempre la cultura mafiosa. Fino alla fine della sua vita Borsellino, nel tempo che gli rimane dopo il lavoro, cercherà di incontrare i giovani, di comunicargli questi nuovi sentimenti e di renderli protagonisti della lotta alla mafia. Parallelamente continua il lavoro nel pool. Questa squadra funziona bene, ma si comprende che per sconfiggere la mafia il pool, da solo, non è sufficiente. Si chiede la promozione di pool di giudici inquirenti, coordinati tra loro ed in continuo contatto, il potenziamento della polizia giudiziaria, l’istituzione di nuove regole per la scelta dei giudici popolari e di controlli bancari per rintracciare i capitali mafiosi. I magistrati del pool pretendono l’intervento dello stato perché si rendono conto che il loro lavoro, da solo, non basta.
Paolo Borsellino lavora senza sosta, firma provvedimenti, indaga, ascolta con dedizione e responsabilità. Per questo Rocco Chinnici scrive una lettera al presidente del tribunale di Palermo per sollecitare un encomio nei confronti suoi e di Giovanni Falcone, importante per eventuali incarichi direttivi futuri. A proposito di Paolo Borsellino così scrive Rocco Chinnici: " Magistrato degno di ammirazione, dotato di raro intuito, di eccezionale coraggio, di non comune senso di responsabilità, oggetto di gravi minacce, ha condotto a termine l’istruzione di procedimenti a carico di pericolose associazioni a delinquere di stampo mafioso". L’encomio richiesto, non è mai arrivato.
Poi il dramma. Il 4 agosto 1983 viene ucciso il giudice Rocco Chinnici con un’autobomba. Borsellino è distrutto dopo Basile anche Chinnici viene strappato alla vita e il vuoto si fa sentire molto. Ancora la moglie di Borsellino racconta il legame di Borsellino con Chinnici: "Con Rocco, mio marito ha un rapporto di amicizia e di fiducia intensa e reciproca. Una collaborazione durata tanti anni, fondata sulla massima intesa...per Paolo la sua uccisione è un altro dolore atroce...". Il "capo" del pool, il punto di riferimento, viene a mancare e si ha l’impressione che la mafia, questa entità che tutto vede e tutto osserva, abbia ben compreso lo spirito ed il nuovo modo di lavorare dei giudici siciliani. Borsellino con molta preoccupazione commenta: "La mafia ha capito tutto: è Chinnici la testa che dirige il Pool".
A sostituire Rocco Chinnici arriva a Palermo il giudice Antonino Caponnetto e il pool, sempre più affiatato continua nell’incessante lavoro raggiungendo i primi risultati: "Sentiamo la gente fare il tifo per noi". Il Pool non vuole sentirsi solo, cerca lo Stato e i cittadini, vuole una mobilitazione generale contro la mafia. Nel 1984 viene arrestato Vito Ciancimino e si pente Buscetta, Paolo Borsellino sottolinea in ogni momento il ruolo fondamentale dei pentiti nelle indagini e nella preparazione dei processi. Comincia la preparazione del Maxiprocesso e viene ucciso il commissario Beppe Montana . Ancora sangue, per fermare le persone più importanti nelle indagini sulla mafia e l’elenco dei morti è destinato ad aumentare. Il clima è terribile Giovanni Falcone e Paolo Borsellino vengono immediatamente trasferiti all’Asinara per concludere le memorie, predisporre gli atti senza correre ulteriori rischi. All’inizio del maxiprocesso l’opinione pubblica inizia a criticare i magistrati, le scorte e il ruolo che si sono costruiti.
Paolo Borsellino chiede il trasferimento alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Marsala per ricoprire l'incarico di Procuratore Capo. Il Consiglio Superiore della Magistratura, con una decisione storica e non priva di strascichi polemici - si veda l'articolo di Leonardo Sciascia sui "Professionisti dell' antimafia" - accoglie la relativa istanza sulla base dei soli meriti professionali e dell'esperienza acquisita da Paolo Borsellino negando per la prima volta validità assoluta al criterio dell'anzianità. Sicché il 19.12.1986 Paolo Borsellino prende servizio a Marsala dove per cinque anni guiderà una delle Procure più impegnate sul fronte della lotta alla criminalità organizzata. Al centro (Palermo) Falcone e a Marsala Borsellino in modo da scoprire tutti i collegamenti esistenti tra la mafia di Palermo e quella della provincia. Nel corso di questo quinquennio, denso di scottanti inchieste giudiziarie e numerose soddisfazioni personali, Paolo Borsellino è dapprima nominato Segretario provinciale della corrente di Magistratura Indipendente, e, successivamente, Presidente nazionale dell'Associazione Nazionale Magistrati. Vive in un appartamento nella caserma dei carabinieri per risparmiare gli uomini della scorta. In suo aiuto arriva Diego Cavaliero, magistrato di prima nomina, lavorano tanto e con passione. Sempre fianco a fianco, Paolo Borsellino è un esempio per il giovane, non si risparmia mai. Teme che la conclusione del maxiprocesso attenui l’attenzione sulla lotta alla mafia, che il clima scemi e si torni alla normalità. Per questo Paolo Borsellino cerca la presenza dello Stato, incita la società civile a continuare le mobilitazioni per tenere desta l’attenzione sulla mafia e frenare chi pensa di poter piano piano ritornare alla normalità.
Invece, il clima comincia a cambiare. Il fronte unico che aveva portato a grandi vittorie della magistratura siciliana e che aveva visto l’opinione pubblica avvicinarsi agli uomini in prima linea e stringersi intorno a loro, comincia a cedere. Nel 1987 Caponnetto è costretto a lasciare la guida del Pool a causa di motivi di salute. Tutti a Palermo aspettavano la nomina di Giovanni Falcone al suo posto, anche Paolo Borsellino è ottimista. Presto, però, si rende conto che il Consiglio Superiore della Magistratura non è dello stesso parere e si diffonde il terrore di veder distruggere il Pool. Paolo Borsellino scende in campo e comincia una vera e propria guerra, parla ovunque e racconta cosa stia accadendo alla procura di Palermo; sui giornali, in televisione nei convegni, continua a lanciare l’allarme. A causa delle sue dichiarazioni Paolo Borsellino rischia il provvedimento disciplinare. Solo il Presidente della Repubblica Cossiga interviene in suo appoggio chiedendo di indagare sulle dichiarazioni del magistrato per accertare cosa stesse accadendo nel palazzo di giustizia di Palermo.
Il 31 luglio il Consiglio Superiore della Magistrature convoca Paolo Borsellino che rinnova le accuse e le sue perplessità.
Il 14 settembre il Consiglio Superiore della Magistratura si pronuncia e Giovanni Falcone perde, mentre e Antonino Meli, per anzianità, prende il posto che doveva essere suo. Paolo Borsellino viene riabilitato, torna a Marsala e riprende a capofitto a lavorare. Nuovi magistrati arrivano a dargli una mano, giovani e, a volte di prima nomina. Il suo modo di fare, il suo carisma ed i suo impegno in prima linea li contagiano; lo affiancano con lo stesso fervore e con lo stesso coraggio nelle indagini su fatti di mafia. Cominciano a parlare i pentiti e le indagini su connessioni tra mafia e politica a prendere forma. Paolo Borsellino è convinto che per sconfiggere la mafia i pentiti abbiano un ruolo fondamentale. Anche i giudici, però, dovranno essere attenti, controllare e ricontrollare ogni dichiarazione, ricercare i riscontri ed intervenire solo quando ogni fatto possa essere provato. E’ un’opera lunga ma i risultati non tarderanno ad arrivare.
Da questo momento gli attacchi a Paolo Borsellino diventano forti ed incessanti. Le indiscrezioni su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono ormai quotidiane; si parla di candidature alla Camera o alla carica di Sindaco. I due magistrati smentiscono ogni cosa. Comincia, intanto, il dibattito sull’istituzione della Superprocura e su chi porre a capo del nuovo organismo. Giovanni Falcone, intanto, va a Roma come direttore degli affari penali e preme per l’istituzione della Superprocura. A Palermo era stato isolato, i magistrati del vecchio Pool vengono ormai assediati all’interno e all’esterno del Palazzo di giustizia. Per questo si sente la necessità di coinvolgere le più alte cariche dello stato nella lotta alla mafia. La magistratura da sola non può farcela, con Falcone a Roma si sente di avere un appoggio in più, Paolo Borsellino decide di tornare a Palermo, lo seguono il sostituto Antonio Ingroia e il maresciallo Carmelo Canale. E’ in prima fila e tenta di ricostruire quel clima che, ai tempi del Pool, aveva permesso di raggiungere grossi risultati. Così, maturati i requisiti per essere dichiarato idoneo alle funzioni direttive superiori - sia requirenti che giudicanti - Paolo Borsellino, pur rimanendo applicato alla Procura della Repubblica di Marsala chiede e ottiene di essere trasferito alla Procura della Repubblica di Palermo con funzioni di Procuratore Aggiunto. Grazie alle sue indiscusse capacità investigative, una volta insediatesi presso la Procura di Palermo in data 11.12.1991 è delegato al coordinamento dell'attività dei Sostituti facenti parte della Direzione Distrettuale Antimafia.
I Magistrati, con l’arrivo di Paolo Borsellino trovano nuova fiducia. A Paolo Borsellino vengono tolte le indagini sulla mafia di Palermo dal procuratore Giammanco, e gli vengono assegnate quelle di Agrigento e Trapani. Ricomincia a lavorare con l’impegno e la dedizione di sempre. Nuovi pentiti, nuove rivelazioni confermano il legame tra la mafia e la politica, riprendono gli attacchi al magistrato e lo sconforto ogni tanto si manifesta. In una dichiarazione si può riassumere lo stato d’animo di Paolo Borsellino in quel momento: "Un pentito è credibile solo se si trovano i riscontri alle sue dichiarazioni. Se non ci sono gli elementi di prova, la sua confessione non vale nulla. E’ la legge che lo dice...e io sono un giudice che questa legge deve applicarla. I rapporti tra mafia e politica? Sono convinto che ci siano. E ne sono convinto non per gli esempi processuali, che sono pochissimi, ma per un assunto logico: è l’essenza stessa della mafia che costringe l’organizzazione a cercare il contatto con il mondo politico. ...è maturata nello stato e nei politici la volontà di recidere questi legami con la mafia? A questa volontà del mondo politico non ho mai creduto". Con questa consapevolezza il giudice, invece di scoraggiarsi, si immerge nel lavoro con ancora più convinzione, come se la sconfitta della mafia dipendesse solo dal suo operato e quello dei magistrati che lo circondano. Intanto a Roma viene finalmente istituita la superprocura e vengono aperte le candidature; Falcone è il numero uno ma, anche questa volta, sa che non sarà facile. Paolo Borsellino lo sostiene a spada tratta sebbene non fosse d’accordo sulla sua partenza da Palermo. Il suo impegno aumenta quando viene resa nota la candidatura di Agostino Cordova. Paolo Borsellino esce allo scoperto, parla, dichiara, si muove: è di nuovo in prima linea. I due magistrati lottano uno a fianco all’altro, temono che la superprocura possa divenire un arma pericolosa se in possesso di magistrati che non conoscono la mafia siciliana.
Nel Maggio 1992 finalmente Falcone raggiunge i numeri necessari per vincere l’elezione a superprocuratore. Paolo Borsellino e Giovanni Falcone esultano, ma il giorno dopo Giovanni Falcone viene ucciso insieme alla moglie, a Capaci; la mafia sa che in quel posto il giudice Giovanni Falcone era troppo pericoloso. Paolo Borsellino soffre molto, il legame che ha con Giovanni Falcone è speciale e lui è morto tra le sue braccia. Tutti i momenti trascorsi insieme, da quelli più belli a quelli più brutti, gli tornano alla mente. Dalle prime indagini nel pool, alle serate insieme, alle battute per sdrammatizzare, ai momenti di lotta più dura quando insieme sembravano "intoccabili", al periodo forzato all’Asinara fino al distacco per Roma. Una vita speciale, quella dei due amici-magistrati, densa di passione e di amore per la propria terra. Due caratteri diversi, complementari tra loro, uno un po’ più razionale l’altro più passionale, entrambi con un carisma, una forza d’animo ed uno spirito di abnegazione esemplari. Gli viene offerto di prendere il posto di Giovanni Falcone nella candidatura alla superprocura, ma Paolo Borsellino rifiuta, sebbene sia consapevole che quella sia l’unica maniera che ha per condurre in prima persona le indagini sulla strage di Capaci. Così risponde al Ministro: "...La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento....". Resta a Palermo, nella procura dei veleni per continuare la lotta alla mafia, diventando sempre più consapevole che qualcosa si è rotto, che il suo momento è vicino.
Ad un mese dalla morte dell’Amico Falcone, tra le fiaccole e con molta emozione parla di lui, cerca di raccontarlo: "Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione....per amore. La sua vita è stata un atto d’amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. ..Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo, continuando la loro opera...dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo". Vuole collaborare alle indagini sull’attentato di Capaci di competenza della procura di Caltanissetta. Le indagini proseguono, i pentiti aumentano e il giudice cerca di sentirne il più possibile. Arriva la volta dei pentiti Messina e Mutolo, ormai Cosa Nostra comincia ad avere sembianze conosciute. Spesso i pentiti hanno chiesto di palare con Giovanni Falcone o con Paolo Borsellino perché sapevano di potersi fidare, perché ne conoscevano le qualità morali e l’intuito investigativo. Continua a lottare per poter avere la delega per ascoltare il pentito Mutolo. Insiste e alla fine il 19 luglio 1992 alle 7 di mattina Giammanco gli comunica telefonicamente che finalmente avrà quella delega e potrà ascoltare Mutolo.
Lo stesso giorno Paolo Borsellino va nella casa del mare, a Villagrazia, con la scorta. Si distende, va in barca con uno dei pochi amici rimasti. Dopo pranzo torna a Palermo per accompagnare la mamma dal medico e con l’esplosione dell’autobomba sotto la casa, in via D’Amelio, muore con tutta la scorta. E’ il 19 luglio del 1992.
Paolo Borsellino ha un forte rapporto con la morte; è presente in ogni parte della sua vita. Teme per gli altri, per la sua famiglia, per I ragazzi della scorta. E’ molto protettivo con i suoi collaboratori e con la sua famiglia. Parla spesso della morte un po’ per scherzarci sopra un po’ per ricordarsi sempre che non è poi così lontana. "Se muoio adesso, il mio compito l’ho svolto". Ha visto morire molte persone, uomini di valore morale ed intellettuale e sa benissimo di non essere esente da una fine simile. Eppure a volte scherza con la morte, se ne prende gioco, ci ride sopra con un unico cruccio: quello di aver preparato i propri figli ad affrontare la vita. "Non sono né un eroe né un kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento...Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno".
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Re: Grandi personaggi della storia
Cristoforo colombo
Navigatore ed esploratore italiano Cristoforo Colombo nacque a Genova nel 1451 da una famiglia di umile condizione, ma con i frati imparò a leggere ed a scrivere, studiò cartografia, geometria, disegno e calcolo.
Durante la giovinezza Colombo esercitò la professione di lanaiolo e di piccolo commerciante accompagnando il padre in viaggi di piccolo cabotaggio lungo le coste liguri.
Nel 1470 cominciò a navigare per commercio al servizio delle casate genovesi dei Centurioni, degli Spìnola e dei Di Negro, i quali avevano succursali in molti porti europei, in Spagna, Portogallo, all'isola di Madera.
Si fece le ossa sulla nave 'Roxana', arrivando, nel 1473, fino all'isola di Chio che apparteneva ancora a Genova, dove rimase un anno, intero, affinando l'arte della navigazione e dell'utilizzo degli strumenti marinareschi per la misurazione delle latitudini.
Ormai conquistato dalla vita di mare Colombo navigò su molte navi, dall'Africa al nord Europa, facendo persino naufragio nel 1476 a causa di un attacco pirata, disavventura non rara per quei tempi.
Nel 1486, Cristoforo Colombo, si stabilì in Portogallo e, grazie al fratello Bartolomeo, cartografo, approfondì la lettura e il disegno delle carte nautiche, studiò le opere di molti geografici, ebbe contatti con il geografo Toscanelli convincendosi che la forma della terra fosse sferica, che fosse relativamente breve la distanza via mare, tra le coste occidentali europee e quelle orientali asiatiche (Cina, Giappone, India), che fra esse non ci fosse alcun continente e cominciò a coltivare l'idea di raggiungere le Indie, navigando verso occidente.
Per realizzare l'impresa però Colombo aveva bisogno di soldi e di navi, per questo si rivolse alle corti di Portogallo, Spagna, Francia e Inghilterra senza trovare attenzione per anni.
Finalmente, per battere i portoghesi che sembrava prossimi a raggiungere le "Indie", i sovrani di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona, decisero di finanziare il suo progetto, nominandolo Ammiraglio di tre caravelle: Pinta, Niña, S. Maria, allestite dagli armatori Pinzòn. Lo scopo dell'impresa era unicamente commerciale e mirava ai ricchissimi mercati di Cina e Giappone, di cui aveva già parlato Marco Polo nel suo libro "Il Milione". Il 3 agosto 1492 la capitana Santa Maria di 200 tonnellate, la Pinta di 140 e la Niña di poco più di 100, salparono da Palos, con un equipaggio spagnolo di 120 uomini.
Colombo comandava l'intera spedizione, era imbarcato sulla Santa Maria. una nave a tre alberi come la Pinta con vele quadre e con il solo albero di mezzana a vela latina. LaPinta e la Niña erano comandate da Alonso e Yanez Pinzòn. Dopo aver fatto sosta alla Canarie dal 12 agosto al 6 settembre, le tre caravelle si avventurarono nell'immenso Oceano Atlantico mai attraversato da nessuno. La traversata durò oltre un mese tra il malcontento degli uomini dell'equipaggio a cui Colombo spesso doveva nascondere la reale distanza compiuta per non scoraggiarli.Biografia
Navigatore ed esploratore italiano Cristoforo Colombo nacque a Genova nel 1451 da una famiglia di umile condizione, ma con i frati imparò a leggere ed a scrivere, studiò cartografia, geometria, disegno e calcolo.
Durante la giovinezza Colombo esercitò la professione di lanaiolo e di piccolo commerciante accompagnando il padre in viaggi di piccolo cabotaggio lungo le coste liguri.
Nel 1470 cominciò a navigare per commercio al servizio delle casate genovesi dei Centurioni, degli Spìnola e dei Di Negro, i quali avevano succursali in molti porti europei, in Spagna, Portogallo, all'isola di Madera.
Si fece le ossa sulla nave 'Roxana', arrivando, nel 1473, fino all'isola di Chio che apparteneva ancora a Genova, dove rimase un anno, intero, affinando l'arte della navigazione e dell'utilizzo degli strumenti marinareschi per la misurazione delle latitudini.
Ormai conquistato dalla vita di mare Colombo navigò su molte navi, dall'Africa al nord Europa, facendo persino naufragio nel 1476 a causa di un attacco pirata, disavventura non rara per quei tempi.
Nel 1486, Cristoforo Colombo, si stabilì in Portogallo e, grazie al fratello Bartolomeo, cartografo, approfondì la lettura e il disegno delle carte nautiche, studiò le opere di molti geografici, ebbe contatti con il geografo Toscanelli convincendosi che la forma della terra fosse sferica, che fosse relativamente breve la distanza via mare, tra le coste occidentali europee e quelle orientali asiatiche (Cina, Giappone, India), che fra esse non ci fosse alcun continente e cominciò a coltivare l'idea di raggiungere le Indie, navigando verso occidente.
Per realizzare l'impresa però Colombo aveva bisogno di soldi e di navi, per questo si rivolse alle corti di Portogallo, Spagna, Francia e Inghilterra senza trovare attenzione per anni.
Finalmente, per battere i portoghesi che sembrava prossimi a raggiungere le "Indie", i sovrani di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona, decisero di finanziare il suo progetto, nominandolo Ammiraglio di tre caravelle: Pinta, Niña, S. Maria, allestite dagli armatori Pinzòn. Lo scopo dell'impresa era unicamente commerciale e mirava ai ricchissimi mercati di Cina e Giappone, di cui aveva già parlato Marco Polo nel suo libro "Il Milione". Il 3 agosto 1492 la capitana Santa Maria di 200 tonnellate, la Pinta di 140 e la Niña di poco più di 100, salparono da Palos, con un equipaggio spagnolo di 120 uomini.
Colombo comandava l'intera spedizione, era imbarcato sulla Santa Maria. una nave a tre alberi come la Pinta con vele quadre e con il solo albero di mezzana a vela latina. LaPinta e la Niña erano comandate da Alonso e Yanez Pinzòn. Dopo aver fatto sosta alla Canarie dal 12 agosto al 6 settembre, le tre caravelle si avventurarono nell'immenso Oceano Atlantico mai attraversato da nessuno. La traversata durò oltre un mese tra il malcontento degli uomini dell'equipaggio a cui Colombo spesso doveva nascondere la reale distanza compiuta per non scoraggiarli.
Il 12 ottobre, il passaggio di uccelli migratori precedette, tra il giubilo generale, l'avvistamento dell'sola di Guanahani, nell'arcipelago delle Bahamas, battezzata da Cristoforo Colombo San Salvador. Proseguendo la navigazione Colombo scoprì Cuba, pensando si trattasse della Cina e poi Haiti, che chiamò Hispaniola, dove si stabilì fondando una piccola colonia, chiamando queste terre "Indie Occidentali" e gli abitanti "indiani", ma con grande stupore constatò che non c'erano quelle enormi ricchezze di cui si parlava in Europa e per le quali la spedizione era stata finanziata. Ad Haiti costruì una fortezza, lasciò un piccolo contingente di uomini e, il16 gennaio, riprese il mare per ritornare in Europa dove arrivò nel marzo 1493, dopo una traversata altrettanto avventurosa, ma sostenuta dall'entusiasmo della "scoperta".
Colombo, come indiscutibili testimonianze di aver raggiunto le Indie navigando verso occidente, aveva portato a Palos un carico di prodotti strani e dieci "indiani", convincendo senz'altro tutti di aver raggiunto terre sconosciute, ma lasciando delusi i sovrani, che si aspettavano da quel viaggio qualcosa di più prezioso. Nel giro di pochi anni tra il 1493 e il 1500, Colombo guidò altre spedizioni che seguirono la prima. Tra queste, la più importante fu la seconda, partita da Cadice il 25 settembre 1493 con numerose navi e 1500 persone fra cui sacerdoti, dottori e contadini con il compito di iniziare la colonizzazione dei nuovi territori per i reali di Spagna. Durante questa spedizione vennero scoperte le isole Antille, la Giamaica, e fu esplorata la costa meridionale di Cuba, che Colombo continuò a considerare non un'isola, ma parte di un continente. Dopo essersi fatto anticipare in Spagna da un carico di 500 schiavi, il 20 aprile del 1496 Colombo salpò per l'Europa e raggiunse Cadice l'11 giugno, con due navi che aveva costruito nelle colonie.
Nel 1498 Cristoforo Colombo ripartì per le "Indie" con una flotta di otto navi e dopo due mesi di navigazione giunse nell'Isola di Trinidad, vicino alle coste del Venezuela, per poi tornare a Hispaniola. Colombo prima della prima spedizione si era accordato con i reali di Spagna sul fatto che avrebbe assunto il titolo di Viceré di tutte le terre scoperte e nominato Ammiraglio dei mari con diritto di trasmissione ai suoi eredi e con diritto alla decima parte dei guadagni prodotti.
I Re spagnoli si resero conto che Colombo era sì un grande navigatore, ma non aveva la stoffa del Governatore e mandarono nella nuova colonia Francisco De Bobadilla, con l'incarico di amministrare la giustizia per conto del Re.
Colombo si rifiutò di accettare l'autorità dell'emissario, che per tutta risposta lo fece arrestare rispedendolo in Spagna in catene. Presto liberato, Colombo organizzò quello che si rivelò il suo ultimo viaggio e nel 1502 riprese il mare. Sfortunatamente un terribile uragano causò la perdita di tre delle quattro navi di Colombo che continuò la navigazione per altri otto mesi lungo la costa tra l'Honduras e Panama. In questo viaggio ebbe il primo contatto con indigeni civili, sempre convinto di trovarsi in Asia, infine, tornato in Giamaica, vi rimase per 10 mesi, prima di tornare in Spagna nel 1504.
Ormai stanco e malato Colombo si stabilì in Spagna dove però trovò un ambiente ostile:la regina Isabella di Castiglia, sua protettrice, era morta, il re e la corte non comprendevano l'importanza delle sue scoperte. Morì a Valladolid nel 1506, quasi povero, nell'indifferenza generale, convinto di aver raggiunto l'Oriente navigando verso Ponente, ma il suo grande merito rimane, quello di aver compiuto un viaggio di scoperta verso una meta che era solo un'intuizione, un'impresa quasi irrealizzabile con i mezzi del tempo.
Navigatore ed esploratore italiano Cristoforo Colombo nacque a Genova nel 1451 da una famiglia di umile condizione, ma con i frati imparò a leggere ed a scrivere, studiò cartografia, geometria, disegno e calcolo.
Durante la giovinezza Colombo esercitò la professione di lanaiolo e di piccolo commerciante accompagnando il padre in viaggi di piccolo cabotaggio lungo le coste liguri.
Nel 1470 cominciò a navigare per commercio al servizio delle casate genovesi dei Centurioni, degli Spìnola e dei Di Negro, i quali avevano succursali in molti porti europei, in Spagna, Portogallo, all'isola di Madera.
Si fece le ossa sulla nave 'Roxana', arrivando, nel 1473, fino all'isola di Chio che apparteneva ancora a Genova, dove rimase un anno, intero, affinando l'arte della navigazione e dell'utilizzo degli strumenti marinareschi per la misurazione delle latitudini.
Ormai conquistato dalla vita di mare Colombo navigò su molte navi, dall'Africa al nord Europa, facendo persino naufragio nel 1476 a causa di un attacco pirata, disavventura non rara per quei tempi.
Nel 1486, Cristoforo Colombo, si stabilì in Portogallo e, grazie al fratello Bartolomeo, cartografo, approfondì la lettura e il disegno delle carte nautiche, studiò le opere di molti geografici, ebbe contatti con il geografo Toscanelli convincendosi che la forma della terra fosse sferica, che fosse relativamente breve la distanza via mare, tra le coste occidentali europee e quelle orientali asiatiche (Cina, Giappone, India), che fra esse non ci fosse alcun continente e cominciò a coltivare l'idea di raggiungere le Indie, navigando verso occidente.
Per realizzare l'impresa però Colombo aveva bisogno di soldi e di navi, per questo si rivolse alle corti di Portogallo, Spagna, Francia e Inghilterra senza trovare attenzione per anni.
Finalmente, per battere i portoghesi che sembrava prossimi a raggiungere le "Indie", i sovrani di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona, decisero di finanziare il suo progetto, nominandolo Ammiraglio di tre caravelle: Pinta, Niña, S. Maria, allestite dagli armatori Pinzòn. Lo scopo dell'impresa era unicamente commerciale e mirava ai ricchissimi mercati di Cina e Giappone, di cui aveva già parlato Marco Polo nel suo libro "Il Milione". Il 3 agosto 1492 la capitana Santa Maria di 200 tonnellate, la Pinta di 140 e la Niña di poco più di 100, salparono da Palos, con un equipaggio spagnolo di 120 uomini.
Colombo comandava l'intera spedizione, era imbarcato sulla Santa Maria. una nave a tre alberi come la Pinta con vele quadre e con il solo albero di mezzana a vela latina. LaPinta e la Niña erano comandate da Alonso e Yanez Pinzòn. Dopo aver fatto sosta alla Canarie dal 12 agosto al 6 settembre, le tre caravelle si avventurarono nell'immenso Oceano Atlantico mai attraversato da nessuno. La traversata durò oltre un mese tra il malcontento degli uomini dell'equipaggio a cui Colombo spesso doveva nascondere la reale distanza compiuta per non scoraggiarli.Biografia
Navigatore ed esploratore italiano Cristoforo Colombo nacque a Genova nel 1451 da una famiglia di umile condizione, ma con i frati imparò a leggere ed a scrivere, studiò cartografia, geometria, disegno e calcolo.
Durante la giovinezza Colombo esercitò la professione di lanaiolo e di piccolo commerciante accompagnando il padre in viaggi di piccolo cabotaggio lungo le coste liguri.
Nel 1470 cominciò a navigare per commercio al servizio delle casate genovesi dei Centurioni, degli Spìnola e dei Di Negro, i quali avevano succursali in molti porti europei, in Spagna, Portogallo, all'isola di Madera.
Si fece le ossa sulla nave 'Roxana', arrivando, nel 1473, fino all'isola di Chio che apparteneva ancora a Genova, dove rimase un anno, intero, affinando l'arte della navigazione e dell'utilizzo degli strumenti marinareschi per la misurazione delle latitudini.
Ormai conquistato dalla vita di mare Colombo navigò su molte navi, dall'Africa al nord Europa, facendo persino naufragio nel 1476 a causa di un attacco pirata, disavventura non rara per quei tempi.
Nel 1486, Cristoforo Colombo, si stabilì in Portogallo e, grazie al fratello Bartolomeo, cartografo, approfondì la lettura e il disegno delle carte nautiche, studiò le opere di molti geografici, ebbe contatti con il geografo Toscanelli convincendosi che la forma della terra fosse sferica, che fosse relativamente breve la distanza via mare, tra le coste occidentali europee e quelle orientali asiatiche (Cina, Giappone, India), che fra esse non ci fosse alcun continente e cominciò a coltivare l'idea di raggiungere le Indie, navigando verso occidente.
Per realizzare l'impresa però Colombo aveva bisogno di soldi e di navi, per questo si rivolse alle corti di Portogallo, Spagna, Francia e Inghilterra senza trovare attenzione per anni.
Finalmente, per battere i portoghesi che sembrava prossimi a raggiungere le "Indie", i sovrani di Spagna, Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona, decisero di finanziare il suo progetto, nominandolo Ammiraglio di tre caravelle: Pinta, Niña, S. Maria, allestite dagli armatori Pinzòn. Lo scopo dell'impresa era unicamente commerciale e mirava ai ricchissimi mercati di Cina e Giappone, di cui aveva già parlato Marco Polo nel suo libro "Il Milione". Il 3 agosto 1492 la capitana Santa Maria di 200 tonnellate, la Pinta di 140 e la Niña di poco più di 100, salparono da Palos, con un equipaggio spagnolo di 120 uomini.
Colombo comandava l'intera spedizione, era imbarcato sulla Santa Maria. una nave a tre alberi come la Pinta con vele quadre e con il solo albero di mezzana a vela latina. LaPinta e la Niña erano comandate da Alonso e Yanez Pinzòn. Dopo aver fatto sosta alla Canarie dal 12 agosto al 6 settembre, le tre caravelle si avventurarono nell'immenso Oceano Atlantico mai attraversato da nessuno. La traversata durò oltre un mese tra il malcontento degli uomini dell'equipaggio a cui Colombo spesso doveva nascondere la reale distanza compiuta per non scoraggiarli.
Il 12 ottobre, il passaggio di uccelli migratori precedette, tra il giubilo generale, l'avvistamento dell'sola di Guanahani, nell'arcipelago delle Bahamas, battezzata da Cristoforo Colombo San Salvador. Proseguendo la navigazione Colombo scoprì Cuba, pensando si trattasse della Cina e poi Haiti, che chiamò Hispaniola, dove si stabilì fondando una piccola colonia, chiamando queste terre "Indie Occidentali" e gli abitanti "indiani", ma con grande stupore constatò che non c'erano quelle enormi ricchezze di cui si parlava in Europa e per le quali la spedizione era stata finanziata. Ad Haiti costruì una fortezza, lasciò un piccolo contingente di uomini e, il16 gennaio, riprese il mare per ritornare in Europa dove arrivò nel marzo 1493, dopo una traversata altrettanto avventurosa, ma sostenuta dall'entusiasmo della "scoperta".
Colombo, come indiscutibili testimonianze di aver raggiunto le Indie navigando verso occidente, aveva portato a Palos un carico di prodotti strani e dieci "indiani", convincendo senz'altro tutti di aver raggiunto terre sconosciute, ma lasciando delusi i sovrani, che si aspettavano da quel viaggio qualcosa di più prezioso. Nel giro di pochi anni tra il 1493 e il 1500, Colombo guidò altre spedizioni che seguirono la prima. Tra queste, la più importante fu la seconda, partita da Cadice il 25 settembre 1493 con numerose navi e 1500 persone fra cui sacerdoti, dottori e contadini con il compito di iniziare la colonizzazione dei nuovi territori per i reali di Spagna. Durante questa spedizione vennero scoperte le isole Antille, la Giamaica, e fu esplorata la costa meridionale di Cuba, che Colombo continuò a considerare non un'isola, ma parte di un continente. Dopo essersi fatto anticipare in Spagna da un carico di 500 schiavi, il 20 aprile del 1496 Colombo salpò per l'Europa e raggiunse Cadice l'11 giugno, con due navi che aveva costruito nelle colonie.
Nel 1498 Cristoforo Colombo ripartì per le "Indie" con una flotta di otto navi e dopo due mesi di navigazione giunse nell'Isola di Trinidad, vicino alle coste del Venezuela, per poi tornare a Hispaniola. Colombo prima della prima spedizione si era accordato con i reali di Spagna sul fatto che avrebbe assunto il titolo di Viceré di tutte le terre scoperte e nominato Ammiraglio dei mari con diritto di trasmissione ai suoi eredi e con diritto alla decima parte dei guadagni prodotti.
I Re spagnoli si resero conto che Colombo era sì un grande navigatore, ma non aveva la stoffa del Governatore e mandarono nella nuova colonia Francisco De Bobadilla, con l'incarico di amministrare la giustizia per conto del Re.
Colombo si rifiutò di accettare l'autorità dell'emissario, che per tutta risposta lo fece arrestare rispedendolo in Spagna in catene. Presto liberato, Colombo organizzò quello che si rivelò il suo ultimo viaggio e nel 1502 riprese il mare. Sfortunatamente un terribile uragano causò la perdita di tre delle quattro navi di Colombo che continuò la navigazione per altri otto mesi lungo la costa tra l'Honduras e Panama. In questo viaggio ebbe il primo contatto con indigeni civili, sempre convinto di trovarsi in Asia, infine, tornato in Giamaica, vi rimase per 10 mesi, prima di tornare in Spagna nel 1504.
Ormai stanco e malato Colombo si stabilì in Spagna dove però trovò un ambiente ostile:la regina Isabella di Castiglia, sua protettrice, era morta, il re e la corte non comprendevano l'importanza delle sue scoperte. Morì a Valladolid nel 1506, quasi povero, nell'indifferenza generale, convinto di aver raggiunto l'Oriente navigando verso Ponente, ma il suo grande merito rimane, quello di aver compiuto un viaggio di scoperta verso una meta che era solo un'intuizione, un'impresa quasi irrealizzabile con i mezzi del tempo.
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Re: Grandi personaggi della storia
Giulio Cesare
Caio Giulio Cesare nacque a Roma nel 100 a.C. Faceva parte dell'antichissima e nobile "gens Julia", discendente da Julo, figlio di Enea e, secondo il mito, a sua volta figlio della dea Venere.
Era anche legato al ceto plebeo, in quanto sua zia Giulia aveva sposato Caio Mario.
Finiti gli studi, verso i sedici anni, partì con Marco Termo verso l'Asia, dove era in corso una guerra. In Oriente conobbe Nicomede, re di Bitinia, dove si fermò per quasi due anni.
Tornato a Roma diciottenne, Cesare sposò, per volere del padre, Cossuzia, ma alla morte di questi, la rinnegò per prendere in moglie la bella Cornelia, figlia di Cinna, luogotenente di Mario, scatenando così l'ira del potente dittatore Silla, che per altro aveva intuito le qualità del giovane. Le disposizioni del tiranno prevedevano che Cesare ripudiasse la moglie Cornelia, in quanto figlia di uno dei capi del partito democratico. Cesare si rifiutò: la cosa gli costò la condanna a morte e la confisca della dote della moglie; la condanna in seguito, su intervento di amici comuni, fu mutata in esilio.
Esiliato appunto in Oriente, vi fece importanti esperienze militari, per terra e per mare. Rientrato nuovamente a Roma nel 69, intraprese il cosiddetto "cursus honorum": venne eletto alla carica di questore, grazie ai voti acquistati con il danaro prestatogli da Crasso. La carica gli fruttò il governatorato e un comando militare in Spagna, dove per un po' di tempo fronteggiò i ribelli, tornando poi in Patria con la fama di ottimo soldato e amministratore. Tre anni dopo fu nominato propretore in Spagna ma, pieno di debiti, poté partire solo dopo aver saldato tutti i contenziosi, cosa che fece grazie ad un prestito del solito Crasso. Divenne inoltre Pontefice Massimo nel 63 e pretore nel 62.
In Spagna sottomise quasi del tutto gli iberici, riportò un bottino enorme e il senato gli concesse il trionfo, a causa del quale Cesare doveva ritardare il ritorno a Roma. In questo modo gli veniva impedito di presentare la sua candidatura al consolato, infatti la candidatura non poteva essere presentata in assenza del candidato. Cesare andò ugualmente a Roma, lasciando l' esercito fuori dalla città.
Qui, strinse accordi di alleanza con il suo finanziatore Crasso e con Pompeo, in quel momento politicamente isolato: si formò allora un patto a tre, di carattere privato, consolidato da un solenne giuramento di reciproca lealtà , che aveva come fine, attraverso una opportuna distribuzione di compiti, la completa conquista del potere (luglio del 60). Il patto è conosciuto con il nome di "Primo Triumvirato".Nel frattempo, i legami con Pompeo erano stati stretti attraverso il matrimonio di quest' ultimo con Giulia, figlia di Cesare. Per l' anno 58, alla fine del suo mandato, Cesare fece eleggere come suoi successori Gabinio e Pisone; del secondo sposò la figlia Calpurnia, in quanto aveva divorziato dalla terza moglie, Pompea, a seguito di uno scandalo in cui era rimasta coinvolta. Nello stesso periodo chiese e ottenne il consolato della Gallia.
Cesare aveva scelto le Gallie a ragion veduta: egli sapeva di aver bisogno, per poter aspirare al supremo potere, di compiere gesta militari di grande importanza e, soprattutto, di forte impatto. Le Gallie, da questo punto di vista, gli avrebbero appunto offerto l'occasione di conquistare territori ricchi di risorse naturali e di sottomettere un popolo ben noto per le proprie virtù militari e, per questo, molto temuto.
I fatti confermarono pienamente i calcoli di Cesare. Anzi, riuscì ad ottenere risultati che andavano al di là di quanto egli stesso avrebbe mai osato sperare. Le vicende belliche gli offrirono oltretutto l'occasione di costituire un fedelissimo esercito personale e di assicurarsi fama imperitura e favolose ricchezze. Fu in particolare la fase finale del conflitto, quando dovette domare una ribellione capeggiata dal principe Vercingetorige, a mettere in risalto le straordinarie capacità militari di Cesare, che riuscì a sbaragliare il nemico nel proprio territorio e a fronte di perdite ridotte al minimo per i romani.
La campagna militare, cominciata nel 58 a.C. e conclusa nel 51 a.C., fu minuziosamente - e magnificamente - narrata dallo stesso Cesare nei suoi Commentari (il celebre "De bello gallico").
Morto Crasso, sconfitto e ucciso a Carre (53 a.C.) nel corso di una spedizione contro i parti, il triumvirato si sciolse. Pompeo, rimasto solo in Italia, assunse pieni poteri con l'insolito titolo di "console senza collega" (52 a.C.). All'inizio del 49 a.C., Cesare rifiutò di obbedire agli ordini di Pompeo, che pretendeva, con l'appoggio del senato, che egli rinunciasse al proprio esercito e rientrasse in Roma come un semplice cittadino. In realtà Cesare rispose chiedendo a sua volta che anche Pompeo rinunciasse contemporaneamente ai propri poteri, o, in alternativa, che gli fossero lasciate provincia e truppe fino alla riunione dei comizi, davanti ai quali egli avrebbe presentato per la seconda volta la sua candidatura al consolato. Ma le proposte di Cesare caddero nel vuoto: prese allora la difficile decisione di attraversare in armi il Rubicone, fiume che delimitava allora l'area geografica che doveva essere interdetta alle legioni (fu in questa occasione che pronunciò la famosa frase: "Alea iacta est", ovvero "il dado è tratto"). Era la guerra civile, che sarebbe durata dal 49 al 45. Anch'essa fu molto ben raccontata da Cesare, con la consueta chiarezza ed efficacia, nel "De bello civili" Varcato dunque il Rubicone, Cesare marciò su Roma. Il senato, terrorizzato, si affrettò a proclamarlo dittatore, carica che mantenne fino all'anno seguente, quando gli fu affidato il consolato. Pompeo, indeciso sul da farsi, si rifugiò in Albania. Fu sconfitto a Farsalo, nel 48 a.C., in una battaglia che probabilmente è il capolavoro militare di Cesare: quest'ultimo, con un esercito di ventiduemila fanti e mille cavalieri, tenne testa vittoriosamente ai cinquantamila fanti e ai settemila cavalieri schierati da Pompeo, perse soltanto duecento uomini, ne uccise quindicimila e ne catturò ventimila.
Pompeo fuggì in Egitto, dove venne assassinato dagli uomini di Tolomeo XIV, il quale credeva in tal modo di ingraziarsi Cesare. Cesare, invece, che aveva inseguito l'avversario in Egitto, inorridì quando gli presentarono la testa di Pompeo. In Egitto Cesare si trovò nella necessità di arbitrare un'intricata disputa su problemi di successione e conferì il trono all'affascinante Cleopatra, con la quale ebbe un'intensa storia d'amore (ne nacque un figlio: Cesarione). Nel 45 - ormai padrone assoluto di Roma - fece solenne ingresso nell'Urbe, celebrando il suo quinto trionfo. Da quel momento in poi Cesare detenne il potere come un sovrano assoluto, ma con l'accortezza di esercitarlo nell'ambito dell'ordinamento repubblicano. Infatti, si guardò bene dall'attribuirsi nuovi titoli, facendosi invece concedere e concentrando nelle proprie mani i poteri che, normalmente, erano divisi tra diversi magistrati. Ottenne pertanto un potere di fatto dittatoriale (prima a tempo determinato e poi, forse dal 45 a.C., a vita), cui associò come magister equitum l'emergente Marco Antonio. Non meno importanti furono la progressiva detenzione delle prerogative dei tribuni della plebe, dei quali Cesare assunse il diritto di veto e l'inviolabilità personale, e l'attribuzione del titolo permanente di imperator (comandante generale delle forze armate) nel 45 a.C.
Infine, alla sua persona furono attribuiti onori straordinari, quali la facoltà di portare in permanenza l'abito del trionfatore (la porpora e l'alloro), di sedere su un trono aureo e di coniare monete con la sua effigie. Inoltre, al quinto mese dell'antico anno venne dato il suo nome (luglio = Giulio) e nel tempio di Quirino gli fu eretta una statua: sembra che Cesare vi fosse venerato come un dio sotto il nome di Jupiter- Iulius.
Nel periodo che va dal 47 al 44 a.C. Cesare attuò varie riforme, molte delle quali contenevano gli elementi cardine del futuro principato, tra cui la diminuzione del potere del senato e dei comizi. Dal punto di vista economico promosse alcune riforme a favore dei lavoratori agricoli liberi, riducendo il numero di schiavi e fondando colonie a Cartagine e a Corinto; promosse numerose opere pubbliche e la bonifica delle paludi pontine; introdusse inoltre la riforma del calendario, secondo il corso del sole e non più secondo le fasi della luna.
I malumori contro un personaggio di così grandi capacità e ambizioni, in Roma, non si erano mai sopiti. Vi era, ad esempio, il timore che Cesare volesse trasferire a un successore i poteri acquisiti (aveva adottato Ottaviano, il futuro imperatore Augusto), e nel contempo si riteneva inevitabile, o per lo meno altamente probabile, una deriva monarchica dell'avventura umana e politica di Giulio Cesare. Per questo, negli ambienti più tradizionalisti e nostalgici dei vecchi ordinamenti repubblicani fu ordita una congiura contro di lui, guidata dai senatori Cassio e Bruto, che lo assassinarono il 15 marzo del 44 a.C. (passate alla storia come le "Idi di marzo").
Tra gli innumerevoli ritratti che di lui ci sono stati conservati, due sono particolarmente significativi, ossia quello relativo al suo aspetto fisico, tracciato da Svetonio (nelle "Vite dei Cesari"), e quello morale, tracciato dal suo grande avversario Cicerone in un passo della seconda "Filippica". Ecco quello di Svetonio: "Cesare era di alta statura, aveva una carnagione chiara, florida salute[...] Nella cura del corpo fu alquanto meticoloso al punto che non solo si tagliava i capelli e si radeva con diligenza, ma addirittura si depilava, cosa che alcuni gli rimproveravano. Sopportava malissimo il difetto della calvizie per la quale spesso fu offeso e deriso. Per questo si era abituato a tirare giù dalla cima del capo i pochi capelli[...] Dicono che fosse ricercato anche nel vestire: usava infatti un laticlavio frangiato fino alle mani e si cingeva sempre al di sopra di esso con una cintura assai lenta". Non meno incisivo quello di Cicerone: " Egli ebbe ingegno, equilibrio, memoria, cultura, attività, prontezza, diligenza. In guerra aveva compiuto gesta grandi, anche se fatali per lo stato. Non aveva avuto per molti anni altra ambizione che il potere, e con grandi fatiche e pericoli l'aveva realizzata. La moltitudine ignorante se l'era conquistata coi doni, le costruzioni, le elargizioni di viveri e banchetti. I suoi li aveva acquistati con premi, gli avversari con manifestazioni di clemenza, insomma aveva dato ad una città, ch'era stata libera, l'abitudine di servire, in parte per timore, in parte per rassegnazione".
Caio Giulio Cesare nacque a Roma nel 100 a.C. Faceva parte dell'antichissima e nobile "gens Julia", discendente da Julo, figlio di Enea e, secondo il mito, a sua volta figlio della dea Venere.
Era anche legato al ceto plebeo, in quanto sua zia Giulia aveva sposato Caio Mario.
Finiti gli studi, verso i sedici anni, partì con Marco Termo verso l'Asia, dove era in corso una guerra. In Oriente conobbe Nicomede, re di Bitinia, dove si fermò per quasi due anni.
Tornato a Roma diciottenne, Cesare sposò, per volere del padre, Cossuzia, ma alla morte di questi, la rinnegò per prendere in moglie la bella Cornelia, figlia di Cinna, luogotenente di Mario, scatenando così l'ira del potente dittatore Silla, che per altro aveva intuito le qualità del giovane. Le disposizioni del tiranno prevedevano che Cesare ripudiasse la moglie Cornelia, in quanto figlia di uno dei capi del partito democratico. Cesare si rifiutò: la cosa gli costò la condanna a morte e la confisca della dote della moglie; la condanna in seguito, su intervento di amici comuni, fu mutata in esilio.
Esiliato appunto in Oriente, vi fece importanti esperienze militari, per terra e per mare. Rientrato nuovamente a Roma nel 69, intraprese il cosiddetto "cursus honorum": venne eletto alla carica di questore, grazie ai voti acquistati con il danaro prestatogli da Crasso. La carica gli fruttò il governatorato e un comando militare in Spagna, dove per un po' di tempo fronteggiò i ribelli, tornando poi in Patria con la fama di ottimo soldato e amministratore. Tre anni dopo fu nominato propretore in Spagna ma, pieno di debiti, poté partire solo dopo aver saldato tutti i contenziosi, cosa che fece grazie ad un prestito del solito Crasso. Divenne inoltre Pontefice Massimo nel 63 e pretore nel 62.
In Spagna sottomise quasi del tutto gli iberici, riportò un bottino enorme e il senato gli concesse il trionfo, a causa del quale Cesare doveva ritardare il ritorno a Roma. In questo modo gli veniva impedito di presentare la sua candidatura al consolato, infatti la candidatura non poteva essere presentata in assenza del candidato. Cesare andò ugualmente a Roma, lasciando l' esercito fuori dalla città.
Qui, strinse accordi di alleanza con il suo finanziatore Crasso e con Pompeo, in quel momento politicamente isolato: si formò allora un patto a tre, di carattere privato, consolidato da un solenne giuramento di reciproca lealtà , che aveva come fine, attraverso una opportuna distribuzione di compiti, la completa conquista del potere (luglio del 60). Il patto è conosciuto con il nome di "Primo Triumvirato".Nel frattempo, i legami con Pompeo erano stati stretti attraverso il matrimonio di quest' ultimo con Giulia, figlia di Cesare. Per l' anno 58, alla fine del suo mandato, Cesare fece eleggere come suoi successori Gabinio e Pisone; del secondo sposò la figlia Calpurnia, in quanto aveva divorziato dalla terza moglie, Pompea, a seguito di uno scandalo in cui era rimasta coinvolta. Nello stesso periodo chiese e ottenne il consolato della Gallia.
Cesare aveva scelto le Gallie a ragion veduta: egli sapeva di aver bisogno, per poter aspirare al supremo potere, di compiere gesta militari di grande importanza e, soprattutto, di forte impatto. Le Gallie, da questo punto di vista, gli avrebbero appunto offerto l'occasione di conquistare territori ricchi di risorse naturali e di sottomettere un popolo ben noto per le proprie virtù militari e, per questo, molto temuto.
I fatti confermarono pienamente i calcoli di Cesare. Anzi, riuscì ad ottenere risultati che andavano al di là di quanto egli stesso avrebbe mai osato sperare. Le vicende belliche gli offrirono oltretutto l'occasione di costituire un fedelissimo esercito personale e di assicurarsi fama imperitura e favolose ricchezze. Fu in particolare la fase finale del conflitto, quando dovette domare una ribellione capeggiata dal principe Vercingetorige, a mettere in risalto le straordinarie capacità militari di Cesare, che riuscì a sbaragliare il nemico nel proprio territorio e a fronte di perdite ridotte al minimo per i romani.
La campagna militare, cominciata nel 58 a.C. e conclusa nel 51 a.C., fu minuziosamente - e magnificamente - narrata dallo stesso Cesare nei suoi Commentari (il celebre "De bello gallico").
Morto Crasso, sconfitto e ucciso a Carre (53 a.C.) nel corso di una spedizione contro i parti, il triumvirato si sciolse. Pompeo, rimasto solo in Italia, assunse pieni poteri con l'insolito titolo di "console senza collega" (52 a.C.). All'inizio del 49 a.C., Cesare rifiutò di obbedire agli ordini di Pompeo, che pretendeva, con l'appoggio del senato, che egli rinunciasse al proprio esercito e rientrasse in Roma come un semplice cittadino. In realtà Cesare rispose chiedendo a sua volta che anche Pompeo rinunciasse contemporaneamente ai propri poteri, o, in alternativa, che gli fossero lasciate provincia e truppe fino alla riunione dei comizi, davanti ai quali egli avrebbe presentato per la seconda volta la sua candidatura al consolato. Ma le proposte di Cesare caddero nel vuoto: prese allora la difficile decisione di attraversare in armi il Rubicone, fiume che delimitava allora l'area geografica che doveva essere interdetta alle legioni (fu in questa occasione che pronunciò la famosa frase: "Alea iacta est", ovvero "il dado è tratto"). Era la guerra civile, che sarebbe durata dal 49 al 45. Anch'essa fu molto ben raccontata da Cesare, con la consueta chiarezza ed efficacia, nel "De bello civili" Varcato dunque il Rubicone, Cesare marciò su Roma. Il senato, terrorizzato, si affrettò a proclamarlo dittatore, carica che mantenne fino all'anno seguente, quando gli fu affidato il consolato. Pompeo, indeciso sul da farsi, si rifugiò in Albania. Fu sconfitto a Farsalo, nel 48 a.C., in una battaglia che probabilmente è il capolavoro militare di Cesare: quest'ultimo, con un esercito di ventiduemila fanti e mille cavalieri, tenne testa vittoriosamente ai cinquantamila fanti e ai settemila cavalieri schierati da Pompeo, perse soltanto duecento uomini, ne uccise quindicimila e ne catturò ventimila.
Pompeo fuggì in Egitto, dove venne assassinato dagli uomini di Tolomeo XIV, il quale credeva in tal modo di ingraziarsi Cesare. Cesare, invece, che aveva inseguito l'avversario in Egitto, inorridì quando gli presentarono la testa di Pompeo. In Egitto Cesare si trovò nella necessità di arbitrare un'intricata disputa su problemi di successione e conferì il trono all'affascinante Cleopatra, con la quale ebbe un'intensa storia d'amore (ne nacque un figlio: Cesarione). Nel 45 - ormai padrone assoluto di Roma - fece solenne ingresso nell'Urbe, celebrando il suo quinto trionfo. Da quel momento in poi Cesare detenne il potere come un sovrano assoluto, ma con l'accortezza di esercitarlo nell'ambito dell'ordinamento repubblicano. Infatti, si guardò bene dall'attribuirsi nuovi titoli, facendosi invece concedere e concentrando nelle proprie mani i poteri che, normalmente, erano divisi tra diversi magistrati. Ottenne pertanto un potere di fatto dittatoriale (prima a tempo determinato e poi, forse dal 45 a.C., a vita), cui associò come magister equitum l'emergente Marco Antonio. Non meno importanti furono la progressiva detenzione delle prerogative dei tribuni della plebe, dei quali Cesare assunse il diritto di veto e l'inviolabilità personale, e l'attribuzione del titolo permanente di imperator (comandante generale delle forze armate) nel 45 a.C.
Infine, alla sua persona furono attribuiti onori straordinari, quali la facoltà di portare in permanenza l'abito del trionfatore (la porpora e l'alloro), di sedere su un trono aureo e di coniare monete con la sua effigie. Inoltre, al quinto mese dell'antico anno venne dato il suo nome (luglio = Giulio) e nel tempio di Quirino gli fu eretta una statua: sembra che Cesare vi fosse venerato come un dio sotto il nome di Jupiter- Iulius.
Nel periodo che va dal 47 al 44 a.C. Cesare attuò varie riforme, molte delle quali contenevano gli elementi cardine del futuro principato, tra cui la diminuzione del potere del senato e dei comizi. Dal punto di vista economico promosse alcune riforme a favore dei lavoratori agricoli liberi, riducendo il numero di schiavi e fondando colonie a Cartagine e a Corinto; promosse numerose opere pubbliche e la bonifica delle paludi pontine; introdusse inoltre la riforma del calendario, secondo il corso del sole e non più secondo le fasi della luna.
I malumori contro un personaggio di così grandi capacità e ambizioni, in Roma, non si erano mai sopiti. Vi era, ad esempio, il timore che Cesare volesse trasferire a un successore i poteri acquisiti (aveva adottato Ottaviano, il futuro imperatore Augusto), e nel contempo si riteneva inevitabile, o per lo meno altamente probabile, una deriva monarchica dell'avventura umana e politica di Giulio Cesare. Per questo, negli ambienti più tradizionalisti e nostalgici dei vecchi ordinamenti repubblicani fu ordita una congiura contro di lui, guidata dai senatori Cassio e Bruto, che lo assassinarono il 15 marzo del 44 a.C. (passate alla storia come le "Idi di marzo").
Tra gli innumerevoli ritratti che di lui ci sono stati conservati, due sono particolarmente significativi, ossia quello relativo al suo aspetto fisico, tracciato da Svetonio (nelle "Vite dei Cesari"), e quello morale, tracciato dal suo grande avversario Cicerone in un passo della seconda "Filippica". Ecco quello di Svetonio: "Cesare era di alta statura, aveva una carnagione chiara, florida salute[...] Nella cura del corpo fu alquanto meticoloso al punto che non solo si tagliava i capelli e si radeva con diligenza, ma addirittura si depilava, cosa che alcuni gli rimproveravano. Sopportava malissimo il difetto della calvizie per la quale spesso fu offeso e deriso. Per questo si era abituato a tirare giù dalla cima del capo i pochi capelli[...] Dicono che fosse ricercato anche nel vestire: usava infatti un laticlavio frangiato fino alle mani e si cingeva sempre al di sopra di esso con una cintura assai lenta". Non meno incisivo quello di Cicerone: " Egli ebbe ingegno, equilibrio, memoria, cultura, attività, prontezza, diligenza. In guerra aveva compiuto gesta grandi, anche se fatali per lo stato. Non aveva avuto per molti anni altra ambizione che il potere, e con grandi fatiche e pericoli l'aveva realizzata. La moltitudine ignorante se l'era conquistata coi doni, le costruzioni, le elargizioni di viveri e banchetti. I suoi li aveva acquistati con premi, gli avversari con manifestazioni di clemenza, insomma aveva dato ad una città, ch'era stata libera, l'abitudine di servire, in parte per timore, in parte per rassegnazione".
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Re: Grandi personaggi della storia
Leonardo Da vinci
E' sabato 15 aprile 1452, quando nel borgo di Vinci, situato tra Empoli e Pistoia, nasce Leonardo. Il padre è Ser Piero D'Antonio, notaio, la madre una donna di Anchiano, che andrà sposa ad un contadino, lasciando il figlio al padre naturale. Nonostante Leonardo sia figlio illegittimo, Ser Piero lo accoglie nella sua casa al pari di un figlio riconosciuto e lo educa con affetto.
Quando Leonardo ha sedici anni, Antonio, il padre di Ser Piero, muore e la famiglia si trasferisce a Firenze. Leonardo offre già segni delle sue straordinarie capacià ed è per questo che il padre lo manda a bottega da Andrea Verrocchio, il miglior pittore del tempo, ottimo maestro affermato anche come scultore ed orafo. L'attività di Leonardo presso il Verrocchio non è ben chiara, sembra che egli abbia collaborato alla tavola del "Battesimo di Cristo" per San Salvi a Firenze.
E' il 1472 quando Leonardo, a vent'anni, risulta iscritto come maestro nella Compagnia dei Pittori. E', dunque, certo che non fosse più apprendista del Verrocchio, per quanto non avesse ancora lasciato la bottega. Le sue straordinarie doti artistiche si ravvisano subito: la curiosità che lo rende genio senza pari, la dimestichezza nello spaziare attraverso tutte le discipline, le sue cognizioni scientifiche e il desiderio di apprenderne sempre di più si manifestano già in giovane età.
La sua prima opera, datata 1473, è un disegno con una Veduta della Val d'Arno. Nello stesso periodo, dipinge il ritratto della nobildonna Ginevra de' Benci, la "Madonna del garofano" (1474-1478 ) e l'"Annunciazione" degli Uffizi.
Nel 1480 entra a far parte dell'Accademia del Giardino di San Marco, patrocinata da Lorenzo il Magnifico. Lo stesso anno gli viene commissionata l'"Adorazione dei Magi" per la chiesa di San Giovanni Scopeto, fuori Firenze. La città di Firenze comincia a rivelarsi luogo troppo ristretto, artisticamente, per le ambizioni di Leonardo. Alla notizia che il suo nome non è tra i quattro coinvolti nella realizzazione della Cappella Sistina a Roma, Leonardo decide di partire per altre mete.
E' sabato 15 aprile 1452, quando nel borgo di Vinci, situato tra Empoli e Pistoia, nasce Leonardo. Il padre è Ser Piero D'Antonio, notaio, la madre una donna di Anchiano, che andrà sposa ad un contadino, lasciando il figlio al padre naturale. Nonostante Leonardo sia figlio illegittimo, Ser Piero lo accoglie nella sua casa al pari di un figlio riconosciuto e lo educa con affetto.
Quando Leonardo ha sedici anni, Antonio, il padre di Ser Piero, muore e la famiglia si trasferisce a Firenze. Leonardo offre già segni delle sue straordinarie capacià ed è per questo che il padre lo manda a bottega da Andrea Verrocchio, il miglior pittore del tempo, ottimo maestro affermato anche come scultore ed orafo. L'attività di Leonardo presso il Verrocchio non è ben chiara, sembra che egli abbia collaborato alla tavola del "Battesimo di Cristo" per San Salvi a Firenze.
E' il 1472 quando Leonardo, a vent'anni, risulta iscritto come maestro nella Compagnia dei Pittori. E', dunque, certo che non fosse più apprendista del Verrocchio, per quanto non avesse ancora lasciato la bottega. Le sue straordinarie doti artistiche si ravvisano subito: la curiosità che lo rende genio senza pari, la dimestichezza nello spaziare attraverso tutte le discipline, le sue cognizioni scientifiche e il desiderio di apprenderne sempre di più si manifestano già in giovane età.
La sua prima opera, datata 1473, è un disegno con una Veduta della Val d'Arno. Nello stesso periodo, dipinge il ritratto della nobildonna Ginevra de' Benci, la "Madonna del garofano" (1474-1478 ) e l'"Annunciazione" degli Uffizi.
Nel 1480 entra a far parte dell'Accademia del Giardino di San Marco, patrocinata da Lorenzo il Magnifico. Lo stesso anno gli viene commissionata l'"Adorazione dei Magi" per la chiesa di San Giovanni Scopeto, fuori Firenze. La città di Firenze comincia a rivelarsi luogo troppo ristretto, artisticamente, per le ambizioni di Leonardo. Alla notizia che il suo nome non è tra i quattro coinvolti nella realizzazione della Cappella Sistina a Roma, Leonardo decide di partire per altre mete.
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Re: Grandi personaggi della storia
Enrico Fermi
Enrico Fermi nasce il 29 settembre 1901 a Roma, figlio di Alberto, funzionario del Ministero dei Trasporti e Ida De Gattis, maestra. Fino ai tre anni di età risiede in campagna sotto lo stretto controllo di una balia, a sei anni inizia regolarmente la scuola elementare laica (fattore importante, in quanto non ha mai ricevuto educazione religiosa, comportando e supportando quindi l'agnosticismo che lo ha accompagnato per tutta la sua vita).
Profondamente addolorato dalla morte prematura del fratello Giulio, maggiore di un solo anno, con il quale aveva legato particolarmente, getta tutto il suo sconforto nei libri, canalizzando positivamente la rabbia per la perdita, tanto da terminare il liceo ginnasio "Umberto" con un anno di anticipo, avendo tempo anche per concentrarsi su approfonditi studi di matematica e fisica su testi da lui comprati o anche solo sfogliati presso il mercatino delle pulci di Campo de'Fiori.
Un collega del padre, l'ingegnere Adolfo Amidei, avendo a cuore il ragazzo, gli suggerisce di non iscriversi all'Università di Roma, bensì all'Università di Pisa, in particolare alla scuola Normale, presentandosi al concorso annuale che si tiene per potervi accedere: il tema "Caratteri distintivi dei suoni" viene affrontato da lui con estrema maestria, permettendogli di classificarsi primo in graduatoria.
Inizia quindi nel 1918 la frequentazione a Pisa, della durata di quattro anni: si laurea il 7 luglio del 1922, dimostrando anche una conoscenza linguistica non comune (oltre al latino e il greco, conosce infatti l'inglese, il francese ed il tedesco), che gli permette dopo poco di partire alla volta di Gottigen, alla scuola di Max Born, per migliorare le conoscenze di fisica quantistica; nel 1925, con pochi rimpianti, si sposta a Leida, in Olanda, ove ha modo di incontrare Albert Einstein.
A Roma ottiene per primo la cattedra di Fisica Teorica, creata per lui dal Prof. Corbino, direttore dell'Istituto di Fisica, il quale contemporaneamente compone un gruppo di studio ribattezzato in seguito "i ragazzi di Via Panisperna" (dalla sede dell'istituto), composto da Rasetti, Segré, Amaldi, Majorana, Trabacchi e Pontecorvo.Le argomentazioni principali degli studi ineriscono la spettroscopia, ottenendo risultati eccellenti, ma quasi tutti i membri di questo gruppo si sentono sempre più attratti dalla fisica nucleare, spostandosi sempre più frequentemente all'estero a studiare nei laboratori più innovativi. Fermi si concentra sullo studio del nucleo atomico, arrivando a formulare la teoria del decadimento beta, secondo la quale l'emissione di un fotone è data dalla transizione di un neutrone in un protone con la creazione di un elettrone e di un neutrino.
Questa teoria, introdotta al termine del 1933, trova subito conferma nella scoperta della radioattività da parte di Curie e Joliot, esposta nei primi mesi del 1934. Sulla base di questa scoperta, Fermi formula una nuova idea: utilizzare i neutroni come proiettili per evitare la repulsione coulombiana per poter produrre radioattività artificiale. Dopo alcuni tentativi infruttuosi, ottengono risultati positivi per 37 specie sulle 60 testate, scoprendo altresì che in caso di urti successivi, i neutroni prodotti da urti rallentati hanno un tasso di efficacia molto più elevata nella generazione di specie radioattive.
Tra il 1935 e il 1937 il gruppo si separa di nuovo per diverse assegnazioni di cattedre, a Roma rimangono solo Fermi e Amaldi: l'anno successivo ad Enrico Fermi viene conferito il premio Nobel, ma questa è l'unica nota felice dell'anno. Majorana scompare infatti in circostanze più o meno misteriose e a causa delle leggi razziali emanate dal regime fascista, il fisico romano è costretto ad emigrare, visto che sua moglie Laura è ebrea.
Fermi accetta la cattedra alla Columbia University, mentre il suo amico Segrè, scoprendo di essere stato licenziato a Roma, accetta la cattedra di fisica a Berkeley. Dopo l'arrivo alla Columbia, inizia a concentrarsi sugli esperimenti iniziali di Hahn e Strassman sulla fissione nucleare, e con l'aiuto di Dunning e Booth e progetta un primo piano per la costruzione della prima pila nucleare, ovvero il primo dispositivo ove produrre in modo controllato la reazione a catena. Enrico Fermi vede la realizzazione dei suoi sforzi il 2 dicembre del 1942, con l'entrata in funzione della prima centrale nucleare a Chicago; l'energia nucleare diviene così fonte di vita, ma allo stesso tempo anche uno strumento di guerra: il fisico aderisce infatti al progetto Manhattan allo scopo di creare il primo ordigno nucleare.
Dopo la guerra si dedica allo studio sulle particelle elementari e ad acceleratori di particelle, concentrandosi principalmente sui pioni e le sue interazioni con i protoni. Durante un suo periodo di permanenza in Italia, nell'estate del 1954, iniziano a manifestarsi i primi drammatici sintomi del cancro allo stomaco: questa malattia, allora ancora pressochè sconosciuta, lo debilita rapidamente portandolo alla morte il 29 novembre dello stesso anno a Chicago, negli Stati Uniti.
Enrico Fermi nasce il 29 settembre 1901 a Roma, figlio di Alberto, funzionario del Ministero dei Trasporti e Ida De Gattis, maestra. Fino ai tre anni di età risiede in campagna sotto lo stretto controllo di una balia, a sei anni inizia regolarmente la scuola elementare laica (fattore importante, in quanto non ha mai ricevuto educazione religiosa, comportando e supportando quindi l'agnosticismo che lo ha accompagnato per tutta la sua vita).
Profondamente addolorato dalla morte prematura del fratello Giulio, maggiore di un solo anno, con il quale aveva legato particolarmente, getta tutto il suo sconforto nei libri, canalizzando positivamente la rabbia per la perdita, tanto da terminare il liceo ginnasio "Umberto" con un anno di anticipo, avendo tempo anche per concentrarsi su approfonditi studi di matematica e fisica su testi da lui comprati o anche solo sfogliati presso il mercatino delle pulci di Campo de'Fiori.
Un collega del padre, l'ingegnere Adolfo Amidei, avendo a cuore il ragazzo, gli suggerisce di non iscriversi all'Università di Roma, bensì all'Università di Pisa, in particolare alla scuola Normale, presentandosi al concorso annuale che si tiene per potervi accedere: il tema "Caratteri distintivi dei suoni" viene affrontato da lui con estrema maestria, permettendogli di classificarsi primo in graduatoria.
Inizia quindi nel 1918 la frequentazione a Pisa, della durata di quattro anni: si laurea il 7 luglio del 1922, dimostrando anche una conoscenza linguistica non comune (oltre al latino e il greco, conosce infatti l'inglese, il francese ed il tedesco), che gli permette dopo poco di partire alla volta di Gottigen, alla scuola di Max Born, per migliorare le conoscenze di fisica quantistica; nel 1925, con pochi rimpianti, si sposta a Leida, in Olanda, ove ha modo di incontrare Albert Einstein.
A Roma ottiene per primo la cattedra di Fisica Teorica, creata per lui dal Prof. Corbino, direttore dell'Istituto di Fisica, il quale contemporaneamente compone un gruppo di studio ribattezzato in seguito "i ragazzi di Via Panisperna" (dalla sede dell'istituto), composto da Rasetti, Segré, Amaldi, Majorana, Trabacchi e Pontecorvo.Le argomentazioni principali degli studi ineriscono la spettroscopia, ottenendo risultati eccellenti, ma quasi tutti i membri di questo gruppo si sentono sempre più attratti dalla fisica nucleare, spostandosi sempre più frequentemente all'estero a studiare nei laboratori più innovativi. Fermi si concentra sullo studio del nucleo atomico, arrivando a formulare la teoria del decadimento beta, secondo la quale l'emissione di un fotone è data dalla transizione di un neutrone in un protone con la creazione di un elettrone e di un neutrino.
Questa teoria, introdotta al termine del 1933, trova subito conferma nella scoperta della radioattività da parte di Curie e Joliot, esposta nei primi mesi del 1934. Sulla base di questa scoperta, Fermi formula una nuova idea: utilizzare i neutroni come proiettili per evitare la repulsione coulombiana per poter produrre radioattività artificiale. Dopo alcuni tentativi infruttuosi, ottengono risultati positivi per 37 specie sulle 60 testate, scoprendo altresì che in caso di urti successivi, i neutroni prodotti da urti rallentati hanno un tasso di efficacia molto più elevata nella generazione di specie radioattive.
Tra il 1935 e il 1937 il gruppo si separa di nuovo per diverse assegnazioni di cattedre, a Roma rimangono solo Fermi e Amaldi: l'anno successivo ad Enrico Fermi viene conferito il premio Nobel, ma questa è l'unica nota felice dell'anno. Majorana scompare infatti in circostanze più o meno misteriose e a causa delle leggi razziali emanate dal regime fascista, il fisico romano è costretto ad emigrare, visto che sua moglie Laura è ebrea.
Fermi accetta la cattedra alla Columbia University, mentre il suo amico Segrè, scoprendo di essere stato licenziato a Roma, accetta la cattedra di fisica a Berkeley. Dopo l'arrivo alla Columbia, inizia a concentrarsi sugli esperimenti iniziali di Hahn e Strassman sulla fissione nucleare, e con l'aiuto di Dunning e Booth e progetta un primo piano per la costruzione della prima pila nucleare, ovvero il primo dispositivo ove produrre in modo controllato la reazione a catena. Enrico Fermi vede la realizzazione dei suoi sforzi il 2 dicembre del 1942, con l'entrata in funzione della prima centrale nucleare a Chicago; l'energia nucleare diviene così fonte di vita, ma allo stesso tempo anche uno strumento di guerra: il fisico aderisce infatti al progetto Manhattan allo scopo di creare il primo ordigno nucleare.
Dopo la guerra si dedica allo studio sulle particelle elementari e ad acceleratori di particelle, concentrandosi principalmente sui pioni e le sue interazioni con i protoni. Durante un suo periodo di permanenza in Italia, nell'estate del 1954, iniziano a manifestarsi i primi drammatici sintomi del cancro allo stomaco: questa malattia, allora ancora pressochè sconosciuta, lo debilita rapidamente portandolo alla morte il 29 novembre dello stesso anno a Chicago, negli Stati Uniti.
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Re: Grandi personaggi della storia
Giuseppe Verdi
Giuseppe Fortunino Francesco Verdi nasce il 10 ottobre 1813 a Roncole di Busseto, in provincia di Parma. Il padre, Carlo Verdi, è un oste, la madre invece svolge il lavoro della filatrice. Fin da bambino prende lezioni di musica dall'organista del paese, esercitandosi su una spinetta scordata regalatagli dal padre. Gli studi musicali proseguono in questo modo sconclusionato e poco ortodosso fino a quando Antonio Barezzi, commerciante e musicofilo di Busseto affezionato alla famiglia Verdi e al piccolo Giuseppe, lo accoglie in casa sua, pagandogli studi più regolari ed accademici.
Nel 1832 Verdi si trasferisce quindi a Milano e si presenta al Conservatorio, ma incredibilmente non viene ammesso per scorretta posizione della mano nel suonare e per raggiunti limiti di età. Poco dopo viene richiamato a Busseto a ricoprire l'incarico di maestro di musica del comune mentre, nel 1836, sposa la figlia di Barezzi, Margherita.
Nei due anni successivi nascono Virginia e Icilio. Intanto Verdi comincia a dare corpo alla sua vena compositiva, già decisamente orientata al teatro e all'Opera, anche se l'ambiente milanese, influenzato dalla dominazione austriaca, gli fa anche conoscere il repertorio dei classici viennesi, soprattutto quello del quartetto d'archi.
Nel 1839 esordisce alla Scala di Milano con "Oberto, conte di San Bonifacio" ottenendo un discreto successo, purtroppo offuscato dall'improvvisa morte, nel 1840, prima di Margherita, poi di Virginia e Icilio. Prostrato e affranto non si dà per vinto. Proprio in questo periodo scrive un'opera buffa "Un giorno di regno", che si rivela però un fiasco. Amareggiato, Verdi pensa di abbandonare per sempre la musica, ma solo due anni più tardi, nel 1942, il suo "Nabucco" ottiene alla Scala un incredibile successo, anche grazie all'interpretazione di una stella della lirica del tempo, il soprano Giuseppina Strepponi.Iniziano quelli che Verdi chiamerà "gli anni di galera", ossia anni contrassegnati da un lavoro durissimo e indefesso a causa delle continue richieste e del sempre poco tempo a disposizione per soddisfarle. Dal 1842 al 1848 compone a ritmi serratissimi. I titoli che sforna vanno da "I Lombardi alla prima crociata" a "Ernani", da "I due foscari" a "Macbeth", passando per "I Masnadieri" e "Luisa Miller". Sempre in questo periodo, fra l'altro, prende corpo la sua relazione con Giuseppina Strepponi.
Nel 1848 si trasferisce a Parigi iniziando una convivenza alla luce del sole con la Strepponi. La vena creativa è sempre vigile e feconda, tanto che dal 1851 al 1853 compone la celeberrima "Trilogia popolare", notissima per i tre fondamentali titoli ivi contenuti, ossia "Rigoletto", "Trovatore" e "Traviata" (a cui si aggiungono spesso e volentieri anche "I vespri siciliani").
Il successo di queste opere è clamoroso.
Conquistata la giusta fama si trasferisce con la Strepponi nel podere di Sant'Agata, frazione di Villanova sull'Arda (in provincia di Piacenza), dove vivrà gran parte del tempo.
Nel 1857 va in scena "Simon Boccanegra" e nel 1859 viene rappresentato "Un ballo in maschera". Nello stesso anno sposa finalmente la sua compagna. Alla sua vita artistica si aggiunge dal 1861 anche l'impegno politico. Viene eletto deputato del primo Parlamento italiano e nel 1874 è nominato senatore. In questi anni compone "La forza del destino", "Aida" e la "Messa da requiem", scritta e pensata come celebrazione per la morte di Alessandro Manzoni. Nel 1887, all'incredibile età di ottant'anni, dà vita all'"Otello", confrontandosi ancora una volta con Shakespeare; nel 1893 con l'opera buffa "Falstaff", altro unico e assoluto capolavoro, dà addio al teatro e si ritira a Sant'Agata. Giuseppina muore nel 1897.
Giuseppe Verdi muore il 27 gennaio 1901 presso il Grand Hotel et De Milan, in un appartamento dove era solito alloggiare durante l'inverno. Colto da malore spira dopo sei giorni di agonia. I suoi funerali si svolgono come aveva chiesto, senza sfarzo né musica, semplici come la sua vita era sempre stata.
Giuseppe Fortunino Francesco Verdi nasce il 10 ottobre 1813 a Roncole di Busseto, in provincia di Parma. Il padre, Carlo Verdi, è un oste, la madre invece svolge il lavoro della filatrice. Fin da bambino prende lezioni di musica dall'organista del paese, esercitandosi su una spinetta scordata regalatagli dal padre. Gli studi musicali proseguono in questo modo sconclusionato e poco ortodosso fino a quando Antonio Barezzi, commerciante e musicofilo di Busseto affezionato alla famiglia Verdi e al piccolo Giuseppe, lo accoglie in casa sua, pagandogli studi più regolari ed accademici.
Nel 1832 Verdi si trasferisce quindi a Milano e si presenta al Conservatorio, ma incredibilmente non viene ammesso per scorretta posizione della mano nel suonare e per raggiunti limiti di età. Poco dopo viene richiamato a Busseto a ricoprire l'incarico di maestro di musica del comune mentre, nel 1836, sposa la figlia di Barezzi, Margherita.
Nei due anni successivi nascono Virginia e Icilio. Intanto Verdi comincia a dare corpo alla sua vena compositiva, già decisamente orientata al teatro e all'Opera, anche se l'ambiente milanese, influenzato dalla dominazione austriaca, gli fa anche conoscere il repertorio dei classici viennesi, soprattutto quello del quartetto d'archi.
Nel 1839 esordisce alla Scala di Milano con "Oberto, conte di San Bonifacio" ottenendo un discreto successo, purtroppo offuscato dall'improvvisa morte, nel 1840, prima di Margherita, poi di Virginia e Icilio. Prostrato e affranto non si dà per vinto. Proprio in questo periodo scrive un'opera buffa "Un giorno di regno", che si rivela però un fiasco. Amareggiato, Verdi pensa di abbandonare per sempre la musica, ma solo due anni più tardi, nel 1942, il suo "Nabucco" ottiene alla Scala un incredibile successo, anche grazie all'interpretazione di una stella della lirica del tempo, il soprano Giuseppina Strepponi.Iniziano quelli che Verdi chiamerà "gli anni di galera", ossia anni contrassegnati da un lavoro durissimo e indefesso a causa delle continue richieste e del sempre poco tempo a disposizione per soddisfarle. Dal 1842 al 1848 compone a ritmi serratissimi. I titoli che sforna vanno da "I Lombardi alla prima crociata" a "Ernani", da "I due foscari" a "Macbeth", passando per "I Masnadieri" e "Luisa Miller". Sempre in questo periodo, fra l'altro, prende corpo la sua relazione con Giuseppina Strepponi.
Nel 1848 si trasferisce a Parigi iniziando una convivenza alla luce del sole con la Strepponi. La vena creativa è sempre vigile e feconda, tanto che dal 1851 al 1853 compone la celeberrima "Trilogia popolare", notissima per i tre fondamentali titoli ivi contenuti, ossia "Rigoletto", "Trovatore" e "Traviata" (a cui si aggiungono spesso e volentieri anche "I vespri siciliani").
Il successo di queste opere è clamoroso.
Conquistata la giusta fama si trasferisce con la Strepponi nel podere di Sant'Agata, frazione di Villanova sull'Arda (in provincia di Piacenza), dove vivrà gran parte del tempo.
Nel 1857 va in scena "Simon Boccanegra" e nel 1859 viene rappresentato "Un ballo in maschera". Nello stesso anno sposa finalmente la sua compagna. Alla sua vita artistica si aggiunge dal 1861 anche l'impegno politico. Viene eletto deputato del primo Parlamento italiano e nel 1874 è nominato senatore. In questi anni compone "La forza del destino", "Aida" e la "Messa da requiem", scritta e pensata come celebrazione per la morte di Alessandro Manzoni. Nel 1887, all'incredibile età di ottant'anni, dà vita all'"Otello", confrontandosi ancora una volta con Shakespeare; nel 1893 con l'opera buffa "Falstaff", altro unico e assoluto capolavoro, dà addio al teatro e si ritira a Sant'Agata. Giuseppina muore nel 1897.
Giuseppe Verdi muore il 27 gennaio 1901 presso il Grand Hotel et De Milan, in un appartamento dove era solito alloggiare durante l'inverno. Colto da malore spira dopo sei giorni di agonia. I suoi funerali si svolgono come aveva chiesto, senza sfarzo né musica, semplici come la sua vita era sempre stata.
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Re: Grandi personaggi della storia
Galileo Galilei
Nato a Pisa il 15 febbraio 1564 da genitori appartenenti a quella che oggi chiameremmo media borghesia (il padre è il musicista Vincenzo Galilei, la madre Giulia degli Ammannati), Galileo compie i primi studi di letteratura e logica a Firenze dove si trasferisce con la famiglia nel 1574. Nel 1581 per volere del padre si iscrive alla facoltà di medicina dell'Università di Pisa, ma per questa disciplina non mostrerà un vero interesse. Lasciata dunque l'università pisana fa armi e bagagli e ritorna a Firenze.
Qui sviluppa una passione per la meccanica cominciando a costruire macchine sempre più sofisticate, approfondendo la matematica e compiendo osservazioni di fisica con la guida di Ostilio Ricci.
Col passare del tempo formula alcuni teoremi di geometria e meccanica. Dallo studio di Archimede nel 1586 scopre la "bilancetta" per determinare il peso specifico dei corpi (la celebre bilancia idrostatica). Nel 1589 ottiene la cattedra di matematica all'Università di Pisa che manterrà fino al 1592; nel 1591 il padre Vincenzo muore lasciandolo alla guida della famiglia; in questo periodo si interessa al movimento dei corpi in caduta e scrive il "De Motu".
Nel 1593 Galileo viene chiamato a Padova dove la locale Università gli offre una prestigiosa cattedra di matematica, geometria e astronomia. Galileo accetta con entusiasmo e che vi rimarrà fino al 1610.
Intanto nel 1599 conosce Marina Gamba, che gli darà tre figli: Maria Celeste, Arcangela e Vincenzio. E' in questo periodo che comincia ad orientarsi verso la teoria copernicana del moto planetario, avvalorata dalle osservazioni effettuate con un nuovo strumento costruito in Olanda: il telescopio. Galileo apporterà poi significativi miglioramenti allo strumento.
Nel 1609 pubblicava la sua "Nuova astronomia", che contiene le prime due leggi del moto planetario. A Padova con il nuovo strumento Galileo compie una serie di osservazioni della luna nel dicembre 1609; è il 7 gennaio 1610 quando osserva delle "piccole stelle" luminose vicine a Giove. Nel marzo 1610 rivela nel "Sidereus Nuncius" che si tratta di quattro satelliti di Giove che battezzerà "Astri Medicei" in onore di Cosimo II de' Medici, Gran Duca di Toscana.
Soltanto in seguito, su suggerimento di Keplero, i satelliti prenderanno i nomi con i quali sono conosciuti oggi: Europa, Io, Ganimede e Callisto. La scoperta di un centro del moto che non fosse la Terra comincia a minare alla base la teoria tolemaica del cosmo. Le teorie astronomiche di Galileo Galilei vengono ben presto ritenute incompatibili con le verità rivelate dalla Bibbia e dalla tradizione aristotelica.
Una prima conseguenza è un'ammonizione formale del cardinale Bellarmino. Galileo dopotutto non fa altro che confermare la teoria copernicana, teoria già conosciuta da tempo. L'Inquisizione ecclesiastica non sente ragioni, bolla come eretico questo impianto cosmologico e proibisce formalmente a Galileo di appoggiare tali teorie. Come se non bastasse il testo "De Revolutionibus Orbium Coelestium" di Copernico viene messo all'indice.
Nell'aprile del 1630 Galileo, si intimidito ma non a sufficienza per interrompere la sua straordinaria esplorazione scientifica, termina di scrivere il "Dialogo sui due Massimi Sistemi del Mondo", nel quale le teorie copernicana e tolemaica vengono messe dialetticamente a confronto, per poi naturalmente dimostrare la superiorità delle nuove acquisizioni scientifiche.
Concorda anche con il Vaticano alcune modifiche per poter far stampare l'opera, ma decide poi di farla stampare a Firenze, nel 1632.
Arrivata nelle mani di Papa Urbano VIII, costui ne proibisce la distribuzione e fa istituire dall'Inquisizione un processo contro Galileo.
Lo scienziato, ormai anziano e malato, viene chiamato a Roma e processato (1633). Imprigionato e minacciato di tortura, Galileo viene costretto ad abiurare pubblicamente (umiliato indossava un rozzo sacco) e condannato alla prigione a vita. Si dice che nell'occasione Galileo mormorasse fra i denti "Eppur si muove".
La pena venne poi commutata a quelli che oggi chiameremmo "arresti domiciliari": gli viene concesso di scontare la pena nella sua villa di Arcetri, vicino a Firenze, carcere ed esilio fino alla morte. Questo colossale scienziato e pensatore a cui si devono i mattoni fondamentali del progresso scientifico così come lo conosciamo oggi, morì a Firenze il giorno 8 gennaio 1642, circondato da pochi allievi e nella quasi totale cecità.
A Galilei si deve la legge del pendolo (il tempo delle oscillazioni è costantemente uguale, qualunque sia la loro ampiezza): chi si reca nella Cattedrale di Pisa può ancora oggi ammirare, sospesa alla volta altissima del tempio, la lampada che con le sue oscillazioni ispirò al giovane Galilei proprio l'invenzione del pendolo come regolatore di un movimento meccanico. Galileo Galilei è sepolto a Firenze, in Santa Croce, nel mausoleo dei sommi italiani. Trecentocinquanta anni dopo la sua morte (1992) la Chiesa ha riconosciuto formalmente la grandezza di Galileo Galilei, "riabilitandolo" e assolvendolo dall'accusa di eresia.
Nato a Pisa il 15 febbraio 1564 da genitori appartenenti a quella che oggi chiameremmo media borghesia (il padre è il musicista Vincenzo Galilei, la madre Giulia degli Ammannati), Galileo compie i primi studi di letteratura e logica a Firenze dove si trasferisce con la famiglia nel 1574. Nel 1581 per volere del padre si iscrive alla facoltà di medicina dell'Università di Pisa, ma per questa disciplina non mostrerà un vero interesse. Lasciata dunque l'università pisana fa armi e bagagli e ritorna a Firenze.
Qui sviluppa una passione per la meccanica cominciando a costruire macchine sempre più sofisticate, approfondendo la matematica e compiendo osservazioni di fisica con la guida di Ostilio Ricci.
Col passare del tempo formula alcuni teoremi di geometria e meccanica. Dallo studio di Archimede nel 1586 scopre la "bilancetta" per determinare il peso specifico dei corpi (la celebre bilancia idrostatica). Nel 1589 ottiene la cattedra di matematica all'Università di Pisa che manterrà fino al 1592; nel 1591 il padre Vincenzo muore lasciandolo alla guida della famiglia; in questo periodo si interessa al movimento dei corpi in caduta e scrive il "De Motu".
Nel 1593 Galileo viene chiamato a Padova dove la locale Università gli offre una prestigiosa cattedra di matematica, geometria e astronomia. Galileo accetta con entusiasmo e che vi rimarrà fino al 1610.
Intanto nel 1599 conosce Marina Gamba, che gli darà tre figli: Maria Celeste, Arcangela e Vincenzio. E' in questo periodo che comincia ad orientarsi verso la teoria copernicana del moto planetario, avvalorata dalle osservazioni effettuate con un nuovo strumento costruito in Olanda: il telescopio. Galileo apporterà poi significativi miglioramenti allo strumento.
Nel 1609 pubblicava la sua "Nuova astronomia", che contiene le prime due leggi del moto planetario. A Padova con il nuovo strumento Galileo compie una serie di osservazioni della luna nel dicembre 1609; è il 7 gennaio 1610 quando osserva delle "piccole stelle" luminose vicine a Giove. Nel marzo 1610 rivela nel "Sidereus Nuncius" che si tratta di quattro satelliti di Giove che battezzerà "Astri Medicei" in onore di Cosimo II de' Medici, Gran Duca di Toscana.
Soltanto in seguito, su suggerimento di Keplero, i satelliti prenderanno i nomi con i quali sono conosciuti oggi: Europa, Io, Ganimede e Callisto. La scoperta di un centro del moto che non fosse la Terra comincia a minare alla base la teoria tolemaica del cosmo. Le teorie astronomiche di Galileo Galilei vengono ben presto ritenute incompatibili con le verità rivelate dalla Bibbia e dalla tradizione aristotelica.
Una prima conseguenza è un'ammonizione formale del cardinale Bellarmino. Galileo dopotutto non fa altro che confermare la teoria copernicana, teoria già conosciuta da tempo. L'Inquisizione ecclesiastica non sente ragioni, bolla come eretico questo impianto cosmologico e proibisce formalmente a Galileo di appoggiare tali teorie. Come se non bastasse il testo "De Revolutionibus Orbium Coelestium" di Copernico viene messo all'indice.
Nell'aprile del 1630 Galileo, si intimidito ma non a sufficienza per interrompere la sua straordinaria esplorazione scientifica, termina di scrivere il "Dialogo sui due Massimi Sistemi del Mondo", nel quale le teorie copernicana e tolemaica vengono messe dialetticamente a confronto, per poi naturalmente dimostrare la superiorità delle nuove acquisizioni scientifiche.
Concorda anche con il Vaticano alcune modifiche per poter far stampare l'opera, ma decide poi di farla stampare a Firenze, nel 1632.
Arrivata nelle mani di Papa Urbano VIII, costui ne proibisce la distribuzione e fa istituire dall'Inquisizione un processo contro Galileo.
Lo scienziato, ormai anziano e malato, viene chiamato a Roma e processato (1633). Imprigionato e minacciato di tortura, Galileo viene costretto ad abiurare pubblicamente (umiliato indossava un rozzo sacco) e condannato alla prigione a vita. Si dice che nell'occasione Galileo mormorasse fra i denti "Eppur si muove".
La pena venne poi commutata a quelli che oggi chiameremmo "arresti domiciliari": gli viene concesso di scontare la pena nella sua villa di Arcetri, vicino a Firenze, carcere ed esilio fino alla morte. Questo colossale scienziato e pensatore a cui si devono i mattoni fondamentali del progresso scientifico così come lo conosciamo oggi, morì a Firenze il giorno 8 gennaio 1642, circondato da pochi allievi e nella quasi totale cecità.
A Galilei si deve la legge del pendolo (il tempo delle oscillazioni è costantemente uguale, qualunque sia la loro ampiezza): chi si reca nella Cattedrale di Pisa può ancora oggi ammirare, sospesa alla volta altissima del tempio, la lampada che con le sue oscillazioni ispirò al giovane Galilei proprio l'invenzione del pendolo come regolatore di un movimento meccanico. Galileo Galilei è sepolto a Firenze, in Santa Croce, nel mausoleo dei sommi italiani. Trecentocinquanta anni dopo la sua morte (1992) la Chiesa ha riconosciuto formalmente la grandezza di Galileo Galilei, "riabilitandolo" e assolvendolo dall'accusa di eresia.
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Re: Grandi personaggi della storia
Giuseppe Garibaldi
Giuseppe Garibaldi nasce a Nizza il 4 luglio 1807. Carattere irrequieto e desideroso di avventura, già da giovanissimo si imbarca come marinaio per intraprendere la vita sul mare. Nel 1832, appena venticinquenne è capitano di un mercantile e nello stesso periodo inizia ad avvicinarsi ai movimenti patriottici europei ed italiani (come, ad esempio quello mazziniano della "Giovine Italia"), e ad abbracciarne gli ideali di libertà ed indipendenza. Nel 1836 sbarca a Rio de Janeiro e da qui inizia il periodo, che durerà fino al 1848, in cui si impegnerà in varie imprese di guerra in America Latina. Combatte in Brasile e in Uruguay ed accumula una grande esperienza nelle tattiche della guerriglia basate sul movimento e sulle azioni a sorpresa. Questa esperienza avrà un grande valore per la formazione di Giuseppe Garibaldi sia come condottiero di uomini sia come tattico imprevedibile.
Nel 1848 torna in Italia dove sono scoppiati i moti di indipendenza, che vedranno le celebri Cinque Giornate di Milano. Nel 1849 partecipa alla difesa della Repubblica Romana insieme a Mazzini, Pisacane, Mameli e Manara, ed è l'anima delle forze repubblicane durante i combattimenti contro i francesi alleati di Papa Pio IX. Purtroppo i repubblicani devono cedere alla preponderanza delle forze nemiche e Garibaldi il 2 Luglio 1849 deve abbandonare Roma.
Di qui, passando per vie pericolosissime lungo le quali perde molti compagni fedeli, tra i quali l'adorata moglie Anita, riesce a raggiungere il territorio del Regno di Sardegna.
Inizia quindi un periodo di vagabondaggio per il mondo, per lo più via mare, che lo porta infine nel 1857 a Caprera.
Garibaldi tuttavia non abbandona gli ideali unitari e nel 1858-1859 si incontra con Cavour e Vittorio Emanuele, che lo autorizzano a costituire un corpo di volontari, corpo che fu denominato "Cacciatori delle Alpi" e al cui comando fu posto lo stesso Garibaldi. alla Seconda Guerra di Indipendenza cogliendo vari successi ma l'armistizio di Villafranca interrompe le sue operazioni e dei suoi Cacciatori.
Nel 1860 Giuseppe Garibaldi è promotore e capo della spedizione dei Mille; salpa da Quarto(GE) il 6 maggio 1860 e sbarca a Marsala cinque giorni dopo. Da Marsala inizia la sua marcia trionfale; batte i Borboni a Calatafimi, giunge a Milazzo, prende Palermo, Messina, Siracusa e libera completamente la Sicilia. I1 19 agosto sbarca in Calabria e, muovendosi molto rapidamente, getta lo scompiglio nelle file borboniche, conquista Reggio, Cosenza, Salerno; il 7 settembre entra a Napoli, abbandonata dal re Francesco I ed infine sconfigge definitivamente i borbonici sul Volturno.
I1 26 ottobre Garibaldi si incontra a Vairano con Vittorio Emanuele e depone nelle sue mani i territori conquistati: si ritira quindi nuovamente a Caprera, sempre pronto per combattere per gli ideali nazionali.Biografia
Giuseppe Garibaldi nasce a Nizza il 4 luglio 1807. Carattere irrequieto e desideroso di avventura, già da giovanissimo si imbarca come marinaio per intraprendere la vita sul mare. Nel 1832, appena venticinquenne è capitano di un mercantile e nello stesso periodo inizia ad avvicinarsi ai movimenti patriottici europei ed italiani (come, ad esempio quello mazziniano della "Giovine Italia"), e ad abbracciarne gli ideali di libertà ed indipendenza. Nel 1836 sbarca a Rio de Janeiro e da qui inizia il periodo, che durerà fino al 1848, in cui si impegnerà in varie imprese di guerra in America Latina. Combatte in Brasile e in Uruguay ed accumula una grande esperienza nelle tattiche della guerriglia basate sul movimento e sulle azioni a sorpresa. Questa esperienza avrà un grande valore per la formazione di Giuseppe Garibaldi sia come condottiero di uomini sia come tattico imprevedibile.
Nel 1848 torna in Italia dove sono scoppiati i moti di indipendenza, che vedranno le celebri Cinque Giornate di Milano. Nel 1849 partecipa alla difesa della Repubblica Romana insieme a Mazzini, Pisacane, Mameli e Manara, ed è l'anima delle forze repubblicane durante i combattimenti contro i francesi alleati di Papa Pio IX. Purtroppo i repubblicani devono cedere alla preponderanza delle forze nemiche e Garibaldi il 2 Luglio 1849 deve abbandonare Roma.
Di qui, passando per vie pericolosissime lungo le quali perde molti compagni fedeli, tra i quali l'adorata moglie Anita, riesce a raggiungere il territorio del Regno di Sardegna.
Inizia quindi un periodo di vagabondaggio per il mondo, per lo più via mare, che lo porta infine nel 1857 a Caprera.
Garibaldi tuttavia non abbandona gli ideali unitari e nel 1858-1859 si incontra con Cavour e Vittorio Emanuele, che lo autorizzano a costituire un corpo di volontari, corpo che fu denominato "Cacciatori delle Alpi" e al cui comando fu posto lo stesso Garibaldi. alla Seconda Guerra di Indipendenza cogliendo vari successi ma l'armistizio di Villafranca interrompe le sue operazioni e dei suoi Cacciatori.
Nel 1860 Giuseppe Garibaldi è promotore e capo della spedizione dei Mille; salpa da Quarto(GE) il 6 maggio 1860 e sbarca a Marsala cinque giorni dopo. Da Marsala inizia la sua marcia trionfale; batte i Borboni a Calatafimi, giunge a Milazzo, prende Palermo, Messina, Siracusa e libera completamente la Sicilia. I1 19 agosto sbarca in Calabria e, muovendosi molto rapidamente, getta lo scompiglio nelle file borboniche, conquista Reggio, Cosenza, Salerno; il 7 settembre entra a Napoli, abbandonata dal re Francesco I ed infine sconfigge definitivamente i borbonici sul Volturno.
I1 26 ottobre Garibaldi si incontra a Vairano con Vittorio Emanuele e depone nelle sue mani i territori conquistati: si ritira quindi nuovamente a Caprera, sempre pronto per combattere per gli ideali nazionali.
Nel 1862 si mette alla testa di una spedizione di volontari al fine di liberare Roma dal governo papalino, ma l'impresa è osteggiata dai Piemontesi dai quali viene fermato il 29 agosto 1862 ad Aspromonte. Imprigionato e poi liberato ripara nuovamente su Caprera, pur rimanendo in contatto con i movimenti patriottici che agiscono in Europa. Nel 1866 partecipa alla Terza Guerra di Indipendenza al comando di Reparti Volontari. Opera nel Trentino e qui coglie la vittoria di Bezzecca (21 luglio 1866) ma, nonostante la situazione favorevole in cui si era posto nei confronti degli austriaci, Garibaldi deve sgomberare il territorio Trentino dietro ordine dei Piemontesi, al cui dispaccio risponde con quel "Obbedisco", rimasto famoso.
Nel 1867 è nuovamente a capo di una spedizione che mira alla liberazione di Roma, ma il tentativo fallisce con la sconfitta delle forze garibaldine a Mentana per mano dei Franco-Pontifici. Nel 1871 partecipa alla sua ultima impresa bellica combattendo per i francesi nella guerra Franco-Prussiana dove, sebbene riesca a cogliere alcuni successi, nulla può per evitare la sconfitta finale della Francia.
Torna infine a Caprera, dove passerà gli ultimi anni e dove si spegnerà il 2 giugno 1882.
Giuseppe Garibaldi nasce a Nizza il 4 luglio 1807. Carattere irrequieto e desideroso di avventura, già da giovanissimo si imbarca come marinaio per intraprendere la vita sul mare. Nel 1832, appena venticinquenne è capitano di un mercantile e nello stesso periodo inizia ad avvicinarsi ai movimenti patriottici europei ed italiani (come, ad esempio quello mazziniano della "Giovine Italia"), e ad abbracciarne gli ideali di libertà ed indipendenza. Nel 1836 sbarca a Rio de Janeiro e da qui inizia il periodo, che durerà fino al 1848, in cui si impegnerà in varie imprese di guerra in America Latina. Combatte in Brasile e in Uruguay ed accumula una grande esperienza nelle tattiche della guerriglia basate sul movimento e sulle azioni a sorpresa. Questa esperienza avrà un grande valore per la formazione di Giuseppe Garibaldi sia come condottiero di uomini sia come tattico imprevedibile.
Nel 1848 torna in Italia dove sono scoppiati i moti di indipendenza, che vedranno le celebri Cinque Giornate di Milano. Nel 1849 partecipa alla difesa della Repubblica Romana insieme a Mazzini, Pisacane, Mameli e Manara, ed è l'anima delle forze repubblicane durante i combattimenti contro i francesi alleati di Papa Pio IX. Purtroppo i repubblicani devono cedere alla preponderanza delle forze nemiche e Garibaldi il 2 Luglio 1849 deve abbandonare Roma.
Di qui, passando per vie pericolosissime lungo le quali perde molti compagni fedeli, tra i quali l'adorata moglie Anita, riesce a raggiungere il territorio del Regno di Sardegna.
Inizia quindi un periodo di vagabondaggio per il mondo, per lo più via mare, che lo porta infine nel 1857 a Caprera.
Garibaldi tuttavia non abbandona gli ideali unitari e nel 1858-1859 si incontra con Cavour e Vittorio Emanuele, che lo autorizzano a costituire un corpo di volontari, corpo che fu denominato "Cacciatori delle Alpi" e al cui comando fu posto lo stesso Garibaldi. alla Seconda Guerra di Indipendenza cogliendo vari successi ma l'armistizio di Villafranca interrompe le sue operazioni e dei suoi Cacciatori.
Nel 1860 Giuseppe Garibaldi è promotore e capo della spedizione dei Mille; salpa da Quarto(GE) il 6 maggio 1860 e sbarca a Marsala cinque giorni dopo. Da Marsala inizia la sua marcia trionfale; batte i Borboni a Calatafimi, giunge a Milazzo, prende Palermo, Messina, Siracusa e libera completamente la Sicilia. I1 19 agosto sbarca in Calabria e, muovendosi molto rapidamente, getta lo scompiglio nelle file borboniche, conquista Reggio, Cosenza, Salerno; il 7 settembre entra a Napoli, abbandonata dal re Francesco I ed infine sconfigge definitivamente i borbonici sul Volturno.
I1 26 ottobre Garibaldi si incontra a Vairano con Vittorio Emanuele e depone nelle sue mani i territori conquistati: si ritira quindi nuovamente a Caprera, sempre pronto per combattere per gli ideali nazionali.Biografia
Giuseppe Garibaldi nasce a Nizza il 4 luglio 1807. Carattere irrequieto e desideroso di avventura, già da giovanissimo si imbarca come marinaio per intraprendere la vita sul mare. Nel 1832, appena venticinquenne è capitano di un mercantile e nello stesso periodo inizia ad avvicinarsi ai movimenti patriottici europei ed italiani (come, ad esempio quello mazziniano della "Giovine Italia"), e ad abbracciarne gli ideali di libertà ed indipendenza. Nel 1836 sbarca a Rio de Janeiro e da qui inizia il periodo, che durerà fino al 1848, in cui si impegnerà in varie imprese di guerra in America Latina. Combatte in Brasile e in Uruguay ed accumula una grande esperienza nelle tattiche della guerriglia basate sul movimento e sulle azioni a sorpresa. Questa esperienza avrà un grande valore per la formazione di Giuseppe Garibaldi sia come condottiero di uomini sia come tattico imprevedibile.
Nel 1848 torna in Italia dove sono scoppiati i moti di indipendenza, che vedranno le celebri Cinque Giornate di Milano. Nel 1849 partecipa alla difesa della Repubblica Romana insieme a Mazzini, Pisacane, Mameli e Manara, ed è l'anima delle forze repubblicane durante i combattimenti contro i francesi alleati di Papa Pio IX. Purtroppo i repubblicani devono cedere alla preponderanza delle forze nemiche e Garibaldi il 2 Luglio 1849 deve abbandonare Roma.
Di qui, passando per vie pericolosissime lungo le quali perde molti compagni fedeli, tra i quali l'adorata moglie Anita, riesce a raggiungere il territorio del Regno di Sardegna.
Inizia quindi un periodo di vagabondaggio per il mondo, per lo più via mare, che lo porta infine nel 1857 a Caprera.
Garibaldi tuttavia non abbandona gli ideali unitari e nel 1858-1859 si incontra con Cavour e Vittorio Emanuele, che lo autorizzano a costituire un corpo di volontari, corpo che fu denominato "Cacciatori delle Alpi" e al cui comando fu posto lo stesso Garibaldi. alla Seconda Guerra di Indipendenza cogliendo vari successi ma l'armistizio di Villafranca interrompe le sue operazioni e dei suoi Cacciatori.
Nel 1860 Giuseppe Garibaldi è promotore e capo della spedizione dei Mille; salpa da Quarto(GE) il 6 maggio 1860 e sbarca a Marsala cinque giorni dopo. Da Marsala inizia la sua marcia trionfale; batte i Borboni a Calatafimi, giunge a Milazzo, prende Palermo, Messina, Siracusa e libera completamente la Sicilia. I1 19 agosto sbarca in Calabria e, muovendosi molto rapidamente, getta lo scompiglio nelle file borboniche, conquista Reggio, Cosenza, Salerno; il 7 settembre entra a Napoli, abbandonata dal re Francesco I ed infine sconfigge definitivamente i borbonici sul Volturno.
I1 26 ottobre Garibaldi si incontra a Vairano con Vittorio Emanuele e depone nelle sue mani i territori conquistati: si ritira quindi nuovamente a Caprera, sempre pronto per combattere per gli ideali nazionali.
Nel 1862 si mette alla testa di una spedizione di volontari al fine di liberare Roma dal governo papalino, ma l'impresa è osteggiata dai Piemontesi dai quali viene fermato il 29 agosto 1862 ad Aspromonte. Imprigionato e poi liberato ripara nuovamente su Caprera, pur rimanendo in contatto con i movimenti patriottici che agiscono in Europa. Nel 1866 partecipa alla Terza Guerra di Indipendenza al comando di Reparti Volontari. Opera nel Trentino e qui coglie la vittoria di Bezzecca (21 luglio 1866) ma, nonostante la situazione favorevole in cui si era posto nei confronti degli austriaci, Garibaldi deve sgomberare il territorio Trentino dietro ordine dei Piemontesi, al cui dispaccio risponde con quel "Obbedisco", rimasto famoso.
Nel 1867 è nuovamente a capo di una spedizione che mira alla liberazione di Roma, ma il tentativo fallisce con la sconfitta delle forze garibaldine a Mentana per mano dei Franco-Pontifici. Nel 1871 partecipa alla sua ultima impresa bellica combattendo per i francesi nella guerra Franco-Prussiana dove, sebbene riesca a cogliere alcuni successi, nulla può per evitare la sconfitta finale della Francia.
Torna infine a Caprera, dove passerà gli ultimi anni e dove si spegnerà il 2 giugno 1882.
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Re: Grandi personaggi della storia
Federico Fellini
Federico Fellini nasce a Rimini, 1920.
Di famiglia borghese, sin da giovane abile nel disegno, Fellini è a Roma già nel 1938, collaboratore di vari giornali satirici tra i quali il celebre "Marco Aurelio". Dal 1941, comincia un'intensa attività di soggettista e sceneggiatore: la sua firma appare nei titoli di pellicole di assoluto rilievo, da "Roma città aperta" (1945) a "Paisà" (1946), da "Senza pietà" (1948) ad "Europa '51" (1951). Debutta nella regia dirigendo assieme ad Alberto Lattuada "Luci del varietà" (1951), immalinconita ricognizione nell'universo dell'avanspettacolo. Nel successivo "Lo sceicco bianco" (1952), scritto con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, egli si allontana dalla tradizione neorealista, delineando personaggi sospesi tra il fantastico e l'ironico. L'anno dopo, "I vitelloni" gli frutta un Leone d'Oro a Venezia oltre che grande successo di pubblico e di critica: è un film di matrice autobiografica, ov'egli torna alla provincia delle proprie origini con un sentimento misto di nostalgia e repulsione. Gli anni seguenti sono costellati di successi: la limpida poesia de "La strada" (1954) gli fa vincere un meritato Oscar, ed un altro glielo procura l'intenso "Le notti di Cabiria" (1957): entrambi i capi d'opera si valgono delle magnifiche interpretazioni di sua moglie, Giulietta Masina.e "Il bidone" (1955) è poco più che una parentesi, ha caratura epocale "La dolce vita" (1959), che fotografa gli anni del boom e del dominio democristiano con impietosa esattezza: entra in scena Marcello Mastroianni, che diverrà l'attore preferito del cineasta-demiurgo. Preceduto dal graffiante segmento "Le tentazioni del dottor Antonio" (1961), il meraviglioso "8 e 1/2" (1963) gli garantisce un terzo Oscar ed è considerato da molti il suo esito più elevato. Meno riusciti risulteranno la ricognizione junghiana nell'animo femminile di "Giulietta degli spiriti" (1965) e l'accidentato itinerario nell'antichità del "Satyricon" (1969): assai migliore il tagliente ed incubico episodio "Toby Dammit" (1967), eccellenti le parti incentrate sul passato del diseguale "Roma" (1972). Il ritorno al borgo natio di "Amarcord" (1973) ha pel Nostro effetti palingenetici, ché qui si è di nuovo ai suoi livelli più altì e non ci si può che inchinare al magistero de "Il Casanova" (1976), lavoro notturno ed ipocondriaco di straordinaria resa. L'apologo minaccioso di "Prova d'orchestra" (1979), il viaggio innecessario nell'inconscio de "La città delle donne" (1980), la pretenziosa allusività di "E la nave va" (1983) dicono di una palese crisi d'ispirazione: dalla quale egli cerca rifugio nella pacata invettiva anticonsumistica di "Ginger e Fred" (1986), nel block-notes divertito e melanconico di "Intervista" (1987). Per approdare, nel testamentario "La voce della luna" (1990), ad una riflessione lucidissima sull'orribilità del presente visto tramite lo sguardo di due emarginati: un favolello impeccabile, chiuso da un sommesso invito al silenzio. Per capire di più.
Muore a Roma nel 1993.
Federico Fellini nasce a Rimini, 1920.
Di famiglia borghese, sin da giovane abile nel disegno, Fellini è a Roma già nel 1938, collaboratore di vari giornali satirici tra i quali il celebre "Marco Aurelio". Dal 1941, comincia un'intensa attività di soggettista e sceneggiatore: la sua firma appare nei titoli di pellicole di assoluto rilievo, da "Roma città aperta" (1945) a "Paisà" (1946), da "Senza pietà" (1948) ad "Europa '51" (1951). Debutta nella regia dirigendo assieme ad Alberto Lattuada "Luci del varietà" (1951), immalinconita ricognizione nell'universo dell'avanspettacolo. Nel successivo "Lo sceicco bianco" (1952), scritto con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, egli si allontana dalla tradizione neorealista, delineando personaggi sospesi tra il fantastico e l'ironico. L'anno dopo, "I vitelloni" gli frutta un Leone d'Oro a Venezia oltre che grande successo di pubblico e di critica: è un film di matrice autobiografica, ov'egli torna alla provincia delle proprie origini con un sentimento misto di nostalgia e repulsione. Gli anni seguenti sono costellati di successi: la limpida poesia de "La strada" (1954) gli fa vincere un meritato Oscar, ed un altro glielo procura l'intenso "Le notti di Cabiria" (1957): entrambi i capi d'opera si valgono delle magnifiche interpretazioni di sua moglie, Giulietta Masina.e "Il bidone" (1955) è poco più che una parentesi, ha caratura epocale "La dolce vita" (1959), che fotografa gli anni del boom e del dominio democristiano con impietosa esattezza: entra in scena Marcello Mastroianni, che diverrà l'attore preferito del cineasta-demiurgo. Preceduto dal graffiante segmento "Le tentazioni del dottor Antonio" (1961), il meraviglioso "8 e 1/2" (1963) gli garantisce un terzo Oscar ed è considerato da molti il suo esito più elevato. Meno riusciti risulteranno la ricognizione junghiana nell'animo femminile di "Giulietta degli spiriti" (1965) e l'accidentato itinerario nell'antichità del "Satyricon" (1969): assai migliore il tagliente ed incubico episodio "Toby Dammit" (1967), eccellenti le parti incentrate sul passato del diseguale "Roma" (1972). Il ritorno al borgo natio di "Amarcord" (1973) ha pel Nostro effetti palingenetici, ché qui si è di nuovo ai suoi livelli più altì e non ci si può che inchinare al magistero de "Il Casanova" (1976), lavoro notturno ed ipocondriaco di straordinaria resa. L'apologo minaccioso di "Prova d'orchestra" (1979), il viaggio innecessario nell'inconscio de "La città delle donne" (1980), la pretenziosa allusività di "E la nave va" (1983) dicono di una palese crisi d'ispirazione: dalla quale egli cerca rifugio nella pacata invettiva anticonsumistica di "Ginger e Fred" (1986), nel block-notes divertito e melanconico di "Intervista" (1987). Per approdare, nel testamentario "La voce della luna" (1990), ad una riflessione lucidissima sull'orribilità del presente visto tramite lo sguardo di due emarginati: un favolello impeccabile, chiuso da un sommesso invito al silenzio. Per capire di più.
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Re: Grandi personaggi della storia
Giovanni Falcone
Nasce a Palermo il 20 maggio 1939, e precisamente nella via Castrofilippo, da Arturo, direttore del Laboratorio chimico provinciale, e da Luisa Bentivegna. Dopo aver frequentato il Liceo classico "Umberto" compie una breve esperienza presso l'Accademia navale di Livorno. Successivamente decide di tornare nella città Natale per iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza e consegue la laurea nel 1961, discutendo con lode una tesi sull' "Istruzione probatoria in diritto amministrativo". Dopo il concorso in magistratura, nel 1964, fu pretore a Lentini per trasferirsi subito come sostituto procuratore a Trapani, dove rimase per circa dodici anni. E in questa sede andò maturando progressivamente l'inclinazione e l'attitudine verso il settore penale: come egli stesso ebbe a dire, "era la valutazione oggettiva dei fatti che mi affascinava", nel contrasto con certi meccanismi "farraginosi e bizantini" particolarmente accentuati in campo civilistico.
A Palermo, immediatamente dopo il tragico attentato al giudice Cesare Terranova, avvenuto il 25 settembre 1979, Falcone comincia a lavorare presso l'Ufficio istruzione. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici gli affida nel maggio 1980 le indagini contro il "bos" Rosario Spatola, un processo che investiva anche la criminalità statunitense, e che vide il procuratore Gaetano Costa - ucciso nel giugno successivo - ostacolato da alcuni sostituti, al momento della firma di una lunga serie di ordini di cattura. Fu proprio in questa prima esperienza che Giovanni Falcone avverte come nel perseguire i reati e le attività di ordine mafioso occorresse avviare indagini patrimoniali e bancarie (anche oltre oceano), e come, soprattutto, occorreva avviare la ricostruzione di un quadro complessivo, una visione organica delle connessioni, la cui assenza, in passato, aveva provocato la "raffica delle assoluzioni".
Il 29 luglio 1983 il consigliere Chinnici fu ucciso con la sua scorta, in via Pipitone Federico. Il consigliere Chinnici viene sostituito da Antonino Caponnetto, il quale riprese l'intento di assicurare agli inquirenti le condizioni più favorevoli nelle indagini sui delitti di mafia. Fu allora che si costituì, per le necessità interne a queste indagini, il cosiddetto "pool antimafia", sul modello delle èquipes attive nel decennio precedente di fronte al fenomeno del terrorismo politico. Del gruppo faceva parte, oltre lo stesso Falcone, e i giudici Di Lello e Guarnotta, e Paolo Borsellino, che aveva condotto l'inchiesta sull'omicidio del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, nel 1980.
L'interrogatorio iniziato a Roma nel luglio 1984 in presenza del sostituto procuratore Vincenzo Geraci e di Gianni De Gennaro, del Nucleo operativo della Criminalpol, del "pentito" Tommaso Buscetta, è da considerarsi una vera e propria svolta per la conoscenza di determinati fatti di mafia e specialmente della struttura dell'organizzazione "Cosa nostra".
I funzionari di Polizia Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, vengono uccisi nell'estate 1985. In quel preciso momento si comincia a temere per l'incolumità dei due magistrati, i quali, vengono trasferiti per motivi di sicurezza, con le famiglie presso il carcere dell'Asinara. Attraverso questa serie di vicende drammatiche si giunge alla sentenza di condanna a Cosa nostra nel primo maxiprocesso (16 dicembre 1987) emessa dalla Corte di Assise di Palermo, presidente Alfonso Giordano, dopo ventidue mesi di udienze e trentasei giorni di riunione in camera di consiglio. L'ordinanza di rinvio a giudizio per i 475 imputati era stata depositata dall'Ufficio istruzione agli inizi di novembre di due anni prima. Gli avvenimenti successivi risentono negativamente di tale successo. Nel gennaio il Consiglio superiore della magistratura preferisce il consigliere Antonino Meli a Falcone, a capo dell'Ufficio istruzione, in sostituzione di Caponnetto che aveva voluto lasciare l'incarico.
Inoltre in seguito alle confessioni del "pentito" catanese Antonino Calderone, che avevano determinato una lunga serie di arresti (comunemente noti come "blitz delle Madonie"), il magistrato inquirente di Termini Imerese si ritiene incompetente, e trasmette gli atti all'Ufficio palermitano.Il consigliere Antonino Meli, in contrasto con i giudici del pool, rinvia le carte a Termini, in quanto i reati sarebbero stati commessi in quella giurisdizione. La Cassazione, allo scorcio del 1988, ratifica l'opinione del consigliere istruttore, negando la struttura unitaria e verticisti delle organizzazioni criminose, e affermando che queste, considerate nel loro complesso, sono dotate di "un'ampia sfera decisionale, operano in ambito territoriale diverso ed hanno preponderante diversificazione soggettiva". Questa decisione sancisce giuridicamente la frantumazione delle indagini che l'esperienza di Palermo aveva inteso superare. Il 30 luglio Falcone richiese di essere destinato a un altro ufficio. Il consigliere Giovanni Meli in autunno gli rivolse l'accusa d'aver favorito in qualche modo il cavaliere del lavoro di Catania Carmelo Costanzo, e quindi sciolse il pool, come Borsellino aveva previsto fin dall'estate in un pubblico intervento, peraltro censurato dal Consiglio superiore della Magistratura. I giudici Di Lello e Conte si dimisero per protesta.
Nel giugno 1992 su tutta questa vicenda e durante un dibattito promosso a Palermo dalla rivista "Micromega", Il giudice Paolo Borsellino ebbe a ricordare: "La protervia del consigliere istruttore Meli l'intervento nefasto della Corte di cassazione cominciato allora e continuato fino a oggi, non impedirono a Falcone di continuare a lavorare con impegno". Nonostante simili avvenimenti sempre nel corso del 1988, Falcone aveva realizzato una importante operazione in collaborazione con Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di New York, denominata "Iron Tower", grazie alla quale furono colpite le famiglie dei Gambino e degli Inzerillo, coinvolte nel traffico di eroina.
Il 20 giugno 1989 si verifica il fallito e oscuro attentato dell'Addaura presso Mondello a proposito del quale Falcone affermò "Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi". Il periodo subito successivo segue con lo sconcertante episodio del cosiddetto "corvo": alcune lettere anonime che accusano astiosamente Falcone e altri. Una settimana dopo l'attentato il Consiglio Superiore della Magistratura decide di nominare Giovanni Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo. Nel gennaio 1990 coordina un'inchiesta che porta all'arresto di quattordici trafficanti colombiani e siciliani, inchiesta che aveva preso l'avvio dalle confessioni del "pentito" Joe Cuffaro' il quale aveva rivelato che il mercantile Big John, battente bandiera cilena, aveva scaricato nel gennaio 1988, 596 chili di cocaina al largo delle coste di Castellammare del Golfo. Nel corso dell'anno si sviluppa lo "scontro" con Leoluca Orlando, originato dall'incriminazione per calunnia nei confronti del "pentito" pellegriti, il quale rivolgeva accuse al parlamentare europeo Salvo Lima. La polemica prosegue con il ben noto argomento delle "carte nei cassetti" che Falcone ritenne frutto di puro e semplice "cinismo politico".
Alle elezioni del 1990 dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura, Falcone, è candidato per le liste "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88" (nella circostanza collegate), con esito però negativo.Intanto si fanno più aspri i dissensi con l'allora procuratore P. Giammanco, sia sul piano valutativo, sia su quello etico, nella conduzione delle inchieste. Falcone accoglie l'invito del vice-presidente del Consiglio dei ministri, Claudio Martelli, che aveva assunto l'interim del Ministero di grazia e giustizia, a dirigere gli Affari penali del ministero, assumendosi l'onere di coordinare una vasta materia, dalle proposte di riforme legislative alla collaborazione internazionale. Si apre così dal marzo 1991 un periodo caratterizzato da una attività intensa, volta a rendere più efficace l'azione della magistratura nella lotta contro il crimine. Falcone si impegna a portare a termine quanto ritiene condizione indispensabile del rinnovamento: la razionalizzazione dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, e il coordinamento tra le varie procure. A questo punto si poneva l'esigenza di un coordinamento di livello nazionale.
Infatti nel novembre del 1991 viene costituita la Direzione Nazionale Antimafia, sulle funzioni di questa il giudice si soffermò anche nel corso della sua audizione al Palazzo dei Marescialli del 22 marzo 1992. "Io Credo - egli chiarì in tale circostanza, secondo un resoconto della seduta pubblicato dal settimanale "L'Espresso" (7 giugno 1992) - che il procuratore nazionale antimafia abbia il compito principale di rendere effettivo il coordinamento delle indagini, di garantire la funzionalità della polizia giudiziaria e di assicurare la completezza e la tempestività delle investigazioni. Ritengo che questo dovrebbe essere un organismo di supporto e di sostegno per l'attività investigativa che va svolta esclusivamente dalle procure distrettuali antimafia".La candidatura di Falcone a questi compiti fu ostacolata in seno al Consiglio Superiore della Magistratura, il cui plenum non aveva ancora assunto una decisione definitiva, prima della tragica morte di Falcone nella strage di Capaci.
E' il 23 maggio 1992 quando alle 17 e 56, all'altezza del paese siciliano di Capaci, cinquecento chili di tritolo fanno saltare in aria l'auto su cui viaggia il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. A tal proposito va ricordato che una sentenza della prima sezione penale della Corte suprema di cassazione il 30 gennaio, sotto la presidenza di Arnaldo Valente (relatore Schiavotti) aveva riconosciuto la struttura verticale di Cosa nostra, e quindi la responsabilità dei componenti della "cupola" per quei delitti compiuti dagli associati, che presuppongano una decisione al vertice; inoltre aveva ribadito la validità e l'importanza delle chiamate in correità. All'esecrazione dell'assassinio, il 4 giugno si unì il Senato degli Stati Uniti, con una risoluzione intesa a rafforzare l'impegno del gruppo di lavoro italo-americano, di cui Falcone era componente.
Nemmeno due mesi più tardi, il 19 luglio, toccava a un altro magistrato cadere sotto i colpi della mafia. Paolo Borsellino veniva ucciso da un'autobomba a Palermo in via D'Amelio. Si tratta di uno dei periodi più bui della storia della Repubblica Italiana. Falcone fu personaggio discusso, per alcuni molto odiato in vita e molto amato dopo la morte, un personaggio diffidente e schivo, ma tenace ed efficiente. Per quanto fosse un uomo normale, ha lottato in prima persona con tutte le sue forze per tutelare la propria autonomia di giudice in trincea contro la mafia, e oggi è considerato a tutti gli effetti un simbolo positivo, una storia da non dimenticare.
Nasce a Palermo il 20 maggio 1939, e precisamente nella via Castrofilippo, da Arturo, direttore del Laboratorio chimico provinciale, e da Luisa Bentivegna. Dopo aver frequentato il Liceo classico "Umberto" compie una breve esperienza presso l'Accademia navale di Livorno. Successivamente decide di tornare nella città Natale per iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza e consegue la laurea nel 1961, discutendo con lode una tesi sull' "Istruzione probatoria in diritto amministrativo". Dopo il concorso in magistratura, nel 1964, fu pretore a Lentini per trasferirsi subito come sostituto procuratore a Trapani, dove rimase per circa dodici anni. E in questa sede andò maturando progressivamente l'inclinazione e l'attitudine verso il settore penale: come egli stesso ebbe a dire, "era la valutazione oggettiva dei fatti che mi affascinava", nel contrasto con certi meccanismi "farraginosi e bizantini" particolarmente accentuati in campo civilistico.
A Palermo, immediatamente dopo il tragico attentato al giudice Cesare Terranova, avvenuto il 25 settembre 1979, Falcone comincia a lavorare presso l'Ufficio istruzione. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici gli affida nel maggio 1980 le indagini contro il "bos" Rosario Spatola, un processo che investiva anche la criminalità statunitense, e che vide il procuratore Gaetano Costa - ucciso nel giugno successivo - ostacolato da alcuni sostituti, al momento della firma di una lunga serie di ordini di cattura. Fu proprio in questa prima esperienza che Giovanni Falcone avverte come nel perseguire i reati e le attività di ordine mafioso occorresse avviare indagini patrimoniali e bancarie (anche oltre oceano), e come, soprattutto, occorreva avviare la ricostruzione di un quadro complessivo, una visione organica delle connessioni, la cui assenza, in passato, aveva provocato la "raffica delle assoluzioni".
Il 29 luglio 1983 il consigliere Chinnici fu ucciso con la sua scorta, in via Pipitone Federico. Il consigliere Chinnici viene sostituito da Antonino Caponnetto, il quale riprese l'intento di assicurare agli inquirenti le condizioni più favorevoli nelle indagini sui delitti di mafia. Fu allora che si costituì, per le necessità interne a queste indagini, il cosiddetto "pool antimafia", sul modello delle èquipes attive nel decennio precedente di fronte al fenomeno del terrorismo politico. Del gruppo faceva parte, oltre lo stesso Falcone, e i giudici Di Lello e Guarnotta, e Paolo Borsellino, che aveva condotto l'inchiesta sull'omicidio del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, nel 1980.
L'interrogatorio iniziato a Roma nel luglio 1984 in presenza del sostituto procuratore Vincenzo Geraci e di Gianni De Gennaro, del Nucleo operativo della Criminalpol, del "pentito" Tommaso Buscetta, è da considerarsi una vera e propria svolta per la conoscenza di determinati fatti di mafia e specialmente della struttura dell'organizzazione "Cosa nostra".
I funzionari di Polizia Giuseppe Montana e Ninni Cassarà, stretti collaboratori di Falcone e Borsellino, vengono uccisi nell'estate 1985. In quel preciso momento si comincia a temere per l'incolumità dei due magistrati, i quali, vengono trasferiti per motivi di sicurezza, con le famiglie presso il carcere dell'Asinara. Attraverso questa serie di vicende drammatiche si giunge alla sentenza di condanna a Cosa nostra nel primo maxiprocesso (16 dicembre 1987) emessa dalla Corte di Assise di Palermo, presidente Alfonso Giordano, dopo ventidue mesi di udienze e trentasei giorni di riunione in camera di consiglio. L'ordinanza di rinvio a giudizio per i 475 imputati era stata depositata dall'Ufficio istruzione agli inizi di novembre di due anni prima. Gli avvenimenti successivi risentono negativamente di tale successo. Nel gennaio il Consiglio superiore della magistratura preferisce il consigliere Antonino Meli a Falcone, a capo dell'Ufficio istruzione, in sostituzione di Caponnetto che aveva voluto lasciare l'incarico.
Inoltre in seguito alle confessioni del "pentito" catanese Antonino Calderone, che avevano determinato una lunga serie di arresti (comunemente noti come "blitz delle Madonie"), il magistrato inquirente di Termini Imerese si ritiene incompetente, e trasmette gli atti all'Ufficio palermitano.Il consigliere Antonino Meli, in contrasto con i giudici del pool, rinvia le carte a Termini, in quanto i reati sarebbero stati commessi in quella giurisdizione. La Cassazione, allo scorcio del 1988, ratifica l'opinione del consigliere istruttore, negando la struttura unitaria e verticisti delle organizzazioni criminose, e affermando che queste, considerate nel loro complesso, sono dotate di "un'ampia sfera decisionale, operano in ambito territoriale diverso ed hanno preponderante diversificazione soggettiva". Questa decisione sancisce giuridicamente la frantumazione delle indagini che l'esperienza di Palermo aveva inteso superare. Il 30 luglio Falcone richiese di essere destinato a un altro ufficio. Il consigliere Giovanni Meli in autunno gli rivolse l'accusa d'aver favorito in qualche modo il cavaliere del lavoro di Catania Carmelo Costanzo, e quindi sciolse il pool, come Borsellino aveva previsto fin dall'estate in un pubblico intervento, peraltro censurato dal Consiglio superiore della Magistratura. I giudici Di Lello e Conte si dimisero per protesta.
Nel giugno 1992 su tutta questa vicenda e durante un dibattito promosso a Palermo dalla rivista "Micromega", Il giudice Paolo Borsellino ebbe a ricordare: "La protervia del consigliere istruttore Meli l'intervento nefasto della Corte di cassazione cominciato allora e continuato fino a oggi, non impedirono a Falcone di continuare a lavorare con impegno". Nonostante simili avvenimenti sempre nel corso del 1988, Falcone aveva realizzato una importante operazione in collaborazione con Rudolph Giuliani, procuratore distrettuale di New York, denominata "Iron Tower", grazie alla quale furono colpite le famiglie dei Gambino e degli Inzerillo, coinvolte nel traffico di eroina.
Il 20 giugno 1989 si verifica il fallito e oscuro attentato dell'Addaura presso Mondello a proposito del quale Falcone affermò "Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi". Il periodo subito successivo segue con lo sconcertante episodio del cosiddetto "corvo": alcune lettere anonime che accusano astiosamente Falcone e altri. Una settimana dopo l'attentato il Consiglio Superiore della Magistratura decide di nominare Giovanni Falcone a procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo. Nel gennaio 1990 coordina un'inchiesta che porta all'arresto di quattordici trafficanti colombiani e siciliani, inchiesta che aveva preso l'avvio dalle confessioni del "pentito" Joe Cuffaro' il quale aveva rivelato che il mercantile Big John, battente bandiera cilena, aveva scaricato nel gennaio 1988, 596 chili di cocaina al largo delle coste di Castellammare del Golfo. Nel corso dell'anno si sviluppa lo "scontro" con Leoluca Orlando, originato dall'incriminazione per calunnia nei confronti del "pentito" pellegriti, il quale rivolgeva accuse al parlamentare europeo Salvo Lima. La polemica prosegue con il ben noto argomento delle "carte nei cassetti" che Falcone ritenne frutto di puro e semplice "cinismo politico".
Alle elezioni del 1990 dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura, Falcone, è candidato per le liste "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88" (nella circostanza collegate), con esito però negativo.Intanto si fanno più aspri i dissensi con l'allora procuratore P. Giammanco, sia sul piano valutativo, sia su quello etico, nella conduzione delle inchieste. Falcone accoglie l'invito del vice-presidente del Consiglio dei ministri, Claudio Martelli, che aveva assunto l'interim del Ministero di grazia e giustizia, a dirigere gli Affari penali del ministero, assumendosi l'onere di coordinare una vasta materia, dalle proposte di riforme legislative alla collaborazione internazionale. Si apre così dal marzo 1991 un periodo caratterizzato da una attività intensa, volta a rendere più efficace l'azione della magistratura nella lotta contro il crimine. Falcone si impegna a portare a termine quanto ritiene condizione indispensabile del rinnovamento: la razionalizzazione dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, e il coordinamento tra le varie procure. A questo punto si poneva l'esigenza di un coordinamento di livello nazionale.
Infatti nel novembre del 1991 viene costituita la Direzione Nazionale Antimafia, sulle funzioni di questa il giudice si soffermò anche nel corso della sua audizione al Palazzo dei Marescialli del 22 marzo 1992. "Io Credo - egli chiarì in tale circostanza, secondo un resoconto della seduta pubblicato dal settimanale "L'Espresso" (7 giugno 1992) - che il procuratore nazionale antimafia abbia il compito principale di rendere effettivo il coordinamento delle indagini, di garantire la funzionalità della polizia giudiziaria e di assicurare la completezza e la tempestività delle investigazioni. Ritengo che questo dovrebbe essere un organismo di supporto e di sostegno per l'attività investigativa che va svolta esclusivamente dalle procure distrettuali antimafia".La candidatura di Falcone a questi compiti fu ostacolata in seno al Consiglio Superiore della Magistratura, il cui plenum non aveva ancora assunto una decisione definitiva, prima della tragica morte di Falcone nella strage di Capaci.
E' il 23 maggio 1992 quando alle 17 e 56, all'altezza del paese siciliano di Capaci, cinquecento chili di tritolo fanno saltare in aria l'auto su cui viaggia il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. A tal proposito va ricordato che una sentenza della prima sezione penale della Corte suprema di cassazione il 30 gennaio, sotto la presidenza di Arnaldo Valente (relatore Schiavotti) aveva riconosciuto la struttura verticale di Cosa nostra, e quindi la responsabilità dei componenti della "cupola" per quei delitti compiuti dagli associati, che presuppongano una decisione al vertice; inoltre aveva ribadito la validità e l'importanza delle chiamate in correità. All'esecrazione dell'assassinio, il 4 giugno si unì il Senato degli Stati Uniti, con una risoluzione intesa a rafforzare l'impegno del gruppo di lavoro italo-americano, di cui Falcone era componente.
Nemmeno due mesi più tardi, il 19 luglio, toccava a un altro magistrato cadere sotto i colpi della mafia. Paolo Borsellino veniva ucciso da un'autobomba a Palermo in via D'Amelio. Si tratta di uno dei periodi più bui della storia della Repubblica Italiana. Falcone fu personaggio discusso, per alcuni molto odiato in vita e molto amato dopo la morte, un personaggio diffidente e schivo, ma tenace ed efficiente. Per quanto fosse un uomo normale, ha lottato in prima persona con tutte le sue forze per tutelare la propria autonomia di giudice in trincea contro la mafia, e oggi è considerato a tutti gli effetti un simbolo positivo, una storia da non dimenticare.
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Re: Grandi personaggi della storia
Padre Pio
San Pio da Pietrelcina, noto anche come Padre Pio, al secolo Francesco Forgione, nasce il 25 maggio 1887 a Pietrelcina, piccolo comune campano vicino Benevento, da Grazio Forgione e Maria Giuseppa Di Nunzio, piccoli proprietari terrieri. La madre è una donna molto religiosa, alla quale Francesco rimarrà sempre molto legato. Viene battezzato nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, l'antica parrocchia del paese, posta nel Castello, nella parte alta di Pietrelcina.
La sua vocazione si manifesta sin dalla più tenera età: giovanissimo, a solo otto anni, rimane per ore davanti l'altare della chiesa di Sant'Anna a pregare. Iniziato il cammino religioso con i frati cappuccini, il papà decide di emigrare in America per affrontare le spese necessarie per farlo studiare.
Nel 1903, a quindici anni, arriva al convento di Morcone e il 22 gennaio dello stesso anno indossa il saio di cappuccino prendendo il nome di Fra' Pio da Pietrelcina: viene destinato a Pianisi, dove rimane fino al 1905.Nel 1916 parte per Foggia, presso il convento di Sant'Anna, e il 4 settembre dello stesso anno viene mandato a San Giovanni Rotondo, dove vi resterà per il resto della vita.
Appena un mese dopo, nella campagna di Piana Romana, a Pietrelcina, riceve per la prima volta le stigmate, subito dopo scomparse, almeno visibilmente, per le sue preghiere. Questo avvenimento mistico porta un aumento del pellegrinaggio, sul Gargano, da ogni parte del mondo. In questo periodo inizia anche a soffrire di strane malattie di cui non si è mai avuta un'esatta diagnosi e che lo faranno soffrire per tutta l'esistenza. Dal maggio del 1919 all'ottobre dello stesso anno riceve la visita di diversi medici per esaminare le stigmate. Il dottor Giorgio Festa ha modo di dire: "...le lesioni che Padre Pio presenta e l'emorragia che da queste si manifesta hanno un'origine che le nostre cognizioni sono ben lungi dallo spiegare. Ben più alta della scienza umana è la loro ragione di essere".
A causa del gran polverone sollevato dal caso delle stigmate, nonché dell'inevitabile, enorme curiosità suscitata dal fatto a prima vista del tuttto "miracoloso", la chiesa gli vieta, dal 1931 al 1933 di celebrare messe.
La Santa Sede lo sottopone inoltre a numerose inchieste per accertare l'autenticità del fenomeno e indagare sulla sua personalità.
La salute non buona lo costringe ad alternare alla vita conventuale continue parentesi di convalescenza al suo paese. I superiori, d'altronde, preferiscono lasciarlo alla calma dei suoi luoghi natali, dove secondo la disponibilità delle proprie forze, aiuta il parroco.
Dalla sua guida spirituale nascono i Gruppi di Preghiera, che rapidamente si diffondono in tutta Italia e in vari paesi esteri. Nello stesso tempo attua il sollievo della sofferenza costruendo, con l'aiuto dei fedeli, un ospedale, al quale dà il nome di "Casa Sollievo della Sofferenza", e che è diventato nel tempo un'autentica città ospedaliera, determinando anche un crescente sviluppo di tutta la zona, un tempo deserta.
Secondo varie testimonianze altri doni straordinari accompagnarono Padre Pio per tutta la vita, in particolare, l'introspezione delle anime (era capace di radiografare l'anima di una persona al solo sguardo), il profumo che faceva sentire a persone anche lontane, il beneficio della sua preghiera per i fedeli che ricorrevano a lui.
Il 22 settembre 1968, a ottantuno anni, Padre Pio celebra la sua ultima messa e nella notte del giorno 23 muore portando con se il mistero di cui tutta la sua vita è stata in fondo ammantata.
Il 2 maggio 1999 Papa Giovanni Paolo II lo ha proclamato Beato. Padre Pio da Pietrelcina è stato canonizzato il 16 giugno 2002.
San Pio da Pietrelcina, noto anche come Padre Pio, al secolo Francesco Forgione, nasce il 25 maggio 1887 a Pietrelcina, piccolo comune campano vicino Benevento, da Grazio Forgione e Maria Giuseppa Di Nunzio, piccoli proprietari terrieri. La madre è una donna molto religiosa, alla quale Francesco rimarrà sempre molto legato. Viene battezzato nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, l'antica parrocchia del paese, posta nel Castello, nella parte alta di Pietrelcina.
La sua vocazione si manifesta sin dalla più tenera età: giovanissimo, a solo otto anni, rimane per ore davanti l'altare della chiesa di Sant'Anna a pregare. Iniziato il cammino religioso con i frati cappuccini, il papà decide di emigrare in America per affrontare le spese necessarie per farlo studiare.
Nel 1903, a quindici anni, arriva al convento di Morcone e il 22 gennaio dello stesso anno indossa il saio di cappuccino prendendo il nome di Fra' Pio da Pietrelcina: viene destinato a Pianisi, dove rimane fino al 1905.Nel 1916 parte per Foggia, presso il convento di Sant'Anna, e il 4 settembre dello stesso anno viene mandato a San Giovanni Rotondo, dove vi resterà per il resto della vita.
Appena un mese dopo, nella campagna di Piana Romana, a Pietrelcina, riceve per la prima volta le stigmate, subito dopo scomparse, almeno visibilmente, per le sue preghiere. Questo avvenimento mistico porta un aumento del pellegrinaggio, sul Gargano, da ogni parte del mondo. In questo periodo inizia anche a soffrire di strane malattie di cui non si è mai avuta un'esatta diagnosi e che lo faranno soffrire per tutta l'esistenza. Dal maggio del 1919 all'ottobre dello stesso anno riceve la visita di diversi medici per esaminare le stigmate. Il dottor Giorgio Festa ha modo di dire: "...le lesioni che Padre Pio presenta e l'emorragia che da queste si manifesta hanno un'origine che le nostre cognizioni sono ben lungi dallo spiegare. Ben più alta della scienza umana è la loro ragione di essere".
A causa del gran polverone sollevato dal caso delle stigmate, nonché dell'inevitabile, enorme curiosità suscitata dal fatto a prima vista del tuttto "miracoloso", la chiesa gli vieta, dal 1931 al 1933 di celebrare messe.
La Santa Sede lo sottopone inoltre a numerose inchieste per accertare l'autenticità del fenomeno e indagare sulla sua personalità.
La salute non buona lo costringe ad alternare alla vita conventuale continue parentesi di convalescenza al suo paese. I superiori, d'altronde, preferiscono lasciarlo alla calma dei suoi luoghi natali, dove secondo la disponibilità delle proprie forze, aiuta il parroco.
Dalla sua guida spirituale nascono i Gruppi di Preghiera, che rapidamente si diffondono in tutta Italia e in vari paesi esteri. Nello stesso tempo attua il sollievo della sofferenza costruendo, con l'aiuto dei fedeli, un ospedale, al quale dà il nome di "Casa Sollievo della Sofferenza", e che è diventato nel tempo un'autentica città ospedaliera, determinando anche un crescente sviluppo di tutta la zona, un tempo deserta.
Secondo varie testimonianze altri doni straordinari accompagnarono Padre Pio per tutta la vita, in particolare, l'introspezione delle anime (era capace di radiografare l'anima di una persona al solo sguardo), il profumo che faceva sentire a persone anche lontane, il beneficio della sua preghiera per i fedeli che ricorrevano a lui.
Il 22 settembre 1968, a ottantuno anni, Padre Pio celebra la sua ultima messa e nella notte del giorno 23 muore portando con se il mistero di cui tutta la sua vita è stata in fondo ammantata.
Il 2 maggio 1999 Papa Giovanni Paolo II lo ha proclamato Beato. Padre Pio da Pietrelcina è stato canonizzato il 16 giugno 2002.
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Re: Grandi personaggi della storia
ADOLF HITLER
Adolf Hitler nacque alle 18.30 circa del 20 aprile 1889 a Braunau am Inn, nella locanda "Gasthof Zum Pommern" (in italiano: "Locanda del Pomerano", ancora esistente). La cittadina si trova vicino a Linz nella regione dell'Alta Austria, allora parte dell'Impero austro-ungarico.Fu figlio di terzo letto di Alois Hitler (1837-1903) un ufficiale inferiore delle dogane. La madre era Klara Pölzl, terza moglie di Alois. Dei loro sei figli, solo Adolf e sua sorella Paula sopravvissero all'infanzia.
Anche i fratellastri Alois e Angela, frutto del precedente matrimonio del padre con la cuoca d'albergo Franziska Matzelsberger, vissero più a lungo. Di Alois, condannato più volte per furto, e successivamente per bigamia ad Amburgo, nel 1924, non si poteva far cenno in presenza di Hitler che continuò ad ignorarlo anche dopo che aveva avviato a Berlino, in Wittenbergplatz, un florido locale, frequentato dai gerarchi del regime . Per lo storico Konrad Heiden, Angela fu, invece l'unica parente con cui Hitler conservò un legame affettuoso sino all'ultimo. Fu sua governante a Berchtesgaden dal 1928 sino al matrimonio, con un professore di architettura di Dresda, nel 1936. Con la figlia di primo matrimonio della sorellastra, Geli Raubal, egli intrattenne successivamente una profonda relazione.
Della prima infanzia del futuro dittatore tedesco non si conosce molto. Stanti le testimonianze di molti gerarchi nazisti, Hitler fu sempre molto legato al suo paese natale, tanto da farsi effigiare vicino alla chiesa di Braunau in un francobollo del 1938 commemorativo del suo compleanno e dell'annessione dell'Austria al Terzo Reich avvenuta il mese precedente ("Anschluss"). Nelle sue memorie, Albert Speer fa riferimento a confidenze fattegli da Hitler in persona circa la giustificazione del suo amore verso la Germania in virtù del fatto che - fino alla rettifica dei confini operata al Congresso di Vienna del 1814, Braunau apparteneva al Regno di Baviera, il che è storicamente comprovato.
Alois Hitler era figlio illegittimo, e per questo da giovane utilizzò il cognome della madre, Schicklgruber. Successivamente adottò legalmente il cognome del padre naturale (che però non lo riconobbe mai), trasformandolo da Hiedler (o Hüttler) in Hitler. Se effettivamente Alois fosse il figlio naturale di Johann Georg Hiedler (1792-1857), il padre di Adolf sarebbe stato parente di sangue della propria moglie Klara, la cui madre si chiamava Hüttler e potrebbe essere stata sua cugina.
Il figlio Adolf non usò mai il cognome Schicklgruber. In seguito i suoi avversari politici fecero circolare delle voci che insinuavano che Hitler fosse di origine ebrea: infatti, dopo che Maria Teresa d'Austria aveva dato la cittadinanza piena agli ebrei che si convertivano al cattolicesimo, essi usavano tradurre i loro cognomi ebraici in tedesco, e Schicklgruber era un cognome comune tra gli ebrei convertiti.
La madre di Hitler
Inoltre, una diversa fonte afferma che Hitler non sapesse con certezza chi fosse stato suo nonno. La fonte (postbellica) è quella espressa da Hans Frank (che scrive nel corso del processo di Norimberga) secondo il quale Hitler sarebbe stato per un quarto ebreo in quanto sua nonna Maria Anna Schicklgruber sarebbe rimasta incinta del padre di Adolf mentre era al servizio a Graz, in Austria, presso la famiglia di un ricco commerciante ebreo, tale Frankenbergern, il quale avrebbe pagato delle somme a favore del presunto di lui figlio Alois. Tuttavia è stato dimostrato che nessuna famiglia ebrea (né tantomeno alcun ebreo di nome Frankenbergern) si trovava a Graz in quel periodo (vedi Ron Rosenbaum: "Il mistero Hitler"), né esiste alcuna prova dei presunti versamenti a favore di Alois. Non è vero che Adolf adottò il proprio cognome "Hitler" come nome d'arte quando dipingeva, in quanto Hitler era il suo cognome legittimo.
Il padre di Hitler
Alcuni studi condotti nel 2010 dallo storico Jean-Paul Mulders e dal giornalista Marc Vermeeren su campioni di saliva di 39 dei parenti ancora in vita di Adolf Hitler, confermano le ascendenze ebraiche del futuro Führer. Lo studio ha inoltre accertato anche discendenze nordafricane, avendo trovato il cromosoma Aplogruppo Eib1b1, raro tra gli occidentali ma comune ad ebrei e berberi del Marocco.
Hitler era un bambino intelligente ma umorale, e fu bocciato due volte agli esami per ottenere l'ammissione all'educazione superiore a Linz. Era devoto alla sua indulgente madre e sviluppò un odio per suo padre, verosimilmente motivato dai crudeli maltrattamenti psicofisici ricevuti.
Non è facile tracciare organicamente un quadro dell'adolescenza di Adolf Hitler. Il testo più completo al riguardo è quello di Joachim Fest[9]. Dopo esser andato in pensione (1895), Alois si trasferì con la famiglia al seguito a Leonding, vicino a Linz, dove iscrisse il figlio Adolf alle scuole elementari del sobborgo di Fishlman. Alois Hitler morì il 2 gennaio 1903 per un'emorragia polmonare. Aveva sempre avversato la tendenza artistica del figlio, anche con modi molto bruschi, com'ebbe a ricordare Hitler in persona in diverse occasioni. Nel 1904, durante la catechesi per la cresima, Hitler per un paio di mesi meditò di farsi prete, essendo molto affascinato dalle celebrazioni religiose. Nel frattempo il suo rendimento scolastico peggiorava, dovendo affrontare gli esami di riparazione a settembre sia nel 1904 che nel 1905. Addirittura, ad ottobre del 1904, gli venne rifiutata l'iscrizione alla sua scuola di Linz per cattiva condotta e venne indirizzato a Steyr, una cittadina lontana 25 km. Terminata la scuola dell'obbligo nel settembre 1905, venne ritrovato privo di sensi a causa di un'ubriacatura, cosa che indusse il futuro dittatore ad avversare l'alcool per il resto dei suoi giorni.
Hitler trascorse due anni da nullafacente, girovagando per Linz assieme ad un amico, anch'egli con velleità artistiche, tale August Kubizek, sempre molto pungolato dalla madre affinché trovasse un lavoro. In questo periodo Hitler confidò all'amico d'essersi infatuato di una ragazza bionda di nome Stephanie (Stefanie Rabatsch). Nella primavera del 1906 Hitler partì alla volta di Vienna una prima volta per ritirare il bando d'ammissione all'Accademia delle Belle Arti e per esercitarsi a dipingere soggetti umani ed opere architettoniche (i temi dell'esame di ammissione). La madre, dal carattere mite e remissivo, accondiscese alle richieste del figlio d'iscriversi all'Accademia delle Belle Arti di Vienna, da dove Hitler venne respinto una prima volta (ottobre 1907) all'esame di ammissione ed una seconda e definitiva volta l'anno successivo (nel 1908 non riuscì nemmeno ad essere ammesso a sostenere l'esame preliminare).
Il 14 gennaio 1907 alla madre, già da alcuni mesi incapace di dormire per i prolungati dolori al petto, venne diagnosticato un carcinoma mammario ulcerato in stadio avanzato e subì una mastectomia radicale una settimana dopo. Ma fu tutto inutile a causa della diagnosi tardiva. Per tutto il 1907 Hitler si prese cura della madre e dell'appartamento in cui vivevano. La vedova, Klara, morì all'età di 47 anni all'alba del 21 dicembre 1907 («Il Natale peggiore di tutta la mia vita" ebbe ad affermare Hitler a Mussolini durante l'ultima visita che il dittatore italiano fece al Führer nel 1944 alla "Tana del lupo"»). Il medico che curò invano la madre di Hitler era ebreo, tale Eduard Bloch, e non soffrì alcuna persecuzione durante tutto il regime hitleriano. Hitler gli espresse tutta la sua gratitudine per aver tentato invano di salvargli la madre: «Sappia che non lo dimenticherò mai!». Il diciannovenne Adolf rimase così orfano. Sua madre riposa tuttora in una tomba del cimitero di Leonding, accanto a quelle del marito e di uno dei figli morto in tenera età; Hitler tuttavia andò a visitare il cimitero soltanto dopo l'annessione dell'Austria alla Germania nel 1938. Ben presto lasciò la sua casa per Vienna, dove aveva vaghe speranze di diventare un artista. Aveva diritto a una pensione da orfano, che integrava lavorando come illustratore. Aveva un certo talento artistico e spesso elaborava dipinti di case e grandi palazzi. Si conservano alcune tele di discreta fattura. Perse la sua pensione nel 1910, ma per allora aveva ereditato qualche soldo da una zia.
Fu a Vienna, dove visse tra il febbraio 1908 e il maggio 1913, che Hitler iniziò ad avvicinarsi all'antisemitismo, un'ossessione che avrebbe dominato la sua vita e sarebbe divenuta la chiave di molte delle sue azioni successive. Vienna aveva una grossa comunità ebraica, comprendente molti ebrei ortodossi dell'Europa orientale. Hitler in seguito ricordò il suo disgusto nell'incontrare gli ebrei viennesi. In quegli anni venne stampata una rivista zeppa di teorie e tesi antisemite dal nome di "Ostara", che pure Hitler risulta leggesse alla sera al dormitorio comunale, come testimoniarono alcuni suoi compagni di camera.
A Vienna l'antisemitismo si era sviluppato dalle sue origini religiose in una dottrina politica, promosso da pubblicisti come Lanz von Liebenfels, i cui libelli venivano letti da Hitler, e da politici come Karl Lueger, borgomastro di Vienna, o Georg Ritter von Schönerer, che contribuì agli aspetti razziali dell'antisemitismo. Da loro Hitler acquisì il credo nella superiorità della razza ariana, che formò le basi delle sue idee politiche. Hitler arrivò a credere che gli ebrei fossero i nemici naturali degli "ariani", e fossero anche in qualche modo responsabili per la sua povertà e incapacità di ottenere il successo che credeva di meritare. Il rapporto di Hitler con il problema ebraico e la sua genesi in questi anni è comunque piuttosto controverso, infatti testimonianze di Reinhold Hanisch sottolineano come Hitler tenesse rapporti di amicizia e dialogo con alcuni ebrei.
I soldi ereditati dalla zia ben presto terminarono, e per diversi anni Hitler visse in una relativa oscurità; non si trovò mai in condizioni di reale indigenza, anche se dormiva in ostelli per soli uomini. Durante il tempo libero assisteva spesso all'opera nelle sale da concerto di Vienna, prediligendo i temi della mitologia norrena di Richard Wagner. Tra il 1909 ed il 1910 Hitler venne sfrattato per morosità per ben due volte, la prima da una squallida stanza nel quartiere viennese di Alsergund; la seconda volta da una vera e propria bettola poco distante. Nel biennio 1911 - 1913 Hitler si adattò a dormire al dormitorio pubblico di Meidling, nelle vicinanze della stazione ferroviaria, dove giunse nel dicembre 1910, ed a mangiare alla mensa del Convento dei Fratelli della Carità. Guadagnava un qualche spicciolo vendendo acquerelli da lui stesso dipinti ed era a tal punto emaciato che un passante ebreo, che vendeva vestiti usati, che gli era forse riconoscente per aver dipinto alcuni cartelloni pubblicitari per il suo negozio, si tolse il cappotto e glielo regalò. A detta di alcuni suoi compagni di dormitorio, gran parte degli acquirenti dei cartelloni di Hitler erano ebrei. In quegli anni il suo più caro amico fu un ceco, tale Reinhold Hanisch, fino a quando non litigarono sulla spartizione dei compensi e Hitler lo denunciò per furto, facendolo condannare nell'agosto 1910 ad otto giorni di carcere dopo i quali Hanisch continuò a falsificare acquerelli. Nel 1936 venne condannato dalla corte di Vienna per frode e morì l'anno seguente in carcere, probabilmente a causa di un attacco cardiaco.
Come ebbe a scrivere nel Mein Kampf, e come fu riconosciuto da chi lo conobbe nel periodo viennese, egli si dedicava instancabilmente alla lettura, cui dedicava molte ore del giorno e della notte. Ciò, unito alle dure esperienze esistenziali gli avrebbe fatto definire Vienna come "...la più seria e profonda scuola della mia vita...Non mi toccò di aggiunger poi gran cosa a quello che avevo accumulato allora."
Il 25 maggio 1913 Hitler si spostò a Monaco di Baviera, nel quartiere di Schwabing. La fuga da Vienna avvenne per evitare di prestare servizio militare nell'esercito austro-ungarico, dal momento che, com'ebbe a scrivere nel suo Mein Kampf, "quel crogiuolo di popoli inferiori mi aborriva". Lo fece per un motivo: sfuggire alle varie notifiche che gli inviano a casa, per la leva militare (come Mussolini, del resto, in quegli anni). Tuttavia non riuscì a sfuggire alla polizia che ne chiese e ottenne l'estradizione. Nel gennaio del 1914, bloccato in Baviera, dovette presentarsi al distretto militare di Salisburgo per la visita di leva. I medici militari lo giudicarono inidoneo senza neppur visitarlo il 5 febbraio e lo mandarono a casa "riformato", inabile perfino al servizio ausiliario, perché "gracile nel fisico, denutrito e mal ridotto nell'intero aspetto da sembrare tisico". Invece di essere contento, quel rifiuto - per Hitler - fu una ferita all'orgoglio. Hitler decise di rinunciare alla cittadinanza austriaca e, non avendo ottenuto quella tedesca, divenne apolide. Hitler visse in una soffitta sita al numero 34 di Schellesserheimerstrasse.Il primo agosto 1914, quando l'Impero tedesco entrò nella prima guerra mondiale, si arruolò come volontario nel Battaglione Bavarese ("Reggimento List") dell'esercito tedesco del Kaiser Guglielmo II.
Ottenne il grado di caporale e prestò servizio attivo in Francia e Belgio come staffetta portaordiniDopo la guerra Hitler rimase nell'esercito, che veniva ora impegnato principalmente nella repressione delle rivoluzioni socialiste che scoppiavano in tutta la Germania, compresa Monaco, dove Hitler tornò nel 1919. Mentre era ancora nell'esercito, il 12 settembre 1919 venne incaricato di spiare[24] gli incontri di un piccolo partito nazionalista, il Partito Tedesco dei Lavoratori (DAP). Assistette all'orazione di Gottfried Feder contro il capitalismo e contro il pangermanesimo. Ad una riunione del DAP intervenne contro un oratore che si era espresso a favore della secessione della Baviera in una nazione tedesca meridionale [4] e lì s'accorse, come confidò a Galeazzo Ciano successivamente, di aver "...una sorta di carisma magnetico sulla platea che rimase letteralmente estasiata". Affascinato dal suo intervento Anton Drexler lo iscrisse, senza averlo nemmeno consultato,[4] al partito come membro numero 555 nella primavera del 1920 (nel marzo 1920 aveva lasciato l'esercito per incompatibilità con l'impegno politico). In realtà il partito era talmente piccolo che i primi 500 numeri corrispondevano a tessere inesistenti. Speer testimoniò che Hitler rimase scioccato da questo trucco. Il 14 agosto incontrò per la prima volta Dietrich Eckart, un antisemita e uno dei primi membri chiave del partito, in occasione di un discorso tenuto davanti ai membri del DAP.
Francobollo tedesco
Hitler non venne congedato dall'esercito fino al 1920, dopo di che cominciò a prendere parte a tempo pieno alle attività del partito. Ne divenne ben presto il leader e ne cambiò il nome in Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (National Sozialistische Deutsche Arbeitspartei - NSDAP), normalmente conosciuto come "Partito Nazista" da National Sozialistische, in contrasto con Sozi, un termine usato per indicare il Partito Socialdemocratico Tedesco. Il partito adottò come simbolo la svastica, nella convinzione, errata, che il simbolo fosse di origine "ariana" e indoeuropea, nonché il saluto romano usato dai fascisti italiani.
Il Partito Nazista era solo uno dei numerosi piccoli gruppi estremisti della Monaco di quell'epoca, ma Hitler scoprì ben presto di avere un talento notevole nell'oratoria pubblica e nell'ispirare la lealtà delle persone. La sua oratoria, che attaccava gli ebrei, i socialisti e i liberali, i capitalisti e i comunisti, iniziò ad attrarre nuovi aderenti. Tra i primi seguaci troviamo Rudolf Hess, Hermann Göring ed Ernst Röhm, che sarebbe stato il capo dell'organizzazione paramilitare nazista, la SA (Sturmabteilung). Nel 1921 fu condannato a tre mesi di prigione, di cui solo uno scontato, per aver personalmente guidato un attacco delle SA contro un comizio, culminato con l'aggressione dell'oratore, un federalista bavarese di nome Ballerstedt. Un altro suo ammiratore fu il Maresciallo di Campo dell'epoca di guerra, Erich Ludendorff. Hitler decise di usare Ludendorff come facciata in un tentativo abbastanza velleitario di conquistare il potere, il "Putsch di Monaco" dell'8 novembre 1923, quando i nazisti marciarono da una birreria fino al Ministero della Guerra bavarese, intendendo rovesciare il governo separatista di destra della Baviera e da lì marciare su Berlino. Hitler fece affidamento principalmente sull'aiuto degli ex combattenti delusi dalla Repubblica di Weimar riuniti nelle organizzazioni paramilitari dei "Corpi Franchi" (Freikorps).
Il colpo di stato fallì e Hitler venne processato per alto tradimento; tuttavia, egli si servì del processo per diffondere il suo messaggio in tutta la Germania. Nell'aprile 1924 venne condannato a cinque anni di carcere nella prigione di Landsberg. Qui Hitler lesse l'opera di Henry Ford L'Ebreo internazionale e, ispirandosi a questa, scrisse la sua famosa opera Mein Kampf (La mia battaglia). Questo lavoro ponderoso conteneva le idee di Hitler sulla razza, la storia e la politica, compresi numerosi avvertimenti sul destino che attendeva i suoi nemici, specialmente gli ebrei, nel caso in cui fosse riuscito a salire al potere. Il libro venne pubblicato la prima volta in due volumi: il primo nel 1925 e il secondo un anno dopo. Le prospettive di un Hitler al potere sembravano così remote, a quel tempo, che nessuno prese seriamente i suoi scritti.
Considerato relativamente innocuo, Hitler ottenne una riduzione della pena. Venne rilasciato nel dicembre 1924 dopo solo nove mesi. A quel momento il Partito Nazista a malapena esisteva e i suoi capi dovettero adoperarsi a lungo per ricostruirlo.
Durante questi anni Hitler formò un gruppo che sarebbe in seguito diventato uno degli strumenti chiave nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Poiché le SA di Röhm erano inaffidabili e prive di disciplina, e formavano una base di potere separata all'interno del partito, Hitler costituì una guardia del corpo personale, le Schutzstaffeln ("unità di protezione" o SS). Questo corpo d'élite dalle uniformi nere venne guidato da Heinrich Himmler, il principale esecutore dei piani di Hitler sulla "questione ebraica", durante la seconda guerra mondiale.
Un elemento chiave del fascino esercitato da Hitler sul popolo tedesco si trovava nel suo costante fare appello all'orgoglio nazionale, ferito dalla sconfitta in guerra e umiliato dal Trattato di Versailles, imposto all'Impero germanico dagli Stati vincitori. L'Impero, infatti, dovette cedere territori a Francia, Polonia, Belgio e Danimarca, abbandonare le sue colonie, dismettere la Marina, pagare un conto salatissimo per le riparazioni di guerra, e assumersi la piena responsabilità e colpevolezza dello scoppio del conflitto. Siccome molti tedeschi non credevano che fosse stata la Germania a dar inizio alla guerra (essendo stata dichiarata dall'Austria), né di essere stati sconfitti sul campo, erano amaramente risentiti per questi termini. Anche se i primi tentativi, da parte dei nazisti, di guadagnare voti con la condanna delle umiliazioni e delle macchinazioni dell'"ebraismo internazionale" non ebbero particolare successo con l'elettorato, la propaganda di partito imparò la lezione, e presto capovolse la situazione a proprio vantaggio attraverso un'espressione più subdola dei suoi contenuti, che combinava l'antisemitismo con attacchi "spiritati" contro i fallimenti del "sistema di Weimar" e i partiti che l'appoggiavano. (Ordonnanz). Fu ferito ad una coscia durante la battaglia della Somme, il 7 ottobre 1916, e fu ricoverato nell'ospedale di Beelitz, non lontano da Berlino. Nel marzo 1917 tornò al fronte. Hitler combatté tutte le più sanguinose battaglie sul fronte delle Fiandre, ed essendosi distinto in combattimento ricevette la Croce di Ferro di seconda classe (novembre 1916) e quindi di prima classe nell'agosto 1918. Quest'ultima onorificenza era all'epoca raramente usata per premiare i sottoufficiali.
Accecato temporaneamente da un attacco di iprite nell'ottobre 1918, fu ricoverato all'Ospedale Militare di Pasewalk dove apprese la notizia della capitolazione tedesca del 9 novembre.
Durante la guerra Hitler acquisì un appassionato patriottismo tedesco, anche se non era un cittadino dell'Impero germanico (un aspetto a cui non pose rimedio fino al 1932). Fu sconvolto dalla capitolazione tedesca nel novembre 1918, quando l'esercito, a suo dire, non era stato sconfitto. Egli, come molti altri nazionalisti, incolpò gli ebrei di avere attizzato focolai rivoluzionari bolscevichi, che avrebbero minato dall'interno la resistenza dei soldati al fronte, e indotto i politici (i "criminali di novembre") alla resa e alla sottoscrizione del trattato di Versailles.Il punto di svolta delle fortune di Hitler giunse con la Grande depressione che colpì la Germania nel 1930. Il regime democratico costituito in Germania nel 1919, la cosiddetta Repubblica di Weimar, non era mai stato genuinamente accettato dai conservatori e neanche dal potente Partito Comunista. I Socialdemocratici e i partiti tradizionali del centro e della destra si mostrarono inadeguati nel contenere lo shock della Depressione ed erano, inoltre, tutti segnati dall'associazione con il "sistema di Weimar". Nelle elezioni del 14 settembre 1930 il partito nazionalsocialista sorse improvvisamente dall'oscurità e si guadagnò oltre il 18% dei voti e 107 seggi nel Reichstag, diventando così la seconda forza politica in Germania.
Il successo di Hitler si basava sulla conquista della classe media, colpita duramente dall'inflazione degli anni venti e dalla disoccupazione portata dalla Depressione. Contadini e veterani di guerra costituivano altri gruppi che supportavano i nazisti, influenzati dai mistici richiami dell'ideologia Volk (popolo) al mito del sangue e della terra. La classe operaia urbana, invece, in genere ignorava gli appelli di Hitler; Berlino e le città della regione della Ruhr gli erano particolarmente ostili; infatti in queste città il Partito Comunista era ancora forte, ma si opponeva anch'esso al governo democratico, ragion per cui si rifiutò di cooperare con gli altri partiti per bloccare l'ascesa di Hitler.
Le elezioni del 1930 furono un disastro per il governo di centro-destra di Heinrich Brüning, che si vedeva privato della maggioranza al Reichstag, affidato alla tolleranza dei Socialdemocratici e costretto all'uso dei poteri d'emergenza da parte del Presidente della Repubblica per restare al governo. Con le misure austere introdotte da Brüning per contrastare la Depressione, avare di successi, il governo era ansioso di evitare le elezioni presidenziali del 1932, e sperava di garantirsi l'accordo con i nazisti per estendere il mandato di Hindenburg. Ma Hitler si rifiutò e anzi corse contro Hindenburg nelle elezioni presidenziali, arrivando secondo nelle due tornate elettorali, superando il 35% dei voti nella seconda occasione, in aprile, nonostante i tentativi del Ministro degli Interni Wilhelm Groener e del governo Socialdemocratico della Prussia di limitare le attività pubbliche dei nazisti, soprattutto bandendo le SA.
L'imbarazzo delle elezioni pose fine alla tolleranza di Hindenburg nei confronti di Brüning, e il vecchio Maresciallo di Campo dimise il governo e ne nominò uno nuovo guidato dal reazionario Franz von Papen, che immediatamente abrogò il bando sulle SA e indisse nuove elezioni per il Reichstag. Alle elezioni del luglio 1932 i nazisti ottennero il loro migliore risultato, vincendo 230 seggi e diventando il partito di maggioranza relativa. In quel momento i nazisti e i comunisti controllavano la maggioranza del Reichstag, e la formazione di un governo di maggioranza stabile, impegnato alla democrazia, era impossibile. A seguito quindi del voto di sfiducia sul governo von Papen, appoggiato dall'84% dei deputati, il nuovo Reichstag si dissolse immediatamente e furono indette nuove elezioni per novembre.
Von Papen e il Partito di Centro aprirono entrambi dei negoziati per assicurarsi la partecipazione nazista al governo, ma Hitler pose delle condizioni dure, chiedendo il cancellierato e il consenso del Presidente che gli permettesse di utilizzare i poteri d'emergenza dell'articolo 48 della costituzione. Il tentativo fallito di entrare nel governo, unito agli sforzi nazisti di ottenere il supporto della classe operaia, alienarono alcuni dei precedenti sostenitori e nelle elezioni del novembre 1932 i nazisti persero dei voti, pur rimanendo il principale partito del Reichstag.
Poiché von Papen aveva chiaramente fallito nei suoi tentativi di garantirsi una maggioranza attraverso la negoziazione che avrebbe portato i nazisti al governo, Hindenburg lo dimise e chiamò al suo posto il generale Kurt von Schleicher, che era stato per lungo tempo una forza dietro le quinte e successivamente Ministro della Difesa, il quale promise di poter garantire un governo di maggioranza attraverso la negoziazione con i sindacalisti Socialdemocratici e con la fazione nazista dissidente, guidata da Gregor Strasser.
Quando Schleicher si imbarcò in questa difficile missione, von Papen e Alfred Hugenberg, Segretario del Partito Popolare Tedesco-Nazionale (DNVP), che prima dell'ascesa nazista era il principale partito di destra, cospirarono per persuadere Hindenburg a nominare Hitler come cancelliere in coalizione con il DNVP, promettendo che sarebbero stati in grado di controllarlo. Quando Schleicher fu costretto ad ammettere il suo fallimento, e chiese ad Hindenburg un altro scioglimento del Reichstag, Hindenburg lo silurò e mise in atto il piano di von Papen, nominando Hitler Cancelliere con von Papen come Vicecancelliere e Hugenberg come Ministro dell'Economia, in un gabinetto che comprendeva solo tre nazisti; Hitler, Göring, e Wilhelm Frick. Il 30 gennaio 1933, Adolf Hitler prestò giuramento come Cancelliere nella camera del Reichstag, sotto gli sguardi e gli applausi di migliaia di sostenitori del nazismo.
Il Partito Comunista Tedesco, vincolato da Mosca, ebbe larga parte delle responsabilità nell'ascesa al potere di Hitler. Fin dal 1929 Stalin aveva spinto il Comintern ad adottare una politica di estremo settarismo verso tutti gli altri partiti di sinistra; i socialdemocratici erano trattati come "social-fascisti" e nessuna alleanza doveva essere stretta con loro. Questo serviva ai fini politici interni di Stalin, ma ebbe conseguenze opposte in Germania. Il Partito Comunista, non solo fallì nell'opporsi ai nazisti in alleanza con i socialdemocratici, ma cooperò tatticamente con i primi (soprattutto in occasione dello sciopero dei trasporti pubblici berlinesi del 1932). Furono presto costretti a capire l'errore di questa politica. Usando il pretesto dell'Incendio del Reichstag, Hitler emise il "Decreto dell'incendio del Reichstag" il 28 febbraio 1933, a meno di un mese dall'insediamento. Il decreto sopprimeva diversi importanti diritti civili in nome della sicurezza nazionale. I leader comunisti, assieme ad altri oppositori del regime, si trovarono ben presto in prigione. Al tempo stesso le SA lanciarono un'ondata di violenza contro i movimenti sindacali, gli ebrei e altri "nemici".
Tuttavia Hitler non aveva ancora la nazione in pugno. La nomina a Cancelliere e il suo uso dei meccanismi incastonati nella costituzione per approdare al potere hanno portato al mito della nazione che elegge il suo dittatore e al supporto della maggioranza alla sua ascesa. In verità Hitler divenne Cancelliere su nomina legale del Presidente, che era stato eletto dal popolo, ma né Hitler, né il partito disponevano della maggioranza assoluta dei voti. Nelle ultime elezioni libere, i nazisti ottennero il 33% dei voti, guadagnando 196 dei 584 seggi disponibili. Anche nelle elezioni del marzo 1933, che si svolsero dopo che terrore e violenza si erano diffuse per lo stato, i nazisti ricevettero solo il 44% dei voti. Il partito ottenne il controllo della maggioranza dei seggi al Reichstag attraverso una formale coalizione con il DNVP. Infine, i voti addizionali necessari a far passare il Decreto dei pieni poteri, che investì Hitler di un'autorità dittatoriale, furono assicurati con l'espulsione dei deputati comunisti dal Reichstag e con l'intimidazione dei ministri del Partito di Centro. Con una serie di decreti che arrivarono subito dopo, vennero soppressi gli altri partiti e bandite tutte le forme di opposizione. In soli pochi mesi Hitler aveva raggiunto un controllo autoritario senza aver mai violato o sospeso la costituzione del Reich, minando tuttavia il sistema democratico.Essendosi assicurato il potere politico supremo in maniera legale con libere elezioni, Hitler rimase estremamente popolare fino ai momenti finali del suo regime. Era un maestro di oratoria, e con tutti i mezzi d'informazione tedeschi sotto il controllo del suo capo della propaganda, Joseph Goebbels, fu in grado di persuadere la maggioranza dei tedeschi che egli fosse il loro salvatore dalla Depressione, dai comunisti, dal trattato di Versailles e dagli ebrei. Su quelli che non ne erano persuasi, le SA, le SS e la Gestapo (la Polizia segreta di stato) avevano mano libera, e a migliaia scomparirono nei campi di concentramento. Molti di più emigrarono, compresi circa metà degli ebrei tedeschi.
Visita ufficiale di Hitler a Roma, 1938. Sul palco in prima fila da sinistra: Benito Mussolini, Adolf Hitler, Vittorio Emanuele III, Elena del Montenegro; in seconda fila, da sinistra: Joachim von Ribbentrop, Joseph Goebbels, Rudolf Heß, Heinrich Himmler
Per consolidare il suo regime, Hitler aveva bisogno della neutralità dell'esercito e dei magnati dell'industria. Questi erano allarmati dalla componente "socialista" del nazionalsocialismo, che era rappresentata dalle camicie brune delle SA di Ernst Röhm, in gran parte appartenenti alla classe operaia. Per rimuovere questa barriera all'accettazione del regime, Hitler lasciò libero il suo luogotenente, Himmler, di assassinare Röhm e decine di altri nemici reali o potenziali, durante la notte del 29-30 giugno 1934 (conosciuta come la "Notte dei lunghi coltelli"). Un effetto meno visibile della purga, che venne poco percepito all'epoca ma probabilmente rientrava nei progetti di Hitler, fu di focalizzare le energie del partito non più su aspetti sociali (come desiderato dalle SA) ma sui «nemici razziali» della Germania. Secondo alcuni autori, il nazionalsocialismo, nato come ideologia gemella al fascismo italiano, rimase tale solo fino a questo momento dato che con l'eliminazione della corrente "di sinistra" facente capo a Röhm, la corrente "di destra" facente capo ad Hitler prese il sopravvento. Da questo momento il Partito Nazista avrebbe abbracciato implicitamente il capitalismo prefigurandosi come un'ideologia prettamente conservatrice, abbandonando ogni ipotesi rivoluzionaria e quindi rimanendo "socialista" solo nel nome. Questo sarebbe avvenuto come pegno ai poteri economici internazionali che l'avevano sostenuto finanziariamente nell'ascesa al potere[25].
Anche Pino Rauti in una sua opera ritiene che l'epurazione della cosiddetta "ala sinistra" del movimento nazionalsocialista fu inevitabile per Hitler al fine di accreditarsi presso l'esercito, la grande finanza e il club degli industriali, tutti settori che vedevano in von Papen il garante contro la deriva populista da parte del Partito. Infatti, Papen chiese notoriamente a Röhm di esplicitare cosa intendesse per "rivoluzione nazionalsocialista", aggiungendo beffardamente che non si trattasse "... di una rivoluzione antimarxista per favorire l'ascesa al potere d'una corrente filomarxista". Nell'incontro di Venezia con Mussolini (14 giugno 1934, solo due settimane prima della fatidica "Notte dei lunghi coltelli"), Hitler domandò al dittatore italiano come avesse fatto ad incanalare le camicie nere nell'alveo della legalità, preoccupato per il comportamento delle camicie brune naziste. Al che Mussolini, da sempre ritenuto un maestro dal dittatore nazista, gli rispose di averne "eliminato" i capi. Mussolini intendeva un'eliminazione politica, ovvero averne indirizzato i capi a carriere burocratiche, mentre Hitler prese il consiglio alla lettera. Stalin rimase talmente colpito dalla purga hitleriana che prese a pretesto l'uccisione di Sergej Kirov sei mesi dopo (1 dicembre 1934) per perfezionare l'epurazione mutuata da Hitler e dando avvio alle tristemente note "Purghe Staliniane"[11].
Quando Hindenburg morì, il 2 agosto 1934, Hitler, che in quanto già capo del governo (Cancelliere del Reich) non poteva diventare anche Presidente del Reich (capo di stato), creò per sé una nuova carica, quella del Führer, che in pratica gli consentì di avere i poteri del capo di stato. Egli era Führer und Reichskanzler (Guida e Cancelliere del Reich). Dal 1934 sino alla sua morte in Germania non ci fu alcun Presidente del Reich.
Quegli ebrei che non erano emigrati in tempo ebbero a pentirsi della loro esitazione. In base alle Leggi di Norimberga del 1935 persero il loro status di cittadini tedeschi e vennero espulsi dagli impieghi statali, dagli ordini professionali e da gran parte delle attività economiche. Furono oggetto dello sbarramento di una feroce propaganda. Pochi non ebrei tedeschi si opposero a questi passi. Queste restrizioni vennero ulteriormente aggravate, specialmente dopo l'operazione anti-ebraica della notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, conosciuta come Notte dei cristalli (Kristallnacht o Reichskristallnacht). Dal 1941 gli ebrei furono obbligati a indossare una stella di Davide gialla in pubblico.
Nel marzo 1935 Hitler ripudiò il Trattato di Versailles, reintroducendo la coscrizione in Germania. Il suo scopo sembrava quello di costruire una massiccia macchina militare, comprendente una nuova marina (la Kriegsmarine) e una nuova aeronautica militare (la Luftwaffe). Quest'ultima venne posta sotto il comando di Hermann Göring, un comandante veterano della prima guerra mondiale. L'arruolamento di grandi quantità di uomini e donne nel nuovo esercito sembrava risolvere i problemi di disoccupazione, ma distorse seriamente l'economia.
Nel marzo 1936 Hitler violò nuovamente il Trattato, rioccupando la zona demilitarizzata della Renania e, poiché Regno Unito e Francia non si mobilitarono per fermarlo, prese coraggio. Nel luglio 1936 scoppiò la Guerra civile spagnola, dove i militari, guidati dal generale Francisco Franco, si ribellarono contro il governo regolarmente eletto del Fronte Popolare. Hitler inviò delle truppe ad aiutare i ribelli. L'intervento in Spagna servì da prova sul campo per le nuove forze armate tedesche e per i loro metodi, compreso il bombardamento di città indifese come Guernica, che venne distrutta dalla Luftwaffe nell'aprile 1937.
Benito Mussolini e Hitler durante la visita ufficiale nella Jugoslavia occupata
Per dimostrare al mondo la potenza tedesca, Hitler (su idea di Goebbels) ospitò a Berlino l'XI Olimpiade, con una cerimonia iniziale trionfale.
Il 25 ottobre 1936, a Berlino andrà alla firma il Trattato di amicizia fra Italia e Germania. Benito Mussolini, il 1º novembre 1936, in un discorso a Milano, userà per la prima volta il termine Asse Roma-Berlino, riferendosi a tale Trattato. Da qui l'usanza diffusa di considerare il Trattato di amicizia come istitutivo dell'Asse, ma l'alleanza militare, nascerà più tardi (22 maggio 1939), con il Patto d'Acciaio. Questa alleanza venne in seguito allargata a Giappone, Ungheria, Romania e Bulgaria. Queste nazioni sono collettivamente conosciute come Potenze dell'Asse. Il 5 novembre 1937 Adolf Hitler tenne un incontro segreto alla Cancelleria del Reich, in cui dichiarò i suoi piani per l'acquisizione di "spazio vitale" per il popolo tedesco.
Il 12 marzo 1938 l'Austria, con un referendum, si univa con la Germania (il cosiddetto Anschluss) e Hitler, che così poneva le basi della Grande Germania, fece un ingresso trionfale a Vienna. In seguito intensificò la crisi che coinvolgeva gli abitanti di lingua tedesca della regione dei Sudeti in Cecoslovacchia. Questo portò all'Accordo di Monaco del settembre 1938 in cui la Gran Bretagna e la Francia, con la mediazione di Mussolini, cedettero debolmente alle sue richieste per evitare la guerra, sacrificando però la Cecoslovacchia, che fu occupata. I tedeschi entrarono a Praga il 10 marzo 1939.
A questo punto Francia e Gran Bretagna decisero di prendere posizione, e resistettero alla successiva richiesta di Hitler per la restituzione del territorio di Danzica, un territorio tedesco ceduto alla Polonia in base al Trattato di Versailles. Ma le potenze occidentali non furono in grado di giungere ad un accordo con l'Unione Sovietica per un'alleanza contro la Germania, e Hitler ne approfittò. Il 23 agosto 1939 concluse un patto di non-aggressione (il Patto Molotov-Ribbentrop) con Stalin, definendo anche i criteri per la spartizione del territorio polacco.
Il 1º settembre la Germania invase la Polonia. Hitler era certo che Francia e Gran Bretagna non avrebbero onorato il loro impegno con i polacchi per dichiarare guerra alla Germania: "Ho giudicato i loro capi a Monaco: Daladier, Chamberlain, dei vermiciattoli!". Quando la mattina del 3 settembre l'aiutante Schmidt entrò nello studio di Hitler consegnandogli la dichiarazione di guerra dell'Inghilterra, questi restò pietrificato e voltosi verso il suo ministro degli esteri Ribbentrop, con lo sguardo furibondo disse: "Was nun?" (E adesso?). Nell'anticamera, affollata di generali e dignitari del partito, la voce di Göring, appena informato, ruppe il silenzio che si era creato: "Se perdiamo questa guerra, Dio abbia pietà di noi!".
Nei tre anni seguenti Hitler conseguì una serie quasi ininterrotta di successi militari. La Polonia venne rapidamente sconfitta e spartita con i sovietici. Nell'aprile 1940 la Germania invase la Danimarca e la Norvegia (Operazione Weserübung). In maggio iniziò un'offensiva lampo che travolse rapidamente i Paesi Bassi, il Belgio, il Lussemburgo e la Francia (conosciuta come la Campagna di Francia), che collassò nel giro di sei settimane. Il piano per la conquista della Francia, nato dalle idee di Hitler, di Heinz Guderian, leader dei Panzer, e del generale von Manstein, fu un'operazione magistrale, un capolavoro tattico che permise ai tedeschi di travolgere ben 3 eserciti, oltre al BEF. Nell'aprile 1941 toccò alla Jugoslavia e alla Grecia essere invase (Campagna dei Balcani). Nel frattempo le forze tedesche (Afrika Korps), unite a quelle italiane, avanzavano attraverso il Nordafrica verso l'Egitto, puntando Alessandria d'Egitto e Il Cairo. Queste invasioni furono accompagnate dal bombardamento di città indifese come Varsavia, Rotterdam (avvertita e quindi evacuata) e Belgrado. L'unico insuccesso di Hitler fu quello di non riuscire a piegare la Gran Bretagna con i bombardamenti aerei della Battaglia d'Inghilterra.
Il 22 giugno 1941 ebbe inizio l'Operazione Barbarossa. Le forze tedesche, appoggiate dalle nazioni dell'Asse e della Finlandia, invasero l'URSS, occupando rapidamente parte della Russia europea, assediando Leningrado e minacciando Mosca. Durante l'inverno, l'armata di Hitler venne respinta alle porte di Mosca, e il furibondo Fuhrer assunse egli stesso il comando delle forze armate, ma l'estate successiva l'offensiva riprese. Per il luglio 1942 le truppe di Hitler erano sul Volga. Qui vennero sconfitte nella Battaglia di Stalingrado, la prima grossa sconfitta tedesca. In Nordafrica i britannici sconfissero i tedeschi nella Seconda battaglia di El Alamein, contrastando i piani di Hitler di occupare il Canale di Suez e il Medio Oriente.
A proposito della certezza della vittoria bellica da parte del dittatore e i suoi fedeli, Hitler dichiarò testualmente in presenza dei suoi generali:
« Quanto alla propaganda, troverò qualche spiegazione per lo scoppio della guerra. Non importa se plausibile o no, al vincitore non verrà chiesto, poi, se avrà detto o no la verità"L'invasione dell'Unione Sovietica fu anche motivata dal proposito nazionalsocialista, già presente agli albori del movimento, di acquisire il Lebensraum («spazio vitale») per la Germania ad Est, a scapito delle popolazioni slave considerate Untermenschen («sub-umane»). Contemporaneamente, l'operazione Barbarossa si proponeva di abbattere il nemico ideologico rappresentato dal comunismo, parte, secondo l'ideologia hitleriana, del complotto giudaico per il dominio del mondo. Non ultimo, la campagna ad Est avrebbe permesso alla Germania, svaniti i sogni di una rapida campagna occidentale, di raggiungere ed utilizzare le ricche risorse economiche sovietiche rappresentate dal petrolio caucasico e le derrate alimentari ucraine.
Fu immediatamente dopo lo scoppio del conflitto ad Est che la persecuzione ebraica raggiunse la sua fase culminante con l'avvio dei massacri operati dalle Einsatzgruppen che seguivano le forze armate tedesche avanzanti. D'altro canto non esistono prove che nel giugno 1941 esistesse già un piano per una «soluzione finale della questione ebraica». Gli storici rilevano che probabilmente la decisione venne presa in un periodo compreso tra il novembre 1941 e il gennaio 1942 e che la fase operativa si concretizzò solo successivamente.
Per facilitare l'attuazione della Soluzione finale, si tenne a Wannsee, nei pressi di Berlino, una conferenza il 20 gennaio del 1942, con la partecipazione di quindici ufficiali superiori del regime guidati da Reinhard Heydrich e Adolf Eichmann. Le registrazioni della conferenza forniscono le prove più evidenti della pianificazione centrale dell'Olocausto. Tra il 1942 e il 1944 le SS, assistite dai governi collaborazionisti e da personale reclutato nelle nazioni occupate, uccisero in maniera sistematica circa 3,5 milioni di ebrei in sei campi di sterminio localizzati in Polonia: Auschwitz-Birkenau, Bełżec, Chelmno, Majdanek, Sobibor e Treblinka. Altri vennero uccisi meno sistematicamente in altri luoghi e in altri modi, o morirono di fame e malattie mentre lavoravano come schiavi. Al tentativo di genocidio degli ebrei europei ci si è generalmente riferiti nel dopoguerra con la parola Olocausto, ma successivamente è stato adottato dalla comunità internazionale il termine ebraico Shoah, preferito dagli ebrei stessi poiché l'olocausto indica nella cultura ebraica un sacrificio a Dio.
Altri gruppi etnici, sociali e politici sono stati oggetto di persecuzione e in alcuni casi di sterminio durante la "Soluzione finale". Migliaia di socialisti tedeschi, comunisti e altri oppositori del regime morirono nei campi di concentramento, così come un numero alto ma sconosciuto di omosessuali. I Rom e gli zingari, ugualmente considerati razze inferiori, furono anch'essi internati e uccisi nei campi. Circa tre milioni di soldati sovietici, prigionieri di guerra, morirono nei lager, ridotti alla stregua di schiavi. Tutte le nazioni occupate soffrirono privazioni terribili ed esecuzioni di massa: fino a tre milioni di civili polacchi (non-ebrei) morirono durante l'occupazione.
Non è stato ritrovato alcun documento nel quale sia stata pianificata la "Soluzione finale", ma ciò nonostante la stragrande maggioranza degli storici concorda nel ritenere che Hitler ne sia stato l'ideatore, ordinando a Himmler di portare avanti il piano.I primi trionfi persuasero Hitler di essere un genio della strategia militare, per questo motivo divenne sempre meno desideroso di ascoltare i consigli dei suoi generali o anche solo di udire cattive notizie. Dopo la battaglia di Stalingrado, ampiamente considerata come il punto di svolta della seconda guerra mondiale, le sue decisioni militari divennero sempre più erratiche, e la posizione economica e militare della Germania si deteriorò. L'entrata in guerra degli Stati Uniti, il 7 dicembre 1941, oppose alla Germania una coalizione delle principali potenze mondiali: il più grande impero mondiale (l'Impero Britannico), la principale potenza finanziaria e industriale (gli USA), e l'Unione Sovietica, che si era sobbarcata il peso più grande della seconda guerra mondiale in termini di vite umane e altre perdite. I realisti all'interno dell'esercito tedesco videro la sconfitta come inevitabile e complottarono per togliere Hitler dal potere. Nel luglio 1944 uno di loro, Claus von Stauffenberg, piazzò una bomba nel quartier generale di Hitler (il cosiddetto Complotto del 20 luglio), ma Hitler scampò miracolosamente alla morte e ordinò una selvaggia rappresaglia nella quale vennero giustiziati tutti i capi del complotto.
L'alleato di Hitler, Benito Mussolini, venne rovesciato il 25 luglio del 1943. Nel frattempo l'Unione Sovietica continuava costantemente a costringere le armate di Hitler alla ritirata dai territori occupati a est. Ma fintanto che in Europa occidentale non si aprì un altro fronte, la Germania poteva sperare di tenere la posizione, nonostante la sempre più pesante campagna di bombardamenti sulle città tedesche. Il 6 giugno 1944 (D-Day), le armate alleate sbarcarono nel nord della Francia, e per dicembre erano arrivate al Reno. Hitler comandò una disperata offensiva sulle Ardenne, ma con il nuovo anno le armate alleate stavano avanzando sul territorio tedesco. I tedeschi, intanto, avevano invaso l'Italia e instaurarono a Salò uno stato fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana, con a capo Mussolini. Tra il 1943 e il 1945 i tedeschi uccisero migliaia di civili italiani (i peggiori massacri furono quelli di Marzabotto, con 770 vittime, delle Fosse Ardeatine, con 335 morti e di Sant'Anna di Stazzema con 560 vittime civili, per lo più donne e bambini).
In febbraio i sovietici si fecero strada attraverso la Polonia e la Germania orientale, e in aprile arrivarono alle porte di Berlino. I più stretti collaboratori di Hitler gli consigliarono di scappare in Baviera o in Austria, per organizzare una resistenza finale sulle montagne, ma egli era determinato a restare nella capitale fino alla capitolazione.
I primi trionfi persuasero Hitler di essere un genio della strategia militare, per questo motivo divenne sempre meno desideroso di ascoltare i consigli dei suoi generali o anche solo di udire cattive notizie. Dopo la battaglia di Stalingrado, ampiamente considerata come il punto di svolta della seconda guerra mondiale, le sue decisioni militari divennero sempre più erratiche, e la posizione economica e militare della Germania si deteriorò. L'entrata in guerra degli Stati Uniti, il 7 dicembre 1941, oppose alla Germania una coalizione delle principali potenze mondiali: il più grande impero mondiale (l'Impero Britannico), la principale potenza finanziaria e industriale (gli USA), e l'Unione Sovietica, che si era sobbarcata il peso più grande della seconda guerra mondiale in termini di vite umane e altre perdite. I realisti all'interno dell'esercito tedesco videro la sconfitta come inevitabile e complottarono per togliere Hitler dal potere. Nel luglio 1944 uno di loro, Claus von Stauffenberg, piazzò una bomba nel quartier generale di Hitler (il cosiddetto Complotto del 20 luglio), ma Hitler scampò miracolosamente alla morte e ordinò una selvaggia rappresaglia nella quale vennero giustiziati tutti i capi del complotto.
L'alleato di Hitler, Benito Mussolini, venne rovesciato il 25 luglio del 1943. Nel frattempo l'Unione Sovietica continuava costantemente a costringere le armate di Hitler alla ritirata dai territori occupati a est. Ma fintanto che in Europa occidentale non si aprì un altro fronte, la Germania poteva sperare di tenere la posizione, nonostante la sempre più pesante campagna di bombardamenti sulle città tedesche. Il 6 giugno 1944 (D-Day), le armate alleate sbarcarono nel nord della Francia, e per dicembre erano arrivate al Reno. Hitler comandò una disperata offensiva sulle Ardenne, ma con il nuovo anno le armate alleate stavano avanzando sul territorio tedesco. I tedeschi, intanto, avevano invaso l'Italia e instaurarono a Salò uno stato fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana, con a capo Mussolini. Tra il 1943 e il 1945 i tedeschi uccisero migliaia di civili italiani (i peggiori massacri furono quelli di Marzabotto, con 770 vittime, delle Fosse Ardeatine, con 335 morti e di Sant'Anna di Stazzema con 560 vittime civili, per lo più donne e bambini).
In febbraio i sovietici si fecero strada attraverso la Polonia e la Germania orientale, e in aprile arrivarono alle porte di Berlino. I più stretti collaboratori di Hitler gli consigliarono di scappare in Baviera o in Austria, per organizzare una resistenza finale sulle montagne, ma egli era determinato a restare nella capitale fino alla capitolazione.
I primi trionfi persuasero Hitler di essere un genio della strategia militare, per questo motivo divenne sempre meno desideroso di ascoltare i consigli dei suoi generali o anche solo di udire cattive notizie. Dopo la battaglia di Stalingrado, ampiamente considerata come il punto di svolta della seconda guerra mondiale, le sue decisioni militari divennero sempre più erratiche, e la posizione economica e militare della Germania si deteriorò. L'entrata in guerra degli Stati Uniti, il 7 dicembre 1941, oppose alla Germania una coalizione delle principali potenze mondiali: il più grande impero mondiale (l'Impero Britannico), la principale potenza finanziaria e industriale (gli USA), e l'Unione Sovietica, che si era sobbarcata il peso più grande della seconda guerra mondiale in termini di vite umane e altre perdite. I realisti all'interno dell'esercito tedesco videro la sconfitta come inevitabile e complottarono per togliere Hitler dal potere. Nel luglio 1944 uno di loro, Claus von Stauffenberg, piazzò una bomba nel quartier generale di Hitler (il cosiddetto Complotto del 20 luglio), ma Hitler scampò miracolosamente alla morte e ordinò una selvaggia rappresaglia nella quale vennero giustiziati tutti i capi del complotto.
L'alleato di Hitler, Benito Mussolini, venne rovesciato il 25 luglio del 1943. Nel frattempo l'Unione Sovietica continuava costantemente a costringere le armate di Hitler alla ritirata dai territori occupati a est. Ma fintanto che in Europa occidentale non si aprì un altro fronte, la Germania poteva sperare di tenere la posizione, nonostante la sempre più pesante campagna di bombardamenti sulle città tedesche. Il 6 giugno 1944 (D-Day), le armate alleate sbarcarono nel nord della Francia, e per dicembre erano arrivate al Reno. Hitler comandò una disperata offensiva sulle Ardenne, ma con il nuovo anno le armate alleate stavano avanzando sul territorio tedesco. I tedeschi, intanto, avevano invaso l'Italia e instaurarono a Salò uno stato fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana, con a capo Mussolini. Tra il 1943 e il 1945 i tedeschi uccisero migliaia di civili italiani (i peggiori massacri furono quelli di Marzabotto, con 770 vittime, delle Fosse Ardeatine, con 335 morti e di Sant'Anna di Stazzema con 560 vittime civili, per lo più donne e bambini).
In febbraio i sovietici si fecero strada attraverso la Polonia e la Germania orientale, e in aprile arrivarono alle porte di Berlino. I più stretti collaboratori di Hitler gli consigliarono di scappare in Baviera o in Austria, per organizzare una resistenza finale sulle montagne, ma egli era determinato a restare nella capitale fino alla capitolazione.
I primi trionfi persuasero Hitler di essere un genio della strategia militare, per questo motivo divenne sempre meno desideroso di ascoltare i consigli dei suoi generali o anche solo di udire cattive notizie. Dopo la battaglia di Stalingrado, ampiamente considerata come il punto di svolta della seconda guerra mondiale, le sue decisioni militari divennero sempre più erratiche, e la posizione economica e militare della Germania si deteriorò. L'entrata in guerra degli Stati Uniti, il 7 dicembre 1941, oppose alla Germania una coalizione delle principali potenze mondiali: il più grande impero mondiale (l'Impero Britannico), la principale potenza finanziaria e industriale (gli USA), e l'Unione Sovietica, che si era sobbarcata il peso più grande della seconda guerra mondiale in termini di vite umane e altre perdite. I realisti all'interno dell'esercito tedesco videro la sconfitta come inevitabile e complottarono per togliere Hitler dal potere. Nel luglio 1944 uno di loro, Claus von Stauffenberg, piazzò una bomba nel quartier generale di Hitler (il cosiddetto Complotto del 20 luglio), ma Hitler scampò miracolosamente alla morte e ordinò una selvaggia rappresaglia nella quale vennero giustiziati tutti i capi del complotto.
L'alleato di Hitler, Benito Mussolini, venne rovesciato il 25 luglio del 1943. Nel frattempo l'Unione Sovietica continuava costantemente a costringere le armate di Hitler alla ritirata dai territori occupati a est. Ma fintanto che in Europa occidentale non si aprì un altro fronte, la Germania poteva sperare di tenere la posizione, nonostante la sempre più pesante campagna di bombardamenti sulle città tedesche. Il 6 giugno 1944 (D-Day), le armate alleate sbarcarono nel nord della Francia, e per dicembre erano arrivate al Reno. Hitler comandò una disperata offensiva sulle Ardenne, ma con il nuovo anno le armate alleate stavano avanzando sul territorio tedesco. I tedeschi, intanto, avevano invaso l'Italia e instaurarono a Salò uno stato fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana, con a capo Mussolini. Tra il 1943 e il 1945 i tedeschi uccisero migliaia di civili italiani (i peggiori massacri furono quelli di Marzabotto, con 770 vittime, delle Fosse Ardeatine, con 335 morti e di Sant'Anna di Stazzema con 560 vittime civili, per lo più donne e bambini).
In febbraio i sovietici si fecero strada attraverso la Polonia e la Germania orientale, e in aprile arrivarono alle porte di Berlino. I più stretti collaboratori di Hitler gli consigliarono di scappare in Baviera o in Austria, per organizzare una resistenza finale sulle montagne, ma egli era determinato a restare nella capitale fino alla capitolazione.
Le sue armate tedesche non riuscirono ad arrestare l'avanzata degli alleati, e mentre i sovietici si aprivano la strada verso il centro di Berlino, secondo le voci ufficiali, Hitler si suicidò nel suo bunker il 30 aprile 1945, insieme alla storica amante Eva Braun che aveva sposato il giorno prima. Aveva 56 anni. Come parte delle sue ultime volontà, ordinò che il suo corpo venisse portato all'esterno e bruciato. Nel suo testamento, scaricò tutti gli altri leader nazisti e nominò il grandammiraglio Karl Dönitz come nuovo Presidente del Reich[30] e Joseph Goebbels come nuovo Cancelliere del Reich. Tuttavia quest'ultimo si suicidò il 1º maggio 1945 insieme alla moglie dopo aver ucciso i suoi sei figli. L'8 maggio 1945, la Germania si arrese. Il "Reich millenario" di Hitler era durato poco più di 12 anni.
I resti parzialmente carbonizzati di Hitler vennero trovati e identificati dai sovietici (attraverso le impronte delle arcate dentarie) e in seguito seppelliti a Magdeburgo nella Germania orientale. Pare che intorno all'aprile 1970 nella zona in cui i resti furono seppelliti, venne deciso di costruire una zona residenziale. I servizi segreti sovietici, quindi, riesumarono i resti di Hitler, di Eva Braun, di Joseph Goebbels e della sua famiglia, li cremarono e infine gettarono le ceneri nel fiume Elba. Attualmente rimangono a Mosca, nell'archivio di stato della federazione russa, una parte di calotta cranica e di mandibola di Adolf Hitler.
Adolf Hitler nacque alle 18.30 circa del 20 aprile 1889 a Braunau am Inn, nella locanda "Gasthof Zum Pommern" (in italiano: "Locanda del Pomerano", ancora esistente). La cittadina si trova vicino a Linz nella regione dell'Alta Austria, allora parte dell'Impero austro-ungarico.Fu figlio di terzo letto di Alois Hitler (1837-1903) un ufficiale inferiore delle dogane. La madre era Klara Pölzl, terza moglie di Alois. Dei loro sei figli, solo Adolf e sua sorella Paula sopravvissero all'infanzia.
Anche i fratellastri Alois e Angela, frutto del precedente matrimonio del padre con la cuoca d'albergo Franziska Matzelsberger, vissero più a lungo. Di Alois, condannato più volte per furto, e successivamente per bigamia ad Amburgo, nel 1924, non si poteva far cenno in presenza di Hitler che continuò ad ignorarlo anche dopo che aveva avviato a Berlino, in Wittenbergplatz, un florido locale, frequentato dai gerarchi del regime . Per lo storico Konrad Heiden, Angela fu, invece l'unica parente con cui Hitler conservò un legame affettuoso sino all'ultimo. Fu sua governante a Berchtesgaden dal 1928 sino al matrimonio, con un professore di architettura di Dresda, nel 1936. Con la figlia di primo matrimonio della sorellastra, Geli Raubal, egli intrattenne successivamente una profonda relazione.
Della prima infanzia del futuro dittatore tedesco non si conosce molto. Stanti le testimonianze di molti gerarchi nazisti, Hitler fu sempre molto legato al suo paese natale, tanto da farsi effigiare vicino alla chiesa di Braunau in un francobollo del 1938 commemorativo del suo compleanno e dell'annessione dell'Austria al Terzo Reich avvenuta il mese precedente ("Anschluss"). Nelle sue memorie, Albert Speer fa riferimento a confidenze fattegli da Hitler in persona circa la giustificazione del suo amore verso la Germania in virtù del fatto che - fino alla rettifica dei confini operata al Congresso di Vienna del 1814, Braunau apparteneva al Regno di Baviera, il che è storicamente comprovato.
Alois Hitler era figlio illegittimo, e per questo da giovane utilizzò il cognome della madre, Schicklgruber. Successivamente adottò legalmente il cognome del padre naturale (che però non lo riconobbe mai), trasformandolo da Hiedler (o Hüttler) in Hitler. Se effettivamente Alois fosse il figlio naturale di Johann Georg Hiedler (1792-1857), il padre di Adolf sarebbe stato parente di sangue della propria moglie Klara, la cui madre si chiamava Hüttler e potrebbe essere stata sua cugina.
Il figlio Adolf non usò mai il cognome Schicklgruber. In seguito i suoi avversari politici fecero circolare delle voci che insinuavano che Hitler fosse di origine ebrea: infatti, dopo che Maria Teresa d'Austria aveva dato la cittadinanza piena agli ebrei che si convertivano al cattolicesimo, essi usavano tradurre i loro cognomi ebraici in tedesco, e Schicklgruber era un cognome comune tra gli ebrei convertiti.
La madre di Hitler
Inoltre, una diversa fonte afferma che Hitler non sapesse con certezza chi fosse stato suo nonno. La fonte (postbellica) è quella espressa da Hans Frank (che scrive nel corso del processo di Norimberga) secondo il quale Hitler sarebbe stato per un quarto ebreo in quanto sua nonna Maria Anna Schicklgruber sarebbe rimasta incinta del padre di Adolf mentre era al servizio a Graz, in Austria, presso la famiglia di un ricco commerciante ebreo, tale Frankenbergern, il quale avrebbe pagato delle somme a favore del presunto di lui figlio Alois. Tuttavia è stato dimostrato che nessuna famiglia ebrea (né tantomeno alcun ebreo di nome Frankenbergern) si trovava a Graz in quel periodo (vedi Ron Rosenbaum: "Il mistero Hitler"), né esiste alcuna prova dei presunti versamenti a favore di Alois. Non è vero che Adolf adottò il proprio cognome "Hitler" come nome d'arte quando dipingeva, in quanto Hitler era il suo cognome legittimo.
Il padre di Hitler
Alcuni studi condotti nel 2010 dallo storico Jean-Paul Mulders e dal giornalista Marc Vermeeren su campioni di saliva di 39 dei parenti ancora in vita di Adolf Hitler, confermano le ascendenze ebraiche del futuro Führer. Lo studio ha inoltre accertato anche discendenze nordafricane, avendo trovato il cromosoma Aplogruppo Eib1b1, raro tra gli occidentali ma comune ad ebrei e berberi del Marocco.
Hitler era un bambino intelligente ma umorale, e fu bocciato due volte agli esami per ottenere l'ammissione all'educazione superiore a Linz. Era devoto alla sua indulgente madre e sviluppò un odio per suo padre, verosimilmente motivato dai crudeli maltrattamenti psicofisici ricevuti.
Non è facile tracciare organicamente un quadro dell'adolescenza di Adolf Hitler. Il testo più completo al riguardo è quello di Joachim Fest[9]. Dopo esser andato in pensione (1895), Alois si trasferì con la famiglia al seguito a Leonding, vicino a Linz, dove iscrisse il figlio Adolf alle scuole elementari del sobborgo di Fishlman. Alois Hitler morì il 2 gennaio 1903 per un'emorragia polmonare. Aveva sempre avversato la tendenza artistica del figlio, anche con modi molto bruschi, com'ebbe a ricordare Hitler in persona in diverse occasioni. Nel 1904, durante la catechesi per la cresima, Hitler per un paio di mesi meditò di farsi prete, essendo molto affascinato dalle celebrazioni religiose. Nel frattempo il suo rendimento scolastico peggiorava, dovendo affrontare gli esami di riparazione a settembre sia nel 1904 che nel 1905. Addirittura, ad ottobre del 1904, gli venne rifiutata l'iscrizione alla sua scuola di Linz per cattiva condotta e venne indirizzato a Steyr, una cittadina lontana 25 km. Terminata la scuola dell'obbligo nel settembre 1905, venne ritrovato privo di sensi a causa di un'ubriacatura, cosa che indusse il futuro dittatore ad avversare l'alcool per il resto dei suoi giorni.
Hitler trascorse due anni da nullafacente, girovagando per Linz assieme ad un amico, anch'egli con velleità artistiche, tale August Kubizek, sempre molto pungolato dalla madre affinché trovasse un lavoro. In questo periodo Hitler confidò all'amico d'essersi infatuato di una ragazza bionda di nome Stephanie (Stefanie Rabatsch). Nella primavera del 1906 Hitler partì alla volta di Vienna una prima volta per ritirare il bando d'ammissione all'Accademia delle Belle Arti e per esercitarsi a dipingere soggetti umani ed opere architettoniche (i temi dell'esame di ammissione). La madre, dal carattere mite e remissivo, accondiscese alle richieste del figlio d'iscriversi all'Accademia delle Belle Arti di Vienna, da dove Hitler venne respinto una prima volta (ottobre 1907) all'esame di ammissione ed una seconda e definitiva volta l'anno successivo (nel 1908 non riuscì nemmeno ad essere ammesso a sostenere l'esame preliminare).
Il 14 gennaio 1907 alla madre, già da alcuni mesi incapace di dormire per i prolungati dolori al petto, venne diagnosticato un carcinoma mammario ulcerato in stadio avanzato e subì una mastectomia radicale una settimana dopo. Ma fu tutto inutile a causa della diagnosi tardiva. Per tutto il 1907 Hitler si prese cura della madre e dell'appartamento in cui vivevano. La vedova, Klara, morì all'età di 47 anni all'alba del 21 dicembre 1907 («Il Natale peggiore di tutta la mia vita" ebbe ad affermare Hitler a Mussolini durante l'ultima visita che il dittatore italiano fece al Führer nel 1944 alla "Tana del lupo"»). Il medico che curò invano la madre di Hitler era ebreo, tale Eduard Bloch, e non soffrì alcuna persecuzione durante tutto il regime hitleriano. Hitler gli espresse tutta la sua gratitudine per aver tentato invano di salvargli la madre: «Sappia che non lo dimenticherò mai!». Il diciannovenne Adolf rimase così orfano. Sua madre riposa tuttora in una tomba del cimitero di Leonding, accanto a quelle del marito e di uno dei figli morto in tenera età; Hitler tuttavia andò a visitare il cimitero soltanto dopo l'annessione dell'Austria alla Germania nel 1938. Ben presto lasciò la sua casa per Vienna, dove aveva vaghe speranze di diventare un artista. Aveva diritto a una pensione da orfano, che integrava lavorando come illustratore. Aveva un certo talento artistico e spesso elaborava dipinti di case e grandi palazzi. Si conservano alcune tele di discreta fattura. Perse la sua pensione nel 1910, ma per allora aveva ereditato qualche soldo da una zia.
Fu a Vienna, dove visse tra il febbraio 1908 e il maggio 1913, che Hitler iniziò ad avvicinarsi all'antisemitismo, un'ossessione che avrebbe dominato la sua vita e sarebbe divenuta la chiave di molte delle sue azioni successive. Vienna aveva una grossa comunità ebraica, comprendente molti ebrei ortodossi dell'Europa orientale. Hitler in seguito ricordò il suo disgusto nell'incontrare gli ebrei viennesi. In quegli anni venne stampata una rivista zeppa di teorie e tesi antisemite dal nome di "Ostara", che pure Hitler risulta leggesse alla sera al dormitorio comunale, come testimoniarono alcuni suoi compagni di camera.
A Vienna l'antisemitismo si era sviluppato dalle sue origini religiose in una dottrina politica, promosso da pubblicisti come Lanz von Liebenfels, i cui libelli venivano letti da Hitler, e da politici come Karl Lueger, borgomastro di Vienna, o Georg Ritter von Schönerer, che contribuì agli aspetti razziali dell'antisemitismo. Da loro Hitler acquisì il credo nella superiorità della razza ariana, che formò le basi delle sue idee politiche. Hitler arrivò a credere che gli ebrei fossero i nemici naturali degli "ariani", e fossero anche in qualche modo responsabili per la sua povertà e incapacità di ottenere il successo che credeva di meritare. Il rapporto di Hitler con il problema ebraico e la sua genesi in questi anni è comunque piuttosto controverso, infatti testimonianze di Reinhold Hanisch sottolineano come Hitler tenesse rapporti di amicizia e dialogo con alcuni ebrei.
I soldi ereditati dalla zia ben presto terminarono, e per diversi anni Hitler visse in una relativa oscurità; non si trovò mai in condizioni di reale indigenza, anche se dormiva in ostelli per soli uomini. Durante il tempo libero assisteva spesso all'opera nelle sale da concerto di Vienna, prediligendo i temi della mitologia norrena di Richard Wagner. Tra il 1909 ed il 1910 Hitler venne sfrattato per morosità per ben due volte, la prima da una squallida stanza nel quartiere viennese di Alsergund; la seconda volta da una vera e propria bettola poco distante. Nel biennio 1911 - 1913 Hitler si adattò a dormire al dormitorio pubblico di Meidling, nelle vicinanze della stazione ferroviaria, dove giunse nel dicembre 1910, ed a mangiare alla mensa del Convento dei Fratelli della Carità. Guadagnava un qualche spicciolo vendendo acquerelli da lui stesso dipinti ed era a tal punto emaciato che un passante ebreo, che vendeva vestiti usati, che gli era forse riconoscente per aver dipinto alcuni cartelloni pubblicitari per il suo negozio, si tolse il cappotto e glielo regalò. A detta di alcuni suoi compagni di dormitorio, gran parte degli acquirenti dei cartelloni di Hitler erano ebrei. In quegli anni il suo più caro amico fu un ceco, tale Reinhold Hanisch, fino a quando non litigarono sulla spartizione dei compensi e Hitler lo denunciò per furto, facendolo condannare nell'agosto 1910 ad otto giorni di carcere dopo i quali Hanisch continuò a falsificare acquerelli. Nel 1936 venne condannato dalla corte di Vienna per frode e morì l'anno seguente in carcere, probabilmente a causa di un attacco cardiaco.
Come ebbe a scrivere nel Mein Kampf, e come fu riconosciuto da chi lo conobbe nel periodo viennese, egli si dedicava instancabilmente alla lettura, cui dedicava molte ore del giorno e della notte. Ciò, unito alle dure esperienze esistenziali gli avrebbe fatto definire Vienna come "...la più seria e profonda scuola della mia vita...Non mi toccò di aggiunger poi gran cosa a quello che avevo accumulato allora."
Il 25 maggio 1913 Hitler si spostò a Monaco di Baviera, nel quartiere di Schwabing. La fuga da Vienna avvenne per evitare di prestare servizio militare nell'esercito austro-ungarico, dal momento che, com'ebbe a scrivere nel suo Mein Kampf, "quel crogiuolo di popoli inferiori mi aborriva". Lo fece per un motivo: sfuggire alle varie notifiche che gli inviano a casa, per la leva militare (come Mussolini, del resto, in quegli anni). Tuttavia non riuscì a sfuggire alla polizia che ne chiese e ottenne l'estradizione. Nel gennaio del 1914, bloccato in Baviera, dovette presentarsi al distretto militare di Salisburgo per la visita di leva. I medici militari lo giudicarono inidoneo senza neppur visitarlo il 5 febbraio e lo mandarono a casa "riformato", inabile perfino al servizio ausiliario, perché "gracile nel fisico, denutrito e mal ridotto nell'intero aspetto da sembrare tisico". Invece di essere contento, quel rifiuto - per Hitler - fu una ferita all'orgoglio. Hitler decise di rinunciare alla cittadinanza austriaca e, non avendo ottenuto quella tedesca, divenne apolide. Hitler visse in una soffitta sita al numero 34 di Schellesserheimerstrasse.Il primo agosto 1914, quando l'Impero tedesco entrò nella prima guerra mondiale, si arruolò come volontario nel Battaglione Bavarese ("Reggimento List") dell'esercito tedesco del Kaiser Guglielmo II.
Ottenne il grado di caporale e prestò servizio attivo in Francia e Belgio come staffetta portaordiniDopo la guerra Hitler rimase nell'esercito, che veniva ora impegnato principalmente nella repressione delle rivoluzioni socialiste che scoppiavano in tutta la Germania, compresa Monaco, dove Hitler tornò nel 1919. Mentre era ancora nell'esercito, il 12 settembre 1919 venne incaricato di spiare[24] gli incontri di un piccolo partito nazionalista, il Partito Tedesco dei Lavoratori (DAP). Assistette all'orazione di Gottfried Feder contro il capitalismo e contro il pangermanesimo. Ad una riunione del DAP intervenne contro un oratore che si era espresso a favore della secessione della Baviera in una nazione tedesca meridionale [4] e lì s'accorse, come confidò a Galeazzo Ciano successivamente, di aver "...una sorta di carisma magnetico sulla platea che rimase letteralmente estasiata". Affascinato dal suo intervento Anton Drexler lo iscrisse, senza averlo nemmeno consultato,[4] al partito come membro numero 555 nella primavera del 1920 (nel marzo 1920 aveva lasciato l'esercito per incompatibilità con l'impegno politico). In realtà il partito era talmente piccolo che i primi 500 numeri corrispondevano a tessere inesistenti. Speer testimoniò che Hitler rimase scioccato da questo trucco. Il 14 agosto incontrò per la prima volta Dietrich Eckart, un antisemita e uno dei primi membri chiave del partito, in occasione di un discorso tenuto davanti ai membri del DAP.
Francobollo tedesco
Hitler non venne congedato dall'esercito fino al 1920, dopo di che cominciò a prendere parte a tempo pieno alle attività del partito. Ne divenne ben presto il leader e ne cambiò il nome in Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (National Sozialistische Deutsche Arbeitspartei - NSDAP), normalmente conosciuto come "Partito Nazista" da National Sozialistische, in contrasto con Sozi, un termine usato per indicare il Partito Socialdemocratico Tedesco. Il partito adottò come simbolo la svastica, nella convinzione, errata, che il simbolo fosse di origine "ariana" e indoeuropea, nonché il saluto romano usato dai fascisti italiani.
Il Partito Nazista era solo uno dei numerosi piccoli gruppi estremisti della Monaco di quell'epoca, ma Hitler scoprì ben presto di avere un talento notevole nell'oratoria pubblica e nell'ispirare la lealtà delle persone. La sua oratoria, che attaccava gli ebrei, i socialisti e i liberali, i capitalisti e i comunisti, iniziò ad attrarre nuovi aderenti. Tra i primi seguaci troviamo Rudolf Hess, Hermann Göring ed Ernst Röhm, che sarebbe stato il capo dell'organizzazione paramilitare nazista, la SA (Sturmabteilung). Nel 1921 fu condannato a tre mesi di prigione, di cui solo uno scontato, per aver personalmente guidato un attacco delle SA contro un comizio, culminato con l'aggressione dell'oratore, un federalista bavarese di nome Ballerstedt. Un altro suo ammiratore fu il Maresciallo di Campo dell'epoca di guerra, Erich Ludendorff. Hitler decise di usare Ludendorff come facciata in un tentativo abbastanza velleitario di conquistare il potere, il "Putsch di Monaco" dell'8 novembre 1923, quando i nazisti marciarono da una birreria fino al Ministero della Guerra bavarese, intendendo rovesciare il governo separatista di destra della Baviera e da lì marciare su Berlino. Hitler fece affidamento principalmente sull'aiuto degli ex combattenti delusi dalla Repubblica di Weimar riuniti nelle organizzazioni paramilitari dei "Corpi Franchi" (Freikorps).
Il colpo di stato fallì e Hitler venne processato per alto tradimento; tuttavia, egli si servì del processo per diffondere il suo messaggio in tutta la Germania. Nell'aprile 1924 venne condannato a cinque anni di carcere nella prigione di Landsberg. Qui Hitler lesse l'opera di Henry Ford L'Ebreo internazionale e, ispirandosi a questa, scrisse la sua famosa opera Mein Kampf (La mia battaglia). Questo lavoro ponderoso conteneva le idee di Hitler sulla razza, la storia e la politica, compresi numerosi avvertimenti sul destino che attendeva i suoi nemici, specialmente gli ebrei, nel caso in cui fosse riuscito a salire al potere. Il libro venne pubblicato la prima volta in due volumi: il primo nel 1925 e il secondo un anno dopo. Le prospettive di un Hitler al potere sembravano così remote, a quel tempo, che nessuno prese seriamente i suoi scritti.
Considerato relativamente innocuo, Hitler ottenne una riduzione della pena. Venne rilasciato nel dicembre 1924 dopo solo nove mesi. A quel momento il Partito Nazista a malapena esisteva e i suoi capi dovettero adoperarsi a lungo per ricostruirlo.
Durante questi anni Hitler formò un gruppo che sarebbe in seguito diventato uno degli strumenti chiave nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Poiché le SA di Röhm erano inaffidabili e prive di disciplina, e formavano una base di potere separata all'interno del partito, Hitler costituì una guardia del corpo personale, le Schutzstaffeln ("unità di protezione" o SS). Questo corpo d'élite dalle uniformi nere venne guidato da Heinrich Himmler, il principale esecutore dei piani di Hitler sulla "questione ebraica", durante la seconda guerra mondiale.
Un elemento chiave del fascino esercitato da Hitler sul popolo tedesco si trovava nel suo costante fare appello all'orgoglio nazionale, ferito dalla sconfitta in guerra e umiliato dal Trattato di Versailles, imposto all'Impero germanico dagli Stati vincitori. L'Impero, infatti, dovette cedere territori a Francia, Polonia, Belgio e Danimarca, abbandonare le sue colonie, dismettere la Marina, pagare un conto salatissimo per le riparazioni di guerra, e assumersi la piena responsabilità e colpevolezza dello scoppio del conflitto. Siccome molti tedeschi non credevano che fosse stata la Germania a dar inizio alla guerra (essendo stata dichiarata dall'Austria), né di essere stati sconfitti sul campo, erano amaramente risentiti per questi termini. Anche se i primi tentativi, da parte dei nazisti, di guadagnare voti con la condanna delle umiliazioni e delle macchinazioni dell'"ebraismo internazionale" non ebbero particolare successo con l'elettorato, la propaganda di partito imparò la lezione, e presto capovolse la situazione a proprio vantaggio attraverso un'espressione più subdola dei suoi contenuti, che combinava l'antisemitismo con attacchi "spiritati" contro i fallimenti del "sistema di Weimar" e i partiti che l'appoggiavano. (Ordonnanz). Fu ferito ad una coscia durante la battaglia della Somme, il 7 ottobre 1916, e fu ricoverato nell'ospedale di Beelitz, non lontano da Berlino. Nel marzo 1917 tornò al fronte. Hitler combatté tutte le più sanguinose battaglie sul fronte delle Fiandre, ed essendosi distinto in combattimento ricevette la Croce di Ferro di seconda classe (novembre 1916) e quindi di prima classe nell'agosto 1918. Quest'ultima onorificenza era all'epoca raramente usata per premiare i sottoufficiali.
Accecato temporaneamente da un attacco di iprite nell'ottobre 1918, fu ricoverato all'Ospedale Militare di Pasewalk dove apprese la notizia della capitolazione tedesca del 9 novembre.
Durante la guerra Hitler acquisì un appassionato patriottismo tedesco, anche se non era un cittadino dell'Impero germanico (un aspetto a cui non pose rimedio fino al 1932). Fu sconvolto dalla capitolazione tedesca nel novembre 1918, quando l'esercito, a suo dire, non era stato sconfitto. Egli, come molti altri nazionalisti, incolpò gli ebrei di avere attizzato focolai rivoluzionari bolscevichi, che avrebbero minato dall'interno la resistenza dei soldati al fronte, e indotto i politici (i "criminali di novembre") alla resa e alla sottoscrizione del trattato di Versailles.Il punto di svolta delle fortune di Hitler giunse con la Grande depressione che colpì la Germania nel 1930. Il regime democratico costituito in Germania nel 1919, la cosiddetta Repubblica di Weimar, non era mai stato genuinamente accettato dai conservatori e neanche dal potente Partito Comunista. I Socialdemocratici e i partiti tradizionali del centro e della destra si mostrarono inadeguati nel contenere lo shock della Depressione ed erano, inoltre, tutti segnati dall'associazione con il "sistema di Weimar". Nelle elezioni del 14 settembre 1930 il partito nazionalsocialista sorse improvvisamente dall'oscurità e si guadagnò oltre il 18% dei voti e 107 seggi nel Reichstag, diventando così la seconda forza politica in Germania.
Il successo di Hitler si basava sulla conquista della classe media, colpita duramente dall'inflazione degli anni venti e dalla disoccupazione portata dalla Depressione. Contadini e veterani di guerra costituivano altri gruppi che supportavano i nazisti, influenzati dai mistici richiami dell'ideologia Volk (popolo) al mito del sangue e della terra. La classe operaia urbana, invece, in genere ignorava gli appelli di Hitler; Berlino e le città della regione della Ruhr gli erano particolarmente ostili; infatti in queste città il Partito Comunista era ancora forte, ma si opponeva anch'esso al governo democratico, ragion per cui si rifiutò di cooperare con gli altri partiti per bloccare l'ascesa di Hitler.
Le elezioni del 1930 furono un disastro per il governo di centro-destra di Heinrich Brüning, che si vedeva privato della maggioranza al Reichstag, affidato alla tolleranza dei Socialdemocratici e costretto all'uso dei poteri d'emergenza da parte del Presidente della Repubblica per restare al governo. Con le misure austere introdotte da Brüning per contrastare la Depressione, avare di successi, il governo era ansioso di evitare le elezioni presidenziali del 1932, e sperava di garantirsi l'accordo con i nazisti per estendere il mandato di Hindenburg. Ma Hitler si rifiutò e anzi corse contro Hindenburg nelle elezioni presidenziali, arrivando secondo nelle due tornate elettorali, superando il 35% dei voti nella seconda occasione, in aprile, nonostante i tentativi del Ministro degli Interni Wilhelm Groener e del governo Socialdemocratico della Prussia di limitare le attività pubbliche dei nazisti, soprattutto bandendo le SA.
L'imbarazzo delle elezioni pose fine alla tolleranza di Hindenburg nei confronti di Brüning, e il vecchio Maresciallo di Campo dimise il governo e ne nominò uno nuovo guidato dal reazionario Franz von Papen, che immediatamente abrogò il bando sulle SA e indisse nuove elezioni per il Reichstag. Alle elezioni del luglio 1932 i nazisti ottennero il loro migliore risultato, vincendo 230 seggi e diventando il partito di maggioranza relativa. In quel momento i nazisti e i comunisti controllavano la maggioranza del Reichstag, e la formazione di un governo di maggioranza stabile, impegnato alla democrazia, era impossibile. A seguito quindi del voto di sfiducia sul governo von Papen, appoggiato dall'84% dei deputati, il nuovo Reichstag si dissolse immediatamente e furono indette nuove elezioni per novembre.
Von Papen e il Partito di Centro aprirono entrambi dei negoziati per assicurarsi la partecipazione nazista al governo, ma Hitler pose delle condizioni dure, chiedendo il cancellierato e il consenso del Presidente che gli permettesse di utilizzare i poteri d'emergenza dell'articolo 48 della costituzione. Il tentativo fallito di entrare nel governo, unito agli sforzi nazisti di ottenere il supporto della classe operaia, alienarono alcuni dei precedenti sostenitori e nelle elezioni del novembre 1932 i nazisti persero dei voti, pur rimanendo il principale partito del Reichstag.
Poiché von Papen aveva chiaramente fallito nei suoi tentativi di garantirsi una maggioranza attraverso la negoziazione che avrebbe portato i nazisti al governo, Hindenburg lo dimise e chiamò al suo posto il generale Kurt von Schleicher, che era stato per lungo tempo una forza dietro le quinte e successivamente Ministro della Difesa, il quale promise di poter garantire un governo di maggioranza attraverso la negoziazione con i sindacalisti Socialdemocratici e con la fazione nazista dissidente, guidata da Gregor Strasser.
Quando Schleicher si imbarcò in questa difficile missione, von Papen e Alfred Hugenberg, Segretario del Partito Popolare Tedesco-Nazionale (DNVP), che prima dell'ascesa nazista era il principale partito di destra, cospirarono per persuadere Hindenburg a nominare Hitler come cancelliere in coalizione con il DNVP, promettendo che sarebbero stati in grado di controllarlo. Quando Schleicher fu costretto ad ammettere il suo fallimento, e chiese ad Hindenburg un altro scioglimento del Reichstag, Hindenburg lo silurò e mise in atto il piano di von Papen, nominando Hitler Cancelliere con von Papen come Vicecancelliere e Hugenberg come Ministro dell'Economia, in un gabinetto che comprendeva solo tre nazisti; Hitler, Göring, e Wilhelm Frick. Il 30 gennaio 1933, Adolf Hitler prestò giuramento come Cancelliere nella camera del Reichstag, sotto gli sguardi e gli applausi di migliaia di sostenitori del nazismo.
Il Partito Comunista Tedesco, vincolato da Mosca, ebbe larga parte delle responsabilità nell'ascesa al potere di Hitler. Fin dal 1929 Stalin aveva spinto il Comintern ad adottare una politica di estremo settarismo verso tutti gli altri partiti di sinistra; i socialdemocratici erano trattati come "social-fascisti" e nessuna alleanza doveva essere stretta con loro. Questo serviva ai fini politici interni di Stalin, ma ebbe conseguenze opposte in Germania. Il Partito Comunista, non solo fallì nell'opporsi ai nazisti in alleanza con i socialdemocratici, ma cooperò tatticamente con i primi (soprattutto in occasione dello sciopero dei trasporti pubblici berlinesi del 1932). Furono presto costretti a capire l'errore di questa politica. Usando il pretesto dell'Incendio del Reichstag, Hitler emise il "Decreto dell'incendio del Reichstag" il 28 febbraio 1933, a meno di un mese dall'insediamento. Il decreto sopprimeva diversi importanti diritti civili in nome della sicurezza nazionale. I leader comunisti, assieme ad altri oppositori del regime, si trovarono ben presto in prigione. Al tempo stesso le SA lanciarono un'ondata di violenza contro i movimenti sindacali, gli ebrei e altri "nemici".
Tuttavia Hitler non aveva ancora la nazione in pugno. La nomina a Cancelliere e il suo uso dei meccanismi incastonati nella costituzione per approdare al potere hanno portato al mito della nazione che elegge il suo dittatore e al supporto della maggioranza alla sua ascesa. In verità Hitler divenne Cancelliere su nomina legale del Presidente, che era stato eletto dal popolo, ma né Hitler, né il partito disponevano della maggioranza assoluta dei voti. Nelle ultime elezioni libere, i nazisti ottennero il 33% dei voti, guadagnando 196 dei 584 seggi disponibili. Anche nelle elezioni del marzo 1933, che si svolsero dopo che terrore e violenza si erano diffuse per lo stato, i nazisti ricevettero solo il 44% dei voti. Il partito ottenne il controllo della maggioranza dei seggi al Reichstag attraverso una formale coalizione con il DNVP. Infine, i voti addizionali necessari a far passare il Decreto dei pieni poteri, che investì Hitler di un'autorità dittatoriale, furono assicurati con l'espulsione dei deputati comunisti dal Reichstag e con l'intimidazione dei ministri del Partito di Centro. Con una serie di decreti che arrivarono subito dopo, vennero soppressi gli altri partiti e bandite tutte le forme di opposizione. In soli pochi mesi Hitler aveva raggiunto un controllo autoritario senza aver mai violato o sospeso la costituzione del Reich, minando tuttavia il sistema democratico.Essendosi assicurato il potere politico supremo in maniera legale con libere elezioni, Hitler rimase estremamente popolare fino ai momenti finali del suo regime. Era un maestro di oratoria, e con tutti i mezzi d'informazione tedeschi sotto il controllo del suo capo della propaganda, Joseph Goebbels, fu in grado di persuadere la maggioranza dei tedeschi che egli fosse il loro salvatore dalla Depressione, dai comunisti, dal trattato di Versailles e dagli ebrei. Su quelli che non ne erano persuasi, le SA, le SS e la Gestapo (la Polizia segreta di stato) avevano mano libera, e a migliaia scomparirono nei campi di concentramento. Molti di più emigrarono, compresi circa metà degli ebrei tedeschi.
Visita ufficiale di Hitler a Roma, 1938. Sul palco in prima fila da sinistra: Benito Mussolini, Adolf Hitler, Vittorio Emanuele III, Elena del Montenegro; in seconda fila, da sinistra: Joachim von Ribbentrop, Joseph Goebbels, Rudolf Heß, Heinrich Himmler
Per consolidare il suo regime, Hitler aveva bisogno della neutralità dell'esercito e dei magnati dell'industria. Questi erano allarmati dalla componente "socialista" del nazionalsocialismo, che era rappresentata dalle camicie brune delle SA di Ernst Röhm, in gran parte appartenenti alla classe operaia. Per rimuovere questa barriera all'accettazione del regime, Hitler lasciò libero il suo luogotenente, Himmler, di assassinare Röhm e decine di altri nemici reali o potenziali, durante la notte del 29-30 giugno 1934 (conosciuta come la "Notte dei lunghi coltelli"). Un effetto meno visibile della purga, che venne poco percepito all'epoca ma probabilmente rientrava nei progetti di Hitler, fu di focalizzare le energie del partito non più su aspetti sociali (come desiderato dalle SA) ma sui «nemici razziali» della Germania. Secondo alcuni autori, il nazionalsocialismo, nato come ideologia gemella al fascismo italiano, rimase tale solo fino a questo momento dato che con l'eliminazione della corrente "di sinistra" facente capo a Röhm, la corrente "di destra" facente capo ad Hitler prese il sopravvento. Da questo momento il Partito Nazista avrebbe abbracciato implicitamente il capitalismo prefigurandosi come un'ideologia prettamente conservatrice, abbandonando ogni ipotesi rivoluzionaria e quindi rimanendo "socialista" solo nel nome. Questo sarebbe avvenuto come pegno ai poteri economici internazionali che l'avevano sostenuto finanziariamente nell'ascesa al potere[25].
Anche Pino Rauti in una sua opera ritiene che l'epurazione della cosiddetta "ala sinistra" del movimento nazionalsocialista fu inevitabile per Hitler al fine di accreditarsi presso l'esercito, la grande finanza e il club degli industriali, tutti settori che vedevano in von Papen il garante contro la deriva populista da parte del Partito. Infatti, Papen chiese notoriamente a Röhm di esplicitare cosa intendesse per "rivoluzione nazionalsocialista", aggiungendo beffardamente che non si trattasse "... di una rivoluzione antimarxista per favorire l'ascesa al potere d'una corrente filomarxista". Nell'incontro di Venezia con Mussolini (14 giugno 1934, solo due settimane prima della fatidica "Notte dei lunghi coltelli"), Hitler domandò al dittatore italiano come avesse fatto ad incanalare le camicie nere nell'alveo della legalità, preoccupato per il comportamento delle camicie brune naziste. Al che Mussolini, da sempre ritenuto un maestro dal dittatore nazista, gli rispose di averne "eliminato" i capi. Mussolini intendeva un'eliminazione politica, ovvero averne indirizzato i capi a carriere burocratiche, mentre Hitler prese il consiglio alla lettera. Stalin rimase talmente colpito dalla purga hitleriana che prese a pretesto l'uccisione di Sergej Kirov sei mesi dopo (1 dicembre 1934) per perfezionare l'epurazione mutuata da Hitler e dando avvio alle tristemente note "Purghe Staliniane"[11].
Quando Hindenburg morì, il 2 agosto 1934, Hitler, che in quanto già capo del governo (Cancelliere del Reich) non poteva diventare anche Presidente del Reich (capo di stato), creò per sé una nuova carica, quella del Führer, che in pratica gli consentì di avere i poteri del capo di stato. Egli era Führer und Reichskanzler (Guida e Cancelliere del Reich). Dal 1934 sino alla sua morte in Germania non ci fu alcun Presidente del Reich.
Quegli ebrei che non erano emigrati in tempo ebbero a pentirsi della loro esitazione. In base alle Leggi di Norimberga del 1935 persero il loro status di cittadini tedeschi e vennero espulsi dagli impieghi statali, dagli ordini professionali e da gran parte delle attività economiche. Furono oggetto dello sbarramento di una feroce propaganda. Pochi non ebrei tedeschi si opposero a questi passi. Queste restrizioni vennero ulteriormente aggravate, specialmente dopo l'operazione anti-ebraica della notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, conosciuta come Notte dei cristalli (Kristallnacht o Reichskristallnacht). Dal 1941 gli ebrei furono obbligati a indossare una stella di Davide gialla in pubblico.
Nel marzo 1935 Hitler ripudiò il Trattato di Versailles, reintroducendo la coscrizione in Germania. Il suo scopo sembrava quello di costruire una massiccia macchina militare, comprendente una nuova marina (la Kriegsmarine) e una nuova aeronautica militare (la Luftwaffe). Quest'ultima venne posta sotto il comando di Hermann Göring, un comandante veterano della prima guerra mondiale. L'arruolamento di grandi quantità di uomini e donne nel nuovo esercito sembrava risolvere i problemi di disoccupazione, ma distorse seriamente l'economia.
Nel marzo 1936 Hitler violò nuovamente il Trattato, rioccupando la zona demilitarizzata della Renania e, poiché Regno Unito e Francia non si mobilitarono per fermarlo, prese coraggio. Nel luglio 1936 scoppiò la Guerra civile spagnola, dove i militari, guidati dal generale Francisco Franco, si ribellarono contro il governo regolarmente eletto del Fronte Popolare. Hitler inviò delle truppe ad aiutare i ribelli. L'intervento in Spagna servì da prova sul campo per le nuove forze armate tedesche e per i loro metodi, compreso il bombardamento di città indifese come Guernica, che venne distrutta dalla Luftwaffe nell'aprile 1937.
Benito Mussolini e Hitler durante la visita ufficiale nella Jugoslavia occupata
Per dimostrare al mondo la potenza tedesca, Hitler (su idea di Goebbels) ospitò a Berlino l'XI Olimpiade, con una cerimonia iniziale trionfale.
Il 25 ottobre 1936, a Berlino andrà alla firma il Trattato di amicizia fra Italia e Germania. Benito Mussolini, il 1º novembre 1936, in un discorso a Milano, userà per la prima volta il termine Asse Roma-Berlino, riferendosi a tale Trattato. Da qui l'usanza diffusa di considerare il Trattato di amicizia come istitutivo dell'Asse, ma l'alleanza militare, nascerà più tardi (22 maggio 1939), con il Patto d'Acciaio. Questa alleanza venne in seguito allargata a Giappone, Ungheria, Romania e Bulgaria. Queste nazioni sono collettivamente conosciute come Potenze dell'Asse. Il 5 novembre 1937 Adolf Hitler tenne un incontro segreto alla Cancelleria del Reich, in cui dichiarò i suoi piani per l'acquisizione di "spazio vitale" per il popolo tedesco.
Il 12 marzo 1938 l'Austria, con un referendum, si univa con la Germania (il cosiddetto Anschluss) e Hitler, che così poneva le basi della Grande Germania, fece un ingresso trionfale a Vienna. In seguito intensificò la crisi che coinvolgeva gli abitanti di lingua tedesca della regione dei Sudeti in Cecoslovacchia. Questo portò all'Accordo di Monaco del settembre 1938 in cui la Gran Bretagna e la Francia, con la mediazione di Mussolini, cedettero debolmente alle sue richieste per evitare la guerra, sacrificando però la Cecoslovacchia, che fu occupata. I tedeschi entrarono a Praga il 10 marzo 1939.
A questo punto Francia e Gran Bretagna decisero di prendere posizione, e resistettero alla successiva richiesta di Hitler per la restituzione del territorio di Danzica, un territorio tedesco ceduto alla Polonia in base al Trattato di Versailles. Ma le potenze occidentali non furono in grado di giungere ad un accordo con l'Unione Sovietica per un'alleanza contro la Germania, e Hitler ne approfittò. Il 23 agosto 1939 concluse un patto di non-aggressione (il Patto Molotov-Ribbentrop) con Stalin, definendo anche i criteri per la spartizione del territorio polacco.
Il 1º settembre la Germania invase la Polonia. Hitler era certo che Francia e Gran Bretagna non avrebbero onorato il loro impegno con i polacchi per dichiarare guerra alla Germania: "Ho giudicato i loro capi a Monaco: Daladier, Chamberlain, dei vermiciattoli!". Quando la mattina del 3 settembre l'aiutante Schmidt entrò nello studio di Hitler consegnandogli la dichiarazione di guerra dell'Inghilterra, questi restò pietrificato e voltosi verso il suo ministro degli esteri Ribbentrop, con lo sguardo furibondo disse: "Was nun?" (E adesso?). Nell'anticamera, affollata di generali e dignitari del partito, la voce di Göring, appena informato, ruppe il silenzio che si era creato: "Se perdiamo questa guerra, Dio abbia pietà di noi!".
Nei tre anni seguenti Hitler conseguì una serie quasi ininterrotta di successi militari. La Polonia venne rapidamente sconfitta e spartita con i sovietici. Nell'aprile 1940 la Germania invase la Danimarca e la Norvegia (Operazione Weserübung). In maggio iniziò un'offensiva lampo che travolse rapidamente i Paesi Bassi, il Belgio, il Lussemburgo e la Francia (conosciuta come la Campagna di Francia), che collassò nel giro di sei settimane. Il piano per la conquista della Francia, nato dalle idee di Hitler, di Heinz Guderian, leader dei Panzer, e del generale von Manstein, fu un'operazione magistrale, un capolavoro tattico che permise ai tedeschi di travolgere ben 3 eserciti, oltre al BEF. Nell'aprile 1941 toccò alla Jugoslavia e alla Grecia essere invase (Campagna dei Balcani). Nel frattempo le forze tedesche (Afrika Korps), unite a quelle italiane, avanzavano attraverso il Nordafrica verso l'Egitto, puntando Alessandria d'Egitto e Il Cairo. Queste invasioni furono accompagnate dal bombardamento di città indifese come Varsavia, Rotterdam (avvertita e quindi evacuata) e Belgrado. L'unico insuccesso di Hitler fu quello di non riuscire a piegare la Gran Bretagna con i bombardamenti aerei della Battaglia d'Inghilterra.
Il 22 giugno 1941 ebbe inizio l'Operazione Barbarossa. Le forze tedesche, appoggiate dalle nazioni dell'Asse e della Finlandia, invasero l'URSS, occupando rapidamente parte della Russia europea, assediando Leningrado e minacciando Mosca. Durante l'inverno, l'armata di Hitler venne respinta alle porte di Mosca, e il furibondo Fuhrer assunse egli stesso il comando delle forze armate, ma l'estate successiva l'offensiva riprese. Per il luglio 1942 le truppe di Hitler erano sul Volga. Qui vennero sconfitte nella Battaglia di Stalingrado, la prima grossa sconfitta tedesca. In Nordafrica i britannici sconfissero i tedeschi nella Seconda battaglia di El Alamein, contrastando i piani di Hitler di occupare il Canale di Suez e il Medio Oriente.
A proposito della certezza della vittoria bellica da parte del dittatore e i suoi fedeli, Hitler dichiarò testualmente in presenza dei suoi generali:
« Quanto alla propaganda, troverò qualche spiegazione per lo scoppio della guerra. Non importa se plausibile o no, al vincitore non verrà chiesto, poi, se avrà detto o no la verità"L'invasione dell'Unione Sovietica fu anche motivata dal proposito nazionalsocialista, già presente agli albori del movimento, di acquisire il Lebensraum («spazio vitale») per la Germania ad Est, a scapito delle popolazioni slave considerate Untermenschen («sub-umane»). Contemporaneamente, l'operazione Barbarossa si proponeva di abbattere il nemico ideologico rappresentato dal comunismo, parte, secondo l'ideologia hitleriana, del complotto giudaico per il dominio del mondo. Non ultimo, la campagna ad Est avrebbe permesso alla Germania, svaniti i sogni di una rapida campagna occidentale, di raggiungere ed utilizzare le ricche risorse economiche sovietiche rappresentate dal petrolio caucasico e le derrate alimentari ucraine.
Fu immediatamente dopo lo scoppio del conflitto ad Est che la persecuzione ebraica raggiunse la sua fase culminante con l'avvio dei massacri operati dalle Einsatzgruppen che seguivano le forze armate tedesche avanzanti. D'altro canto non esistono prove che nel giugno 1941 esistesse già un piano per una «soluzione finale della questione ebraica». Gli storici rilevano che probabilmente la decisione venne presa in un periodo compreso tra il novembre 1941 e il gennaio 1942 e che la fase operativa si concretizzò solo successivamente.
Per facilitare l'attuazione della Soluzione finale, si tenne a Wannsee, nei pressi di Berlino, una conferenza il 20 gennaio del 1942, con la partecipazione di quindici ufficiali superiori del regime guidati da Reinhard Heydrich e Adolf Eichmann. Le registrazioni della conferenza forniscono le prove più evidenti della pianificazione centrale dell'Olocausto. Tra il 1942 e il 1944 le SS, assistite dai governi collaborazionisti e da personale reclutato nelle nazioni occupate, uccisero in maniera sistematica circa 3,5 milioni di ebrei in sei campi di sterminio localizzati in Polonia: Auschwitz-Birkenau, Bełżec, Chelmno, Majdanek, Sobibor e Treblinka. Altri vennero uccisi meno sistematicamente in altri luoghi e in altri modi, o morirono di fame e malattie mentre lavoravano come schiavi. Al tentativo di genocidio degli ebrei europei ci si è generalmente riferiti nel dopoguerra con la parola Olocausto, ma successivamente è stato adottato dalla comunità internazionale il termine ebraico Shoah, preferito dagli ebrei stessi poiché l'olocausto indica nella cultura ebraica un sacrificio a Dio.
Altri gruppi etnici, sociali e politici sono stati oggetto di persecuzione e in alcuni casi di sterminio durante la "Soluzione finale". Migliaia di socialisti tedeschi, comunisti e altri oppositori del regime morirono nei campi di concentramento, così come un numero alto ma sconosciuto di omosessuali. I Rom e gli zingari, ugualmente considerati razze inferiori, furono anch'essi internati e uccisi nei campi. Circa tre milioni di soldati sovietici, prigionieri di guerra, morirono nei lager, ridotti alla stregua di schiavi. Tutte le nazioni occupate soffrirono privazioni terribili ed esecuzioni di massa: fino a tre milioni di civili polacchi (non-ebrei) morirono durante l'occupazione.
Non è stato ritrovato alcun documento nel quale sia stata pianificata la "Soluzione finale", ma ciò nonostante la stragrande maggioranza degli storici concorda nel ritenere che Hitler ne sia stato l'ideatore, ordinando a Himmler di portare avanti il piano.I primi trionfi persuasero Hitler di essere un genio della strategia militare, per questo motivo divenne sempre meno desideroso di ascoltare i consigli dei suoi generali o anche solo di udire cattive notizie. Dopo la battaglia di Stalingrado, ampiamente considerata come il punto di svolta della seconda guerra mondiale, le sue decisioni militari divennero sempre più erratiche, e la posizione economica e militare della Germania si deteriorò. L'entrata in guerra degli Stati Uniti, il 7 dicembre 1941, oppose alla Germania una coalizione delle principali potenze mondiali: il più grande impero mondiale (l'Impero Britannico), la principale potenza finanziaria e industriale (gli USA), e l'Unione Sovietica, che si era sobbarcata il peso più grande della seconda guerra mondiale in termini di vite umane e altre perdite. I realisti all'interno dell'esercito tedesco videro la sconfitta come inevitabile e complottarono per togliere Hitler dal potere. Nel luglio 1944 uno di loro, Claus von Stauffenberg, piazzò una bomba nel quartier generale di Hitler (il cosiddetto Complotto del 20 luglio), ma Hitler scampò miracolosamente alla morte e ordinò una selvaggia rappresaglia nella quale vennero giustiziati tutti i capi del complotto.
L'alleato di Hitler, Benito Mussolini, venne rovesciato il 25 luglio del 1943. Nel frattempo l'Unione Sovietica continuava costantemente a costringere le armate di Hitler alla ritirata dai territori occupati a est. Ma fintanto che in Europa occidentale non si aprì un altro fronte, la Germania poteva sperare di tenere la posizione, nonostante la sempre più pesante campagna di bombardamenti sulle città tedesche. Il 6 giugno 1944 (D-Day), le armate alleate sbarcarono nel nord della Francia, e per dicembre erano arrivate al Reno. Hitler comandò una disperata offensiva sulle Ardenne, ma con il nuovo anno le armate alleate stavano avanzando sul territorio tedesco. I tedeschi, intanto, avevano invaso l'Italia e instaurarono a Salò uno stato fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana, con a capo Mussolini. Tra il 1943 e il 1945 i tedeschi uccisero migliaia di civili italiani (i peggiori massacri furono quelli di Marzabotto, con 770 vittime, delle Fosse Ardeatine, con 335 morti e di Sant'Anna di Stazzema con 560 vittime civili, per lo più donne e bambini).
In febbraio i sovietici si fecero strada attraverso la Polonia e la Germania orientale, e in aprile arrivarono alle porte di Berlino. I più stretti collaboratori di Hitler gli consigliarono di scappare in Baviera o in Austria, per organizzare una resistenza finale sulle montagne, ma egli era determinato a restare nella capitale fino alla capitolazione.
I primi trionfi persuasero Hitler di essere un genio della strategia militare, per questo motivo divenne sempre meno desideroso di ascoltare i consigli dei suoi generali o anche solo di udire cattive notizie. Dopo la battaglia di Stalingrado, ampiamente considerata come il punto di svolta della seconda guerra mondiale, le sue decisioni militari divennero sempre più erratiche, e la posizione economica e militare della Germania si deteriorò. L'entrata in guerra degli Stati Uniti, il 7 dicembre 1941, oppose alla Germania una coalizione delle principali potenze mondiali: il più grande impero mondiale (l'Impero Britannico), la principale potenza finanziaria e industriale (gli USA), e l'Unione Sovietica, che si era sobbarcata il peso più grande della seconda guerra mondiale in termini di vite umane e altre perdite. I realisti all'interno dell'esercito tedesco videro la sconfitta come inevitabile e complottarono per togliere Hitler dal potere. Nel luglio 1944 uno di loro, Claus von Stauffenberg, piazzò una bomba nel quartier generale di Hitler (il cosiddetto Complotto del 20 luglio), ma Hitler scampò miracolosamente alla morte e ordinò una selvaggia rappresaglia nella quale vennero giustiziati tutti i capi del complotto.
L'alleato di Hitler, Benito Mussolini, venne rovesciato il 25 luglio del 1943. Nel frattempo l'Unione Sovietica continuava costantemente a costringere le armate di Hitler alla ritirata dai territori occupati a est. Ma fintanto che in Europa occidentale non si aprì un altro fronte, la Germania poteva sperare di tenere la posizione, nonostante la sempre più pesante campagna di bombardamenti sulle città tedesche. Il 6 giugno 1944 (D-Day), le armate alleate sbarcarono nel nord della Francia, e per dicembre erano arrivate al Reno. Hitler comandò una disperata offensiva sulle Ardenne, ma con il nuovo anno le armate alleate stavano avanzando sul territorio tedesco. I tedeschi, intanto, avevano invaso l'Italia e instaurarono a Salò uno stato fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana, con a capo Mussolini. Tra il 1943 e il 1945 i tedeschi uccisero migliaia di civili italiani (i peggiori massacri furono quelli di Marzabotto, con 770 vittime, delle Fosse Ardeatine, con 335 morti e di Sant'Anna di Stazzema con 560 vittime civili, per lo più donne e bambini).
In febbraio i sovietici si fecero strada attraverso la Polonia e la Germania orientale, e in aprile arrivarono alle porte di Berlino. I più stretti collaboratori di Hitler gli consigliarono di scappare in Baviera o in Austria, per organizzare una resistenza finale sulle montagne, ma egli era determinato a restare nella capitale fino alla capitolazione.
I primi trionfi persuasero Hitler di essere un genio della strategia militare, per questo motivo divenne sempre meno desideroso di ascoltare i consigli dei suoi generali o anche solo di udire cattive notizie. Dopo la battaglia di Stalingrado, ampiamente considerata come il punto di svolta della seconda guerra mondiale, le sue decisioni militari divennero sempre più erratiche, e la posizione economica e militare della Germania si deteriorò. L'entrata in guerra degli Stati Uniti, il 7 dicembre 1941, oppose alla Germania una coalizione delle principali potenze mondiali: il più grande impero mondiale (l'Impero Britannico), la principale potenza finanziaria e industriale (gli USA), e l'Unione Sovietica, che si era sobbarcata il peso più grande della seconda guerra mondiale in termini di vite umane e altre perdite. I realisti all'interno dell'esercito tedesco videro la sconfitta come inevitabile e complottarono per togliere Hitler dal potere. Nel luglio 1944 uno di loro, Claus von Stauffenberg, piazzò una bomba nel quartier generale di Hitler (il cosiddetto Complotto del 20 luglio), ma Hitler scampò miracolosamente alla morte e ordinò una selvaggia rappresaglia nella quale vennero giustiziati tutti i capi del complotto.
L'alleato di Hitler, Benito Mussolini, venne rovesciato il 25 luglio del 1943. Nel frattempo l'Unione Sovietica continuava costantemente a costringere le armate di Hitler alla ritirata dai territori occupati a est. Ma fintanto che in Europa occidentale non si aprì un altro fronte, la Germania poteva sperare di tenere la posizione, nonostante la sempre più pesante campagna di bombardamenti sulle città tedesche. Il 6 giugno 1944 (D-Day), le armate alleate sbarcarono nel nord della Francia, e per dicembre erano arrivate al Reno. Hitler comandò una disperata offensiva sulle Ardenne, ma con il nuovo anno le armate alleate stavano avanzando sul territorio tedesco. I tedeschi, intanto, avevano invaso l'Italia e instaurarono a Salò uno stato fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana, con a capo Mussolini. Tra il 1943 e il 1945 i tedeschi uccisero migliaia di civili italiani (i peggiori massacri furono quelli di Marzabotto, con 770 vittime, delle Fosse Ardeatine, con 335 morti e di Sant'Anna di Stazzema con 560 vittime civili, per lo più donne e bambini).
In febbraio i sovietici si fecero strada attraverso la Polonia e la Germania orientale, e in aprile arrivarono alle porte di Berlino. I più stretti collaboratori di Hitler gli consigliarono di scappare in Baviera o in Austria, per organizzare una resistenza finale sulle montagne, ma egli era determinato a restare nella capitale fino alla capitolazione.
I primi trionfi persuasero Hitler di essere un genio della strategia militare, per questo motivo divenne sempre meno desideroso di ascoltare i consigli dei suoi generali o anche solo di udire cattive notizie. Dopo la battaglia di Stalingrado, ampiamente considerata come il punto di svolta della seconda guerra mondiale, le sue decisioni militari divennero sempre più erratiche, e la posizione economica e militare della Germania si deteriorò. L'entrata in guerra degli Stati Uniti, il 7 dicembre 1941, oppose alla Germania una coalizione delle principali potenze mondiali: il più grande impero mondiale (l'Impero Britannico), la principale potenza finanziaria e industriale (gli USA), e l'Unione Sovietica, che si era sobbarcata il peso più grande della seconda guerra mondiale in termini di vite umane e altre perdite. I realisti all'interno dell'esercito tedesco videro la sconfitta come inevitabile e complottarono per togliere Hitler dal potere. Nel luglio 1944 uno di loro, Claus von Stauffenberg, piazzò una bomba nel quartier generale di Hitler (il cosiddetto Complotto del 20 luglio), ma Hitler scampò miracolosamente alla morte e ordinò una selvaggia rappresaglia nella quale vennero giustiziati tutti i capi del complotto.
L'alleato di Hitler, Benito Mussolini, venne rovesciato il 25 luglio del 1943. Nel frattempo l'Unione Sovietica continuava costantemente a costringere le armate di Hitler alla ritirata dai territori occupati a est. Ma fintanto che in Europa occidentale non si aprì un altro fronte, la Germania poteva sperare di tenere la posizione, nonostante la sempre più pesante campagna di bombardamenti sulle città tedesche. Il 6 giugno 1944 (D-Day), le armate alleate sbarcarono nel nord della Francia, e per dicembre erano arrivate al Reno. Hitler comandò una disperata offensiva sulle Ardenne, ma con il nuovo anno le armate alleate stavano avanzando sul territorio tedesco. I tedeschi, intanto, avevano invaso l'Italia e instaurarono a Salò uno stato fantoccio, la Repubblica Sociale Italiana, con a capo Mussolini. Tra il 1943 e il 1945 i tedeschi uccisero migliaia di civili italiani (i peggiori massacri furono quelli di Marzabotto, con 770 vittime, delle Fosse Ardeatine, con 335 morti e di Sant'Anna di Stazzema con 560 vittime civili, per lo più donne e bambini).
In febbraio i sovietici si fecero strada attraverso la Polonia e la Germania orientale, e in aprile arrivarono alle porte di Berlino. I più stretti collaboratori di Hitler gli consigliarono di scappare in Baviera o in Austria, per organizzare una resistenza finale sulle montagne, ma egli era determinato a restare nella capitale fino alla capitolazione.
Le sue armate tedesche non riuscirono ad arrestare l'avanzata degli alleati, e mentre i sovietici si aprivano la strada verso il centro di Berlino, secondo le voci ufficiali, Hitler si suicidò nel suo bunker il 30 aprile 1945, insieme alla storica amante Eva Braun che aveva sposato il giorno prima. Aveva 56 anni. Come parte delle sue ultime volontà, ordinò che il suo corpo venisse portato all'esterno e bruciato. Nel suo testamento, scaricò tutti gli altri leader nazisti e nominò il grandammiraglio Karl Dönitz come nuovo Presidente del Reich[30] e Joseph Goebbels come nuovo Cancelliere del Reich. Tuttavia quest'ultimo si suicidò il 1º maggio 1945 insieme alla moglie dopo aver ucciso i suoi sei figli. L'8 maggio 1945, la Germania si arrese. Il "Reich millenario" di Hitler era durato poco più di 12 anni.
I resti parzialmente carbonizzati di Hitler vennero trovati e identificati dai sovietici (attraverso le impronte delle arcate dentarie) e in seguito seppelliti a Magdeburgo nella Germania orientale. Pare che intorno all'aprile 1970 nella zona in cui i resti furono seppelliti, venne deciso di costruire una zona residenziale. I servizi segreti sovietici, quindi, riesumarono i resti di Hitler, di Eva Braun, di Joseph Goebbels e della sua famiglia, li cremarono e infine gettarono le ceneri nel fiume Elba. Attualmente rimangono a Mosca, nell'archivio di stato della federazione russa, una parte di calotta cranica e di mandibola di Adolf Hitler.
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Re: Grandi personaggi della storia
Lorenzo De Medici
Lorenzo de' Medici era nipote di Cosimo de' Medici, detto il Vecchio, fondatore della signoria medicea e figlio di Piero di Cosimo de' Medici e di Lucrezia Tornabuoni. Ricevette una profonda educazione umanistica ed una accurata preparazione politica che gli permise, giovanissimo nel 1466, di far parte della balia e del Consiglio dei Cento, predisponendosi così alla successione del padre che era di salute cagionevole. Prima di assumere la signoria di Firenze ebbe modo di mostrare la sua abilità diplomatica in occasione delle missioni che gli furono affidate appena sedicenne a Napoli, Roma e Venezia. Riuscì, inoltre, con l'offerta di onori ed oro, a portare dalla parte dei Medici Luca Pitti, il più grande alleato dei loro avversari politici. Nel 1468, grazie al diretto interessamento di sua madre Lucrezia Tornabuoni, si fidanzò con Clarice Orsini, che sposò l'anno successivo[1] e che gli diede i figli Piero, Giovanni (il futuro Leone X), Giuliano e quattro figlie (Lucrezia, Maddalena, Luisa e Contessina). Per la prima volta un Medici sposava una donna di famiglia nobile, stabilendo un'alleanza tra Medici e Orsini che sarà la chiave per l'arrivo della prima porpora cardinalizia in famiglia, quella proprio di suo figlio Giovanni.
Alla morte del padre, avvenuta lo stesso anno del matrimonio, Lorenzo, appena ventenne, insieme al fratello Giuliano, assunse il potere su Firenze. Giuliano, riconoscendone le qualità superiori, lasciò immediatamente i compiti di governo al fratello ventenne. Lorenzo non accettò ufficialmente il potere, volendo essere considerato un semplice cittadino di Firenze pur praticamente accentrando nelle proprie mani il potere della città e dello stato. Nel periodo dal 1469 al 1472 riformò completamente le istituzioni statali, sopì tutte le rivalità tra famiglie e risolse tutti i problemi familiari in modo da diventare supremo arbitro in ogni questione. Con piccole modifiche alla costituzione comunale, si assicurò il potere senza perdere il favore popolare: vennero conservate le magistrature comunali le quali, private tuttavia di autonomia, furono semplici strumenti nelle sue mani.
Lorenzo compendiava in sé potere politico ed economico, amore per l'arte e per la cultura rappresentando l'incarnazione ideale del principe rinascimentale e divenendo il vero e proprio arbitro della città: era pronto a regnare come signore assoluto. Assicurò, inoltre, un periodo di equilibrio fra le varie potenze italiane, tanto da meritarsi l'appellativo di "ago della bilancia italiana".
Il busto di Lorenzo, National Gallery of Art, Washington
Dopo aver domato le ribellioni di Prato e di Volterra, dopo dieci anni di governo, i fratelli Medici dovettero fronteggiare la recrudescenza degli attacchi delle famiglie rivali, prima fra tutte quella dei Pazzi, che organizzò la celebre "Congiura dei Pazzi" con lo scopo di uccidere i fratelli. Il 26 aprile 1478, mentre ascoltavano la messa in Santa Maria del Fiore, i due fratelli furono aggrediti. Giuliano fu colpito a morte dal sicario Bernardo Bandini, mentre Lorenzo, ferito in modo lieve, si salvò riparandosi in sagrestia aiutato da alcuni amici tra cui il Poliziano. I congiurati furono esposti a crudeli vendette e rappresaglie, ma Lorenzo non poté raggiungere i veri organizzatori: il Papa Sisto IV e suo nipote Girolamo Riario, allora signore di Imola e, di lì a poco, anche di Forlì. Girolamo, fallito questo primo tentativo, organizzò altri due complotti per toglierlo dalla scena politica: uno diretto, per assassinarlo; ed uno indiretto, volto a presentarlo come mandante di un tentativo di avvelenamento nei confronti dello stesso Riario. Entrambi fallirono. Va notato che, negli anni successivi, i rapporti tra i due appaiono, dalla corrispondenza, sempre formalmente buoni: Lorenzo chiede a Girolamo vari interventi in favore della sua famiglia presso il Papa Sisto IV, e il Riario risponde accontentandolo con benevolenza.
Fallita dunque la congiura dei Pazzi, il Papa, sdegnato dal trattamento riservato ai congiurati, scomunicò Lorenzo, si alleò con Ferdinando I di Napoli e con la Repubblica di Siena contro la stessa Firenze, alleata di Milano e di Venezia. L'alleanza fiorentina fu sconfitta dal Re di Napoli nella cosiddetta Guerra de' Pazzi (che seguì l'omonima congiura). Nel 1479, immediatamente dopo la fine dell'Assedio di Colle Val d'Elsa (che di fatto concluse le operazioni belliche), Lorenzo si recò coraggiosamente a Napoli di propria persona per trattare con Ferdinando I, riuscendo nell'impresa di convincerlo delle sue ragioni e ottenendo il ritiro delle sue truppe dalla Toscana, staccandolo dalla lega con il Papa.
Al ritorno in città, Lorenzo fu salutato dai fiorentini come salvatore della patria. Nel 1480 Sisto IV, rimasto isolato, offrì la pace a Firenze, mentre Girolamo Riario, sfumata l'ipotesi di impadronirsi del potere a Firenze, ottenne la signoria di Forlì.
Forte di questi successi Lorenzo, approfittando del momento favorevole, strinse il potere nelle sue mani istituendo il Consiglio dei Settanta, organo di governo formato da fedelissimi della famiglia che diminuì l'autorità dei Priori e del Gonfaloniere di giustizia. Con il nuovo pontefice, Innocenzo VIII, i Medici si legarono ancora di più al papato, visto che Il Magnifico era convinto che l'alleanza tra Firenze, Napoli e lo Stato della Chiesa avrebbe tenuto gli stranieri lontani dal suolo italiano.
Lorenzo il Magnifico, indicato come il moderatore della politica italiana, seppe creare quell'equilibrio che fu apportatore di una pace fra gli Stati Italiani durata fino alla sua morte, avvenuta il 9 aprile 1492. Appresa la sua morte, Caterina Sforza, Signora di Forlì ed Imola, vedova del Riario, commentò: "Natura non produrrà mai più un simile uomo".
Nel 1494, al ricomparire delle discordie tra stati, Carlo VIII invase la penisola.
Lorenzo de' Medici era nipote di Cosimo de' Medici, detto il Vecchio, fondatore della signoria medicea e figlio di Piero di Cosimo de' Medici e di Lucrezia Tornabuoni. Ricevette una profonda educazione umanistica ed una accurata preparazione politica che gli permise, giovanissimo nel 1466, di far parte della balia e del Consiglio dei Cento, predisponendosi così alla successione del padre che era di salute cagionevole. Prima di assumere la signoria di Firenze ebbe modo di mostrare la sua abilità diplomatica in occasione delle missioni che gli furono affidate appena sedicenne a Napoli, Roma e Venezia. Riuscì, inoltre, con l'offerta di onori ed oro, a portare dalla parte dei Medici Luca Pitti, il più grande alleato dei loro avversari politici. Nel 1468, grazie al diretto interessamento di sua madre Lucrezia Tornabuoni, si fidanzò con Clarice Orsini, che sposò l'anno successivo[1] e che gli diede i figli Piero, Giovanni (il futuro Leone X), Giuliano e quattro figlie (Lucrezia, Maddalena, Luisa e Contessina). Per la prima volta un Medici sposava una donna di famiglia nobile, stabilendo un'alleanza tra Medici e Orsini che sarà la chiave per l'arrivo della prima porpora cardinalizia in famiglia, quella proprio di suo figlio Giovanni.
Alla morte del padre, avvenuta lo stesso anno del matrimonio, Lorenzo, appena ventenne, insieme al fratello Giuliano, assunse il potere su Firenze. Giuliano, riconoscendone le qualità superiori, lasciò immediatamente i compiti di governo al fratello ventenne. Lorenzo non accettò ufficialmente il potere, volendo essere considerato un semplice cittadino di Firenze pur praticamente accentrando nelle proprie mani il potere della città e dello stato. Nel periodo dal 1469 al 1472 riformò completamente le istituzioni statali, sopì tutte le rivalità tra famiglie e risolse tutti i problemi familiari in modo da diventare supremo arbitro in ogni questione. Con piccole modifiche alla costituzione comunale, si assicurò il potere senza perdere il favore popolare: vennero conservate le magistrature comunali le quali, private tuttavia di autonomia, furono semplici strumenti nelle sue mani.
Lorenzo compendiava in sé potere politico ed economico, amore per l'arte e per la cultura rappresentando l'incarnazione ideale del principe rinascimentale e divenendo il vero e proprio arbitro della città: era pronto a regnare come signore assoluto. Assicurò, inoltre, un periodo di equilibrio fra le varie potenze italiane, tanto da meritarsi l'appellativo di "ago della bilancia italiana".
Il busto di Lorenzo, National Gallery of Art, Washington
Dopo aver domato le ribellioni di Prato e di Volterra, dopo dieci anni di governo, i fratelli Medici dovettero fronteggiare la recrudescenza degli attacchi delle famiglie rivali, prima fra tutte quella dei Pazzi, che organizzò la celebre "Congiura dei Pazzi" con lo scopo di uccidere i fratelli. Il 26 aprile 1478, mentre ascoltavano la messa in Santa Maria del Fiore, i due fratelli furono aggrediti. Giuliano fu colpito a morte dal sicario Bernardo Bandini, mentre Lorenzo, ferito in modo lieve, si salvò riparandosi in sagrestia aiutato da alcuni amici tra cui il Poliziano. I congiurati furono esposti a crudeli vendette e rappresaglie, ma Lorenzo non poté raggiungere i veri organizzatori: il Papa Sisto IV e suo nipote Girolamo Riario, allora signore di Imola e, di lì a poco, anche di Forlì. Girolamo, fallito questo primo tentativo, organizzò altri due complotti per toglierlo dalla scena politica: uno diretto, per assassinarlo; ed uno indiretto, volto a presentarlo come mandante di un tentativo di avvelenamento nei confronti dello stesso Riario. Entrambi fallirono. Va notato che, negli anni successivi, i rapporti tra i due appaiono, dalla corrispondenza, sempre formalmente buoni: Lorenzo chiede a Girolamo vari interventi in favore della sua famiglia presso il Papa Sisto IV, e il Riario risponde accontentandolo con benevolenza.
Fallita dunque la congiura dei Pazzi, il Papa, sdegnato dal trattamento riservato ai congiurati, scomunicò Lorenzo, si alleò con Ferdinando I di Napoli e con la Repubblica di Siena contro la stessa Firenze, alleata di Milano e di Venezia. L'alleanza fiorentina fu sconfitta dal Re di Napoli nella cosiddetta Guerra de' Pazzi (che seguì l'omonima congiura). Nel 1479, immediatamente dopo la fine dell'Assedio di Colle Val d'Elsa (che di fatto concluse le operazioni belliche), Lorenzo si recò coraggiosamente a Napoli di propria persona per trattare con Ferdinando I, riuscendo nell'impresa di convincerlo delle sue ragioni e ottenendo il ritiro delle sue truppe dalla Toscana, staccandolo dalla lega con il Papa.
Al ritorno in città, Lorenzo fu salutato dai fiorentini come salvatore della patria. Nel 1480 Sisto IV, rimasto isolato, offrì la pace a Firenze, mentre Girolamo Riario, sfumata l'ipotesi di impadronirsi del potere a Firenze, ottenne la signoria di Forlì.
Forte di questi successi Lorenzo, approfittando del momento favorevole, strinse il potere nelle sue mani istituendo il Consiglio dei Settanta, organo di governo formato da fedelissimi della famiglia che diminuì l'autorità dei Priori e del Gonfaloniere di giustizia. Con il nuovo pontefice, Innocenzo VIII, i Medici si legarono ancora di più al papato, visto che Il Magnifico era convinto che l'alleanza tra Firenze, Napoli e lo Stato della Chiesa avrebbe tenuto gli stranieri lontani dal suolo italiano.
Lorenzo il Magnifico, indicato come il moderatore della politica italiana, seppe creare quell'equilibrio che fu apportatore di una pace fra gli Stati Italiani durata fino alla sua morte, avvenuta il 9 aprile 1492. Appresa la sua morte, Caterina Sforza, Signora di Forlì ed Imola, vedova del Riario, commentò: "Natura non produrrà mai più un simile uomo".
Nel 1494, al ricomparire delle discordie tra stati, Carlo VIII invase la penisola.
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Re: Grandi personaggi della storia
Alessandro Magno "Il grande "
Alessandro era figlio del re Filippo II di Macedonia e della moglie Olimpiade (o Olimpia), principessa di origine epirota; secondo le leggende, da parte di padre era discendente di Eracle, mentre da parte di madre di Achille, attraverso il nipote Molosso che avrebbe dato origine alla casa reale dei Molossi .Alessandro mostrava di non considerare questa genealogia una finzione, tanto che diceva di comportarsi quale discendente diretto sia di Eracle che di Achille.
Secondo la leggenda, in parte da lui stesso alimentata dopo essere salito al trono, e riferita da Plutarco, il suo vero padre sarebbe stato lo stesso dio Zeus, che avrebbe preso le sembianze di un serpente e giaciuto con la madre.Molte furono le leggende a lui postume sulla sua nascita; ad esempio si narrava che la madre Olimpiade, in visita alla corte persiana, avrebbe avuto una notte d'amore con il loro re, per poi ritornare in Macedonia.La madre stessa per altro alimentava leggende di ogni tipo sul figlio.All'epoca della nascita di Alessandro, sia la Macedonia che l'Epiro erano ritenuti stati semibarbari, alla periferia settentrionale del mondo greco.La sua nutrice fu Lanice, sorella di Clito;i suoi genitori volevano dare al figlio un'educazione greca (precisamente attica-ateniese) e, dopo Leonida (che il suo allievo giudicò avaro)e Lisimaco di Acarnania (con cui Alessandro legò molto rischiando una volta la vita per salvarlo),scelse come suo maestro, fra il 343 a.C. e il 341 a.C., il filosofo greco Aristotele;la scelta era dettata anche dalla politica del tempo.Aristotele lo educò, insegnandogli la scienza, la medicina, l'arte e la lingua greca, preparando appositamente per lui un'edizione annotata dell'Iliade e gli restò legato, come amico e confidente, per tutta la vita. Alessandro lo considerò all'inizio alla stregua di un padre ma successivamente diffidò di lui.
Non si sa fino a che punto gli insegnamenti filosofici di Aristotele influirono sul pensiero di Alessandro. Sembra molto probabile che non potessero esservi molti punti di accordo tra i due: le teorie politiche di Aristotele erano fondate sulla città-stato greca, teoria ormai fuori moda in quel tempo. Il concetto di governo di una piccola città-stato non poteva interessare a un principe ambizioso che voleva costruire un grande impero centralizzato.
Del suo apprendere dal maestro si ha una prova in una lettera inviata da Isocrate ad Alessandro, in cui il retore greco si congratulava con il macedone nel come affrontava e apprendeva l'arte della filosofia.Una delle prime volte che venne menzionato il suo nome fu in un discorso pubblico di un politico ateniese; a quell'epoca Alessandro aveva dieci anni. Del suo rapporto con Aristotele nei suoi primi anni si raccontarono molte storie, quasi tutte inventate.Si narra che il giovane Alessandro, all'età di dodici anni o meno, manifestasse la propria straordinaria natura riuscendo a domare da solo il cavallo Bucefalo.
L'animale venne comprato da un amico del padre, il generale Demarato di Corinto, probabilmente per un valore di tredici talenti, e regalato a Filippo, il quale ne fece dono al figlio. Alessandro, avendo infatti notato che il cavallo era spaventato dalla propria ombra, lo mise col muso rivolto verso il sole prima di montargli in groppa; da allora il cavallo non si lasciò mai più montare da nessun altro uomo che non fosse Alessandro. In seguito gli venne anche insegnato ad inginocchiarsi completamente bardato, in modo da facilitare notevolmente la monta prima delle battaglie.
Bucefalo accompagnò per quasi un ventennio il suo padrone e questo legame vanne interrotto dalla morte del destriero, nel 326 a.C., durante la battaglia dell'Idaspe (che vide contrapposti i Macedoni di Alessandro all'armata di Poro, re indiano della regione del Punjab).Nel 340 a.C., a soli sedici anni, durante una spedizione del padre contro Bisanzio, gli fu affidata la reggenza in Macedonia. Disponeva del sigillo reale e sicuramente sbrigò gli affari correnti di governo. Le sue energie vennero poi impegnate in una campagna contro la tribù tracia dei Maidi dello Strimone superiore, durante la quale prese d'assalto la loro città principale, che chiamò poi Alessandropoli. L'anno successivo Filippo ebbe una quarta moglie, Cleopatra Euridice (nipote del suo generale Attalo), ma Olimpiade mantenne il titolo di regina.
Nel 338 a.C. Alessandro guidò la cavalleria macedone nella battaglia di Cheronea; grazie alle sue abilità di condottiero prevalse sui Tebani, sterminando il battaglione sacro (trecento soldati che costituivano il corpo scelto dell'esercito).
Durante quella battaglia, venendo a conoscenza delle vittorie riportate dal figlio, il padre cercò di strappare il merito della vittoria ad Alessandro, anche esponendosi al pericolo.Dopo la battaglia ci furono ampi contrasti fra padre e figlio, alimentati sia dalla condotta di Filippo durante la battaglia, sia dal suo divorzio dalla madre. Più volte Alessandro usò parole di disprezzo verso il padre e per poco non si sfiorò un duello fra i due. Nel 336 a.C. Filippo venne assassinato ad Ege (l'antica capitale macedone), trafitto da un ufficiale della sua guardia di nome Pausania,durante le nozze della figlia Cleopatra con il re Alessandro I d'Epiro; Pausania venne immediatamente ucciso dalle guardie macedoni dopo l'assassinio del sovrano. Seguendo il racconto tradizionale di Plutarco, sembrerebbe che della congiura fossero a conoscenza, se non direttamente coinvolti, sia Olimpiade che Alessandro, ed è inoltre possibile che l'assassinio sia stato istigato dal re di Persia, Dario III, appena salito sul trono.
Secondo Aristotele, Pausania, amante di Filippo, avrebbe ucciso il re macedone perché oltraggiato dai seguaci di Attalo, o dallo stesso Attalo,zio della nuova moglie Euridice. Il fatto che esistessero complici in attesa di Pausania in fuga, depone tuttavia a favore dell'esistenza di un complotto organizzato e non semplicemente di un episodio legato a faccende private.Dopo la morte di Filippo, Alessandro, all'età di vent'anni, fu acclamato re dall'esercito ed immediatamente si occupò di consolidare il suo potere facendo sopprimere i possibili rivali al trono. Con l'aiuto del generale Antipatro, consigliere del padre, prima operò in modo che i mandanti dell'omicidio del padre figurarono i principi della Lincestide, poi fece condannare a morte Aminta (figlio di Perdicca III e nipote dello stesso Filippo del quale era stato tutore)diversi fratellastri di Alessandro ed Euridice, la giovane moglie di Filippo, il cui zio Attalo fu raggiunto da un sicario in Asia Minore.
Consolidato il suo potere in Macedonia iniziò ad espandere la propria autorità nei Balcani, cominciando dai Greci. Arrivato a Larissa egli ribadì ai Tessali le proprie buone intenzioni nei loro confronti, offrendosi come protettore contro i Persiani. Ad un'assemblea della Lega Tessalica Alessandro fu eletto capo, gli venne affidata l'amministrazione delle entrate e gli fu promesso l'appoggio nella Lega Ellenica. Dal consiglio anfizionico, riunito per l'occasione alle Termopili, si fece eleggere hegemón (egemone) della Grecia,carica che precedentemente fu di suo padre e che, come lui volle, passò ai discendenti. Successivamente gli stati greci nella Lega di Corinto, eccetto Sparta, proclamarono Alessandro comandante delle loro forze contro la Persia. Il macedone, in tal modo, stava proseguendo il progetto di conquista che ereditò da suo padre.
In quel periodo incontrò il filosofo Diogene, che viveva all'epoca a Corinto in una botte, con il quale vi fu un celebre scambio di battute: alla domanda su cosa desiderasse, il filosofo rispose al macedone di spostarsi perché gli nascondeva il sole. In seguito ci furono racconti coloriti sul loro incontro, in cui si arrivò a far dire al condottiero: «se non fossi Alessandro mi piacerebbe essere Diogene».Appoggiato da tutti i Greci, Alessandro avviò la campagna dei Balcani contro i Triballi, a partire dalla primavera del 335 a.C. Era una popolazione ubicata nella parte settentrionale di quella che successivamente verrà chiamata Bulgaria. Dopo un viaggio durato dieci giorni si trovò di fronte, al passo di Šipka, nemici dotati di carri che sbarravano il passaggio, pronti ad attaccare. In questo primo scontro si poté assistere all'abilità di stratega di Alessandro.
Parte dei soldati macedoni si divisero in due ali lasciando libero il passaggio ai nemici, mentre i rimanenti si sdraiarono a terra coprendosi come potevano con gli scudi, in modo da far passare i carri sopra di loro senza subire molti danni. In seguito, grazie al sostegno degli arcieri, degli ipaspisti, dei aegma e delle truppe leggere degli Agriani, i Triballi vennero sconfitti.Si dice che Tolomeo stesso riferì che non ci furono morti nell'esercito macedone in questo scontro.
Sirmo, re dei Triballi, attendeva il condottiero macedone a Ligino (un affluente del Danubio la cui corrispondenza odierna non è certa). Ad accompagnare Alessandro in quell'occasione vi erano Filota, Eraclide e Sopoli. La sua tattica lo vide vincitore anche sotto il profilo delle perdite: morirono più di 3.000 nemici, mentre gli alleati subirono in tutto una cinquantina di perdite.I Macedoni avevano difficoltà ad espugnare l'isola Peuce per via delle forti correnti ed erano venuti a conoscenza dell'arrivo di rinforzi nemici. Alessandro decise quindi di superare il fiume in una sola notte, sbaragliando con un furioso assalto i Geti che, alleati dei Triballi, erano dotati di 10.000 fanti e 4.000 cavalieri.
Egli trascorse quasi 4 mesi nei Balcani orientali prima di puntare a ovest ed entrare nel territorio degli Agriani, con circa 25.000 fanti e 5.000 cavalieri.
Alessandro riuscì a contrastare gli attacchi della tribù illirica dei Dardani, comandati da Clito (figlio di Bardilo II), provenienti da quello che è l'odierno Kosovo. Essi effettuarono incursioni nella Macedonia, arrivando fino ad espugnare Pelion, vicino a quella che poi sarà chiamata Gorice. Nel frattempo giunse notizia dell'arrivo imminente dei Taulanti di Glaucia a sostegno degli invasori. Grazie all'appoggio di Longaros, Alessandro giunse a Pelion iniziando l'assedio. Arrivarono poi i rinforzi nemici come previsto. Il macedone attaccò utilizzando la sua falange, composta da 120 file, come una sorta di serpente umano, stanando i nemici senza subire alcuna perdita,mentre con un attacco notturno condotto dalle sole truppe leggere riuscì a liberare Pelion.Dopo la vittoria nei Balcani, tuttavia, si sparse la voce che Alessandro fosse rimasto ucciso in battaglia e questa notizia provocò una nuova ribellione delle πόλεις (poleis), probabilmente alimentata dai Persiani e dai Tebani che, dopo anni di esilio, approfittarono della situazione e tornarono in patria. Vi erano stati disordini anche altrove; ad Atene vennero uccisi Timolao e Anemeta, i capi del partito filo-macedone.
Con una marcia rapidissima di più di 200 chilometri, percorsi in quattordici giorni, Alessandro raggiunse Tebe e la circondò. A questo punto vi sono due versioni dello scontro: nella prima il condottiero era in difficoltà fino a quando non notò un'entrata alla città lasciata senza protezione, al che ordinò al comandante del battaglione Perdicca di penetrarvi; l'altra versione, raccontata da Tolomeo, probabilmente volto a calunniare il suo rivale, vedeva un attacco senza ordine da parte dello stesso Perdicca, nel quale quest'ultimo fu gravemente ferito.
In ogni caso l'esercito macedone travolse ogni fortificazione, radendola al suolo, risparmiando solamente i templi e la casa del poeta Pindaro. Al termine degli scontri si arrivò a contare circa 6.000 morti, fra cui molti arcieri cretesi con il loro comandate Euribote. Alessandro ottenne così la sottomissione completa delle città greche, eccetto Sparta.
Atene fu risparmiata da assedi vari, chiedendo solo che venissero consegnati ai Macedoni i personaggi a loro più avversi, ma alla fine delle trattative soltanto il generale Caridemo venne esiliato; questi, non sentendosi cittadino greco, si alleò con la Persia e Dario e come lui altri nemici di Alessandro, mentre Carete si recò a Sigeo, nei suoi possedimenti. Al termine degli eventi, alla fine di ottobre, ritornò in Macedonia.
Discussa dagli storici è la visita di Alessandro all'oracolo di Delfi prima della partenza: secondo quanto si racconta, il macedone si recò presso il tempio per interpellarlo, ma era il periodo in cui non poteva essere consultato; per cui, di persona, costrinse la sacerdotessa a venire al tempio portandovela con la forza e proprio in quell'occasione ella affermò che il nuovo re «era invincibile».La prima spedizione greco-macedone inviata da Filippo II in Asia Minore, al comando del generale Parmenione, era stata respinta sulla costa dall'esercito persiano; quest'ultimo era comandato dal generale rodio Memnone (e prima di lui da Mentore), che occupò la città di Abido, dove sarebbero dovuti sbarcare i Macedoni.
Nella primavera del 334 a.C. Alessandro, dopo aver consolidato la sua posizione in Grecia e dopo aver lasciato Antipatro come suo rappresentante in patria, sbarcò in Asia Minore con un esercito di circa 40.000 uomini, di cui 32.000 fanti; nella cavalleria poteva contare su 1200 tessali e 1800 hetaîroi ("compagni" del re), tutti al comando di Parmenione. Il nucleo principale era formato dall'esercito macedone, rafforzato dagli scarsi contingenti provenienti dalle città greche.
Dopo aver attraversato le coste della Tracia arrivò in circa venti giorni ai Dardanelli; a Sesto venne raggiunto da 160-170 navi alleate (successivamente affidate a Nicanore) con le quali raggiunse la riva opposta, non temendo la flotta nemica che era occupata a tenere a bada le coste egiziane (infatti nel gennaio del 335 a.C. era morto il re ribelle egiziano e una parte della flotta lì impegnata non poté intervenire per fermare i Macedoni). Fece dunque visita, come buon augurio, a quella che si riteneva fosse la tomba di Protesilao e vi compì un rituale: si mise alla guida di una trireme, si allontanò dalla costa, sacrificò un toro e altro, tornò e, prima di giungere sulla riva, indossò la propria armatura; una volta sbarcato prese la sua lancia e la scagliò in terra proclamandosi come conquistatore dell'impero persiano.
Il numero di fanti e cavalieri al seguito di Alessandro sono discordanti sin dalle prime fonti:
* Tolomeo I: 30.000 fanti e 3.000 cavalieri
* Aristobulo: 30.000 fanti e 4.000 cavalieri
* Anassimene di Lampsaco: 43.000 fanti e 5.500 cavalieri
* Callistene: 40.000 fanti e 4.500 cavalieri
Memnone, che non era persiano di nascita ma greco e che aveva sposato una donna persiana, davanti alle truppe macedoni appena sbarcate sosteneva la tattica della terra bruciata, ma i satrapi persiani non vollero lasciare i propri territori al nemico, preferendo scontrarsi subito con l'esercito invasore. Cercò allora di radunare i 20.000 mercenari greci su cui poteva contare, ma, dovendo difendere anche Alicarnasso e Mileto, raccolse soltanto una parte di essi; circa 5.000 unità furono inoltre inviate, per ordine dello stesso Dario, a Cizico, luogo importante per via delle loro monete.
Nel maggio dello stesso anno, presso il fiume Granico, vicino al sito della leggendaria Troia (sulla strada da Abido a Dascylium, vicino all'odierna Ergili), si svolse il primo scontro. Contro Alessandro, oltre a Memnone, Spitridate della Lidia, Atizie e Arsite della Frigia e Mitrobarzane dalla Cappadocia, vi erano Reomitre, Mitridate e Resace.
Parmenione ebbe il comando dell'intera ala sinistra a cui era stata affidata la difesa. Altri uomini al servizio del conquistatore furono Filota, Ceno, Perdicca, Cratero, Meleagro. Clito il Nero (fu chiamato il Nero per distinguerlo da Clito il Bianco, altra figura al comando di parte della fanteria), figura come la guardia del corpo.
Dopo molto tempo trascorso ad osservarsi, in quanto i Persiani attendevano che fossero i Macedoni i primi ad attaccare,[49] alle prime luci dell'alba fu proprio Alessandro (riconosciuto per il caratteristico pennacchio dell'elmo) ad iniziare le ostilità. L'armata macedone si scagliò sui Persiani.
Battaglia del Granico
La tattica di Alessandro era chiara: aprire dei varchi nella fanteria nemica, lasciando poi spazio alla cavalleria per spezzare l'esercito persiano (che era disposto lungo le ripide rive del fiume) e permettendo così alla falange macedone di caricare con le sarisse e porre fine alla battaglia. Alessandro stesso condusse parte dell'attacco avanzando in obliquo, distraendo gli avversari, ma fu oggetto di attacchi cruenti.
Dopo aver rotto una prima lancia e ottenuta dai propri fidi un'altra, il macedone si scontrò prima con Mitridate, che venne colpito in volto e sconfitto, per poi essere colto di sorpresa dal fratello di Spitridate, Resace. Questi lo colpì in testa rompendogli l'elmo e ferendolo; Alessandro reagì e dopo essersi procurato una nuova lancia colpì l'avversario al petto. Arrivò un terzo avversario, Spitridate, armato di spada, ma, grazie all'intervento di Clito il nero, il re macedone ebbe salva la vita.
La battaglia si era finalmente risolta in uno scontro tra cavallerie, nel quale quella macedone ebbe la meglio, mettendo in fuga la controparte nemica. Senza molti dei loro comandanti i Persiani si sentirono persi e vennero rapidamente sconfitti; molti furono i morti fra cui Spitridate, Mitrobarzane, Farnace, il cognato di Dario, Arbupalo, Nifate, Petine e Omare dei mercenari. In quella battaglia i morti persiani furono migliaia mentre quelli macedoni si contavano: 25 fra gli eteri, 60 nella cavalleria e circa 30 nella fanteria.
Solo 2.000 dei 20.000 mercenari greci agli ordini di Memnone furono risparmiati e mandati ai lavori forzati nelle miniere del Pangeo, in quanto essendo greci erano andati contro le leggi degli alleati. Alessandro nel trattare le spoglie nemiche fu diplomatico, inviando 300 armature ad Atene con un messaggio che ricordava: «Alessandro, figlio di Filippo, e i Greci, eccetto gli Spartani, dedicano queste spoglie tolte ai barbari che vivono in Asia»; in questo modo dimostrò umiltà e rispetto. Le armature furono un ovvio riferimento ai 300 guerrieri spartani che nel 480 a.C. morirono con il re Leonida al passo delle Termopili.
Il conquistatore diede grandi onori ai caduti, esentando da tasse genitori e figli dei combattenti defunti più fedeli. Arsite riuscì a salvarsi, ma sentendosi in colpa per l'accaduto si suicidò. Dopo la vittoria, Alessandro diede ordine di non saccheggiare la terra conquistata e ai persiani vinti concesse il pagamento dello stesso tributo che prima pagavano. Parmenione, nel frattempo, prese Dascilio.
L'Asia Minore era ormai aperta alla conquista macedone.
L'avanzata di Alessandro trovò solo la città di Mileto ad opporgli fiera resistenza: pur avendo anche loro inviato in precedenza ai Macedoni una lettera di resa, cambiarono idea non appena vennero a conoscenza dell'arrivo imminente di una flotta amica in loro sostegno. Alessandro occupò quindi il porto, cercando di impedirne l'entrata alle 400 navi nemiche che stavano per giungere, e assaltò le mura, iniziando l'assedio. Dopo tre giorni giunsero i rinforzi ma non venne permesso loro di attraccare: ciò fu possibile grazie allo sforzo di Nicanore e dei suoi soldati che, stanziando nei pressi dell'isola di Lade, controllavano il porto.
Si dice che a questo punto Parmenione suggerì di attaccare la flotta nemica, avendo notato buoni auspici per la vittoria in mare (un'aquila che si era poggiata sulla spiaggia vicino alle loro imbarcazioni); Alessandro, tuttavia, gli rispose che aveva male interpretato i segni e che la vittoria sarebbe venuta per terra, in quanto il volatile si era poggiato sul suolo. I Macedoni sconfissero gli avversari e reclutarono trecento uomini nemici nel loro esercito (questo reclutamento fece arrendere i combattenti nemici più valorosi).
Contro la città di Sardi bastò un accordo con il suo capo, Mitrine, che accolse Alessandro come fosse un amico; il re macedone permise ai cittadini del luogo di continuare a regolarsi con le leggi già in uso e concesse inoltre ulteriori privilegi. Raggiunse Efeso, dove i mercenari nemici impauriti erano precedentemente fuggiti, e la occupò instaurando una democrazia al posto della precedente oligarchia, come era avvenuto nelle altre città conquistate. La città entrò a far parte della Lega di Corinto. Questa sua politica gli portò molti consensi e rese spontanea la resa di altre città. Tutte le πόλεις (poleis) della costa salutarono il macedone come il liberatore.Il governo della Caria fu affidato ad Ada, ultima sorella di Mausolo e di Pixodaro (colui che anni prima aveva progettato un matrimonio fra sua figlia e uno dei figli di Filippo). La donna chiese udienza al conquistatore, lasciando Alinda (luogo dove aveva trovato rifugio) per incontrarlo; nel parlargli lo denominò figlio.
Mentre il grosso dell'esercito svernava in Lidia (terra poi concessa ad Asandro) al comando di Parmenione, Alessandro passò in Licia, in Panfilia, in Pisidia e in Frigia; quest'ultima venne concessa al comandante della cavalleria tessalica (Calate) e in sua sostituzione Alessandro nominò nuovo comandante della cavalleria Alessandro di Lincestide, scelta poi rivelatasi infausta.L'intento di Alessandro era quello di conquistare tutte le città costiere impedendo l'attracco alle navi nemiche; nel frattempo si ebbe la notizia della morte di un figlio di Dario, ucciso per ordine dello stesso padre in quanto era in procinto di tradirlo.
Si trovò di fronte ad Alicarnasso, una roccaforte dove si era rifugiato Memnone per aiutare la flotta persiana disposta nelle acque vicine; la città era provvista di un grande fossato e disponeva di scorte sufficienti a resistere ad un eventuale lungo assedio. In questa battaglia il macedone utilizzò le macchine che lanciavano pietre per difesa e non per attaccare le mura.
Alessandro attaccò quindi una torre, nella vana speranza che il suo crollo coinvolgesse parte delle mura; ma alla caduta della prima non conseguì la caduta della seconda. Si concentrò allora su un'altra zona, colmando prima il fossato e poi attaccando con le sue macchine, senza grossi esiti. In quell'occasione morì Neottolemo, fratello di Aminta di Arrabeo, insieme a circa 170 soldati, mentre meno di venti (16) furono le vittime fra i macedoni, e 300 i feriti.
I Persiani resistettero ad altri assalti grazie al fuoco che bruciò un'elepoli dei greci.
Furono allora mandati duemila uomini persiani, mille dei quali armati di fiaccole con l'obiettivo di incendiare ogni macchina nemica, mentre gli altri mille dovevano attaccare di sorpresa i Macedoni nel momento in cui sarebbero stati impegnati a spegnere i vari incendi. La loro azione non colse impreparati gli uomini di Alessandro, che fecero strage dei nemici; del secondo contingente si occupò Tolomeo. I soldati persiani rimasti in vita cercarono di tornare nella città, ma, temendo che anche gli invasori entrassero con loro, venne chiuso il cancello e il ponte stesso non resse al peso. Si contarono 1.500 morti per i Persiani e 40 dei Macedoni, fra cui il capo degli arcieri Clearco.
Diodoro differisce totalmente da questa versione (narrata fra gli altri da Arriano-Tolomeo); secondo l'autore, soltanto all'inizio stavano avendo la meglio i Macedoni, guidati fra gli altri probabilmente dai battaglioni di Addeo e Timandro, ma di fronte al secondo assalto molti dei greci si spaventarono e la paura aumentò ancora di più all'ingresso dello stesso Memnone, il cui esercito ammutolì per un attimo lo stesso Alessandro. Soltanto grazie ai veterani, al cui comando si pose Atarrias, che spronò i più giovani e inesperti, riuscirono a sconfiggere l'esercito nemico uccidendo Efialte, uno dei comandanti nemici.[68] Si riportano anche i nomi dei generali nemici, gli stessi Efialte e Trasibulo, che tempo prima vivevano ad Atene e di cui Alessandro chiese la consegna, ma a cui fu dato la possibilità dell'esilio e quindi di allearsi con Dario. In ogni caso la resistenza non superò i due mesi.
La città venne incendiata dai Persiani, mentre il generale nemico Memnone fuggì rifugiandosi temporaneamente sull'isola di Cos. Il re macedone, entrato nella città, ordinò di uccidere chiunque avesse appiccato il fuoco e quando si rese conto dei danni che aveva subito la fece distruggere completamente.
Alessandro lasciò Orontobate, che si era rifugiato nella roccaforte di Salmacide, dando incarico a due dei suoi uomini più fidati (Tolomeo di Filippo e Asandro) di conquistare le restanti città della regione, lasciando a loro parte dell'esercito (3.000 fanti e 200 cavalieri). Nel frattempo il re macedone avrebbe proseguito la sua conquista dell'Impero Persiano.A questo punto il re macedone diede il congedo a tutti i militari che si erano sposati poco prima di partire per la spedizione e inviò parte del suo esercito a Perge, mentre lui continuava il suo percorso costiero. Dopo un evento fortuito (il vento cambiò al suo passare rendendo agevole il passaggio in una zona altrimenti impervia)riscosse molti consensi e contributi da parte dei suoi uomini che subito convertì in paghe per i soldati.
Alessandro viaggiò per Termesso, Aspendo e Faselide. Nel frattempo arrivò da Parmenione Sisine, un messaggero persiano inviato da Dario III col proposito di persuadere Alessandro di Lincestide a uccidere il proprio re; se quest'ultimo avesse accettato la proposta avrebbe ricevuto un premio di duemila talenti d'oro (a cui si aggiungeva la corona stessa). Il generale dunque, ritenendo rischioso comunicare la risposta per iscritto, inviò ai persiani un messaggero travestito, evitando così ogni possibile pericolo di intercettazione, per chiedere come avrebbe dovuto agire.
Gli storici non concordano con questo passo per via della presenza di tanti punti oscuri. Anche la sorte di Alessandro di Lincestide viene raccontata in vari modi: Tolomeo dopo la sua cattura non citerà più il suo nome; forse fu ucciso per un tradimento quattro anni dopo le vicende narrate, oppure, come racconta Aristobulo, egli morì addirittura prima della partenza per la conquista dell'Asia, ucciso da una donna a cui chiese del denaro. Dati certi riportano però l'esistenza di un comandante dei Traci con tale nome, sia all'epoca di Tebe sia in Asia.
Altri resoconti identificano Sisine come uomo di fiducia del re macedone, che gli rimase fedele sino a poco prima della battaglia di Isso, quando gli venne commissionato l'omicidio di Alessandro; scoperto, per ordine del re, Sisine venne poi ucciso dagli arcieri.
Dopo aver fatto dono al veterano Antigono Monoftalmo di un ampio territorio, Alessandro giunse nell'antica capitale Gordio, dove si svolse l'episodio del celebre nodo gordiano: pare che esistesse un antico carro il cui giogo era assicurato da un nodo inestricabile e che un oracolo avesse promesso il dominio dell'Asia a chi fosse riuscito a scioglierlo. Il macedone, dopo alcuni tentativi, risolse il problema estraendo la spada e tagliando il nodo con un colpo netto. Diversamente Aristobulo afferma che fu facile per il re sciogliere quel nodo, senza l'utilizzo della propria spada.
A Gordio, nel maggio del 333 a.C., Alessandro aspettò che Parmenione lo raggiungesse insieme alle sue truppe, cui si aggiunsero 4.000 soldati (di cui 3.000 erano Macedoni).Riuscì a far avere ad Antipatro 500 talenti e 600 ne donò ad Anfotero, per rinforzare la flotta greca, rispettando l'alleanza.
In seguito Memnone, dopo aver conquistato Chio e le città di Lesbo (Mitilene non riuscì mai a conquistarla), tentò di preparare trecento navi con cui partire per invadere Eubea e Attica, ma si ammalò e morì. La sua azione di resistenza fu proseguita da un suo parente, Farnabazo, aiutato da Autofradate. I due ottennero piccole vittorie (fra cui la conquista di Mitilene,Mileto e Tenedo) alternate ad altrettante piccole sconfitte, ma il numero dei loro soldati non impensieriva Alessandro.
Alessandro nel giugno del 333 a.C. entrò nella Cilicia e scese in una radura descritta tempo prima da Senofonte, arrivando dopo molte miglia a Tarso. Nel frattempo Dario III, a Susa, venuto a conoscenza della morte del suo più celebre generale, convocò il consiglio di guerra; Caridemo chiese di essere posto al comando di un esercito di 100.000 uomini, ma l'imperatore persiano decise di muoversi personalmente a partire da luglio. Verso la fine di agosto o l'inizio di settembre partì. Le cifre dell'esercito persiano non sono riportate correttamente da nessun cronista storico del tempo: erano 600.000 secondo Arriano e Plutarco, 400.000 fanti a cui si sommano 100.000 cavalieri secondo Giustino e Diodoro, mentre Callistene e Curzio Rufo riferiscono solo di 30.000 mercenari greci; altri riportano che il contingente schierato fu di 160.000 unità.
In ogni caso Dario aveva radunato un'armata numerosa, tre o quattro volte superiore a quella macedone. I Persiani si schierarono nella pianura all'uscita dei passi montani delle porte siriache, trovando una buona posizione strategica a Sochi.
Nel frattempo Alessandro fu colpito da una malattia, forse per aver nuotato nel Cidno. Colui che lo curava, Filippo di Acarnania, voleva in realtà ucciderlo, ma il re ne fu informato da Parmenione. Il re guarì verso la fine di settembre. Successivamente passò per Anchialo, dove una trascrizione diceva che questa città e quella di Tarso furono costruite in un giorno e, dopo la conquista di Soli, corse a Mallo, dove era in atto una guerra civile che fece terminare; qui venne a conoscenza che Dario era posizionato a Sochi e decise quindi di affrontarlo.Parmenione fu mandato in avanscoperta e a fatica riuscì a controllare il passo di Kara-kapu, Alessandretta ed una parte di Isso; Alessandro lo raggiunse successivamente.
A novembre, infine, il re persiano, temendo che l'inverno lo costringesse a ritirarsi nei quartieri invernali senza aver fermato Alessandro, gli venne incontro. Entrambi non sapevano esattamente dove si trovasse l'altro. Arrivato ad Isso, Dario trovò solo gli uomini abbandonati dal re avversario, in quanto non erano più utili all'imminente battaglia perché feriti o malati; il suo nemico si trovava a sole quindici miglia circa più a sud.
Fiducioso della superiorità numerica del suo esercito, Dario si spostò alle spalle del nemico, nella pianura costiera di Isso, l'odierna Dorto; la sua idea era quella di spezzare l'esercito greco, confidando che l'alto numero dei soldati reclutati lo avrebbe portato alla vittoria anche su un terreno meno favorevole, nella ristretta pianura chiusa tra i monti del Tauro, il mare e il fiume Pinaro, dove poterono essere schierati non più di 60.000 fanti, 30.000 cavalieri, altri 20.000 uomini e dietro a loro 30.000 mercenari greci.Il tutto equivaleva per capacità alla falange macedone. Ancora più dietro vennero schierati altri soldati, mentre Dario occupava il centro come loro usanza, su un carro con 3.000 uomini posti a guardia. Alla sinistra si posero 6.000 arcieri e 20.000 fanti sotto il comando di Aristomede.
Mosaico della battaglia di Isso
(Museo Archeologico Nazionale di Napoli)
Alessandro incitò i suoi uomini affermando che dopo questa vittoria non ci sarebbero stati altri ostacoli alla conquista dell'intera Asia.
Lo scontro iniziò alle cinque e mezzo del primo novembre. Alessandro schierò le truppe al comando dei vari Ceno, Perdicca, Meleagro, Tolomeo, Aminta e Nicanore. Cratero occupava l'ala sinistra comandata da Parmenione, a cui era stato dato l'ordine tattico di non allontanarsi dal mare. Erano inoltre presenti come supporto le unità comandate da Sitalce, mentre alla destra si trovavano Aristone, Protomarco, gli arcieri di Antioco, gli hetaîroi e all'estrema destra presiedeva Attalo; altri ancora erano Pereda e Pantordano.
Alessandro guidò direttamente la carica con la cavalleria leggera sull'ala destra, proprio ai piedi delle montagne: corse verso il lato sinistro dei Persiani superando gli sbarramenti posti da arcieri, fanteria leggera e cavalleria pesante, mentre la falange, meno veloce nei movimenti, si stava lentamente arrendendo al nemico che la attaccava da ogni parte, mentre i cavalieri tenevano a bada i mercenari greci. Alessandro raggiunse quasi il sovrano persiano e si dice cercò di colpirlo, non riuscendoci, con una lancia. Dario decise di ritirarsi, costretto a lasciare il suo carro e a darsi alla fuga su un cavallo, abbandonando anche lo scudo, mentre suo fratello Ossatre rimase a combattere sino alla morte.
La battaglia si concluse con una completa disfatta dei Persiani, tra i quali si contarono oltre 110.000 morti fra cui ufficiali quali Savace (satrapo d'Egitto), Arsame, Reomitre e Atize, i quali avevano già combattuto in passato contro l'avanzata macedone uscendone in salvo. Circa 8.000 mercenari greci decisero di fuggire verso Tripoli. Aminta, il disertore macedone, trovò la morte poco dopo.
Fra i Macedoni si contarono 150 perdite, tra cui 32 fanti, mentre i feriti erano oltre 500. Callistene menziona che i morti furono 302, anche se appaiono cifre poco credibili considerando i continui attacchi subiti. Lo stesso Alessandro venne ferito ad una coscia.
Vennero catturati, oltre ad un immenso bottino, anche alcuni familiari di Dario tra cui sua madre Sisigambi, sua moglie Statira I e le sue figlie Statira II e Dripetide. Il Grande Re perse le sue migliori truppe, quasi tutti i più validi ufficiali del suo esercito e soprattutto il proprio prestigio di condottiero, distrutto dalla sua precipitosa fuga davanti al nemico.
Si racconta che, udendo delle grida disperate, il re macedone uscì dalla sua tenda chiedendo chi si lamentasse a tal punto; appreso che i pianti provenivano dalla moglie e dai bambini di Dario, i quali credevano che il loro caro fosse morto in battaglia, decise di tranquillizzarli incaricando Leonnato di dire loro che Dario era ancora vivo e che sarebbero stati trattati bene in quanto non era a loro che aveva mosso guerra Alessandro.Tale episodio è stato oggetto di numerosi dipinti, realizzati da artisti quali Paolo Veronese, Charles Le Brun, Giambattista Tiepolo, Andrè Castaigne e Christophe Veyrier.
Il giorno successivo Alessandro andò con Efestione a far visita alle prigioniere. In quell'occasione Sisigambi non seppe riconoscere chi dei due fosse il re, rendendo omaggio alla persona sbagliata. Un servo le fece notare l'errore e il conquistatore macedone per evitarle l'imbarazzo le disse di non preoccuparsi in quanto entrambi erano Alessandro;il condottiero, adeguandosi a come già aveva fatto con Ada tempo addietro, iniziò a rivolgersi alla regina persiana chiamandola madre.
Visitò i feriti, pur essendo lui stesso uno di loro, e onorò ogni soldato che si fosse distinto durante la battaglia offrendo ricompense adeguate.Giunto a Marato, il conquistatore macedone ricevette alcuni ambasciatori inviati dal re persiano; questi chiedevano la pace e il riscatto dei prigionieri. Gli ambasciatori erano accompagnati da una lettera con la quale si ricordava ad Alessandro che, ai tempi del padre Filippo, la Macedonia e la Persia erano state alleate e furono i Macedoni ad infrangere per primi tale alleanza.Alessandro rifiutò le proposte di pace di Dario preferendo la via della conquista all'accontentarsi dei numerosi territori fino a quel momento assoggettati. Invece di proseguire immediatamente verso l'Asia preferì entrare in Egitto al fine di coprire le spalle al suo esercito prima della spedizione successiva.Parmenione poi fu inviato a Damasco, dove riuscì a racimolare 2.600 talenti e 500 libbre d'argento, con i quali riuscì a pagare ogni debito contratto con l'esercito. Parmenione riportò con sé anche 329 musiciste e quaranta «fabbricanti di profumi»oltre ad uno scrigno in cui Alessandro nascose la sua copia dell'Iliade e Barsine, figlia di Artabazo (che discendeva da una figlia di un re) e vedova del generale Memnone,che divenne una delle compagne dello stesso re macedone, da cui ebbe un figlio, Eracle.
Moneta d'oro di Alessandro
Dopo la vittoria lo stesso Alessandro scrisse una lettera a Dario con la quale gli comunicò che avrebbe dovuto chiamarlo «signore di tutta l'Asia» e che avrebbe potuto ottenere il riscatto della moglie e dei figli se fosse venuto di persona a chiederlo. Nel caso in cui il sovrano persiano non l'avesse riconosciuto superiore a lui ci sarebbe stato un nuovo combattimento Alessandro si dedicò quindi alle città costiere per eliminare le ultime basi della flotta persiana. Si sottomisero senza opporre resistenza Arado, Biblo e Sidone con le loro flotte navali, mentre Tiro, che per allearsi o meno attendeva di capire chi stesse vincendo fra i due schieramenti,non fu benevola come le precedenti. Il re cercò in un primo momento di convincerli a farli entrare in città con il pretesto di voler rendere omaggio ad una loro divinità, Melqart; loro tuttavia non acconsentirono e gli venne suggerito di recarsi nella parte vecchia della città dove vi era un tempio apposito. In questo modo avrebbero quindi evitato la parte nuova, quella che invece interessava al macedone. Il conquistatore inviò loro dei messaggeri che furono tutti uccisi, violando il codice non scritto. Era il mese di febbraio dell'anno 332 a.C.
La città oppose un'accanita resistenza, forte anche del fatto che Cartagine aveva promesso di inviare presto soccorsi. La parte nuova era ubicata su un'isola vicino alla costa (si parlava di una distanza di 700 metri); Alessandro pensò dunque di utilizzare dei detriti dell'antica città continentale, distrutta anni prima da Nabucodonosor II (dopo un assedio di tredici anni), per unire l'isola alla costa rendendola dunque una penisola, usando anche alberi, legname a cui venivano alternati strati di macigni e detriti. Intanto racimolò, durante un viaggio che lo portò anche a Sidone, una piccola flotta composta da 224 navi, fra cui alcune quinquiremi del re Pnitagora, sovrano dei ciprioti a cui il conquistatore donò una miniera di rame. Oltre a loro riuscì ad aggiungere alle sue fila anche 4.000 mercenari comandati da Cleandro. L'assedio durò sette mesi (dal febbraio del 332 a.C. sino a luglio-agosto). Fra le varie idee utilizzate vi fu quella di due navi unite a prua che trasportavano degli arieti. La resistenza dei Tiri fu eroica: riparavano ogni breccia creata, gettavano pietre contro le navi che trasportavano gli arieti (anche se tali massi furono raccolti e catapultati lontano dagli assalitori), tagliavano le corde che reggevano le ancore anche con l'uso di palombari (in seguito furono sostituite da catene). Inoltre, dato il gran numero di tecnici e ingegneri presenti nella città, costruirono facilmente tante nuove macchine da guerra per opporsi con più efficacia all'assedio;a loro si contrapponeva, nella costruzione di macchine all'avanguardia, un solo inventore tessalo, Diade.
Giunse un'altra lettera da Dario, una proposta di pace, probabilmente durante l'assedio a Tiro. Questa volta alla proposta erano allegati molti doni fra cui 10.000 talenti, la mano di sua figlia e il possesso di un vasto territorio sino all'Eufrate. Vi fu qui una celebre conversazione fra Parmenione e Alessandro: «Se io fossi Alessandro, accetterei la tregua e concluderei la guerra senza più correre altri rischi». «Lo farei se fossi Parmenione; ma io sono Alessandro e come il cielo non contiene due soli, l'Asia non conterrà due re».
Fu probabilmente la notizia della morte della moglie, avvenuta durante il travaglio di un nuovo nascituro, a far cambiare idea al re.Infatti, saputo del secondo rifiuto, Dario si dedicherà a radunare un esercito ancora più vasto del precedente. Nel frattempo la flotta navale macedone sconfisse molti dei suoi nemici, fra cui Carete, fuggito tempo addietro dalla Grecia stessa.
Gli abitanti di Tiro vennero informati che i rinforzi da Cartagine non sarebbero giunti e di conseguenza escogitarono altre difese ancora più cruente, fra cui quella di gettare dalle mura sabbia e fango bollente che una volta entrate nelle armature degli assedianti avrebbero causato ustioni. Si dice che Alessandro abbia avuto dei dubbi sulla prosecuzione dell'assedio; alla fine scelse di continuare ciò che aveva iniziato, dato che una rinuncia sarebbe stata una testimonianza troppo grande della sua non invincibilità.
Plutarco racconta che, giunti all'ultimo giorno del mese di agosto, l'indovino Aristandro predisse, dopo aver interpretato i segni che il cielo stava dando, la conquista della città entro la fine del mese; Alessandro quindi decise che quel giorno non era più il trenta ma il ventotto del mese. Alla fine di agosto le navi di Alessandro subirono un pesante attacco e quelle di Pnitagora, Androclo e Pasicrate, dopo essere state speronate, affondarono l'una dopo l'altra. Non appena il macedone si accorse di quanto stava accadendo ordinò alle navi più vicine di avvicinarsi al molo nemico impedendo così l'uscita di altri convogli e permettendo di concentrare l'azione su quelli rimasti. I Macedoni utilizzarono a quel punto varie tattiche: l'attacco ad entrambi i porti, un diversivo con una piccola unità navale e l'attacco decisivo alle mura. L'offensiva fu inizialmente guidata da Admeto, ammiraglio della nave del re, poi ucciso in quella battaglia. Successivamente l'attaccò fu guidato da Alessandro in persona. Per paura della sconfitta imminente ci fu chi preferì uccidersi. La città infine cadde e le perdite macedoni furono in quell'attacco circa una ventina, che si sommano alle circa quattrocento nel corso di tutto l'assedio.
In quest'occasione si vide la furia del re: fece uccidere 8.000 cittadini (di cui 2.000 vennero crocifissi)e molti di più furono ridotti in schiavitù o venduti; si mostrò tuttavia benevolo con chi aveva trovato riparo nei templi, fra cui il re di Tiro, Azemilco. Alessandro fu dunque di parola e sacrificò, come aveva chiesto di fare in precedenza al dio locale, la catapulta che aveva fatto per prima breccia nella città.
La data della caduta della città è controversa: Arriano cita il mese di luglio, all'epoca in cui si distingueva come magistrato d'Atene Aniceto. Dopo Dor e Ashdod arrivò il turno di Gaza, comandata da Batis (o Bati) che si oppose alla conquista. Alessandro fece trasportare le macchine da guerra utilizzate in precedenza e alle proteste dei suoi uomini replicò, dopo aver osservato le possenti mura della fortezza scoscesa, che più un'impresa appariva impossibile a maggior ragione doveva essere compiuta per stupire alleati e nemici. Iniziò dunque la costruzione di gallerie, impresa facile vista la conformità del terreno
Nel contempo decise di fare costruire torri più alte delle mura nemiche in modo da poterle colpire dall'alto grazie all'utilizzo di catapulte (le elepoli non riuscivano ad avvicinarsi abbastanza). Per utilizzarle occorreva prima costruire un terrapieno; nonostante i Macedoni avessero a disposizione solo fango e sabbia vi riuscirono in pochi mesi. Batis diede l'ordine ai suoi uomini di incendiare le macchine nemiche, ma i soldati che uscirono dalla fortezza furono attaccati. Durante questa azione Alessandro fu raggiunto da un colpo di catapulta. Si riparò con lo scudo ma l'impatto fu così forte da romperlo, trafiggendo l'armatura e ferendolo ad una spalla. Questo episodio era stato predetto dall'indovino che aveva visto la vittoria del macedone.
Il re non aspettò che la ferita guarisse, ma ritornò alla battaglia; durante l'assedio la ferita riprese a sanguinare e a gonfiarsi, ma il condottiero abbandonò il campo solo quando stava per svenire. Il terrapiano che venne costruito raggiunse un'altezza di 75 metri, una piccola montagna eretta durante l'estate; da quell'altezza, anche se si cercò di alzare le mura della città, i nemici furono facili bersagli delle macchine nemiche. Inoltre, grazie alle gallerie scavate, le mura vennero fatte cadere. Quasi tutti gli uomini della città morirono mentre i restanti diventarono schiavi. Si racconta che il destino di Batis, che durante i combattimenti venne ferito più volte, ricordasse per similitudine quello di Ettore; infatti, analogamente al condottiero troiano, venne legato al carro di Alessandro e trascinato; molte aggiunte apportate ai resoconti dopo la morte di Batis rendono l'accaduto più tragico. La città venne poi ripopolata.
Gerusalemme aprì le porte e si arrese. Secondo Giuseppe Flavio , ad Alessandro fu mostrato il libro biblico di Daniele, si pensa l'ottavo capitolo, dov'è indicato che un potente re macedone avrebbe assoggettato l'Impero Persiano.
Nel novembre del 332 a.C. Alessandro iniziò il viaggio verso l'Egitto; superato dopo tre giorni il deserto e il lago Serbonide, giunse in quelle terre venendo accolto come un liberatore e facendosi consacrare faraone: qui, infatti, il giogo persiano era maggiormente avvertito e poco accettato, poiché solo dodici anni prima il popolo era libero dal potere dei Persiani.
La conquista dell'Egitto non era stata concordata con la lega di Corinto quindi il re macedone non poté unirla con il resto delle sue conquiste. Inoltre si astenne dal nominare un satrapo al quale preferì la collocazione strategica di alcune sue guarnigioni in posti chiave come Menphi e Pelusio. Per la gestione amministrativa del territorio furono scelti due nomarchi, Doloaspi e Petisi, mentre l'amministrazione delle finanze fu affidata ad un greco residente in Egitto, Cleomene di Naucrati. Assegnò ai suoi uomini cariche militari ma non civili. Durante la sua marcia apprese delle varie vittorie riportate dagli alleati: Lesbo, Tenedo e Cos erano ora in mano sua.
Dimostrò grande rispetto per gli dei egiziani e una profonda devozione per Ramses II, suo mito e icona, in onore del quale costruì una stele; a Menphi fece un sacrificio al bue Api, ingraziandosi così i sacerdoti egiziani: tempo addietro, durante la riconquista persiana del territorio egiziano, Artaserse III uccise un toro sacro e ne divorò la carne, mentre il re macedone con questo gesto conquistò la fiducia del popolo.
All'inizio del 331 a.C., sulle rive del Nilo, Alessandro decise di edificare una grande città che testimoniasse la sua grandezza; si racconta però che dopo un sogno, nel quale gli furono recitati alcuni versi dell'Odissea sull'isola di Faro, decise di costruirla nella regione del Delta del Nilo su una stretta lingua di terra tra la palude Mareotide ed il mare. Egli stesso disegnò la disposizione di piazze e mura da costruire (le linee del disegno furono tracciate sul suolo utilizzando della farina).
La città venne chiamata Alessandria d'Egitto. Il progetto topografico fu realizzato dal celebre architetto dell'epoca Dinocrate di Rodicon la collaborazione di Cleomene da Naucrati. Le indicazioni fornite dal re macedone vennero rispettate. Fu la prima delle molte città a cui diede il suo nome.
In seguito Alessandro (o forse prima, secondo alcuni studiosi)decise di andare a far visita al celebre santuario oracolare di Amon (l'equivalente di Zeus secondo la mitologia greca). Per raggiungerlo dovette percorrere 200 miglia fino a quella che in seguito verrà chiamata Marsa Matruh, recandosi dunque all'oasi di Siwa nel deserto libico. Del viaggio si raccontarono gli episodi più incredibili, come i corvi che gracchiavano avvertendo i viaggiatori che avevano intrapreso la strada sbagliata o quello, riferito da Tolomeo, dei serpenti parlanti che gli avrebbero fatto da guida.
Questo viaggio fu forse intrapreso perché Alessandro sapeva che lo avevano compiuto in precedenza Perseo ed Eracle. I resoconti vennero scritti venti mesi dopo l'accaduto, quindi il dialogo intercorso potrebbe essere stato inventato conoscendo i successivi avvenimenti favorevoli al Dio Alessandro.
Le domande che pose furono più di una: chiese se avesse vendicato la morte del padre ma gli venne risposto che non si trattava di suo padre in quanto lui era una divinità. Allora riformulò la domanda chiedendo se degli uccisori di Filippo vi era rimasto qualcuno ancora in vita e se sarebbe diventato signore degli uomini. La risposta fu positiva per entrambe le richieste. Si narra che in quell'occasione l'oracolo compì un piccolo errore di pronuncia dicendo «paidios» (figlio di Zeus) invece di «paidion» (figlio),offrendogli in tal modo un punto di partenza per l'istituzione di un culto divino incentrato sulla sua persona. Davanti ai suoi alleati non volle però vantare questa discendenza.
Arriano differisce da questa narrazione rivelando che il re macedone non pose le domande sopra citate [158] ma supponeva che avesse chiesto, per via di indizi lasciati quattro anni dopo l'incontro,quali divinità avesse dovuto ingraziarsi per trionfare sui suoi nemici.
Dopo un anno di sosta nel regno egiziano ritornò in Asia. Nel frattempo giunsero rinforzi inviati da Antipatro (circa 900 uomini).
Nella primavera del 331 a.C. Alessandro riprese la marcia verso oriente dove Dario aveva radunato un esercito nelle pianure dell'Assiria. Qui il sovrano persiano avrebbe potuto sfruttare al meglio la propria superiorità numerica.
L'armata macedone doveva attraversare l'Eufrate e quindi passare per Tapsaco. Superato il fiume vi erano due strade possibili: la prima portava direttamente a Babilonia, mentre l'altra portava prima a nord e poi, una volta superate le colline, tornava a sud raggiungendo la stessa meta. L'idea di Dario era quella di costringere il suo avversario a raggiungerlo, inducendolo a non fargli prendere la via diretta per Babilonia, la quale avrebbe fatto evitare lo scontro. Parte dell'esercito persiano venne inviato a Tapsaco per la costruzione di un ponte mentre il satrapo Mazeo, con qualche migliaio di uomini, doveva impedire all'esercito di Alessandro di prendere la via sbagliata. I due eserciti si diedero battaglia fino a che Mazeo abbandonò la lotta. Nonostante il ritiro dei soldati persiani l'esercito macedone andò comunque verso nord cercando un clima più favorevole.
A Mazeo venne affidato anche il compito di bloccare i rifornimenti di cibo ai Macedoni. Bruciò per questo campi e città ma i rifornimenti furono comunque possibili usando il corso del fiume per un trasporto veloce. Alessandro allora decise di attaccare l'esercito avversario temendo che potesse rifugiarsi in terre a lui maggiormente ostili.
Il 20 settembre ci fu un eclissi lunare e il re macedone ne approfittò per opportuni sacrifici. Il Tigri fu guadato dall'esercito di Alessandro senza subire alcun attacco dal nemico. Durante la prosecuzione della marcia più volte si ebbero falsi avvistamenti dell'esercito persiano, come quello del 25 settembre; nello stesso giorno, grazie alla confessione di alcuni prigionieri, i soldati macedoni vennero a sapere che Dario e i suoi uomini erano vicini.
Alessandro si fermò ad organizzare i suoi uomini per quattro giorni, fino alla sera del 29 settembre. Decise di aspettare l'alba per intraprendere l'attacco, nonostante i suoi consiglieri suggerirono di effettuare le prime mosse di notte. Il re si rifiutò affermando che «non ruba le vittorie», uccidendo la sera stessa una vita sacrificandola alla paura. Successivamente cadde in un sonno talmente profondo che Parmenione si preoccupò a tal punto da chiedere al proprio re come mai dormisse come se avesse già vinto lo scontro imminente. Alessandro rispose che la battaglia era già praticamente vinta in quanto ci si doveva scontrare con un esercito che cercava di evitare ogni contatto.
Il contatto con l'esercito di Dario avvenne all'alba del 1º ottobre, anche se non tutti gli studiosi sono concordi con tale data. Alcuni citano quella del 30 settembre.Lo scontro avvenne presso il villaggio di Gaugamela (poi Tell Gomel), nei pressi delle rovine di Ninive e non ad Arbela come qualcuno sosteneva.
La battaglia fu di vitale importanza per Alessandro. Si racconta che egli avesse solo 30.000 fanti e 3.000 cavalieri contro un milione di Persiani. Il numero di Persiani, imprecisato in realtà, è secondo alcuni storici di numero molto inferiore a quanto si racconta e variava a seconda della fonte riportata:
* Giustino: 600.000 soldati
* Diodoro Siculo: 800.000 cavalieri e 200.000 fanti
* Quinto Curzio Rufo: 600.000 fanti e 45.000 cavalieri
* Arriano: 1.000.000 di fanti, 40.000 cavalieri, 200 carri e 15 elefanti armati.
L'armamentario persiano venne sostituito completamente nel tentativo di adeguarlo a quello macedone. Il punto debole dell'esercito di Dario rimaneva comunque la fanteria che non poteva rivaleggiare in abilità con la controparte. Questa unità militare venne abbandonata dai mercenari greci mentre i cardiaci non si dimostrarono all'altezza.[179] Dario schierò al centro gli elefanti come ultima risorsa di difesa della propria persona. Le forze in campo stavolta erano schierate al meglio grazie anche alla conformità del terreno che il re volle perfetta, arrivando persino a spianare ogni rialzo del terreno. Alle sue forze si erano uniti Besso dalla Battriana con 8.000 uomini, Mauace che guidava gli arcieri a cavallo, Barsaente al comando di circa 2.000 uomini, Frataferne con i Parti, Satibarzane, Atropate con i Medi, Orontobate, Ariobarzane e Orxine con la gente proveniente dalle sponde del Mar Rosso, Oxatre con gli Uxii e i Susiani (forse 2.000 uomini), Bupare con i Babilonesi, Ariace con i Cappadoci ed infine Mazeo con parte dei Siriani, posizionato alla destra dello schieramento.
A tale esercito Alessandro aveva frapposto gli eteri (circa 10.000) con le sarisse al centro, i portatori di scudo (circa 3.000) che coprivano la loro destra, i cavalieri (fra cui il re) ancora più a destra, poi arcieri (circa 2.000), frombolieri e lanciatori di giavellotto. Il lato sinistro affidato a Parmenione era quasi unito agli eteri. Ad entrambi i lati, per prevenire un possibile accerchiamento, vi erano due piccole unità nascoste e poste in obliquo rispetto al resto delle forze, pronte ad attaccare; se non fosse bastato avrebbero potuto ritirarsi per lasciare spazio alle riserve. Alessandro cercò solo di utilizzare il meglio delle sue risorse eliminando il superfluo nell'armamento. I suoi uomini più fidati, Clito il Nero, Glaucia, Aristone, Eraclide, Demetrio, Meleagro ed Egeloco, erano tutti ai comandi di Filota, figlio di Parmenione, mentre l'altro suo figlio, Nicanore, si trovava al centro insieme a Ceno, Perdicca, l'altro Meleagro, Poliperconte e Simmia. Nella parte più interna vi erano Cratero, Erigio, Filippo il figlio di Menelao, arrivando infine a Parmenione. Oltre a loro Andromaco guidava la cavalleria dei mercenari.
Per evitare di essere accerchiato da un esercito tanto più numeroso del suo e disteso su un fronte lunghissimo, Alessandro aveva appositamente schierato una seconda linea dietro il fronte di battaglia. La vittoria fu decisa dall'attacco della cavalleria all'ala destra, da lui stesso guidata, mentre il generale Parmenione teneva fronte alla cavalleria nemica sul lato opposto.
Alessandro si preparò in grande stile per la battaglia: portava una veste tessuta in Sicilia, il pettorale che faceva parte del bottino di Isso, l'elmo di ferro creato da Teofilo, la spada donatagli da uno dei re di Cipro, e un manto elaborato da Elicone, regalo della città di Rodi.
Dello scontro nessuno storico poté dare un resoconto certo per via dell'enorme confusione creatasi, tanto è vero che si concorda sulla conclusione in una nuvola di polvere: durante lo scontro la visibilità era ridotta di molto in quanto si poteva vedere ad una distanza di 4-5 metri ma non di più.
L'attacco persiano degi Sciti e dei Battriani, volto ad aggirare il nemico, venne effettuato ma trovò il secondo sbarramento macedone come aveva previsto Alessandro nella sua tattica. I carri falcati vennero sommersi dai giavellotti, da frecce e altre armi da lancio e molti di essi rallentarono a tal punto da permettere ai macedoni di prenderne possesso balzandoci sopra uccidendo i guidatori. Altri furono bloccati prima che riuscissero a partire. C'è chi racconta della perdita di arti e di alcune teste che rotolavano per terra, e chi si sofferma sui cavalli che rovesciavano spaventati i carri.
Le truppe di Mazeo si scontrarono con quelle di Parmenione arrivando in prossimità del campo dove erano segregati i prigionieri; fra questi spiccava la regina di Persia, madre di Dario,[189] che non venne liberata in quanto i soldati si diedero alla fuga alla notizia della ritirata del loro re.
Ci fu un attacco diretto da parte di Alessandro nei confronti del re nemico: il macedone colpì il cocchiere di Dario con una lancia uccidendolo. Il sovrano persiano, perso il carro, fuggì su di una giovane cavalla. Il conquistatore inseguì il nemico ma fu richiamato da alcuni messaggeri inviati da Parmenione che chiedeva aiuto per affrontare un gruppo nemico. Il re macedone, anche se terribilmente seccato da questa richiesta, fece finta di nulla e acconsentì permettendo all'avversario di salvarsi nuovamente. L'episodio del messaggero è molto discusso fra gli storici in quanto non è certa la sua collocazione temporale e non è chiaro nemmeno come abbia fatto ad individuare e raggiungere il proprio re in quella nuvola di polvere; forse era un modo per evidenziare l'incapacità di Parmenione. Altri discutono sull'atteggiamento di Dario: questa sarebbe la sua seconda fuga davanti al nemico e pare un'esagerazione se si pensa al coraggio che ha mostrato all'inizio del suo regno.
Senza il comando reale le truppe rimanenti furono facile preda dei Macedoni. Inizialmente i Persiani pensavano che fosse il re ad essere stato trafitto dalla lancia. Successivamente, prima che si potessero riorganizzare, furono attaccati dalle truppe guidate da Arete. Se da un lato dello schieramento si inseguivano e uccidevano i nemici, dall'altro ancora si combatteva e Mazeo stava prevalendo sui Macedoni, a tal punto che solamente la tattica prefissata di Alessandro li salvò da morte certa. Ci fu un pesante scontro di cavalleria dove i Persiani cercarono un varco per fuggire dal campo, combattendo ormai solo per salvarsi. Lo scontro si spostò sul fiume Lico dove molti persiani furono inghiottiti per via dell'armamentario troppo pesante che possedevano e quando si fece buio la lotta terminò. Mazeo si ritirò a Babilonia dove successivamente si arrese agli invasori.
I morti furono molti: se ne contavano circa sessanta fra le fila dei Macedoni. Molti di più i feriti fra cui Parmenione, Perdicca ed in seguito anche Efestione. Per Arriano si contarono circa 300.000 morti fra i Persiani e solo un centinaio circa fra gli alleati di Alessandro, mentre Diodoro ne cita 90.000 fra i Persiani e 500 fra la coalizione macedone.
Alessandro riprese l'inseguimento del re nemico appena le acque si furono calmate. Da poco superata la mezzanotte, partì alla volta di Arbela dove, giunto sul far del giorno, non trovò Dario (fuggito nei territori montuosi della Media) ma solo parte del suo tesoro. Non poté proseguire oltre poiché i cavalli erano esausti, tanto da doverne uccidere un migliaio. Durante il tragitto di ritorno verso il campo, il conquistatore fu attaccato da alcuni cavalieri e dovette trafiggerne qualcuno con la propria lancia prima di venire aiutato dai suoi uomini. Durante questo scontro Alessandro si espose in prima persona.
Caddero nelle mani del re macedone magazzini, preziosi e decine di migliaia di prigionieri. Decise di informare i Greci che le loro città non erano più soggette alla tirannia e da ora in poi si sarebbero governate con leggi proprie (affermazione vera solo in parte considerando la Grecia del tempo). Divise quindi il bottino inviandone una parte ai Crotoniati, in Italia, per ricompensare il coraggio mostrato da Faullo durante la guerra persiana.
Continuò la marcia, questa volta senza alcuno scontro. Degno di nota durante il tragitto fu l'incontrò di una voragine da cui continuamente usciva fuoco e nella quale si poteva osservare una corrente di uno strano liquido (nafta). Si trattava dei fuochi eterni di Baba Gurgan.
Alla fine di ottobre Alessandro entrò in Babilonia dove ottenne la sottomissione del satrapo Mazeo. Quest'ultimo fu lasciato al governo della provincia affiancato da un comandante militare e da un tesoriere greco. Qui riposò circa cinque settimane ed ebbe tempo per osservare i giardini pensili costruiti da Nabucodonosor, cercando di far inserire in quella meraviglia anche piante di origine greca; ad eccezione dell'edera quest'idea non ebbe fortuna.
Si diresse quindi a Susa, raggiungendola in venti giorni, per impadronirsi dei tesori che vi si conservavano. La città era sprovvista di mura. Qui Alessandro poté anche recuperare diverse opere d'arte sottratte da Serse in Grecia nel 480 a.C., tra cui il famoso gruppo statuario dei Tirannicidi Armodio e Aristogitone, che fece rispedire ad Atene; recuperò anche ingenti somme, come quarantamila talenti e forse altri cinquemila provenienti da altro luogo. A Susa lasciò i familiari di Dario. Il macedone si volle sedere sul trono del re persiano, evento tanto atteso dai sudditi a tal punto che Demarto non riuscì a trattenere le lacrime pensando ai morti lungo il percorso che persero tale spettacolo. Durante questo soggiorno diede molte ricompense ai suoi soldati: a Parmenione diede la casa di Bagoa (ufficiale che avvelenò e fu avvelenato) in cui vi trovò molte ricche vesti. Scrisse a sua madre e ad Antipatro, rimasti lontano, e sapendo che il secondo odiava la prima scrisse all'amico che le lacrime di una madre cancellavano il contenuto di mille lettere. Lasciò Susa verso la metà di dicembre.
Dopo aver superato il fiume che all'epoca si chiamava Pasitigris (in seguito Karun), entrò poi nel territorio degli Uxii, a circa sessanta chilometri da Susa, che in parte non si arresero al nuovo re. Chiesero ad Alessandro un tributo da versare se avesse avuto intenzione di passare per le loro terre. La risposta del macedone fu quasi di sfida, chiedendo loro di farsi trovare pronti al momento del suo passaggio; poi li attaccò di notte, forte degli 8.000 uomini della falange, radendo al suolo ogni loro possedimento. Gli Uxii sopravvissuti attaccarono ancora ma furono sconfitti ogni volta. In una giornata il macedone risolse un problema che affliggeva il regno persiano da quasi due secoli.
Restava ancora Ariobarzane, governatore della Perside, che voleva fuggire con il tesoro rimasto, sapendo che l'intero esercito macedone era più lento del suo. Alessandro divise in due parti i suoi uomini, avanzando con la metà più veloce e raggiungendolo in cinque giorni presso le porte persiane, nelle attuali montagne dello Zagros. Qui la lotta lo vide impegnato contro un congruo numero di nemici (40.000 uomini a cui si aggiungevano 700 cavalieri secondo Arriano, 25.000 soldati secondo Rufo, a cui Diodoro aggiunge 300 cavalieri). Per evitare di incappare in una sconfitta, Ariobarzane fece edificare un muro che ostruiva in parte l'unica strada percorribile dai Macedoni. Alessandro tentò un primo assalto che non diede alcun risultato, anche per via della frana provocata dagli stessi Persiani; si ritirò dunque qualche miglio più ad ovest, raggiungendo la radura denominata Mullah Susan. Qui vi era un'altra strada da prendere, a prima vista più ovvia, ma Alessandro la evitò non volendo lasciare i suoi morti «insepolti».
La resa dei conti arrivò, grazie anche ad un pastore della zona, il quale rivelò ai macedoni un percorso che potevano intraprendere per aggirare i Persiani. Le truppe di Alessandro iniziarono l'attacco e successivamente vennero in sostegno quelle di Cratero. Ariobarzane riuscì comunque ad arrivare con pochi uomini sino a Persepoli ma i cittadini non gli aprirono le porte, costringendolo a tornare al combattimento trovando la morte.
Nel mese di gennaio dell'anno 330 a.C. Alessandro entrò infine a Persepoli (che poi divenne Takht-i Jamshid), capitale dell'Impero Persiano, dove trovò circa centoventimila talenti di metallo prezioso non coniato. Il re nemico aveva intanto trovato rifugio ad Hamadan (conosciuta all'epoca come Ecbàtana), dove fu raggiunto dai suoi uomini di fiducia (Besso, Barsaente, Satibarzane, Nabarzane, Artabazo) e da 2.000 mercenari greci. Alessandro rimase per un lungo periodo a Persepoli, inviando dei soldati a Pasargade e chiedendo a Susa l'invio di una grande quantità di animali da soma per il trasporto del denaro. Partì con una piccola parte dell'esercito, per circa trenta giorni, alla conquista delle tribù che si trovavano vicino alle colline della regione, sottomettendo i nomadi e il resto della provincia. Quando tornò, continuò a far dono, a chi lo aveva aiutato, di beni proporzionati all'aiuto offerto, come era nel suo stile. Prima di lasciare la città restituì il potere locale al governatore della città e affidò 3.000 macedoni ad un suo uomo di fiducia.
Alessandro era figlio del re Filippo II di Macedonia e della moglie Olimpiade (o Olimpia), principessa di origine epirota; secondo le leggende, da parte di padre era discendente di Eracle, mentre da parte di madre di Achille, attraverso il nipote Molosso che avrebbe dato origine alla casa reale dei Molossi .Alessandro mostrava di non considerare questa genealogia una finzione, tanto che diceva di comportarsi quale discendente diretto sia di Eracle che di Achille.
Secondo la leggenda, in parte da lui stesso alimentata dopo essere salito al trono, e riferita da Plutarco, il suo vero padre sarebbe stato lo stesso dio Zeus, che avrebbe preso le sembianze di un serpente e giaciuto con la madre.Molte furono le leggende a lui postume sulla sua nascita; ad esempio si narrava che la madre Olimpiade, in visita alla corte persiana, avrebbe avuto una notte d'amore con il loro re, per poi ritornare in Macedonia.La madre stessa per altro alimentava leggende di ogni tipo sul figlio.All'epoca della nascita di Alessandro, sia la Macedonia che l'Epiro erano ritenuti stati semibarbari, alla periferia settentrionale del mondo greco.La sua nutrice fu Lanice, sorella di Clito;i suoi genitori volevano dare al figlio un'educazione greca (precisamente attica-ateniese) e, dopo Leonida (che il suo allievo giudicò avaro)e Lisimaco di Acarnania (con cui Alessandro legò molto rischiando una volta la vita per salvarlo),scelse come suo maestro, fra il 343 a.C. e il 341 a.C., il filosofo greco Aristotele;la scelta era dettata anche dalla politica del tempo.Aristotele lo educò, insegnandogli la scienza, la medicina, l'arte e la lingua greca, preparando appositamente per lui un'edizione annotata dell'Iliade e gli restò legato, come amico e confidente, per tutta la vita. Alessandro lo considerò all'inizio alla stregua di un padre ma successivamente diffidò di lui.
Non si sa fino a che punto gli insegnamenti filosofici di Aristotele influirono sul pensiero di Alessandro. Sembra molto probabile che non potessero esservi molti punti di accordo tra i due: le teorie politiche di Aristotele erano fondate sulla città-stato greca, teoria ormai fuori moda in quel tempo. Il concetto di governo di una piccola città-stato non poteva interessare a un principe ambizioso che voleva costruire un grande impero centralizzato.
Del suo apprendere dal maestro si ha una prova in una lettera inviata da Isocrate ad Alessandro, in cui il retore greco si congratulava con il macedone nel come affrontava e apprendeva l'arte della filosofia.Una delle prime volte che venne menzionato il suo nome fu in un discorso pubblico di un politico ateniese; a quell'epoca Alessandro aveva dieci anni. Del suo rapporto con Aristotele nei suoi primi anni si raccontarono molte storie, quasi tutte inventate.Si narra che il giovane Alessandro, all'età di dodici anni o meno, manifestasse la propria straordinaria natura riuscendo a domare da solo il cavallo Bucefalo.
L'animale venne comprato da un amico del padre, il generale Demarato di Corinto, probabilmente per un valore di tredici talenti, e regalato a Filippo, il quale ne fece dono al figlio. Alessandro, avendo infatti notato che il cavallo era spaventato dalla propria ombra, lo mise col muso rivolto verso il sole prima di montargli in groppa; da allora il cavallo non si lasciò mai più montare da nessun altro uomo che non fosse Alessandro. In seguito gli venne anche insegnato ad inginocchiarsi completamente bardato, in modo da facilitare notevolmente la monta prima delle battaglie.
Bucefalo accompagnò per quasi un ventennio il suo padrone e questo legame vanne interrotto dalla morte del destriero, nel 326 a.C., durante la battaglia dell'Idaspe (che vide contrapposti i Macedoni di Alessandro all'armata di Poro, re indiano della regione del Punjab).Nel 340 a.C., a soli sedici anni, durante una spedizione del padre contro Bisanzio, gli fu affidata la reggenza in Macedonia. Disponeva del sigillo reale e sicuramente sbrigò gli affari correnti di governo. Le sue energie vennero poi impegnate in una campagna contro la tribù tracia dei Maidi dello Strimone superiore, durante la quale prese d'assalto la loro città principale, che chiamò poi Alessandropoli. L'anno successivo Filippo ebbe una quarta moglie, Cleopatra Euridice (nipote del suo generale Attalo), ma Olimpiade mantenne il titolo di regina.
Nel 338 a.C. Alessandro guidò la cavalleria macedone nella battaglia di Cheronea; grazie alle sue abilità di condottiero prevalse sui Tebani, sterminando il battaglione sacro (trecento soldati che costituivano il corpo scelto dell'esercito).
Durante quella battaglia, venendo a conoscenza delle vittorie riportate dal figlio, il padre cercò di strappare il merito della vittoria ad Alessandro, anche esponendosi al pericolo.Dopo la battaglia ci furono ampi contrasti fra padre e figlio, alimentati sia dalla condotta di Filippo durante la battaglia, sia dal suo divorzio dalla madre. Più volte Alessandro usò parole di disprezzo verso il padre e per poco non si sfiorò un duello fra i due. Nel 336 a.C. Filippo venne assassinato ad Ege (l'antica capitale macedone), trafitto da un ufficiale della sua guardia di nome Pausania,durante le nozze della figlia Cleopatra con il re Alessandro I d'Epiro; Pausania venne immediatamente ucciso dalle guardie macedoni dopo l'assassinio del sovrano. Seguendo il racconto tradizionale di Plutarco, sembrerebbe che della congiura fossero a conoscenza, se non direttamente coinvolti, sia Olimpiade che Alessandro, ed è inoltre possibile che l'assassinio sia stato istigato dal re di Persia, Dario III, appena salito sul trono.
Secondo Aristotele, Pausania, amante di Filippo, avrebbe ucciso il re macedone perché oltraggiato dai seguaci di Attalo, o dallo stesso Attalo,zio della nuova moglie Euridice. Il fatto che esistessero complici in attesa di Pausania in fuga, depone tuttavia a favore dell'esistenza di un complotto organizzato e non semplicemente di un episodio legato a faccende private.Dopo la morte di Filippo, Alessandro, all'età di vent'anni, fu acclamato re dall'esercito ed immediatamente si occupò di consolidare il suo potere facendo sopprimere i possibili rivali al trono. Con l'aiuto del generale Antipatro, consigliere del padre, prima operò in modo che i mandanti dell'omicidio del padre figurarono i principi della Lincestide, poi fece condannare a morte Aminta (figlio di Perdicca III e nipote dello stesso Filippo del quale era stato tutore)diversi fratellastri di Alessandro ed Euridice, la giovane moglie di Filippo, il cui zio Attalo fu raggiunto da un sicario in Asia Minore.
Consolidato il suo potere in Macedonia iniziò ad espandere la propria autorità nei Balcani, cominciando dai Greci. Arrivato a Larissa egli ribadì ai Tessali le proprie buone intenzioni nei loro confronti, offrendosi come protettore contro i Persiani. Ad un'assemblea della Lega Tessalica Alessandro fu eletto capo, gli venne affidata l'amministrazione delle entrate e gli fu promesso l'appoggio nella Lega Ellenica. Dal consiglio anfizionico, riunito per l'occasione alle Termopili, si fece eleggere hegemón (egemone) della Grecia,carica che precedentemente fu di suo padre e che, come lui volle, passò ai discendenti. Successivamente gli stati greci nella Lega di Corinto, eccetto Sparta, proclamarono Alessandro comandante delle loro forze contro la Persia. Il macedone, in tal modo, stava proseguendo il progetto di conquista che ereditò da suo padre.
In quel periodo incontrò il filosofo Diogene, che viveva all'epoca a Corinto in una botte, con il quale vi fu un celebre scambio di battute: alla domanda su cosa desiderasse, il filosofo rispose al macedone di spostarsi perché gli nascondeva il sole. In seguito ci furono racconti coloriti sul loro incontro, in cui si arrivò a far dire al condottiero: «se non fossi Alessandro mi piacerebbe essere Diogene».Appoggiato da tutti i Greci, Alessandro avviò la campagna dei Balcani contro i Triballi, a partire dalla primavera del 335 a.C. Era una popolazione ubicata nella parte settentrionale di quella che successivamente verrà chiamata Bulgaria. Dopo un viaggio durato dieci giorni si trovò di fronte, al passo di Šipka, nemici dotati di carri che sbarravano il passaggio, pronti ad attaccare. In questo primo scontro si poté assistere all'abilità di stratega di Alessandro.
Parte dei soldati macedoni si divisero in due ali lasciando libero il passaggio ai nemici, mentre i rimanenti si sdraiarono a terra coprendosi come potevano con gli scudi, in modo da far passare i carri sopra di loro senza subire molti danni. In seguito, grazie al sostegno degli arcieri, degli ipaspisti, dei aegma e delle truppe leggere degli Agriani, i Triballi vennero sconfitti.Si dice che Tolomeo stesso riferì che non ci furono morti nell'esercito macedone in questo scontro.
Sirmo, re dei Triballi, attendeva il condottiero macedone a Ligino (un affluente del Danubio la cui corrispondenza odierna non è certa). Ad accompagnare Alessandro in quell'occasione vi erano Filota, Eraclide e Sopoli. La sua tattica lo vide vincitore anche sotto il profilo delle perdite: morirono più di 3.000 nemici, mentre gli alleati subirono in tutto una cinquantina di perdite.I Macedoni avevano difficoltà ad espugnare l'isola Peuce per via delle forti correnti ed erano venuti a conoscenza dell'arrivo di rinforzi nemici. Alessandro decise quindi di superare il fiume in una sola notte, sbaragliando con un furioso assalto i Geti che, alleati dei Triballi, erano dotati di 10.000 fanti e 4.000 cavalieri.
Egli trascorse quasi 4 mesi nei Balcani orientali prima di puntare a ovest ed entrare nel territorio degli Agriani, con circa 25.000 fanti e 5.000 cavalieri.
Alessandro riuscì a contrastare gli attacchi della tribù illirica dei Dardani, comandati da Clito (figlio di Bardilo II), provenienti da quello che è l'odierno Kosovo. Essi effettuarono incursioni nella Macedonia, arrivando fino ad espugnare Pelion, vicino a quella che poi sarà chiamata Gorice. Nel frattempo giunse notizia dell'arrivo imminente dei Taulanti di Glaucia a sostegno degli invasori. Grazie all'appoggio di Longaros, Alessandro giunse a Pelion iniziando l'assedio. Arrivarono poi i rinforzi nemici come previsto. Il macedone attaccò utilizzando la sua falange, composta da 120 file, come una sorta di serpente umano, stanando i nemici senza subire alcuna perdita,mentre con un attacco notturno condotto dalle sole truppe leggere riuscì a liberare Pelion.Dopo la vittoria nei Balcani, tuttavia, si sparse la voce che Alessandro fosse rimasto ucciso in battaglia e questa notizia provocò una nuova ribellione delle πόλεις (poleis), probabilmente alimentata dai Persiani e dai Tebani che, dopo anni di esilio, approfittarono della situazione e tornarono in patria. Vi erano stati disordini anche altrove; ad Atene vennero uccisi Timolao e Anemeta, i capi del partito filo-macedone.
Con una marcia rapidissima di più di 200 chilometri, percorsi in quattordici giorni, Alessandro raggiunse Tebe e la circondò. A questo punto vi sono due versioni dello scontro: nella prima il condottiero era in difficoltà fino a quando non notò un'entrata alla città lasciata senza protezione, al che ordinò al comandante del battaglione Perdicca di penetrarvi; l'altra versione, raccontata da Tolomeo, probabilmente volto a calunniare il suo rivale, vedeva un attacco senza ordine da parte dello stesso Perdicca, nel quale quest'ultimo fu gravemente ferito.
In ogni caso l'esercito macedone travolse ogni fortificazione, radendola al suolo, risparmiando solamente i templi e la casa del poeta Pindaro. Al termine degli scontri si arrivò a contare circa 6.000 morti, fra cui molti arcieri cretesi con il loro comandate Euribote. Alessandro ottenne così la sottomissione completa delle città greche, eccetto Sparta.
Atene fu risparmiata da assedi vari, chiedendo solo che venissero consegnati ai Macedoni i personaggi a loro più avversi, ma alla fine delle trattative soltanto il generale Caridemo venne esiliato; questi, non sentendosi cittadino greco, si alleò con la Persia e Dario e come lui altri nemici di Alessandro, mentre Carete si recò a Sigeo, nei suoi possedimenti. Al termine degli eventi, alla fine di ottobre, ritornò in Macedonia.
Discussa dagli storici è la visita di Alessandro all'oracolo di Delfi prima della partenza: secondo quanto si racconta, il macedone si recò presso il tempio per interpellarlo, ma era il periodo in cui non poteva essere consultato; per cui, di persona, costrinse la sacerdotessa a venire al tempio portandovela con la forza e proprio in quell'occasione ella affermò che il nuovo re «era invincibile».La prima spedizione greco-macedone inviata da Filippo II in Asia Minore, al comando del generale Parmenione, era stata respinta sulla costa dall'esercito persiano; quest'ultimo era comandato dal generale rodio Memnone (e prima di lui da Mentore), che occupò la città di Abido, dove sarebbero dovuti sbarcare i Macedoni.
Nella primavera del 334 a.C. Alessandro, dopo aver consolidato la sua posizione in Grecia e dopo aver lasciato Antipatro come suo rappresentante in patria, sbarcò in Asia Minore con un esercito di circa 40.000 uomini, di cui 32.000 fanti; nella cavalleria poteva contare su 1200 tessali e 1800 hetaîroi ("compagni" del re), tutti al comando di Parmenione. Il nucleo principale era formato dall'esercito macedone, rafforzato dagli scarsi contingenti provenienti dalle città greche.
Dopo aver attraversato le coste della Tracia arrivò in circa venti giorni ai Dardanelli; a Sesto venne raggiunto da 160-170 navi alleate (successivamente affidate a Nicanore) con le quali raggiunse la riva opposta, non temendo la flotta nemica che era occupata a tenere a bada le coste egiziane (infatti nel gennaio del 335 a.C. era morto il re ribelle egiziano e una parte della flotta lì impegnata non poté intervenire per fermare i Macedoni). Fece dunque visita, come buon augurio, a quella che si riteneva fosse la tomba di Protesilao e vi compì un rituale: si mise alla guida di una trireme, si allontanò dalla costa, sacrificò un toro e altro, tornò e, prima di giungere sulla riva, indossò la propria armatura; una volta sbarcato prese la sua lancia e la scagliò in terra proclamandosi come conquistatore dell'impero persiano.
Il numero di fanti e cavalieri al seguito di Alessandro sono discordanti sin dalle prime fonti:
* Tolomeo I: 30.000 fanti e 3.000 cavalieri
* Aristobulo: 30.000 fanti e 4.000 cavalieri
* Anassimene di Lampsaco: 43.000 fanti e 5.500 cavalieri
* Callistene: 40.000 fanti e 4.500 cavalieri
Memnone, che non era persiano di nascita ma greco e che aveva sposato una donna persiana, davanti alle truppe macedoni appena sbarcate sosteneva la tattica della terra bruciata, ma i satrapi persiani non vollero lasciare i propri territori al nemico, preferendo scontrarsi subito con l'esercito invasore. Cercò allora di radunare i 20.000 mercenari greci su cui poteva contare, ma, dovendo difendere anche Alicarnasso e Mileto, raccolse soltanto una parte di essi; circa 5.000 unità furono inoltre inviate, per ordine dello stesso Dario, a Cizico, luogo importante per via delle loro monete.
Nel maggio dello stesso anno, presso il fiume Granico, vicino al sito della leggendaria Troia (sulla strada da Abido a Dascylium, vicino all'odierna Ergili), si svolse il primo scontro. Contro Alessandro, oltre a Memnone, Spitridate della Lidia, Atizie e Arsite della Frigia e Mitrobarzane dalla Cappadocia, vi erano Reomitre, Mitridate e Resace.
Parmenione ebbe il comando dell'intera ala sinistra a cui era stata affidata la difesa. Altri uomini al servizio del conquistatore furono Filota, Ceno, Perdicca, Cratero, Meleagro. Clito il Nero (fu chiamato il Nero per distinguerlo da Clito il Bianco, altra figura al comando di parte della fanteria), figura come la guardia del corpo.
Dopo molto tempo trascorso ad osservarsi, in quanto i Persiani attendevano che fossero i Macedoni i primi ad attaccare,[49] alle prime luci dell'alba fu proprio Alessandro (riconosciuto per il caratteristico pennacchio dell'elmo) ad iniziare le ostilità. L'armata macedone si scagliò sui Persiani.
Battaglia del Granico
La tattica di Alessandro era chiara: aprire dei varchi nella fanteria nemica, lasciando poi spazio alla cavalleria per spezzare l'esercito persiano (che era disposto lungo le ripide rive del fiume) e permettendo così alla falange macedone di caricare con le sarisse e porre fine alla battaglia. Alessandro stesso condusse parte dell'attacco avanzando in obliquo, distraendo gli avversari, ma fu oggetto di attacchi cruenti.
Dopo aver rotto una prima lancia e ottenuta dai propri fidi un'altra, il macedone si scontrò prima con Mitridate, che venne colpito in volto e sconfitto, per poi essere colto di sorpresa dal fratello di Spitridate, Resace. Questi lo colpì in testa rompendogli l'elmo e ferendolo; Alessandro reagì e dopo essersi procurato una nuova lancia colpì l'avversario al petto. Arrivò un terzo avversario, Spitridate, armato di spada, ma, grazie all'intervento di Clito il nero, il re macedone ebbe salva la vita.
La battaglia si era finalmente risolta in uno scontro tra cavallerie, nel quale quella macedone ebbe la meglio, mettendo in fuga la controparte nemica. Senza molti dei loro comandanti i Persiani si sentirono persi e vennero rapidamente sconfitti; molti furono i morti fra cui Spitridate, Mitrobarzane, Farnace, il cognato di Dario, Arbupalo, Nifate, Petine e Omare dei mercenari. In quella battaglia i morti persiani furono migliaia mentre quelli macedoni si contavano: 25 fra gli eteri, 60 nella cavalleria e circa 30 nella fanteria.
Solo 2.000 dei 20.000 mercenari greci agli ordini di Memnone furono risparmiati e mandati ai lavori forzati nelle miniere del Pangeo, in quanto essendo greci erano andati contro le leggi degli alleati. Alessandro nel trattare le spoglie nemiche fu diplomatico, inviando 300 armature ad Atene con un messaggio che ricordava: «Alessandro, figlio di Filippo, e i Greci, eccetto gli Spartani, dedicano queste spoglie tolte ai barbari che vivono in Asia»; in questo modo dimostrò umiltà e rispetto. Le armature furono un ovvio riferimento ai 300 guerrieri spartani che nel 480 a.C. morirono con il re Leonida al passo delle Termopili.
Il conquistatore diede grandi onori ai caduti, esentando da tasse genitori e figli dei combattenti defunti più fedeli. Arsite riuscì a salvarsi, ma sentendosi in colpa per l'accaduto si suicidò. Dopo la vittoria, Alessandro diede ordine di non saccheggiare la terra conquistata e ai persiani vinti concesse il pagamento dello stesso tributo che prima pagavano. Parmenione, nel frattempo, prese Dascilio.
L'Asia Minore era ormai aperta alla conquista macedone.
L'avanzata di Alessandro trovò solo la città di Mileto ad opporgli fiera resistenza: pur avendo anche loro inviato in precedenza ai Macedoni una lettera di resa, cambiarono idea non appena vennero a conoscenza dell'arrivo imminente di una flotta amica in loro sostegno. Alessandro occupò quindi il porto, cercando di impedirne l'entrata alle 400 navi nemiche che stavano per giungere, e assaltò le mura, iniziando l'assedio. Dopo tre giorni giunsero i rinforzi ma non venne permesso loro di attraccare: ciò fu possibile grazie allo sforzo di Nicanore e dei suoi soldati che, stanziando nei pressi dell'isola di Lade, controllavano il porto.
Si dice che a questo punto Parmenione suggerì di attaccare la flotta nemica, avendo notato buoni auspici per la vittoria in mare (un'aquila che si era poggiata sulla spiaggia vicino alle loro imbarcazioni); Alessandro, tuttavia, gli rispose che aveva male interpretato i segni e che la vittoria sarebbe venuta per terra, in quanto il volatile si era poggiato sul suolo. I Macedoni sconfissero gli avversari e reclutarono trecento uomini nemici nel loro esercito (questo reclutamento fece arrendere i combattenti nemici più valorosi).
Contro la città di Sardi bastò un accordo con il suo capo, Mitrine, che accolse Alessandro come fosse un amico; il re macedone permise ai cittadini del luogo di continuare a regolarsi con le leggi già in uso e concesse inoltre ulteriori privilegi. Raggiunse Efeso, dove i mercenari nemici impauriti erano precedentemente fuggiti, e la occupò instaurando una democrazia al posto della precedente oligarchia, come era avvenuto nelle altre città conquistate. La città entrò a far parte della Lega di Corinto. Questa sua politica gli portò molti consensi e rese spontanea la resa di altre città. Tutte le πόλεις (poleis) della costa salutarono il macedone come il liberatore.Il governo della Caria fu affidato ad Ada, ultima sorella di Mausolo e di Pixodaro (colui che anni prima aveva progettato un matrimonio fra sua figlia e uno dei figli di Filippo). La donna chiese udienza al conquistatore, lasciando Alinda (luogo dove aveva trovato rifugio) per incontrarlo; nel parlargli lo denominò figlio.
Mentre il grosso dell'esercito svernava in Lidia (terra poi concessa ad Asandro) al comando di Parmenione, Alessandro passò in Licia, in Panfilia, in Pisidia e in Frigia; quest'ultima venne concessa al comandante della cavalleria tessalica (Calate) e in sua sostituzione Alessandro nominò nuovo comandante della cavalleria Alessandro di Lincestide, scelta poi rivelatasi infausta.L'intento di Alessandro era quello di conquistare tutte le città costiere impedendo l'attracco alle navi nemiche; nel frattempo si ebbe la notizia della morte di un figlio di Dario, ucciso per ordine dello stesso padre in quanto era in procinto di tradirlo.
Si trovò di fronte ad Alicarnasso, una roccaforte dove si era rifugiato Memnone per aiutare la flotta persiana disposta nelle acque vicine; la città era provvista di un grande fossato e disponeva di scorte sufficienti a resistere ad un eventuale lungo assedio. In questa battaglia il macedone utilizzò le macchine che lanciavano pietre per difesa e non per attaccare le mura.
Alessandro attaccò quindi una torre, nella vana speranza che il suo crollo coinvolgesse parte delle mura; ma alla caduta della prima non conseguì la caduta della seconda. Si concentrò allora su un'altra zona, colmando prima il fossato e poi attaccando con le sue macchine, senza grossi esiti. In quell'occasione morì Neottolemo, fratello di Aminta di Arrabeo, insieme a circa 170 soldati, mentre meno di venti (16) furono le vittime fra i macedoni, e 300 i feriti.
I Persiani resistettero ad altri assalti grazie al fuoco che bruciò un'elepoli dei greci.
Furono allora mandati duemila uomini persiani, mille dei quali armati di fiaccole con l'obiettivo di incendiare ogni macchina nemica, mentre gli altri mille dovevano attaccare di sorpresa i Macedoni nel momento in cui sarebbero stati impegnati a spegnere i vari incendi. La loro azione non colse impreparati gli uomini di Alessandro, che fecero strage dei nemici; del secondo contingente si occupò Tolomeo. I soldati persiani rimasti in vita cercarono di tornare nella città, ma, temendo che anche gli invasori entrassero con loro, venne chiuso il cancello e il ponte stesso non resse al peso. Si contarono 1.500 morti per i Persiani e 40 dei Macedoni, fra cui il capo degli arcieri Clearco.
Diodoro differisce totalmente da questa versione (narrata fra gli altri da Arriano-Tolomeo); secondo l'autore, soltanto all'inizio stavano avendo la meglio i Macedoni, guidati fra gli altri probabilmente dai battaglioni di Addeo e Timandro, ma di fronte al secondo assalto molti dei greci si spaventarono e la paura aumentò ancora di più all'ingresso dello stesso Memnone, il cui esercito ammutolì per un attimo lo stesso Alessandro. Soltanto grazie ai veterani, al cui comando si pose Atarrias, che spronò i più giovani e inesperti, riuscirono a sconfiggere l'esercito nemico uccidendo Efialte, uno dei comandanti nemici.[68] Si riportano anche i nomi dei generali nemici, gli stessi Efialte e Trasibulo, che tempo prima vivevano ad Atene e di cui Alessandro chiese la consegna, ma a cui fu dato la possibilità dell'esilio e quindi di allearsi con Dario. In ogni caso la resistenza non superò i due mesi.
La città venne incendiata dai Persiani, mentre il generale nemico Memnone fuggì rifugiandosi temporaneamente sull'isola di Cos. Il re macedone, entrato nella città, ordinò di uccidere chiunque avesse appiccato il fuoco e quando si rese conto dei danni che aveva subito la fece distruggere completamente.
Alessandro lasciò Orontobate, che si era rifugiato nella roccaforte di Salmacide, dando incarico a due dei suoi uomini più fidati (Tolomeo di Filippo e Asandro) di conquistare le restanti città della regione, lasciando a loro parte dell'esercito (3.000 fanti e 200 cavalieri). Nel frattempo il re macedone avrebbe proseguito la sua conquista dell'Impero Persiano.A questo punto il re macedone diede il congedo a tutti i militari che si erano sposati poco prima di partire per la spedizione e inviò parte del suo esercito a Perge, mentre lui continuava il suo percorso costiero. Dopo un evento fortuito (il vento cambiò al suo passare rendendo agevole il passaggio in una zona altrimenti impervia)riscosse molti consensi e contributi da parte dei suoi uomini che subito convertì in paghe per i soldati.
Alessandro viaggiò per Termesso, Aspendo e Faselide. Nel frattempo arrivò da Parmenione Sisine, un messaggero persiano inviato da Dario III col proposito di persuadere Alessandro di Lincestide a uccidere il proprio re; se quest'ultimo avesse accettato la proposta avrebbe ricevuto un premio di duemila talenti d'oro (a cui si aggiungeva la corona stessa). Il generale dunque, ritenendo rischioso comunicare la risposta per iscritto, inviò ai persiani un messaggero travestito, evitando così ogni possibile pericolo di intercettazione, per chiedere come avrebbe dovuto agire.
Gli storici non concordano con questo passo per via della presenza di tanti punti oscuri. Anche la sorte di Alessandro di Lincestide viene raccontata in vari modi: Tolomeo dopo la sua cattura non citerà più il suo nome; forse fu ucciso per un tradimento quattro anni dopo le vicende narrate, oppure, come racconta Aristobulo, egli morì addirittura prima della partenza per la conquista dell'Asia, ucciso da una donna a cui chiese del denaro. Dati certi riportano però l'esistenza di un comandante dei Traci con tale nome, sia all'epoca di Tebe sia in Asia.
Altri resoconti identificano Sisine come uomo di fiducia del re macedone, che gli rimase fedele sino a poco prima della battaglia di Isso, quando gli venne commissionato l'omicidio di Alessandro; scoperto, per ordine del re, Sisine venne poi ucciso dagli arcieri.
Dopo aver fatto dono al veterano Antigono Monoftalmo di un ampio territorio, Alessandro giunse nell'antica capitale Gordio, dove si svolse l'episodio del celebre nodo gordiano: pare che esistesse un antico carro il cui giogo era assicurato da un nodo inestricabile e che un oracolo avesse promesso il dominio dell'Asia a chi fosse riuscito a scioglierlo. Il macedone, dopo alcuni tentativi, risolse il problema estraendo la spada e tagliando il nodo con un colpo netto. Diversamente Aristobulo afferma che fu facile per il re sciogliere quel nodo, senza l'utilizzo della propria spada.
A Gordio, nel maggio del 333 a.C., Alessandro aspettò che Parmenione lo raggiungesse insieme alle sue truppe, cui si aggiunsero 4.000 soldati (di cui 3.000 erano Macedoni).Riuscì a far avere ad Antipatro 500 talenti e 600 ne donò ad Anfotero, per rinforzare la flotta greca, rispettando l'alleanza.
In seguito Memnone, dopo aver conquistato Chio e le città di Lesbo (Mitilene non riuscì mai a conquistarla), tentò di preparare trecento navi con cui partire per invadere Eubea e Attica, ma si ammalò e morì. La sua azione di resistenza fu proseguita da un suo parente, Farnabazo, aiutato da Autofradate. I due ottennero piccole vittorie (fra cui la conquista di Mitilene,Mileto e Tenedo) alternate ad altrettante piccole sconfitte, ma il numero dei loro soldati non impensieriva Alessandro.
Alessandro nel giugno del 333 a.C. entrò nella Cilicia e scese in una radura descritta tempo prima da Senofonte, arrivando dopo molte miglia a Tarso. Nel frattempo Dario III, a Susa, venuto a conoscenza della morte del suo più celebre generale, convocò il consiglio di guerra; Caridemo chiese di essere posto al comando di un esercito di 100.000 uomini, ma l'imperatore persiano decise di muoversi personalmente a partire da luglio. Verso la fine di agosto o l'inizio di settembre partì. Le cifre dell'esercito persiano non sono riportate correttamente da nessun cronista storico del tempo: erano 600.000 secondo Arriano e Plutarco, 400.000 fanti a cui si sommano 100.000 cavalieri secondo Giustino e Diodoro, mentre Callistene e Curzio Rufo riferiscono solo di 30.000 mercenari greci; altri riportano che il contingente schierato fu di 160.000 unità.
In ogni caso Dario aveva radunato un'armata numerosa, tre o quattro volte superiore a quella macedone. I Persiani si schierarono nella pianura all'uscita dei passi montani delle porte siriache, trovando una buona posizione strategica a Sochi.
Nel frattempo Alessandro fu colpito da una malattia, forse per aver nuotato nel Cidno. Colui che lo curava, Filippo di Acarnania, voleva in realtà ucciderlo, ma il re ne fu informato da Parmenione. Il re guarì verso la fine di settembre. Successivamente passò per Anchialo, dove una trascrizione diceva che questa città e quella di Tarso furono costruite in un giorno e, dopo la conquista di Soli, corse a Mallo, dove era in atto una guerra civile che fece terminare; qui venne a conoscenza che Dario era posizionato a Sochi e decise quindi di affrontarlo.Parmenione fu mandato in avanscoperta e a fatica riuscì a controllare il passo di Kara-kapu, Alessandretta ed una parte di Isso; Alessandro lo raggiunse successivamente.
A novembre, infine, il re persiano, temendo che l'inverno lo costringesse a ritirarsi nei quartieri invernali senza aver fermato Alessandro, gli venne incontro. Entrambi non sapevano esattamente dove si trovasse l'altro. Arrivato ad Isso, Dario trovò solo gli uomini abbandonati dal re avversario, in quanto non erano più utili all'imminente battaglia perché feriti o malati; il suo nemico si trovava a sole quindici miglia circa più a sud.
Fiducioso della superiorità numerica del suo esercito, Dario si spostò alle spalle del nemico, nella pianura costiera di Isso, l'odierna Dorto; la sua idea era quella di spezzare l'esercito greco, confidando che l'alto numero dei soldati reclutati lo avrebbe portato alla vittoria anche su un terreno meno favorevole, nella ristretta pianura chiusa tra i monti del Tauro, il mare e il fiume Pinaro, dove poterono essere schierati non più di 60.000 fanti, 30.000 cavalieri, altri 20.000 uomini e dietro a loro 30.000 mercenari greci.Il tutto equivaleva per capacità alla falange macedone. Ancora più dietro vennero schierati altri soldati, mentre Dario occupava il centro come loro usanza, su un carro con 3.000 uomini posti a guardia. Alla sinistra si posero 6.000 arcieri e 20.000 fanti sotto il comando di Aristomede.
Mosaico della battaglia di Isso
(Museo Archeologico Nazionale di Napoli)
Alessandro incitò i suoi uomini affermando che dopo questa vittoria non ci sarebbero stati altri ostacoli alla conquista dell'intera Asia.
Lo scontro iniziò alle cinque e mezzo del primo novembre. Alessandro schierò le truppe al comando dei vari Ceno, Perdicca, Meleagro, Tolomeo, Aminta e Nicanore. Cratero occupava l'ala sinistra comandata da Parmenione, a cui era stato dato l'ordine tattico di non allontanarsi dal mare. Erano inoltre presenti come supporto le unità comandate da Sitalce, mentre alla destra si trovavano Aristone, Protomarco, gli arcieri di Antioco, gli hetaîroi e all'estrema destra presiedeva Attalo; altri ancora erano Pereda e Pantordano.
Alessandro guidò direttamente la carica con la cavalleria leggera sull'ala destra, proprio ai piedi delle montagne: corse verso il lato sinistro dei Persiani superando gli sbarramenti posti da arcieri, fanteria leggera e cavalleria pesante, mentre la falange, meno veloce nei movimenti, si stava lentamente arrendendo al nemico che la attaccava da ogni parte, mentre i cavalieri tenevano a bada i mercenari greci. Alessandro raggiunse quasi il sovrano persiano e si dice cercò di colpirlo, non riuscendoci, con una lancia. Dario decise di ritirarsi, costretto a lasciare il suo carro e a darsi alla fuga su un cavallo, abbandonando anche lo scudo, mentre suo fratello Ossatre rimase a combattere sino alla morte.
La battaglia si concluse con una completa disfatta dei Persiani, tra i quali si contarono oltre 110.000 morti fra cui ufficiali quali Savace (satrapo d'Egitto), Arsame, Reomitre e Atize, i quali avevano già combattuto in passato contro l'avanzata macedone uscendone in salvo. Circa 8.000 mercenari greci decisero di fuggire verso Tripoli. Aminta, il disertore macedone, trovò la morte poco dopo.
Fra i Macedoni si contarono 150 perdite, tra cui 32 fanti, mentre i feriti erano oltre 500. Callistene menziona che i morti furono 302, anche se appaiono cifre poco credibili considerando i continui attacchi subiti. Lo stesso Alessandro venne ferito ad una coscia.
Vennero catturati, oltre ad un immenso bottino, anche alcuni familiari di Dario tra cui sua madre Sisigambi, sua moglie Statira I e le sue figlie Statira II e Dripetide. Il Grande Re perse le sue migliori truppe, quasi tutti i più validi ufficiali del suo esercito e soprattutto il proprio prestigio di condottiero, distrutto dalla sua precipitosa fuga davanti al nemico.
Si racconta che, udendo delle grida disperate, il re macedone uscì dalla sua tenda chiedendo chi si lamentasse a tal punto; appreso che i pianti provenivano dalla moglie e dai bambini di Dario, i quali credevano che il loro caro fosse morto in battaglia, decise di tranquillizzarli incaricando Leonnato di dire loro che Dario era ancora vivo e che sarebbero stati trattati bene in quanto non era a loro che aveva mosso guerra Alessandro.Tale episodio è stato oggetto di numerosi dipinti, realizzati da artisti quali Paolo Veronese, Charles Le Brun, Giambattista Tiepolo, Andrè Castaigne e Christophe Veyrier.
Il giorno successivo Alessandro andò con Efestione a far visita alle prigioniere. In quell'occasione Sisigambi non seppe riconoscere chi dei due fosse il re, rendendo omaggio alla persona sbagliata. Un servo le fece notare l'errore e il conquistatore macedone per evitarle l'imbarazzo le disse di non preoccuparsi in quanto entrambi erano Alessandro;il condottiero, adeguandosi a come già aveva fatto con Ada tempo addietro, iniziò a rivolgersi alla regina persiana chiamandola madre.
Visitò i feriti, pur essendo lui stesso uno di loro, e onorò ogni soldato che si fosse distinto durante la battaglia offrendo ricompense adeguate.Giunto a Marato, il conquistatore macedone ricevette alcuni ambasciatori inviati dal re persiano; questi chiedevano la pace e il riscatto dei prigionieri. Gli ambasciatori erano accompagnati da una lettera con la quale si ricordava ad Alessandro che, ai tempi del padre Filippo, la Macedonia e la Persia erano state alleate e furono i Macedoni ad infrangere per primi tale alleanza.Alessandro rifiutò le proposte di pace di Dario preferendo la via della conquista all'accontentarsi dei numerosi territori fino a quel momento assoggettati. Invece di proseguire immediatamente verso l'Asia preferì entrare in Egitto al fine di coprire le spalle al suo esercito prima della spedizione successiva.Parmenione poi fu inviato a Damasco, dove riuscì a racimolare 2.600 talenti e 500 libbre d'argento, con i quali riuscì a pagare ogni debito contratto con l'esercito. Parmenione riportò con sé anche 329 musiciste e quaranta «fabbricanti di profumi»oltre ad uno scrigno in cui Alessandro nascose la sua copia dell'Iliade e Barsine, figlia di Artabazo (che discendeva da una figlia di un re) e vedova del generale Memnone,che divenne una delle compagne dello stesso re macedone, da cui ebbe un figlio, Eracle.
Moneta d'oro di Alessandro
Dopo la vittoria lo stesso Alessandro scrisse una lettera a Dario con la quale gli comunicò che avrebbe dovuto chiamarlo «signore di tutta l'Asia» e che avrebbe potuto ottenere il riscatto della moglie e dei figli se fosse venuto di persona a chiederlo. Nel caso in cui il sovrano persiano non l'avesse riconosciuto superiore a lui ci sarebbe stato un nuovo combattimento Alessandro si dedicò quindi alle città costiere per eliminare le ultime basi della flotta persiana. Si sottomisero senza opporre resistenza Arado, Biblo e Sidone con le loro flotte navali, mentre Tiro, che per allearsi o meno attendeva di capire chi stesse vincendo fra i due schieramenti,non fu benevola come le precedenti. Il re cercò in un primo momento di convincerli a farli entrare in città con il pretesto di voler rendere omaggio ad una loro divinità, Melqart; loro tuttavia non acconsentirono e gli venne suggerito di recarsi nella parte vecchia della città dove vi era un tempio apposito. In questo modo avrebbero quindi evitato la parte nuova, quella che invece interessava al macedone. Il conquistatore inviò loro dei messaggeri che furono tutti uccisi, violando il codice non scritto. Era il mese di febbraio dell'anno 332 a.C.
La città oppose un'accanita resistenza, forte anche del fatto che Cartagine aveva promesso di inviare presto soccorsi. La parte nuova era ubicata su un'isola vicino alla costa (si parlava di una distanza di 700 metri); Alessandro pensò dunque di utilizzare dei detriti dell'antica città continentale, distrutta anni prima da Nabucodonosor II (dopo un assedio di tredici anni), per unire l'isola alla costa rendendola dunque una penisola, usando anche alberi, legname a cui venivano alternati strati di macigni e detriti. Intanto racimolò, durante un viaggio che lo portò anche a Sidone, una piccola flotta composta da 224 navi, fra cui alcune quinquiremi del re Pnitagora, sovrano dei ciprioti a cui il conquistatore donò una miniera di rame. Oltre a loro riuscì ad aggiungere alle sue fila anche 4.000 mercenari comandati da Cleandro. L'assedio durò sette mesi (dal febbraio del 332 a.C. sino a luglio-agosto). Fra le varie idee utilizzate vi fu quella di due navi unite a prua che trasportavano degli arieti. La resistenza dei Tiri fu eroica: riparavano ogni breccia creata, gettavano pietre contro le navi che trasportavano gli arieti (anche se tali massi furono raccolti e catapultati lontano dagli assalitori), tagliavano le corde che reggevano le ancore anche con l'uso di palombari (in seguito furono sostituite da catene). Inoltre, dato il gran numero di tecnici e ingegneri presenti nella città, costruirono facilmente tante nuove macchine da guerra per opporsi con più efficacia all'assedio;a loro si contrapponeva, nella costruzione di macchine all'avanguardia, un solo inventore tessalo, Diade.
Giunse un'altra lettera da Dario, una proposta di pace, probabilmente durante l'assedio a Tiro. Questa volta alla proposta erano allegati molti doni fra cui 10.000 talenti, la mano di sua figlia e il possesso di un vasto territorio sino all'Eufrate. Vi fu qui una celebre conversazione fra Parmenione e Alessandro: «Se io fossi Alessandro, accetterei la tregua e concluderei la guerra senza più correre altri rischi». «Lo farei se fossi Parmenione; ma io sono Alessandro e come il cielo non contiene due soli, l'Asia non conterrà due re».
Fu probabilmente la notizia della morte della moglie, avvenuta durante il travaglio di un nuovo nascituro, a far cambiare idea al re.Infatti, saputo del secondo rifiuto, Dario si dedicherà a radunare un esercito ancora più vasto del precedente. Nel frattempo la flotta navale macedone sconfisse molti dei suoi nemici, fra cui Carete, fuggito tempo addietro dalla Grecia stessa.
Gli abitanti di Tiro vennero informati che i rinforzi da Cartagine non sarebbero giunti e di conseguenza escogitarono altre difese ancora più cruente, fra cui quella di gettare dalle mura sabbia e fango bollente che una volta entrate nelle armature degli assedianti avrebbero causato ustioni. Si dice che Alessandro abbia avuto dei dubbi sulla prosecuzione dell'assedio; alla fine scelse di continuare ciò che aveva iniziato, dato che una rinuncia sarebbe stata una testimonianza troppo grande della sua non invincibilità.
Plutarco racconta che, giunti all'ultimo giorno del mese di agosto, l'indovino Aristandro predisse, dopo aver interpretato i segni che il cielo stava dando, la conquista della città entro la fine del mese; Alessandro quindi decise che quel giorno non era più il trenta ma il ventotto del mese. Alla fine di agosto le navi di Alessandro subirono un pesante attacco e quelle di Pnitagora, Androclo e Pasicrate, dopo essere state speronate, affondarono l'una dopo l'altra. Non appena il macedone si accorse di quanto stava accadendo ordinò alle navi più vicine di avvicinarsi al molo nemico impedendo così l'uscita di altri convogli e permettendo di concentrare l'azione su quelli rimasti. I Macedoni utilizzarono a quel punto varie tattiche: l'attacco ad entrambi i porti, un diversivo con una piccola unità navale e l'attacco decisivo alle mura. L'offensiva fu inizialmente guidata da Admeto, ammiraglio della nave del re, poi ucciso in quella battaglia. Successivamente l'attaccò fu guidato da Alessandro in persona. Per paura della sconfitta imminente ci fu chi preferì uccidersi. La città infine cadde e le perdite macedoni furono in quell'attacco circa una ventina, che si sommano alle circa quattrocento nel corso di tutto l'assedio.
In quest'occasione si vide la furia del re: fece uccidere 8.000 cittadini (di cui 2.000 vennero crocifissi)e molti di più furono ridotti in schiavitù o venduti; si mostrò tuttavia benevolo con chi aveva trovato riparo nei templi, fra cui il re di Tiro, Azemilco. Alessandro fu dunque di parola e sacrificò, come aveva chiesto di fare in precedenza al dio locale, la catapulta che aveva fatto per prima breccia nella città.
La data della caduta della città è controversa: Arriano cita il mese di luglio, all'epoca in cui si distingueva come magistrato d'Atene Aniceto. Dopo Dor e Ashdod arrivò il turno di Gaza, comandata da Batis (o Bati) che si oppose alla conquista. Alessandro fece trasportare le macchine da guerra utilizzate in precedenza e alle proteste dei suoi uomini replicò, dopo aver osservato le possenti mura della fortezza scoscesa, che più un'impresa appariva impossibile a maggior ragione doveva essere compiuta per stupire alleati e nemici. Iniziò dunque la costruzione di gallerie, impresa facile vista la conformità del terreno
Nel contempo decise di fare costruire torri più alte delle mura nemiche in modo da poterle colpire dall'alto grazie all'utilizzo di catapulte (le elepoli non riuscivano ad avvicinarsi abbastanza). Per utilizzarle occorreva prima costruire un terrapieno; nonostante i Macedoni avessero a disposizione solo fango e sabbia vi riuscirono in pochi mesi. Batis diede l'ordine ai suoi uomini di incendiare le macchine nemiche, ma i soldati che uscirono dalla fortezza furono attaccati. Durante questa azione Alessandro fu raggiunto da un colpo di catapulta. Si riparò con lo scudo ma l'impatto fu così forte da romperlo, trafiggendo l'armatura e ferendolo ad una spalla. Questo episodio era stato predetto dall'indovino che aveva visto la vittoria del macedone.
Il re non aspettò che la ferita guarisse, ma ritornò alla battaglia; durante l'assedio la ferita riprese a sanguinare e a gonfiarsi, ma il condottiero abbandonò il campo solo quando stava per svenire. Il terrapiano che venne costruito raggiunse un'altezza di 75 metri, una piccola montagna eretta durante l'estate; da quell'altezza, anche se si cercò di alzare le mura della città, i nemici furono facili bersagli delle macchine nemiche. Inoltre, grazie alle gallerie scavate, le mura vennero fatte cadere. Quasi tutti gli uomini della città morirono mentre i restanti diventarono schiavi. Si racconta che il destino di Batis, che durante i combattimenti venne ferito più volte, ricordasse per similitudine quello di Ettore; infatti, analogamente al condottiero troiano, venne legato al carro di Alessandro e trascinato; molte aggiunte apportate ai resoconti dopo la morte di Batis rendono l'accaduto più tragico. La città venne poi ripopolata.
Gerusalemme aprì le porte e si arrese. Secondo Giuseppe Flavio , ad Alessandro fu mostrato il libro biblico di Daniele, si pensa l'ottavo capitolo, dov'è indicato che un potente re macedone avrebbe assoggettato l'Impero Persiano.
Nel novembre del 332 a.C. Alessandro iniziò il viaggio verso l'Egitto; superato dopo tre giorni il deserto e il lago Serbonide, giunse in quelle terre venendo accolto come un liberatore e facendosi consacrare faraone: qui, infatti, il giogo persiano era maggiormente avvertito e poco accettato, poiché solo dodici anni prima il popolo era libero dal potere dei Persiani.
La conquista dell'Egitto non era stata concordata con la lega di Corinto quindi il re macedone non poté unirla con il resto delle sue conquiste. Inoltre si astenne dal nominare un satrapo al quale preferì la collocazione strategica di alcune sue guarnigioni in posti chiave come Menphi e Pelusio. Per la gestione amministrativa del territorio furono scelti due nomarchi, Doloaspi e Petisi, mentre l'amministrazione delle finanze fu affidata ad un greco residente in Egitto, Cleomene di Naucrati. Assegnò ai suoi uomini cariche militari ma non civili. Durante la sua marcia apprese delle varie vittorie riportate dagli alleati: Lesbo, Tenedo e Cos erano ora in mano sua.
Dimostrò grande rispetto per gli dei egiziani e una profonda devozione per Ramses II, suo mito e icona, in onore del quale costruì una stele; a Menphi fece un sacrificio al bue Api, ingraziandosi così i sacerdoti egiziani: tempo addietro, durante la riconquista persiana del territorio egiziano, Artaserse III uccise un toro sacro e ne divorò la carne, mentre il re macedone con questo gesto conquistò la fiducia del popolo.
All'inizio del 331 a.C., sulle rive del Nilo, Alessandro decise di edificare una grande città che testimoniasse la sua grandezza; si racconta però che dopo un sogno, nel quale gli furono recitati alcuni versi dell'Odissea sull'isola di Faro, decise di costruirla nella regione del Delta del Nilo su una stretta lingua di terra tra la palude Mareotide ed il mare. Egli stesso disegnò la disposizione di piazze e mura da costruire (le linee del disegno furono tracciate sul suolo utilizzando della farina).
La città venne chiamata Alessandria d'Egitto. Il progetto topografico fu realizzato dal celebre architetto dell'epoca Dinocrate di Rodicon la collaborazione di Cleomene da Naucrati. Le indicazioni fornite dal re macedone vennero rispettate. Fu la prima delle molte città a cui diede il suo nome.
In seguito Alessandro (o forse prima, secondo alcuni studiosi)decise di andare a far visita al celebre santuario oracolare di Amon (l'equivalente di Zeus secondo la mitologia greca). Per raggiungerlo dovette percorrere 200 miglia fino a quella che in seguito verrà chiamata Marsa Matruh, recandosi dunque all'oasi di Siwa nel deserto libico. Del viaggio si raccontarono gli episodi più incredibili, come i corvi che gracchiavano avvertendo i viaggiatori che avevano intrapreso la strada sbagliata o quello, riferito da Tolomeo, dei serpenti parlanti che gli avrebbero fatto da guida.
Questo viaggio fu forse intrapreso perché Alessandro sapeva che lo avevano compiuto in precedenza Perseo ed Eracle. I resoconti vennero scritti venti mesi dopo l'accaduto, quindi il dialogo intercorso potrebbe essere stato inventato conoscendo i successivi avvenimenti favorevoli al Dio Alessandro.
Le domande che pose furono più di una: chiese se avesse vendicato la morte del padre ma gli venne risposto che non si trattava di suo padre in quanto lui era una divinità. Allora riformulò la domanda chiedendo se degli uccisori di Filippo vi era rimasto qualcuno ancora in vita e se sarebbe diventato signore degli uomini. La risposta fu positiva per entrambe le richieste. Si narra che in quell'occasione l'oracolo compì un piccolo errore di pronuncia dicendo «paidios» (figlio di Zeus) invece di «paidion» (figlio),offrendogli in tal modo un punto di partenza per l'istituzione di un culto divino incentrato sulla sua persona. Davanti ai suoi alleati non volle però vantare questa discendenza.
Arriano differisce da questa narrazione rivelando che il re macedone non pose le domande sopra citate [158] ma supponeva che avesse chiesto, per via di indizi lasciati quattro anni dopo l'incontro,quali divinità avesse dovuto ingraziarsi per trionfare sui suoi nemici.
Dopo un anno di sosta nel regno egiziano ritornò in Asia. Nel frattempo giunsero rinforzi inviati da Antipatro (circa 900 uomini).
Nella primavera del 331 a.C. Alessandro riprese la marcia verso oriente dove Dario aveva radunato un esercito nelle pianure dell'Assiria. Qui il sovrano persiano avrebbe potuto sfruttare al meglio la propria superiorità numerica.
L'armata macedone doveva attraversare l'Eufrate e quindi passare per Tapsaco. Superato il fiume vi erano due strade possibili: la prima portava direttamente a Babilonia, mentre l'altra portava prima a nord e poi, una volta superate le colline, tornava a sud raggiungendo la stessa meta. L'idea di Dario era quella di costringere il suo avversario a raggiungerlo, inducendolo a non fargli prendere la via diretta per Babilonia, la quale avrebbe fatto evitare lo scontro. Parte dell'esercito persiano venne inviato a Tapsaco per la costruzione di un ponte mentre il satrapo Mazeo, con qualche migliaio di uomini, doveva impedire all'esercito di Alessandro di prendere la via sbagliata. I due eserciti si diedero battaglia fino a che Mazeo abbandonò la lotta. Nonostante il ritiro dei soldati persiani l'esercito macedone andò comunque verso nord cercando un clima più favorevole.
A Mazeo venne affidato anche il compito di bloccare i rifornimenti di cibo ai Macedoni. Bruciò per questo campi e città ma i rifornimenti furono comunque possibili usando il corso del fiume per un trasporto veloce. Alessandro allora decise di attaccare l'esercito avversario temendo che potesse rifugiarsi in terre a lui maggiormente ostili.
Il 20 settembre ci fu un eclissi lunare e il re macedone ne approfittò per opportuni sacrifici. Il Tigri fu guadato dall'esercito di Alessandro senza subire alcun attacco dal nemico. Durante la prosecuzione della marcia più volte si ebbero falsi avvistamenti dell'esercito persiano, come quello del 25 settembre; nello stesso giorno, grazie alla confessione di alcuni prigionieri, i soldati macedoni vennero a sapere che Dario e i suoi uomini erano vicini.
Alessandro si fermò ad organizzare i suoi uomini per quattro giorni, fino alla sera del 29 settembre. Decise di aspettare l'alba per intraprendere l'attacco, nonostante i suoi consiglieri suggerirono di effettuare le prime mosse di notte. Il re si rifiutò affermando che «non ruba le vittorie», uccidendo la sera stessa una vita sacrificandola alla paura. Successivamente cadde in un sonno talmente profondo che Parmenione si preoccupò a tal punto da chiedere al proprio re come mai dormisse come se avesse già vinto lo scontro imminente. Alessandro rispose che la battaglia era già praticamente vinta in quanto ci si doveva scontrare con un esercito che cercava di evitare ogni contatto.
Il contatto con l'esercito di Dario avvenne all'alba del 1º ottobre, anche se non tutti gli studiosi sono concordi con tale data. Alcuni citano quella del 30 settembre.Lo scontro avvenne presso il villaggio di Gaugamela (poi Tell Gomel), nei pressi delle rovine di Ninive e non ad Arbela come qualcuno sosteneva.
La battaglia fu di vitale importanza per Alessandro. Si racconta che egli avesse solo 30.000 fanti e 3.000 cavalieri contro un milione di Persiani. Il numero di Persiani, imprecisato in realtà, è secondo alcuni storici di numero molto inferiore a quanto si racconta e variava a seconda della fonte riportata:
* Giustino: 600.000 soldati
* Diodoro Siculo: 800.000 cavalieri e 200.000 fanti
* Quinto Curzio Rufo: 600.000 fanti e 45.000 cavalieri
* Arriano: 1.000.000 di fanti, 40.000 cavalieri, 200 carri e 15 elefanti armati.
L'armamentario persiano venne sostituito completamente nel tentativo di adeguarlo a quello macedone. Il punto debole dell'esercito di Dario rimaneva comunque la fanteria che non poteva rivaleggiare in abilità con la controparte. Questa unità militare venne abbandonata dai mercenari greci mentre i cardiaci non si dimostrarono all'altezza.[179] Dario schierò al centro gli elefanti come ultima risorsa di difesa della propria persona. Le forze in campo stavolta erano schierate al meglio grazie anche alla conformità del terreno che il re volle perfetta, arrivando persino a spianare ogni rialzo del terreno. Alle sue forze si erano uniti Besso dalla Battriana con 8.000 uomini, Mauace che guidava gli arcieri a cavallo, Barsaente al comando di circa 2.000 uomini, Frataferne con i Parti, Satibarzane, Atropate con i Medi, Orontobate, Ariobarzane e Orxine con la gente proveniente dalle sponde del Mar Rosso, Oxatre con gli Uxii e i Susiani (forse 2.000 uomini), Bupare con i Babilonesi, Ariace con i Cappadoci ed infine Mazeo con parte dei Siriani, posizionato alla destra dello schieramento.
A tale esercito Alessandro aveva frapposto gli eteri (circa 10.000) con le sarisse al centro, i portatori di scudo (circa 3.000) che coprivano la loro destra, i cavalieri (fra cui il re) ancora più a destra, poi arcieri (circa 2.000), frombolieri e lanciatori di giavellotto. Il lato sinistro affidato a Parmenione era quasi unito agli eteri. Ad entrambi i lati, per prevenire un possibile accerchiamento, vi erano due piccole unità nascoste e poste in obliquo rispetto al resto delle forze, pronte ad attaccare; se non fosse bastato avrebbero potuto ritirarsi per lasciare spazio alle riserve. Alessandro cercò solo di utilizzare il meglio delle sue risorse eliminando il superfluo nell'armamento. I suoi uomini più fidati, Clito il Nero, Glaucia, Aristone, Eraclide, Demetrio, Meleagro ed Egeloco, erano tutti ai comandi di Filota, figlio di Parmenione, mentre l'altro suo figlio, Nicanore, si trovava al centro insieme a Ceno, Perdicca, l'altro Meleagro, Poliperconte e Simmia. Nella parte più interna vi erano Cratero, Erigio, Filippo il figlio di Menelao, arrivando infine a Parmenione. Oltre a loro Andromaco guidava la cavalleria dei mercenari.
Per evitare di essere accerchiato da un esercito tanto più numeroso del suo e disteso su un fronte lunghissimo, Alessandro aveva appositamente schierato una seconda linea dietro il fronte di battaglia. La vittoria fu decisa dall'attacco della cavalleria all'ala destra, da lui stesso guidata, mentre il generale Parmenione teneva fronte alla cavalleria nemica sul lato opposto.
Alessandro si preparò in grande stile per la battaglia: portava una veste tessuta in Sicilia, il pettorale che faceva parte del bottino di Isso, l'elmo di ferro creato da Teofilo, la spada donatagli da uno dei re di Cipro, e un manto elaborato da Elicone, regalo della città di Rodi.
Dello scontro nessuno storico poté dare un resoconto certo per via dell'enorme confusione creatasi, tanto è vero che si concorda sulla conclusione in una nuvola di polvere: durante lo scontro la visibilità era ridotta di molto in quanto si poteva vedere ad una distanza di 4-5 metri ma non di più.
L'attacco persiano degi Sciti e dei Battriani, volto ad aggirare il nemico, venne effettuato ma trovò il secondo sbarramento macedone come aveva previsto Alessandro nella sua tattica. I carri falcati vennero sommersi dai giavellotti, da frecce e altre armi da lancio e molti di essi rallentarono a tal punto da permettere ai macedoni di prenderne possesso balzandoci sopra uccidendo i guidatori. Altri furono bloccati prima che riuscissero a partire. C'è chi racconta della perdita di arti e di alcune teste che rotolavano per terra, e chi si sofferma sui cavalli che rovesciavano spaventati i carri.
Le truppe di Mazeo si scontrarono con quelle di Parmenione arrivando in prossimità del campo dove erano segregati i prigionieri; fra questi spiccava la regina di Persia, madre di Dario,[189] che non venne liberata in quanto i soldati si diedero alla fuga alla notizia della ritirata del loro re.
Ci fu un attacco diretto da parte di Alessandro nei confronti del re nemico: il macedone colpì il cocchiere di Dario con una lancia uccidendolo. Il sovrano persiano, perso il carro, fuggì su di una giovane cavalla. Il conquistatore inseguì il nemico ma fu richiamato da alcuni messaggeri inviati da Parmenione che chiedeva aiuto per affrontare un gruppo nemico. Il re macedone, anche se terribilmente seccato da questa richiesta, fece finta di nulla e acconsentì permettendo all'avversario di salvarsi nuovamente. L'episodio del messaggero è molto discusso fra gli storici in quanto non è certa la sua collocazione temporale e non è chiaro nemmeno come abbia fatto ad individuare e raggiungere il proprio re in quella nuvola di polvere; forse era un modo per evidenziare l'incapacità di Parmenione. Altri discutono sull'atteggiamento di Dario: questa sarebbe la sua seconda fuga davanti al nemico e pare un'esagerazione se si pensa al coraggio che ha mostrato all'inizio del suo regno.
Senza il comando reale le truppe rimanenti furono facile preda dei Macedoni. Inizialmente i Persiani pensavano che fosse il re ad essere stato trafitto dalla lancia. Successivamente, prima che si potessero riorganizzare, furono attaccati dalle truppe guidate da Arete. Se da un lato dello schieramento si inseguivano e uccidevano i nemici, dall'altro ancora si combatteva e Mazeo stava prevalendo sui Macedoni, a tal punto che solamente la tattica prefissata di Alessandro li salvò da morte certa. Ci fu un pesante scontro di cavalleria dove i Persiani cercarono un varco per fuggire dal campo, combattendo ormai solo per salvarsi. Lo scontro si spostò sul fiume Lico dove molti persiani furono inghiottiti per via dell'armamentario troppo pesante che possedevano e quando si fece buio la lotta terminò. Mazeo si ritirò a Babilonia dove successivamente si arrese agli invasori.
I morti furono molti: se ne contavano circa sessanta fra le fila dei Macedoni. Molti di più i feriti fra cui Parmenione, Perdicca ed in seguito anche Efestione. Per Arriano si contarono circa 300.000 morti fra i Persiani e solo un centinaio circa fra gli alleati di Alessandro, mentre Diodoro ne cita 90.000 fra i Persiani e 500 fra la coalizione macedone.
Alessandro riprese l'inseguimento del re nemico appena le acque si furono calmate. Da poco superata la mezzanotte, partì alla volta di Arbela dove, giunto sul far del giorno, non trovò Dario (fuggito nei territori montuosi della Media) ma solo parte del suo tesoro. Non poté proseguire oltre poiché i cavalli erano esausti, tanto da doverne uccidere un migliaio. Durante il tragitto di ritorno verso il campo, il conquistatore fu attaccato da alcuni cavalieri e dovette trafiggerne qualcuno con la propria lancia prima di venire aiutato dai suoi uomini. Durante questo scontro Alessandro si espose in prima persona.
Caddero nelle mani del re macedone magazzini, preziosi e decine di migliaia di prigionieri. Decise di informare i Greci che le loro città non erano più soggette alla tirannia e da ora in poi si sarebbero governate con leggi proprie (affermazione vera solo in parte considerando la Grecia del tempo). Divise quindi il bottino inviandone una parte ai Crotoniati, in Italia, per ricompensare il coraggio mostrato da Faullo durante la guerra persiana.
Continuò la marcia, questa volta senza alcuno scontro. Degno di nota durante il tragitto fu l'incontrò di una voragine da cui continuamente usciva fuoco e nella quale si poteva osservare una corrente di uno strano liquido (nafta). Si trattava dei fuochi eterni di Baba Gurgan.
Alla fine di ottobre Alessandro entrò in Babilonia dove ottenne la sottomissione del satrapo Mazeo. Quest'ultimo fu lasciato al governo della provincia affiancato da un comandante militare e da un tesoriere greco. Qui riposò circa cinque settimane ed ebbe tempo per osservare i giardini pensili costruiti da Nabucodonosor, cercando di far inserire in quella meraviglia anche piante di origine greca; ad eccezione dell'edera quest'idea non ebbe fortuna.
Si diresse quindi a Susa, raggiungendola in venti giorni, per impadronirsi dei tesori che vi si conservavano. La città era sprovvista di mura. Qui Alessandro poté anche recuperare diverse opere d'arte sottratte da Serse in Grecia nel 480 a.C., tra cui il famoso gruppo statuario dei Tirannicidi Armodio e Aristogitone, che fece rispedire ad Atene; recuperò anche ingenti somme, come quarantamila talenti e forse altri cinquemila provenienti da altro luogo. A Susa lasciò i familiari di Dario. Il macedone si volle sedere sul trono del re persiano, evento tanto atteso dai sudditi a tal punto che Demarto non riuscì a trattenere le lacrime pensando ai morti lungo il percorso che persero tale spettacolo. Durante questo soggiorno diede molte ricompense ai suoi soldati: a Parmenione diede la casa di Bagoa (ufficiale che avvelenò e fu avvelenato) in cui vi trovò molte ricche vesti. Scrisse a sua madre e ad Antipatro, rimasti lontano, e sapendo che il secondo odiava la prima scrisse all'amico che le lacrime di una madre cancellavano il contenuto di mille lettere. Lasciò Susa verso la metà di dicembre.
Dopo aver superato il fiume che all'epoca si chiamava Pasitigris (in seguito Karun), entrò poi nel territorio degli Uxii, a circa sessanta chilometri da Susa, che in parte non si arresero al nuovo re. Chiesero ad Alessandro un tributo da versare se avesse avuto intenzione di passare per le loro terre. La risposta del macedone fu quasi di sfida, chiedendo loro di farsi trovare pronti al momento del suo passaggio; poi li attaccò di notte, forte degli 8.000 uomini della falange, radendo al suolo ogni loro possedimento. Gli Uxii sopravvissuti attaccarono ancora ma furono sconfitti ogni volta. In una giornata il macedone risolse un problema che affliggeva il regno persiano da quasi due secoli.
Restava ancora Ariobarzane, governatore della Perside, che voleva fuggire con il tesoro rimasto, sapendo che l'intero esercito macedone era più lento del suo. Alessandro divise in due parti i suoi uomini, avanzando con la metà più veloce e raggiungendolo in cinque giorni presso le porte persiane, nelle attuali montagne dello Zagros. Qui la lotta lo vide impegnato contro un congruo numero di nemici (40.000 uomini a cui si aggiungevano 700 cavalieri secondo Arriano, 25.000 soldati secondo Rufo, a cui Diodoro aggiunge 300 cavalieri). Per evitare di incappare in una sconfitta, Ariobarzane fece edificare un muro che ostruiva in parte l'unica strada percorribile dai Macedoni. Alessandro tentò un primo assalto che non diede alcun risultato, anche per via della frana provocata dagli stessi Persiani; si ritirò dunque qualche miglio più ad ovest, raggiungendo la radura denominata Mullah Susan. Qui vi era un'altra strada da prendere, a prima vista più ovvia, ma Alessandro la evitò non volendo lasciare i suoi morti «insepolti».
La resa dei conti arrivò, grazie anche ad un pastore della zona, il quale rivelò ai macedoni un percorso che potevano intraprendere per aggirare i Persiani. Le truppe di Alessandro iniziarono l'attacco e successivamente vennero in sostegno quelle di Cratero. Ariobarzane riuscì comunque ad arrivare con pochi uomini sino a Persepoli ma i cittadini non gli aprirono le porte, costringendolo a tornare al combattimento trovando la morte.
Nel mese di gennaio dell'anno 330 a.C. Alessandro entrò infine a Persepoli (che poi divenne Takht-i Jamshid), capitale dell'Impero Persiano, dove trovò circa centoventimila talenti di metallo prezioso non coniato. Il re nemico aveva intanto trovato rifugio ad Hamadan (conosciuta all'epoca come Ecbàtana), dove fu raggiunto dai suoi uomini di fiducia (Besso, Barsaente, Satibarzane, Nabarzane, Artabazo) e da 2.000 mercenari greci. Alessandro rimase per un lungo periodo a Persepoli, inviando dei soldati a Pasargade e chiedendo a Susa l'invio di una grande quantità di animali da soma per il trasporto del denaro. Partì con una piccola parte dell'esercito, per circa trenta giorni, alla conquista delle tribù che si trovavano vicino alle colline della regione, sottomettendo i nomadi e il resto della provincia. Quando tornò, continuò a far dono, a chi lo aveva aiutato, di beni proporzionati all'aiuto offerto, come era nel suo stile. Prima di lasciare la città restituì il potere locale al governatore della città e affidò 3.000 macedoni ad un suo uomo di fiducia.
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Re: Grandi personaggi della storia
CARLO MAGNO
Carlo, figlio del Re dei Franchi Pipino il Breve e che sarebbe stato chiamato Magno, nasce il 2 aprile 742 o 747.
Nel 768, alla morte del padre, il regno dei Franchi venne diviso fra Carlo ed il fratello minore Carlomanno, designato dal padre Primo Erede.Il vicino Re Longobardo Desiderio, intendendo avere come alleati i Franchi, aveva dato in sposa le sue due figlie ai due fratelli prima che Pipino morisse.Il monaco Eginardo, contemporaneo e biografo di Carlo Magno, lo descrive così: "Fu largo e robusto di corporatura, di statura alta, che tuttavia non eccedeva dal giusto (risulta infatti che la sua altezza misurasse sette volte il suo piede). Aveva il sommo del capo rotondo, occhi molto grandi e vivaci, il naso un po' più lungo della media, con una bella chioma bianca e un volto piacevole e gioviale [...]. Si teneva assiduamente in esercizio cavalcando e cacciando [...]. Gli piacevano anche i bagni di vapore delle acque termali, e teneva in esercizio il fisico con frequenti nuotate".La prematura morte del fratello Carlomanno, che allora aveva solo 22 anni nel 771, avvenuta, sembra, per avvelenamento, da alcuni viene imputata al fratello Carlo.Il fatto potrebbe essere vero ed in linea con i crudeli costumi del tempo.
Carlo Magno era desideroso di ampliare il suo piccolo regno che comprendeva solo la parte Nord Occidentale della Francia.
Alla morte di suo fratello, Carlo, che si era già conquistato il titolo di "Magno" (grande), ereditò tutti i suoi territori e cominciò la conquista dei territori che confinavano con il suo regno.
Il dominio di Carlo Magno durò per ben 46 anni, dal 768 alla sua morte nel 814 .Carlo Magno estende il suo regno, raddoppiando quello del padre e, guidando personalmente il suo esercito, riuscendo a sottomettere quasi tutta l'Europa occidentale.
Gli alleati Longobardi, che occupano le terre italiane, sono in guerra con il Papato per alcuni territori contesi e Carlo Magno decide di approfittare della loro debolezza per rompere l'alleanza.
Carlo ripudia la moglie longobarda accampando il fatto che Ermengarda, pallida e malaticcia, non era adatta a generare figli (ragione più che valida per il gesto).
Il ripudio di Ermengarda fa arrabbiare il padre Desiderio, re dei Longobardi, che marcia contro le terre dei Franchi.
Carlo Magno respinge i Longobardi inseguendoli sul loro territorio, battendoli nella Battaglia delle Chiuse di Susa nel 773, espugnando Pavia fino a che, nel 774, conquistato tutto il regno dei Longobardi, indossa la Corona Ferrea.
Le terre, a quei tempi, erano scarsamente abitate.
Le tasse ed i balzelli che gli amministratori di Carlo Magno imponevano sulla popolazione non bastavano per pagare i soldati e gli stessi amministratori.
Il grande regno dei Franchi, pur allargato anche all'Italia, aveva perciò bisogno di continue guerre d'espansione con i cui bottini Carlo Magno poteva pagare i soldati e l'apparato statale.
Dopo le conquiste dei territori italiani, Carlo Magno prosegue, con sanguinose guerre, nella conquista della Marca di Spagna, della Sassonia e della Baviera.
Carlo Magno conosce anche la sconfitta, quando, durante una scorreria per conquistare Saragozza, in Spagna, cade in un'imboscata sulla via del ritorno.
Carlo Magno ha mal valutato le intenzioni della popolazione cristiana che viveva in Spagna in sudditanza degli Arabi.
Questi non dimostrano alcun interesse ad essere liberati, non aiutano le truppe Franche, ma proprio i Baschi li aspettano nella stretta gola di Roncisvalle ed attaccano la retroguardia, appesantita dai carri carichi di bottino, massacrandola.
In questa battaglia muore anche Rolando, il nipote prediletto di Carlo, dando vita alla famosa leggenda sulla battaglia di Roncisvalle, cavallo di battaglia dei cantastorie di allora e dei poeti e letterati dei secoli seguenti.
Papa Leone III, che vede nel Re dei Franchi il difensore ideale della Chiesa e della religione cattolica, nel Natale dell'800 incorona Carlo Magno Imperatore del Sacro Romano Impero.
Carlo Magno si considera il continuatore ideale dell'Antico Impero Romano e organizza il suo impero dividendolo in vari territori, chiamati Contea e Marca.Ogni contea comprende una città e la campagna intorno. A capo della contea Carlo Magno pone un suo fedelissimo che prende il titolo di Conte, amministra la giustizia, riscuote le tasse e comanda le truppe.
Le Marche, sono territori in zone di confine, con funzioni militari in grado di fronteggiare un attacco nemico con a capo un Marchese, scelto fra i migliori generali.
Però, non fidandosi ciecamente di questi Conti e Marchesi, Carlo Magno organizza i “missi dominici “, funzionari particolarmente fedeli, incaricati di sorvegliarli, viaggiando continuamente e riferendo poi a lui in persona.
Carlo Magno porta la capitale ad Aquisgrana (oggi Aachen), città della Renania settentrionale, dove aveva fatto costruire il suo Palazzo Reale e dove vive insieme ai suoi compagni, chiamati Paladini, che erano la sua vera forza.
L'unico lusso del "cosiddetto" Palazzo Reale, sono le terme, dove ogni giorno Carlo Magno si immerge insieme ai figli, agli amici, ai collaboratori, amministrando il suo regno e discutendo di politica immerso con loro nell’acqua calda.
Carlo Magno, che non fu mai un uomo colto, capì l'importanza della cultura e promosse lo studio dei testi classici, raccogliendo nella “Schola palatina” alcune delle maggiori menti del tempo, come Paolo Diacono ed il teologo Rabano Mauro per istruire i figli dei Conti e dei Marchesi che erano destinati a succedere ai padri.
Lui personalmente si accontenta di parlare un semplice dialetto tedesco, però impara a leggere il latino, ma non impara a scrivere e come firma usa un particolare monogramma.
Dopo aver provveduto a garantire la successione, incoronando imperatore il figlio terzogenito Ludovico il Pio, (già unto Re d’Aquitania a Roma all’età di due anni da Papa Adriano e incoronato a Reims da Papa Stefano IV), si ritira ad Aquisgrana dedicandosi allo studio ed alla preghiera sino alla morte avvenuta il 28 gennaio 814.
Carlo, figlio del Re dei Franchi Pipino il Breve e che sarebbe stato chiamato Magno, nasce il 2 aprile 742 o 747.
Nel 768, alla morte del padre, il regno dei Franchi venne diviso fra Carlo ed il fratello minore Carlomanno, designato dal padre Primo Erede.Il vicino Re Longobardo Desiderio, intendendo avere come alleati i Franchi, aveva dato in sposa le sue due figlie ai due fratelli prima che Pipino morisse.Il monaco Eginardo, contemporaneo e biografo di Carlo Magno, lo descrive così: "Fu largo e robusto di corporatura, di statura alta, che tuttavia non eccedeva dal giusto (risulta infatti che la sua altezza misurasse sette volte il suo piede). Aveva il sommo del capo rotondo, occhi molto grandi e vivaci, il naso un po' più lungo della media, con una bella chioma bianca e un volto piacevole e gioviale [...]. Si teneva assiduamente in esercizio cavalcando e cacciando [...]. Gli piacevano anche i bagni di vapore delle acque termali, e teneva in esercizio il fisico con frequenti nuotate".La prematura morte del fratello Carlomanno, che allora aveva solo 22 anni nel 771, avvenuta, sembra, per avvelenamento, da alcuni viene imputata al fratello Carlo.Il fatto potrebbe essere vero ed in linea con i crudeli costumi del tempo.
Carlo Magno era desideroso di ampliare il suo piccolo regno che comprendeva solo la parte Nord Occidentale della Francia.
Alla morte di suo fratello, Carlo, che si era già conquistato il titolo di "Magno" (grande), ereditò tutti i suoi territori e cominciò la conquista dei territori che confinavano con il suo regno.
Il dominio di Carlo Magno durò per ben 46 anni, dal 768 alla sua morte nel 814 .Carlo Magno estende il suo regno, raddoppiando quello del padre e, guidando personalmente il suo esercito, riuscendo a sottomettere quasi tutta l'Europa occidentale.
Gli alleati Longobardi, che occupano le terre italiane, sono in guerra con il Papato per alcuni territori contesi e Carlo Magno decide di approfittare della loro debolezza per rompere l'alleanza.
Carlo ripudia la moglie longobarda accampando il fatto che Ermengarda, pallida e malaticcia, non era adatta a generare figli (ragione più che valida per il gesto).
Il ripudio di Ermengarda fa arrabbiare il padre Desiderio, re dei Longobardi, che marcia contro le terre dei Franchi.
Carlo Magno respinge i Longobardi inseguendoli sul loro territorio, battendoli nella Battaglia delle Chiuse di Susa nel 773, espugnando Pavia fino a che, nel 774, conquistato tutto il regno dei Longobardi, indossa la Corona Ferrea.
Le terre, a quei tempi, erano scarsamente abitate.
Le tasse ed i balzelli che gli amministratori di Carlo Magno imponevano sulla popolazione non bastavano per pagare i soldati e gli stessi amministratori.
Il grande regno dei Franchi, pur allargato anche all'Italia, aveva perciò bisogno di continue guerre d'espansione con i cui bottini Carlo Magno poteva pagare i soldati e l'apparato statale.
Dopo le conquiste dei territori italiani, Carlo Magno prosegue, con sanguinose guerre, nella conquista della Marca di Spagna, della Sassonia e della Baviera.
Carlo Magno conosce anche la sconfitta, quando, durante una scorreria per conquistare Saragozza, in Spagna, cade in un'imboscata sulla via del ritorno.
Carlo Magno ha mal valutato le intenzioni della popolazione cristiana che viveva in Spagna in sudditanza degli Arabi.
Questi non dimostrano alcun interesse ad essere liberati, non aiutano le truppe Franche, ma proprio i Baschi li aspettano nella stretta gola di Roncisvalle ed attaccano la retroguardia, appesantita dai carri carichi di bottino, massacrandola.
In questa battaglia muore anche Rolando, il nipote prediletto di Carlo, dando vita alla famosa leggenda sulla battaglia di Roncisvalle, cavallo di battaglia dei cantastorie di allora e dei poeti e letterati dei secoli seguenti.
Papa Leone III, che vede nel Re dei Franchi il difensore ideale della Chiesa e della religione cattolica, nel Natale dell'800 incorona Carlo Magno Imperatore del Sacro Romano Impero.
Carlo Magno si considera il continuatore ideale dell'Antico Impero Romano e organizza il suo impero dividendolo in vari territori, chiamati Contea e Marca.Ogni contea comprende una città e la campagna intorno. A capo della contea Carlo Magno pone un suo fedelissimo che prende il titolo di Conte, amministra la giustizia, riscuote le tasse e comanda le truppe.
Le Marche, sono territori in zone di confine, con funzioni militari in grado di fronteggiare un attacco nemico con a capo un Marchese, scelto fra i migliori generali.
Però, non fidandosi ciecamente di questi Conti e Marchesi, Carlo Magno organizza i “missi dominici “, funzionari particolarmente fedeli, incaricati di sorvegliarli, viaggiando continuamente e riferendo poi a lui in persona.
Carlo Magno porta la capitale ad Aquisgrana (oggi Aachen), città della Renania settentrionale, dove aveva fatto costruire il suo Palazzo Reale e dove vive insieme ai suoi compagni, chiamati Paladini, che erano la sua vera forza.
L'unico lusso del "cosiddetto" Palazzo Reale, sono le terme, dove ogni giorno Carlo Magno si immerge insieme ai figli, agli amici, ai collaboratori, amministrando il suo regno e discutendo di politica immerso con loro nell’acqua calda.
Carlo Magno, che non fu mai un uomo colto, capì l'importanza della cultura e promosse lo studio dei testi classici, raccogliendo nella “Schola palatina” alcune delle maggiori menti del tempo, come Paolo Diacono ed il teologo Rabano Mauro per istruire i figli dei Conti e dei Marchesi che erano destinati a succedere ai padri.
Lui personalmente si accontenta di parlare un semplice dialetto tedesco, però impara a leggere il latino, ma non impara a scrivere e come firma usa un particolare monogramma.
Dopo aver provveduto a garantire la successione, incoronando imperatore il figlio terzogenito Ludovico il Pio, (già unto Re d’Aquitania a Roma all’età di due anni da Papa Adriano e incoronato a Reims da Papa Stefano IV), si ritira ad Aquisgrana dedicandosi allo studio ed alla preghiera sino alla morte avvenuta il 28 gennaio 814.
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Re: Grandi personaggi della storia
Benito Mussolini
Benito Mussolini, statista italiano, nacque a Dovia di Predappio (Forlì) il 29 luglio del 1883 da una famiglia di modeste condizioni economiche, il padre era fabbro ferraio e la madre maestra elementare.Benito Mussolini frequentò la scuola elementare nel collegio salesiano di Faenza e poi nel collegio Carducci di Forlimpopoli, conseguendo nel 1901 il diploma di maestro elementare.
L'anno prima si era iscritto al Partito Socialista Italiano dimostrando subito un acceso interesse per la politica attiva stimolato anche dall'esempio del padre, esponente di un certo rilievo del socialismo anarcoide e anticlericale di Romagna.Nel 1902 dopo una breve esperienza di lavoro come supplente in una scuola elementare del pavese, emigrò in Svizzera per sottrarsi al servizio militare, dove incontrò e frequentò elementi rivoluzionari dell'epoca, ma, per il suo attivismo anticlericale e antimilitarista, fu espulso da un cantone all'altro, prima di tornare in Italia nel 1904, approfittando di un'amnistia che gli permise di sottrarsi alla pena prevista per la renitenza alla leva.Fino al febbraio del 1907 prestò il servizio militare a Verona, nei bersaglieri, poi ottenne una supplenza a Caneva di Tolmezzo, insegnò francese in una scuola privata a Oneglia fino a che nel 1909 coprì la carica di segretario della Camera del Lavoro di Trento (1909) e diresse il quotidiano "L'avventura del lavoratore".
Schedato dalla Polizia come "sovversivo" e "pericoloso anarchico" venne più volte arrestato e processato per la partecipazione a scioperi e comizi non autorizzati. Presto in urto con gli ambienti moderati e cattolici trentini dove dirigeva il quotidiano "L'avventura del lavoratore", fu espulso, sollevando un caso molto discusso nel mondo socialista.Tornato a Forlì, Benito Mussolini si unì, con Rachele Guidi, la figlia della nuova compagna del padre e da essa ebbe, nel settembre 1910, la prima figlia Edda (Vittorio sarebbe nato nel 1916, Bruno nel 1918, Romano nel 1927, Anna Maria nel 1929, mentre nel 1915 sarebbe stato celebrato il matrimonio civile e nel 1925 quello religioso).Nominato primo segretario della federazione socialista di Forlì ebbe la direzione del nuovo settimanale "Lotta di classe", incarichi che conservò per tre anni, partecipando attivamente agli scontri all'interno del Partito Socialista alla ricerca di un'univoca fisionomia.
Benito Mussolini il 1° dicembre del 1912 accettò la direzione dell' "Avanti!"e, fino allo scoppio della prima Guerra Mondiale rimase allineato sulle posizioni ufficiali del partito, di radicale neutralismo.
Nel giro di qualche mese, Mussolini mutò parere nella convinzione, comune ad altri settori dell' "estremismo" di sinistra, della necessità dell'intervento in guerra dell'Italia, illustrando il suo pensiero nell'articolo intitolato "Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante", dimettendosi dall'"Avanti!" e fondando "Il popolo d'Italia", giornale ultranazionalista, radicalmente schierato su posizioni interventiste a fianco dell'Intesa che conseguì un clamoroso successo di vendite.
Espulso dal PSI nel novembre del 1914, Mussolini nell'aprile del 1915 fu arrestato a Roma mentre si accingeva a presiedere un comizio interventista, ma richiamato alle armi nell'agosto 1915, restò ferito durante un'esercitazione e congedato.
Tornato alla direzione del suo giornale "Il popolo d'Italia", Benito Mussolini ruppe gli ultimi legami ideologici con l'idea socialista, in nome di un superamento dei tradizionali antagonismi di classe, prospettando l'attuazione di una società produttivistico-capitalistica capace di soddisfare le aspirazioni economiche di tutte le classi sociali.Nel 1919 Mussolini fonda i Fasci di Combattimento che all'inizio non presero piede fra la gente, ma in seguito distintasi come forza organizzata in funzione antisocialista e antisindacale, ottenne crescenti adesioni e favori da agrari e industriali e quindi dai ceti medi.Alle elezioni del maggio 1921 alla Camera vennero eletti 36 deputati fascisti, nell'ottobre 1922 i fascisti, dopo la famosa "Marcia su Roma" sono alle porte della capitale.
Benito Mussolini incaricato dal Re di costituire il nuovo governo costituì un gabinetto di larga coalizione al quale inizialmente parteciparono anche i popolari.
Nel 1924 con elezioni vinte a grande maggioranza da Fascisti e Liberali e l'appoggio della Monarchia, Mussolini consolidò la sua posizione di Capo del Governo; un'incessante propaganda cominciò a esaltare in maniera spesso grottesca le doti di "genio" del "duce supremo" (il titolo Dux era strato attribuito a Mussolini dopo la marcia su Roma), trasfigurandone la personalità in una sorta di semidio "insonne" che aveva "sempre ragione" ed era l'unico in grado di interpretare i destini della patria.
Nell'aprile del 1927, a realizzazione dell'ideale societario fascista, venne pubblicata la "Carta del Lavoro", che prevedeva 22 corporazioni e l'11 febbraio del '29 l'anticlericale Mussolini firmò i "Patti Lateranensi" con il Vaticano che rappresentavano la conciliazione fra lo Stato italiano e la Santa Sede.
In politica estera Benito Mussolini portò il suo paese in avventure militari, che si rivelarono più che altro disavventure: l'occupazione di Corfù nel 1923 e la conquista dell'Etiopia nel 1935.
Alla minaccia delle "sanzioni" formulate a Ginevra, Mussolini rispose con "l'autarchia" e la nascita dell'Impero italiano d'Etiopia raggiungendo in massimo della popolarità in patria, ma entrando in conflitto con la Gran Bretagna, la Francia e la Società delle Nazioni, cosa che lo costrinse ad un lento ma fatale avvicinamento alla Germania.Nel novembre del 1937 l'Italia firmò il "Patto Anticominform" con Germania e Giappone ed uscì dalla Società delle Nazioni.
Preso dalla ragnatela di Hitler, Mussolini promulgò le leggi razziali contro gli ebrei, che entrarono in vigore il 17 novembre del '38 e nel 1939, firmò il "patto d'Acciaio" legandosi definitivamente al carro dei nazisti.
Convinto che la guerra iniziata dai tedeschi sarebbe stata una guerra lampo, ignorando l'impreparazione delle truppe ed i consigli dei suoi collaboratori, Mussolini portò l'Italia in guerra al fianco dell'Asse, assumendo il comando supremo delle truppe operanti su tutti i fronti (11 giugno 1940) dando così il via all'inizio della fine per il regime fascista.Incominciarono così le gravi vicende della guerra, in Grecia nel 1941, in Egitto nel 1942, il proposito di stendere sul "bagnasciuga" i nemici che avessero osato porre il piede sul suolo d'Italia (24 giugno 1943) si infranse contro l'invasione anglo-americana della Sicilia.Esautorato da un voto del Gran Consiglio (24 luglio) e fatto arrestare dal re Vittorio Emanuele III (25 luglio), Mussolini venne trasferito a Ponza, poi alla Maddalena e infine a Campo Imperatore sul Gran Sasso dove fu liberato dai paracadutisti tedeschi il 12 settembre.
Mussolini il 15 settembre 1943 proclamò, dalla Germania, la ricostituzione del Partito Fascista Repubblicano e, ormai stanco e malato, in completa balia delle decisioni di Hitler, si insediò a Salò, capitale della nuova Repubblica Sociale Italiana, cercando di far rivivere le parole d'ordine del fascismo della "prima ora".
Sempre più isolato e privo di credibilità, quando i tedesche erano ormai in ritirata, Mussolini cercò di proporre ai capi del C.L.N.A.I. (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) un assurdo passaggio di poteri, che fu respinto.
Travestito da militare tedesco, Benito Mussolini tentò allora, insieme alla compagna Claretta Petacci, la fuga verso la Svizzera, ma, riconosciuto dai partigiani a Dongo, fu arrestato e il 28 aprile 1945 giustiziato per ordine del C.L.N., presso Giulino di Mezzegra.
Il corpo del dittatore Benito Mussolini, assieme a quello della compagna e di altri gerarchi fascisti, vennero esposti vergognosamente nel Piazzale Loreto, a Milano.
Benito Mussolini, statista italiano, nacque a Dovia di Predappio (Forlì) il 29 luglio del 1883 da una famiglia di modeste condizioni economiche, il padre era fabbro ferraio e la madre maestra elementare.Benito Mussolini frequentò la scuola elementare nel collegio salesiano di Faenza e poi nel collegio Carducci di Forlimpopoli, conseguendo nel 1901 il diploma di maestro elementare.
L'anno prima si era iscritto al Partito Socialista Italiano dimostrando subito un acceso interesse per la politica attiva stimolato anche dall'esempio del padre, esponente di un certo rilievo del socialismo anarcoide e anticlericale di Romagna.Nel 1902 dopo una breve esperienza di lavoro come supplente in una scuola elementare del pavese, emigrò in Svizzera per sottrarsi al servizio militare, dove incontrò e frequentò elementi rivoluzionari dell'epoca, ma, per il suo attivismo anticlericale e antimilitarista, fu espulso da un cantone all'altro, prima di tornare in Italia nel 1904, approfittando di un'amnistia che gli permise di sottrarsi alla pena prevista per la renitenza alla leva.Fino al febbraio del 1907 prestò il servizio militare a Verona, nei bersaglieri, poi ottenne una supplenza a Caneva di Tolmezzo, insegnò francese in una scuola privata a Oneglia fino a che nel 1909 coprì la carica di segretario della Camera del Lavoro di Trento (1909) e diresse il quotidiano "L'avventura del lavoratore".
Schedato dalla Polizia come "sovversivo" e "pericoloso anarchico" venne più volte arrestato e processato per la partecipazione a scioperi e comizi non autorizzati. Presto in urto con gli ambienti moderati e cattolici trentini dove dirigeva il quotidiano "L'avventura del lavoratore", fu espulso, sollevando un caso molto discusso nel mondo socialista.Tornato a Forlì, Benito Mussolini si unì, con Rachele Guidi, la figlia della nuova compagna del padre e da essa ebbe, nel settembre 1910, la prima figlia Edda (Vittorio sarebbe nato nel 1916, Bruno nel 1918, Romano nel 1927, Anna Maria nel 1929, mentre nel 1915 sarebbe stato celebrato il matrimonio civile e nel 1925 quello religioso).Nominato primo segretario della federazione socialista di Forlì ebbe la direzione del nuovo settimanale "Lotta di classe", incarichi che conservò per tre anni, partecipando attivamente agli scontri all'interno del Partito Socialista alla ricerca di un'univoca fisionomia.
Benito Mussolini il 1° dicembre del 1912 accettò la direzione dell' "Avanti!"e, fino allo scoppio della prima Guerra Mondiale rimase allineato sulle posizioni ufficiali del partito, di radicale neutralismo.
Nel giro di qualche mese, Mussolini mutò parere nella convinzione, comune ad altri settori dell' "estremismo" di sinistra, della necessità dell'intervento in guerra dell'Italia, illustrando il suo pensiero nell'articolo intitolato "Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante", dimettendosi dall'"Avanti!" e fondando "Il popolo d'Italia", giornale ultranazionalista, radicalmente schierato su posizioni interventiste a fianco dell'Intesa che conseguì un clamoroso successo di vendite.
Espulso dal PSI nel novembre del 1914, Mussolini nell'aprile del 1915 fu arrestato a Roma mentre si accingeva a presiedere un comizio interventista, ma richiamato alle armi nell'agosto 1915, restò ferito durante un'esercitazione e congedato.
Tornato alla direzione del suo giornale "Il popolo d'Italia", Benito Mussolini ruppe gli ultimi legami ideologici con l'idea socialista, in nome di un superamento dei tradizionali antagonismi di classe, prospettando l'attuazione di una società produttivistico-capitalistica capace di soddisfare le aspirazioni economiche di tutte le classi sociali.Nel 1919 Mussolini fonda i Fasci di Combattimento che all'inizio non presero piede fra la gente, ma in seguito distintasi come forza organizzata in funzione antisocialista e antisindacale, ottenne crescenti adesioni e favori da agrari e industriali e quindi dai ceti medi.Alle elezioni del maggio 1921 alla Camera vennero eletti 36 deputati fascisti, nell'ottobre 1922 i fascisti, dopo la famosa "Marcia su Roma" sono alle porte della capitale.
Benito Mussolini incaricato dal Re di costituire il nuovo governo costituì un gabinetto di larga coalizione al quale inizialmente parteciparono anche i popolari.
Nel 1924 con elezioni vinte a grande maggioranza da Fascisti e Liberali e l'appoggio della Monarchia, Mussolini consolidò la sua posizione di Capo del Governo; un'incessante propaganda cominciò a esaltare in maniera spesso grottesca le doti di "genio" del "duce supremo" (il titolo Dux era strato attribuito a Mussolini dopo la marcia su Roma), trasfigurandone la personalità in una sorta di semidio "insonne" che aveva "sempre ragione" ed era l'unico in grado di interpretare i destini della patria.
Nell'aprile del 1927, a realizzazione dell'ideale societario fascista, venne pubblicata la "Carta del Lavoro", che prevedeva 22 corporazioni e l'11 febbraio del '29 l'anticlericale Mussolini firmò i "Patti Lateranensi" con il Vaticano che rappresentavano la conciliazione fra lo Stato italiano e la Santa Sede.
In politica estera Benito Mussolini portò il suo paese in avventure militari, che si rivelarono più che altro disavventure: l'occupazione di Corfù nel 1923 e la conquista dell'Etiopia nel 1935.
Alla minaccia delle "sanzioni" formulate a Ginevra, Mussolini rispose con "l'autarchia" e la nascita dell'Impero italiano d'Etiopia raggiungendo in massimo della popolarità in patria, ma entrando in conflitto con la Gran Bretagna, la Francia e la Società delle Nazioni, cosa che lo costrinse ad un lento ma fatale avvicinamento alla Germania.Nel novembre del 1937 l'Italia firmò il "Patto Anticominform" con Germania e Giappone ed uscì dalla Società delle Nazioni.
Preso dalla ragnatela di Hitler, Mussolini promulgò le leggi razziali contro gli ebrei, che entrarono in vigore il 17 novembre del '38 e nel 1939, firmò il "patto d'Acciaio" legandosi definitivamente al carro dei nazisti.
Convinto che la guerra iniziata dai tedeschi sarebbe stata una guerra lampo, ignorando l'impreparazione delle truppe ed i consigli dei suoi collaboratori, Mussolini portò l'Italia in guerra al fianco dell'Asse, assumendo il comando supremo delle truppe operanti su tutti i fronti (11 giugno 1940) dando così il via all'inizio della fine per il regime fascista.Incominciarono così le gravi vicende della guerra, in Grecia nel 1941, in Egitto nel 1942, il proposito di stendere sul "bagnasciuga" i nemici che avessero osato porre il piede sul suolo d'Italia (24 giugno 1943) si infranse contro l'invasione anglo-americana della Sicilia.Esautorato da un voto del Gran Consiglio (24 luglio) e fatto arrestare dal re Vittorio Emanuele III (25 luglio), Mussolini venne trasferito a Ponza, poi alla Maddalena e infine a Campo Imperatore sul Gran Sasso dove fu liberato dai paracadutisti tedeschi il 12 settembre.
Mussolini il 15 settembre 1943 proclamò, dalla Germania, la ricostituzione del Partito Fascista Repubblicano e, ormai stanco e malato, in completa balia delle decisioni di Hitler, si insediò a Salò, capitale della nuova Repubblica Sociale Italiana, cercando di far rivivere le parole d'ordine del fascismo della "prima ora".
Sempre più isolato e privo di credibilità, quando i tedesche erano ormai in ritirata, Mussolini cercò di proporre ai capi del C.L.N.A.I. (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) un assurdo passaggio di poteri, che fu respinto.
Travestito da militare tedesco, Benito Mussolini tentò allora, insieme alla compagna Claretta Petacci, la fuga verso la Svizzera, ma, riconosciuto dai partigiani a Dongo, fu arrestato e il 28 aprile 1945 giustiziato per ordine del C.L.N., presso Giulino di Mezzegra.
Il corpo del dittatore Benito Mussolini, assieme a quello della compagna e di altri gerarchi fascisti, vennero esposti vergognosamente nel Piazzale Loreto, a Milano.
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Re: Grandi personaggi della storia
Camillo Benso conte di Cavour
Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, nobile dei Marchesi di Cavour, Conte di Cellarengo e di Isolabella nasce il 10 agosto 1810 a Torino, allora capoluogo d'un dipartimento dell'impero napoleonico. Secondogenito del marchese Michele e della ginevrina Adele di Sellon, Cavour da giovane è ufficiale dell'esercito. Lascia nel 1831 la vita militare e per quattro anni viaggia in Europa, studiando particolarmente gli effetti della rivoluzione industriale in Gran Bretagna, Francia e Svizzera e assumendo i princìpi economici, sociali e politici del sistema liberale britannico.
Rientrato in Piemonte nel 1835 si occupa soprattutto di agricoltura e si interessa di economie e della diffusione di scuole ed asili. Grazie alla sua attività commerciale e bancaria Cavour diviene uno degli uomini più ricchi del Piemonte.
La fondazione nel dicembre 1847 del quotidiano "Il Risorgimento" segna l'avvio del suo impegno politico: solo una profonda ristrutturazione delle istituzioni politiche piemontesi e la creazione di uno Stato territorialmente ampio e unito in Italia avrebbero, secondo Cavour, reso possibile il processo di sviluppo e crescita economico-sociale da lui promosso con le iniziative degli anni precedenti.
Nel 1850, essendosi messo in evidenza nella difesa delle leggi Siccardi (promosse per diminuire i privilegi riconosciuti al clero, prevedevano l'abolizione del tribunale ecclesiastico, del diritto d'asilo nelle chiese e nei conventi, la riduzione del numero delle festività religiose e il divieto per le corporazioni ecclesiastiche di acquistare beni, ricevere eredità o donazioni senza ricevere il consenso del Governo) Cavour viene chiamato a far parte del gabinetto D'Azeglio come ministro dell'agricoltura, del commercio e della marina. Successivamente viene nominato ministro delle Finanze. Con tale carica assume ben presto una posizione di primo piano, fino a diventare presidente del Consiglio il 4 novembre 1852.
Prima della nomina Cavour aveva già in mente un programma politico ben chiaro e definito ed era deciso a realizzarlo, pur non ignorando le difficoltà che avrebbe dovuto superare. L'ostacolo principale gli derivava dal fatto di non godere la simpatia dei settori estremi del Parlamento, in quanto la sinistra non credeva alle sue intenzioni riformatrici, mentre per le Destre egli era addirittura un pericoloso giacobino, un rivoluzionario demolitore di tradizioni ormai secolari.
In politica interna mira innanzitutto a fare del Piemonte uno Stato costituzionale, ispirato ad un liberismo misurato e progressivo, nel quale è la libertà a costituire la premessa di ogni iniziativa. Convinto che i progressi economici sono estremamente importanti per la vita politica di un paese, Cavour si dedica ad un radicale rinnovamento dell'economia piemontese.
L'agricoltura viene valorizzata e modernizzata grazie ad un sempre più diffuso uso dei concimi chimici e ad una vasta opera di canalizzazione destinata ad eliminare le frequenti carestie, dovute a mancanza d'acqua per l'irrigazione, e a facilitare il trasporto dei prodotti agricoli; l'industria viene rinnovata ed irrobustita attraverso la creazione di nuove fabbriche e il potenziamento di quelle già esistenti specialmente nel settore tessile; fonda un commercio basato sul libero scambio interno ed estero: agevolato da una serie di trattati con Francia, Belgio e Olanda (1851-1858) subisce un forte aumento.
Inoltre Cavour provvede a rinnovare il sistema fiscale, basandolo non solo sulle imposte indirette ma anche su quelle dirette, che colpiscono soprattutto i grandi redditi; provvede inoltre al potenziamento delle banche con l'istituzione di una "Banca Nazionale" per la concessione di prestiti ad interesse non molto elevato.
Il progressivo consolidamento politico, economico e militare, spinge Cavour verso un'audace politica estera, capace di far uscire il Piemonte dall'isolamento. In un primo momento egli non crede opportuno distaccarsi dal vecchio programma di Carlo Alberto tendente all'allontanamento dell'Austria dal Lombardo-Veneto e alla conseguente unificazione dell'Italia settentrionale sotto la monarchia sabauda, tuttavia in seguito avverte la possibilità di allargare in senso nazionale la sua politica, aderendo al programma unitario di Giuseppe Mazzini, sia pure su basi monarchiche e liberali. Il primo passo da fare era quello di imporre il problema italiano all'attenzione europea e a ciò Cavour mira con tutto il suo ingegno: Il 21 luglio 1858 incontra Napoleone III a Plombières dove vengono gettate le basi di un'alleanza contro l'Austria.
Il trattato ufficiale stabiliva che:
la Francia sarebbe intervenuta a fianco del Piemonte, solo se l'Austria lo avesse aggredito; in caso di vittoria si sarebbero formati in Italia quattro Stati riuniti in una sola confederazione posta sotto la presidenza onoraria del Papa ma dominata sostanzialmente dal Piemonte: uno nell'Italia settentrionale con l'annessione al regno di Sardegna del Lombardo-Veneto, dei ducati di Parma e Modena e della restante parte dell'Emilia; uno nell'Italia centrale, comprendente la Toscana, le Marche e l'Umbria; un terzo nell'Italia meridionale corrispondente al Regno delle Due Sicilie; un quarto, infine, formato dallo Stato Pontificio con Roma e dintorni. In compenso dell'aiuto prestato dalla Francia il Piemonte avrebbe ceduto a Napoleone III il Ducato di Savoia e la Contea di Nizza.
Appare evidente che un simile trattato non teneva assolutamente conto delle aspirazioni unitarie della maggior parte della popolazione italiana, esso mirava unicamente ad eliminare il predominio austriaco dalla penisola.
La II guerra d'indipendenza permette l'acquisizione della Lombardia, ma l'estendersi del movimento democratico-nazionale suscita nei francesi il timore della creazione di uno Stato Italiano unitario troppo forte: l'armistizio di Villafranca provoca il temporaneo congelamento dei moti e la decisione di Cavour di allontanarsi dalla guida del governo.
Ritornato alla presidenza del Consiglio Cavour riesce comunque ad utilizzare a proprio vantaggio la momentanea freddezza nei rapporti con la Francia, quando di fronte alla Spedizione dei Mille e alla liberazione dell'Italia meridionale poté ordinare la contemporanea invasione dello Stato Pontificio. L'abilità diplomatica di Cavour nel mantenere il consenso delle potenze europee e la fedeltà di Giuseppe Garibaldi al motto "Italia e Vittorio Emanuele" portano così alla proclamazione del Regno d'Italia, il giorno 17 marzo 1861.
Camillo Benso conte di Cavour muore nella sua città natale il 6 giugno 1861.
Camillo Paolo Filippo Giulio Benso, nobile dei Marchesi di Cavour, Conte di Cellarengo e di Isolabella nasce il 10 agosto 1810 a Torino, allora capoluogo d'un dipartimento dell'impero napoleonico. Secondogenito del marchese Michele e della ginevrina Adele di Sellon, Cavour da giovane è ufficiale dell'esercito. Lascia nel 1831 la vita militare e per quattro anni viaggia in Europa, studiando particolarmente gli effetti della rivoluzione industriale in Gran Bretagna, Francia e Svizzera e assumendo i princìpi economici, sociali e politici del sistema liberale britannico.
Rientrato in Piemonte nel 1835 si occupa soprattutto di agricoltura e si interessa di economie e della diffusione di scuole ed asili. Grazie alla sua attività commerciale e bancaria Cavour diviene uno degli uomini più ricchi del Piemonte.
La fondazione nel dicembre 1847 del quotidiano "Il Risorgimento" segna l'avvio del suo impegno politico: solo una profonda ristrutturazione delle istituzioni politiche piemontesi e la creazione di uno Stato territorialmente ampio e unito in Italia avrebbero, secondo Cavour, reso possibile il processo di sviluppo e crescita economico-sociale da lui promosso con le iniziative degli anni precedenti.
Nel 1850, essendosi messo in evidenza nella difesa delle leggi Siccardi (promosse per diminuire i privilegi riconosciuti al clero, prevedevano l'abolizione del tribunale ecclesiastico, del diritto d'asilo nelle chiese e nei conventi, la riduzione del numero delle festività religiose e il divieto per le corporazioni ecclesiastiche di acquistare beni, ricevere eredità o donazioni senza ricevere il consenso del Governo) Cavour viene chiamato a far parte del gabinetto D'Azeglio come ministro dell'agricoltura, del commercio e della marina. Successivamente viene nominato ministro delle Finanze. Con tale carica assume ben presto una posizione di primo piano, fino a diventare presidente del Consiglio il 4 novembre 1852.
Prima della nomina Cavour aveva già in mente un programma politico ben chiaro e definito ed era deciso a realizzarlo, pur non ignorando le difficoltà che avrebbe dovuto superare. L'ostacolo principale gli derivava dal fatto di non godere la simpatia dei settori estremi del Parlamento, in quanto la sinistra non credeva alle sue intenzioni riformatrici, mentre per le Destre egli era addirittura un pericoloso giacobino, un rivoluzionario demolitore di tradizioni ormai secolari.
In politica interna mira innanzitutto a fare del Piemonte uno Stato costituzionale, ispirato ad un liberismo misurato e progressivo, nel quale è la libertà a costituire la premessa di ogni iniziativa. Convinto che i progressi economici sono estremamente importanti per la vita politica di un paese, Cavour si dedica ad un radicale rinnovamento dell'economia piemontese.
L'agricoltura viene valorizzata e modernizzata grazie ad un sempre più diffuso uso dei concimi chimici e ad una vasta opera di canalizzazione destinata ad eliminare le frequenti carestie, dovute a mancanza d'acqua per l'irrigazione, e a facilitare il trasporto dei prodotti agricoli; l'industria viene rinnovata ed irrobustita attraverso la creazione di nuove fabbriche e il potenziamento di quelle già esistenti specialmente nel settore tessile; fonda un commercio basato sul libero scambio interno ed estero: agevolato da una serie di trattati con Francia, Belgio e Olanda (1851-1858) subisce un forte aumento.
Inoltre Cavour provvede a rinnovare il sistema fiscale, basandolo non solo sulle imposte indirette ma anche su quelle dirette, che colpiscono soprattutto i grandi redditi; provvede inoltre al potenziamento delle banche con l'istituzione di una "Banca Nazionale" per la concessione di prestiti ad interesse non molto elevato.
Il progressivo consolidamento politico, economico e militare, spinge Cavour verso un'audace politica estera, capace di far uscire il Piemonte dall'isolamento. In un primo momento egli non crede opportuno distaccarsi dal vecchio programma di Carlo Alberto tendente all'allontanamento dell'Austria dal Lombardo-Veneto e alla conseguente unificazione dell'Italia settentrionale sotto la monarchia sabauda, tuttavia in seguito avverte la possibilità di allargare in senso nazionale la sua politica, aderendo al programma unitario di Giuseppe Mazzini, sia pure su basi monarchiche e liberali. Il primo passo da fare era quello di imporre il problema italiano all'attenzione europea e a ciò Cavour mira con tutto il suo ingegno: Il 21 luglio 1858 incontra Napoleone III a Plombières dove vengono gettate le basi di un'alleanza contro l'Austria.
Il trattato ufficiale stabiliva che:
la Francia sarebbe intervenuta a fianco del Piemonte, solo se l'Austria lo avesse aggredito; in caso di vittoria si sarebbero formati in Italia quattro Stati riuniti in una sola confederazione posta sotto la presidenza onoraria del Papa ma dominata sostanzialmente dal Piemonte: uno nell'Italia settentrionale con l'annessione al regno di Sardegna del Lombardo-Veneto, dei ducati di Parma e Modena e della restante parte dell'Emilia; uno nell'Italia centrale, comprendente la Toscana, le Marche e l'Umbria; un terzo nell'Italia meridionale corrispondente al Regno delle Due Sicilie; un quarto, infine, formato dallo Stato Pontificio con Roma e dintorni. In compenso dell'aiuto prestato dalla Francia il Piemonte avrebbe ceduto a Napoleone III il Ducato di Savoia e la Contea di Nizza.
Appare evidente che un simile trattato non teneva assolutamente conto delle aspirazioni unitarie della maggior parte della popolazione italiana, esso mirava unicamente ad eliminare il predominio austriaco dalla penisola.
La II guerra d'indipendenza permette l'acquisizione della Lombardia, ma l'estendersi del movimento democratico-nazionale suscita nei francesi il timore della creazione di uno Stato Italiano unitario troppo forte: l'armistizio di Villafranca provoca il temporaneo congelamento dei moti e la decisione di Cavour di allontanarsi dalla guida del governo.
Ritornato alla presidenza del Consiglio Cavour riesce comunque ad utilizzare a proprio vantaggio la momentanea freddezza nei rapporti con la Francia, quando di fronte alla Spedizione dei Mille e alla liberazione dell'Italia meridionale poté ordinare la contemporanea invasione dello Stato Pontificio. L'abilità diplomatica di Cavour nel mantenere il consenso delle potenze europee e la fedeltà di Giuseppe Garibaldi al motto "Italia e Vittorio Emanuele" portano così alla proclamazione del Regno d'Italia, il giorno 17 marzo 1861.
Camillo Benso conte di Cavour muore nella sua città natale il 6 giugno 1861.
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Re: Grandi personaggi della storia
AUGUSTO (Caio Giulio Cesare Ottaviano)
Fondatore dell'Impero romano. Figlio del plebeo Caio Ottavio e della nobile Azia (nipote di Cesare per parte di sorella), si chiamò dapprima come il padre, poi, in seguito all'adozione da parte del prozio Cesare, divenne Caio Giulio Cesare Ottaviano, quindi, dal 40 a.C., Imperatore Cesare Ottaviano e, infine, dal 27 a.C., con il riconoscimento del carattere sacro del suo potere, Imperatore Cesare Augusto.
Sposò dapprima Claudia, poi Scribonia, da cui ebbe (40 a.C.) Giulia (33), infine, nel 38 a.C., Livia Drusilla (41). La sua straordinaria carriera politica iniziò con la morte di Cesare: da Apollonia, in Illiria, dove si trovava, venne a Roma, fermamente deciso ad assumere l'eredità del padre adottivo.
Poco conosciuto, non ancora diciannovenne, di salute delicata, da principio non suscitò gran timore nei due partiti che al tempo si contendevano il predominio di Roma: quello di Antonio, che pretendeva la successione di Cesare, e quello dei congiurati e del senato.
Ben presto s'inserì nella difficile situazione politica, e, usando di un'abilità fatta di calcolo e di coraggio, di spregiudicatezza e di rispetto della legalità, riuscì a imporre la sua personalità.
Ma il suo intento non era quello di sostenere gli uccisori di Cesare: così si avvicinò ad Antonio e, dopo essersi fatto attribuire con la forza il consolato e aver iniziato il processo contro gli assassini del padre adottivo, formò con Antonio e Lepido il secondo triumvirato (43 a.C.).
In pieno accordo, i triumviri intrapresero allora l'annientamento dei loro avversari: in Italia con feroci persecuzioni; in Grecia e in Macedonia, dove si erano rifugiati i repubblicani, con la guerra. Presso Filippi ebbero luogo due scontri successivi a essi favorevoli: Cassio si uccise dopo il primo, Bruto dopo il secondo (42 a.C.).
Ma Ottaviano considerò la sistemazione provvisoria, e, mentre Antonio si screditava, favorendo le ambizioni di Cleopatra, Ottaviano rafforzava la sua posizione. Ed una volta divenuto padrone dell'Italia e delle province occidentali, si preparò con abilità per lo scontro risolutivo con il rivale. Politicamente, nel 32 a.C., sottopose il senato, l'Italia e le province ad un giuramento speciale che lo costituiva capo supremo dell'Occidente, e lo nominava console per l'anno dopo; psicologicamente, organizzò una campagna propagandistica che presentava Antonio come nemico della patria; militarmente, aumentando le forze di terra e di mare.
La guerra, formalmente presentata come una guerra nazionale contro Cleopatra, si risolse ad Azio con la sconfitta e la fuga di Antonio, mentre la vittoria assicurò a Ottaviano la signoria sul mondo e a Roma l'annessione dell'Egitto (30 a.C.) al suo dominio.
Ristabilita alfine la pace, Ottaviano, stretto tra la necessità di un potere personale e l'impossibilità di instaurare un regime come quello monarchico, odiato dai Romani, gettò le basi di un nuovo ordinamento statale.
Ispirato dall'esempio di Cesare, che aveva dimostrato che per esercitare la sovranità in Roma era indispensabile mantenere esteriormente le istituzioni repubblicane, Ottaviano rifiutò di accettare qualsiasi magistratura straordinaria, dittatura o consolato a vita, e fondò un nuovo tipo di regime, il principato, in cui derivava la sua autorità dal titolo vago di princeps, riunendo in sé le funzioni e le prerogative di diverse magistrature contemporaneamente, con potere più ampio di quello normale.
Nel 40, cambiò il nome della sua carica in Imperator, e, nel 36, ricevette dal popolo la potestà tribunizia limitatamente al diritto di inviolabilità (sanctitas), nel 33, fu nominato console, nel 28 si fece attribuire il titolo di princeps senatus, che gli dava dignità superiore a quella degli altri senatori; infine, alla morte di Lepido, divenne pontefice massimo (12 a.C.).
L'anno 27 a.C. segnò una svolta decisiva per il nuovo regime. Il 16 gennaio del 27 a.C., in segno di riconoscenza, il senato conferì ad Ottaviano il titolo di Augusto (caro agli dei), che conferiva alla sua persona un carattere sacro. Egli ormai, accumulando nella sua persona i poteri politici, religiosi e giudiziari, era in realtà signore assoluto dell'Impero
Con calcolata modestia, durante la vita non permise mai che gli fossero innalzati templi, se non in Oriente. dopo la sua morte il senato, rendendogli gli onori dell'apoteosi, lo divinizzò, e il suo culto, associato a quello della dea Roma, divenne il legame morale e politico di tutto l'Impero.
Fondatore dell'Impero romano. Figlio del plebeo Caio Ottavio e della nobile Azia (nipote di Cesare per parte di sorella), si chiamò dapprima come il padre, poi, in seguito all'adozione da parte del prozio Cesare, divenne Caio Giulio Cesare Ottaviano, quindi, dal 40 a.C., Imperatore Cesare Ottaviano e, infine, dal 27 a.C., con il riconoscimento del carattere sacro del suo potere, Imperatore Cesare Augusto.
Sposò dapprima Claudia, poi Scribonia, da cui ebbe (40 a.C.) Giulia (33), infine, nel 38 a.C., Livia Drusilla (41). La sua straordinaria carriera politica iniziò con la morte di Cesare: da Apollonia, in Illiria, dove si trovava, venne a Roma, fermamente deciso ad assumere l'eredità del padre adottivo.
Poco conosciuto, non ancora diciannovenne, di salute delicata, da principio non suscitò gran timore nei due partiti che al tempo si contendevano il predominio di Roma: quello di Antonio, che pretendeva la successione di Cesare, e quello dei congiurati e del senato.
Ben presto s'inserì nella difficile situazione politica, e, usando di un'abilità fatta di calcolo e di coraggio, di spregiudicatezza e di rispetto della legalità, riuscì a imporre la sua personalità.
Ma il suo intento non era quello di sostenere gli uccisori di Cesare: così si avvicinò ad Antonio e, dopo essersi fatto attribuire con la forza il consolato e aver iniziato il processo contro gli assassini del padre adottivo, formò con Antonio e Lepido il secondo triumvirato (43 a.C.).
In pieno accordo, i triumviri intrapresero allora l'annientamento dei loro avversari: in Italia con feroci persecuzioni; in Grecia e in Macedonia, dove si erano rifugiati i repubblicani, con la guerra. Presso Filippi ebbero luogo due scontri successivi a essi favorevoli: Cassio si uccise dopo il primo, Bruto dopo il secondo (42 a.C.).
Ma Ottaviano considerò la sistemazione provvisoria, e, mentre Antonio si screditava, favorendo le ambizioni di Cleopatra, Ottaviano rafforzava la sua posizione. Ed una volta divenuto padrone dell'Italia e delle province occidentali, si preparò con abilità per lo scontro risolutivo con il rivale. Politicamente, nel 32 a.C., sottopose il senato, l'Italia e le province ad un giuramento speciale che lo costituiva capo supremo dell'Occidente, e lo nominava console per l'anno dopo; psicologicamente, organizzò una campagna propagandistica che presentava Antonio come nemico della patria; militarmente, aumentando le forze di terra e di mare.
La guerra, formalmente presentata come una guerra nazionale contro Cleopatra, si risolse ad Azio con la sconfitta e la fuga di Antonio, mentre la vittoria assicurò a Ottaviano la signoria sul mondo e a Roma l'annessione dell'Egitto (30 a.C.) al suo dominio.
Ristabilita alfine la pace, Ottaviano, stretto tra la necessità di un potere personale e l'impossibilità di instaurare un regime come quello monarchico, odiato dai Romani, gettò le basi di un nuovo ordinamento statale.
Ispirato dall'esempio di Cesare, che aveva dimostrato che per esercitare la sovranità in Roma era indispensabile mantenere esteriormente le istituzioni repubblicane, Ottaviano rifiutò di accettare qualsiasi magistratura straordinaria, dittatura o consolato a vita, e fondò un nuovo tipo di regime, il principato, in cui derivava la sua autorità dal titolo vago di princeps, riunendo in sé le funzioni e le prerogative di diverse magistrature contemporaneamente, con potere più ampio di quello normale.
Nel 40, cambiò il nome della sua carica in Imperator, e, nel 36, ricevette dal popolo la potestà tribunizia limitatamente al diritto di inviolabilità (sanctitas), nel 33, fu nominato console, nel 28 si fece attribuire il titolo di princeps senatus, che gli dava dignità superiore a quella degli altri senatori; infine, alla morte di Lepido, divenne pontefice massimo (12 a.C.).
L'anno 27 a.C. segnò una svolta decisiva per il nuovo regime. Il 16 gennaio del 27 a.C., in segno di riconoscenza, il senato conferì ad Ottaviano il titolo di Augusto (caro agli dei), che conferiva alla sua persona un carattere sacro. Egli ormai, accumulando nella sua persona i poteri politici, religiosi e giudiziari, era in realtà signore assoluto dell'Impero
Con calcolata modestia, durante la vita non permise mai che gli fossero innalzati templi, se non in Oriente. dopo la sua morte il senato, rendendogli gli onori dell'apoteosi, lo divinizzò, e il suo culto, associato a quello della dea Roma, divenne il legame morale e politico di tutto l'Impero.
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Re: Grandi personaggi della storia
HARRY SPENCER TRUMAN
Nacque l'8 maggio 1884 nel Missouri, da una famiglia di agricoltori, e fin da giovane lavorò nella fattoria paterna.
Truman a 13 anni
Studiò ad Indipendence, una località nei pressi della quale si era trasferita la sua famiglia, fino ai diciassette anni. Avrebbe voluto continuare gli studi in un'accademia militare, ma non fu accettato per insufficienza di vista, tornò così alla fattoria.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale partì volontario, col grado di tenente. Partecipò alle operazioni di Saint Mihiel e combatté sul fronte delle Argonne diventando capitano.
Al termine del conflitto fu congedato e, tornato a casa, il 26 giugno del 1919 sposò un'amica d'infanzia, Bess Wallace, dalla quale ebbe una figlia, Margaret. Non volendo riprendere l'attività di contadino si unì in società con un commilitone e aprì un negozio di abbigliamento maschile a Kansas City, ma non ebbe successo, a causa anche della crisi del dopoguerra.
Un altro amico che aveva combattuto con lui lo presentò a Tom Pendergast, un potente politico locale, che gli trovò un posto come ispettore delle autostrade nella Contea di Jackson e in seguito lo fece concorrere come candidato per un posto di magistrato. Vinse il concorso, ma, non sapendo nulla di giurisprudenza, frequentò, sempre a Kansas City, una scuola serale.
Nel 1934 fu eletto senatore nelle file del partito democratico. Nel 1941 con la sua fama di uomo onesto fu rieletto.
A questo punto Truman era convinto di aver chiuso la sua carriera politica, ma a sorpresa i dirigenti del Partito Democratico decisero di affiancarlo come vicepresidente a Franklin Delano Roosevelt, preferendolo a Henry A. Wallace, giudicato troppo radicale, in un momento tanto critico per le sorti del mondo. Nel 1944, con il quarto mandato di Roosevelt, divenne vicepresidente e salì alla massima carica alla morte di questi, il 12 aprile del 1945.
Truman in campagna elettorale
Truman aveva allora sessant' anni e rimase completamente scioccato dalla notizia; in seguito scrisse Mi sentii come se il cielo mi fosse caduto addosso. Salì al potere in un momento critico, nelle ultime fasi della seconda guerra mondiale: la Germania era ormai quasi vinta ma rimaneva ancora aperto il conflitto nel Pacifico. È vero che il Giappone si stava avviando verso la sconfitta, ma si riteneva che non avrebbe mai chiesto la resa e la guerra avrebbe rischiato di prolungarsi, con gravi danni per i soldati statunitensi. E Truman si trovò così ad affrontare subito il grave problema se utilizzare la bomba atomica nella guerra.
Durante l'amministrazione Roosevelt, i preparativi per quest'arma, a Los Alamos, erano stati estremamente segreti e lo stesso Truman li ignorava completamente finché non salì al potere. Spettò a lui quindi la grave responsabilità di sganciare la prima bomba atomica su Hiroshima, il 6 agosto 1945, e il 9 la seconda su Nagasaki (si veda Bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki).
« Il mondo sappia che la prima bomba atomica è stata sganciata su Hiroshima, una base militare. Abbiamo vinto la gara per la scoperta dell'atomica contro i tedeschi. L'abbiamo usata per abbreviare l'agonia della guerra, per risparmiare la vita di migliaia e migliaia di giovani americani, e continueremo a usarla sino alla completa distruzione del potenziale bellico giapponese. »
(L'annuncio del presidente degli Stati Uniti Harry Truman del bombardamento nucleare su Hiroshima.)
Questa azione provocò la resa del Giappone e mise fine al secondo conflitto mondiale.
Lo sganciamento delle atomiche provocò una vasta reazione nella comunità scientifica internazionale, che si dissociò e probabilmente avrebbe potuto compromettere lo sviluppo della scienza nucleare.
Truman annuncia la resa della Germania
Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale le relazioni con l'URSS peggiorarono, soprattutto a causa della questione tedesca; ciò portò ben presto a parlare di Guerra fredda. Il punto più critico si ebbe nel 1948 con il blocco di Berlino Ovest da parte dell'Unione sovietica, aggirato grazie all'invio di rifornimenti per via aerea.
Essendo i Paesi europei occidentali impotenti a confronto con l'URSS, egli professò la cosiddetta dottrina Truman, per la quale gli USA dovevano farsi carico della lotta globale contro l'avanzata del comunismo impegnandosi attivamente in ogni Paese che fosse minacciato da essa. L'approvazione del "Piano Marshall", proposto dal suo Segretario di Stato George Marshall, che consisteva in ingenti aiuti economici per la ricostruzione dell'Europa nel dopoguerra, è da inserirsi in questa strategia di contenimento, più che un aiuto umanitario.
Nel 1946 diede impulso allo sviluppo delle armi nucleari approvando gli esperimenti atomici sull'atollo di Bikini nel Pacifico.
Nonostante fosse dato per sconfitto, nel 1948 Truman fu riconfermato alla presidenza e nel 1950 si trovò ad affrontare una grave crisi in Corea. Il 25 giugno dello stesso anno l'esercito comunista della Corea del Nord invase il territorio della Corea del Sud. Si scatenò dunque la Guerra di Corea che vide gli USA in primo piano. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU si oppose all'invasione e Truman pose l'esercito americano sotto la sua egida. La guerra fu molto dura ed alla fine si arrivò ad una situazione di stallo attorno alle posizioni prebelliche. In questo caso Truman si dimostrò molto risoluto, in quanto arrivò a sostituire il generale Douglas MacArthur quando egli minacciò di attaccare anche la Cina, rischiando così un allargamento del conflitto.
Su iniziativa del governo Truman, nel 1949 fu creata la NATO.
Sotto il profilo interno, Truman cercò di continuare la strada delle riforme (il cosiddetto "Fair Deal"), ma la maggioranza repubblicana al Congresso glielo impedì. Inoltre la psicosi per le presunte infiltrazioni comuniste si accentuò in una vera e propria "caccia alle streghe", nei confronti delle persone sospettate di essere comuniste, che fu cavalcata nel 1953, spregiudicatamente dal senatore repubblicano Joseph McCarthy (maccartismo).
Scaduto il mandato, nel 1953, Truman rinunciò ad un'altra candidatura e dopo che fu eletto Dwight D. Eisenhower, compì un viaggio in Europa e in seguito si ritirò a vita privata. Pubblicò due libri di memorie e rimase molto popolare.
Egli diede avvio nel 1953 a una massiccia campagna di propaganda mediatica, detta "Atomo per la pace", che sosteneva la tesi secondo la quale la diffusione della tecnologia nucleare ad uso militare avrebbe giocato un ruolo dissuasivo da nuovi conflitti e sarebbe stata garanzia di pace nel mondo.
Truman (a destra) con il Presidente Lyndon Johnson (30 giugno 1965)
Morì all'età di ottantotto anni, il 26 dicembre del 1972.
Nacque l'8 maggio 1884 nel Missouri, da una famiglia di agricoltori, e fin da giovane lavorò nella fattoria paterna.
Truman a 13 anni
Studiò ad Indipendence, una località nei pressi della quale si era trasferita la sua famiglia, fino ai diciassette anni. Avrebbe voluto continuare gli studi in un'accademia militare, ma non fu accettato per insufficienza di vista, tornò così alla fattoria.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale partì volontario, col grado di tenente. Partecipò alle operazioni di Saint Mihiel e combatté sul fronte delle Argonne diventando capitano.
Al termine del conflitto fu congedato e, tornato a casa, il 26 giugno del 1919 sposò un'amica d'infanzia, Bess Wallace, dalla quale ebbe una figlia, Margaret. Non volendo riprendere l'attività di contadino si unì in società con un commilitone e aprì un negozio di abbigliamento maschile a Kansas City, ma non ebbe successo, a causa anche della crisi del dopoguerra.
Un altro amico che aveva combattuto con lui lo presentò a Tom Pendergast, un potente politico locale, che gli trovò un posto come ispettore delle autostrade nella Contea di Jackson e in seguito lo fece concorrere come candidato per un posto di magistrato. Vinse il concorso, ma, non sapendo nulla di giurisprudenza, frequentò, sempre a Kansas City, una scuola serale.
Nel 1934 fu eletto senatore nelle file del partito democratico. Nel 1941 con la sua fama di uomo onesto fu rieletto.
A questo punto Truman era convinto di aver chiuso la sua carriera politica, ma a sorpresa i dirigenti del Partito Democratico decisero di affiancarlo come vicepresidente a Franklin Delano Roosevelt, preferendolo a Henry A. Wallace, giudicato troppo radicale, in un momento tanto critico per le sorti del mondo. Nel 1944, con il quarto mandato di Roosevelt, divenne vicepresidente e salì alla massima carica alla morte di questi, il 12 aprile del 1945.
Truman in campagna elettorale
Truman aveva allora sessant' anni e rimase completamente scioccato dalla notizia; in seguito scrisse Mi sentii come se il cielo mi fosse caduto addosso. Salì al potere in un momento critico, nelle ultime fasi della seconda guerra mondiale: la Germania era ormai quasi vinta ma rimaneva ancora aperto il conflitto nel Pacifico. È vero che il Giappone si stava avviando verso la sconfitta, ma si riteneva che non avrebbe mai chiesto la resa e la guerra avrebbe rischiato di prolungarsi, con gravi danni per i soldati statunitensi. E Truman si trovò così ad affrontare subito il grave problema se utilizzare la bomba atomica nella guerra.
Durante l'amministrazione Roosevelt, i preparativi per quest'arma, a Los Alamos, erano stati estremamente segreti e lo stesso Truman li ignorava completamente finché non salì al potere. Spettò a lui quindi la grave responsabilità di sganciare la prima bomba atomica su Hiroshima, il 6 agosto 1945, e il 9 la seconda su Nagasaki (si veda Bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki).
« Il mondo sappia che la prima bomba atomica è stata sganciata su Hiroshima, una base militare. Abbiamo vinto la gara per la scoperta dell'atomica contro i tedeschi. L'abbiamo usata per abbreviare l'agonia della guerra, per risparmiare la vita di migliaia e migliaia di giovani americani, e continueremo a usarla sino alla completa distruzione del potenziale bellico giapponese. »
(L'annuncio del presidente degli Stati Uniti Harry Truman del bombardamento nucleare su Hiroshima.)
Questa azione provocò la resa del Giappone e mise fine al secondo conflitto mondiale.
Lo sganciamento delle atomiche provocò una vasta reazione nella comunità scientifica internazionale, che si dissociò e probabilmente avrebbe potuto compromettere lo sviluppo della scienza nucleare.
Truman annuncia la resa della Germania
Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale le relazioni con l'URSS peggiorarono, soprattutto a causa della questione tedesca; ciò portò ben presto a parlare di Guerra fredda. Il punto più critico si ebbe nel 1948 con il blocco di Berlino Ovest da parte dell'Unione sovietica, aggirato grazie all'invio di rifornimenti per via aerea.
Essendo i Paesi europei occidentali impotenti a confronto con l'URSS, egli professò la cosiddetta dottrina Truman, per la quale gli USA dovevano farsi carico della lotta globale contro l'avanzata del comunismo impegnandosi attivamente in ogni Paese che fosse minacciato da essa. L'approvazione del "Piano Marshall", proposto dal suo Segretario di Stato George Marshall, che consisteva in ingenti aiuti economici per la ricostruzione dell'Europa nel dopoguerra, è da inserirsi in questa strategia di contenimento, più che un aiuto umanitario.
Nel 1946 diede impulso allo sviluppo delle armi nucleari approvando gli esperimenti atomici sull'atollo di Bikini nel Pacifico.
Nonostante fosse dato per sconfitto, nel 1948 Truman fu riconfermato alla presidenza e nel 1950 si trovò ad affrontare una grave crisi in Corea. Il 25 giugno dello stesso anno l'esercito comunista della Corea del Nord invase il territorio della Corea del Sud. Si scatenò dunque la Guerra di Corea che vide gli USA in primo piano. Il Consiglio di Sicurezza dell'ONU si oppose all'invasione e Truman pose l'esercito americano sotto la sua egida. La guerra fu molto dura ed alla fine si arrivò ad una situazione di stallo attorno alle posizioni prebelliche. In questo caso Truman si dimostrò molto risoluto, in quanto arrivò a sostituire il generale Douglas MacArthur quando egli minacciò di attaccare anche la Cina, rischiando così un allargamento del conflitto.
Su iniziativa del governo Truman, nel 1949 fu creata la NATO.
Sotto il profilo interno, Truman cercò di continuare la strada delle riforme (il cosiddetto "Fair Deal"), ma la maggioranza repubblicana al Congresso glielo impedì. Inoltre la psicosi per le presunte infiltrazioni comuniste si accentuò in una vera e propria "caccia alle streghe", nei confronti delle persone sospettate di essere comuniste, che fu cavalcata nel 1953, spregiudicatamente dal senatore repubblicano Joseph McCarthy (maccartismo).
Scaduto il mandato, nel 1953, Truman rinunciò ad un'altra candidatura e dopo che fu eletto Dwight D. Eisenhower, compì un viaggio in Europa e in seguito si ritirò a vita privata. Pubblicò due libri di memorie e rimase molto popolare.
Egli diede avvio nel 1953 a una massiccia campagna di propaganda mediatica, detta "Atomo per la pace", che sosteneva la tesi secondo la quale la diffusione della tecnologia nucleare ad uso militare avrebbe giocato un ruolo dissuasivo da nuovi conflitti e sarebbe stata garanzia di pace nel mondo.
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Re: Grandi personaggi della storia
Lenin (Vladimir Ilic Uianov)
Lenin (pseudonimo di Vladimir Ilic Uianov) era nato nel 1870 a Simbirsk (oggi Uianovks) e suo padre era un ispettore scolastico. Gli anni di studio e di adolescenza coincisero con uno dei periodi più travagliati della storia sociale e politica della Russia. Il governo zarista dopo l'uccisione dello zar Alessandro II nel 1881, da parte dei populisti, si era affrettato ad annullare quelle limitate riforme che erano state introdotte durante il decennio precedente. In questo clima con Lenin ancora 17enne, il fratello Alessandro con più anni di lui e a cui era molto affezionato, viene arrestato e condannato a morte sotto l'accusa di aver partecipato alla preparazione di un attentato allo zar. Anche Lenin viene espulso dall'Università di Kazan per la sua adesione a un circolo studentesco di tendenze rivoluzionarie. Si avvicina allo studio del marxismo, e in particolare al Capitale di Marx, poi nel 1893 si trasferisce a Pietroburgo entrando in contatto con il movimento fondato da Plechanov, "Emancipazione nel lavoro". Movimento che confluisce nel 1898 al Congresso di Minsk, nel partito operaio socialdemocratico di Russia (POSDR). Lenin sempre sotto stretta sorveglianza politica, viene alla fine arrestato e condannato a tre anni con la deportazione in Siberia. E qui che nel 1899, porta a compimento il suo primo saggio: Lo sviluppo del capitalismo in Russia; ed è un'altra polemica contro i populisti.
Polemica già iniziata nel 1894 a Pietroburgo con l'articolo " Che cosa sono "Gli amici del Popolo" e come lottano contro i socialdemocratici ". La questione controversa era -sostenevano i populisti- che la Russia a differenza dell'Europa, sarebbe passata dal feudalesimo al socialismo, senza attraversare la fase dello sviluppo capitalistico. La replica di Lenin, fu nel dimostrare con una minuziosa analisi economica e statistica, che l'agricoltura russa era già entrata nella fase del suo sviluppo capitalistico; e che l'idea populista di una rivoluzione contadina, senza la guida della moderna classe operaia (più sveglia, determinata, consapevole politicamente, unita, e forte, pur non essendo ancora numerosa) era quindi un'utopia. Per molti intellettuali radicali, dalla metà dell'Ottocento, il problema centrale era " ma la Russia è Europa? ", questo orientamento dei radicali era chiamato narodnik , da narod popolo; e s'intendevano le masse rurali in cui si scorgeva la base di una società socialista con una versione rivoluzionaria di tipo marxista. Invece per altri intellettuali (con Lenin in prima fila) la Russia faceva parte già dell'Europa o almeno era in via di europeizzazione, ed era già presente il capitalismo e quindi già presente quella classe operaia che doveva prendere la guida della rivoluzione (e fu questo secondo orientamento rivoluzionario che poi si trasformò in bolscevismo).
La prima domanda posta dai radicali, divise i pensatori russi per tutto l'Ottocento e continua a dividerli ancora oggi. Ed anche Marx quella domanda se la pose, e nel 1877 rispose a un saggio di un noto radicale della linea narod secondo il quale la sua teoria Marxista presupponeva " lo scioglimento delle comunità agricole e l'avvento del capitalismo come condizione preliminare all'affermarsi del socialismo ".
Poi Marx dissentì da questa impostazione enunciando altre alternative; che però convinsero poco quelli della narod e meno ancora i loro avversari che seguitarono a guardare in avanti dando ragione solo a quello che Marx aveva affermato in quelle due righe. Quando Lenin poi ottenne la sua vittoria politica, costrinse all'esilio chi preferiva il Marx della prima maniera.
Ma le difficoltà nell'attuazione del socialismo in Russia - sostennero poi i critici di Lenin - sono insite appunto nel tentativo di realizzare una rivoluzione proletaria in un paese che era prevalentemente agricolo.
Lenin nel 1901 emigrato in Svizzera fondò un periodico rivoluzionario intitolato Iskra (la scintilla), per guidare e organizzare all'estero le lotte e le agitazioni degli operai russi. Ma al secondo congresso del partito socialdemocratico russo, tenutosi a Londra nel 1903 il partito si spaccò in due fazioni; quella maggioritaria (bolscevica) capeggiata da Lenin e quella minoritaria (menscevica) capeggiata da Plechanov e altri: i Menscevichi volevano instaurare un movimento sul modello della Socialdemocrazia tedesca, i Bolscevichi guardavano invece alla rivoluzione e volevano un partito 'di quadri', costituito da pochi esponenti altamente qualificati che guidassero la rivoluzione.
In effetti, in Germania, dove spazio per la democrazia ve n'era (sebbene poi il parlamento, con Bismarck, non contasse nulla), poteva avere un senso un movimento di massa quale la Socialdemocrazia; ma in una realtà quale la Russia, in cui ogni cosa che si intraprendeva naufragava miseramente e tutto era dominato dal rigido regime zarista, aveva molto più senso un movimento elitario a mò di setta segreta, una sorta di seme sotto la neve , per dirla con Silone, che sotto la fredda coltre dell'inattivo regime zarista in mano allo stregone ciarlatano Rasputin, potesse cogliere il momento opportuno per dare una fioritura magnifica.
Lenin intendeva creare l'organizzazione del partito con una struttura fortemente centralizzata alla quale dovevano essere ammessi solo i "rivoluzionari di professione", non le masse popolari (sul modello della Socialdemocrazia tedesca). La divisione interna si approfondì in occasione della rivoluzione del 1905, scoppiata a seguito dell'ingiuriosa sconfitta inflitta dai Giapponesi ai Russi . I menscevichi intendevano lasciare la guida della rivoluzione alle forze della borghesia liberale russa, mentre Lenin pur riconoscendo il carattere democratico-borghese della rivoluzione, sosteneva che essa dovesse essere capeggiata dalla classe operaia e dai contadini, giudicando che la borghesia russa, per la sua debolezza, sarebbe stata incapace di portare la rivoluzione sino all'abbattimento dello zarismo e avrebbe sempre ripiegato su un compromesso con la monarchia e con l'aristocrazia terriera. ' Quando Lenin andò all'estero all'età di trent'anni ' racconta Trotsky, che proprio a Londra, dopo essere fuggito dalla Siberia, lo conobbe per la prima volta, ne La mia vita, ' era già completamente maturo. In Russia, nei circoli studenteschi, nei gruppi socialdemocratici e nelle colonie degli esiliati, egli era un personaggio di spicco. Non poteva non realizzare questo suo potere, se non altro per il fatto che chiunque lo incontrasse o lavorasse con lui glielo dimostrava in modo chiaro. Quando lasciò la Russia, possedeva già un ottimo equipaggiamento teorico ed un solido bagaglio d'esperienza rivoluzionaria.
All'estero, c'erano collaboratori che lo attendevano: il gruppo di 'Emancipazione del lavoro' e, primo fra loro, Plechanov […] 'con questi Lenin entrò presto in contrasto, ' ma Lenin era vigoroso. Tutto ciò di cui necessitava era la convinzione che i più anziani erano incapaci di assumersi una leadership diretta dell'organizzazione militante dell'avanguardia proletaria nella rivoluzione ch'era chiaramente vicina. I più anziani - e non erano gli unici - si sbagliavano nel loro giudizio; Lenin non era semplicemente un rimarcabile lavoratore del partito, egli era un leader, un uomo in cui ogni fibra era tirata verso il raggiungimento di un fine particolare, un uomo che infine, dopo aver lavorato fianco a fianco coi più anziani, aveva realizzato di essere un leader e di essere più forte e più necessario di loro. Nel mezzo degli ancor vaghi atteggiamenti che eran comuni nel gruppo che sorreggeva le bandiere dell'Iskra, Lenin solo, ed in modo definito, concepiva il 'domani', con tutte le sue severe fatiche, i suoi crudeli conflitti e le innumerevoli vittime '.
Dopo il fallimento della rivoluzione del 1905 (conclusasi in un bagno di sangue per il movimento operaio, fucilato sulle piazze dalla polizia), si videro i bolscevichi e i menscevichi impegnati sempre di più in questa aspra polemica; i secondi si identificavano sempre di più con il movimento di "revisione" del marxismo rivoluzionario, inaugurato in Europa occidentale da Bernstein.
Ma la rottura definitiva si completa nella II Internazionale e con lo scoppio della prima guerra mondiale. La parola d'ordine di Lenin è quella di trasformare la "guerra imperialista" in "guerra civile": Lenin era sì convinto che la guerra imperialista fosse un male, ma tuttavia ne vedeva anche gli aspetti positivi. Tutto stava nel riuscire a trasformare la guerra in rivoluzione e così effettivamente fu. Tuttavia il partito bolscevico, a differenza di quello menscevico, fu contrario alla guerra e la Russia bolscevica, all'indomani della rivoluzione, pur di uscire dalla guerra stipulerà accordi con le nazioni nemiche a tal punto sfavorevoli che Lenin li definirà 'vergognosi'.
L'unico scontro conflittuale riconosciuto dai Bolscevichi era, del resto, lo scontro di classe, non la guerra, quell'inutile strage contro cui Lenin si scaglia in chiusura di Stato e Rivoluzione : La deformazione e la congiura del silenzio intorno al problema dell'atteggiamento della rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato non potevano mancare di esercitare un'immensa influenza, in un momento in cui gli Stati, muniti di un apparato militare rafforzato dalle competizioni imperialiste, sono diventati dei mostri militari che mandano allo sterminio milioni di uomini per decidere chi, tra l'Inghilterra e la Germania, tra questo o quel capitale finanziario, dominerà il mondo. Quando scoppia la Rivoluzione in Russia nel febbraio del 1917 Lenin era ancora esule in Svizzera. Rientrato a Pietroburgo con la sua celebre Tesi di Aprile traccia il programma per l'abbattimento del governo liberal-democratico nel frattempo salito al potere dai Cadetti (di ispirazione liberale) e per il passaggio della rivoluzione alla sua fase socialista.
Nei successivi mesi compone la sua famosa opera Stato e Rivoluzione , poi guida l'insurrezione di Ottobre che si conclude con la formazione del primo governo sovietico da lui capeggiato. Gli anni dal 1918 al 1921, sono gli anni del "comunismo di guerra", della "nuova politica economica", ma anche dei forti contrasti con Stalin, che Lenin non può più avversare ma di cui ha già presagito la pericolosità (celebre è lo scritto ' Quello Stalin è pericoloso ') , gravemente ammalato muore il 21 gennaio del 1924, all'età di 54 anni.Alla fine del secolo diciannovesimo, Lenin dovette sostenere, prima in Russia e poi all'estero, una dura lotta contro i "marxisti legali" e gli "economisti". In quegli anni particolarmente difficili, carichi di contraddizioni sociali ed economiche, privi di una vera prospettiva rivoluzionaria, in quanto il movimento socialdemocratico era ancora troppo debole, soprattutto nei livelli direttivi, il marxismo legale era riuscito a emergere nella letteratura sottoposta a http://michaeljackson.forumup.it/images/smiles/mistick_silence.gif solo perché il governo zarista, vendendolo impegnato a combattere le idee populiste, pensava che fosse una corrente meno pericolosa. In realtà i marxisti legali contribuivano alla diffusione del marxismo rivoluzionario, benché tale teoria -osserva Lenin- venisse esposta in un "linguaggio esopico", cioè indiretto, mediato, non trasgressivo. Il progressivo declino del populismo fece diventare il marxismo molto popolare in Russia.
Lenin e la sua "Unione di lotta" non disdegnavano l'intesa con i marxisti legali in funzione antipopulistica, pur essendo consapevoli che tali pseudo-marxisti erano nati dalla fusione di "elementi estremisti con elementi molto moderati". Quando infatti -dopo che il governo s'accorse della loro pericolosità- ci si trovò di fronte all'alternativa di radicalizzare il taglio rivoluzionario degli interventi o di rinunciarvi definitivamente, la maggioranza dei marxisti legali non ebbe dubbi: scelse il revisionismo di Bernstein. A questo punto la rottura, fra marxismo rivoluzionario e legale, divenne inevitabile. Gli "ex-marxisti" continuarono a scrivere su giornali e riviste autorizzati dal governo, rivendicando una piena "libertà di critica" nei confronti dello stesso marxismo, ma questa volta con lo scopo principale di subordinare il movimento operaio agli interessi della borghesia. Affermavano, da un lato, che lo sviluppo capitalistico in Russia era una necessità storica, ma, dall'altro, non ne chiedevano il superamento immediato. Il loro marxismo era "senza socialismo".
Molti di questi "compagni di strada" -come li chiamava Lenin- diventeranno dei "cadetti" (il partito principale della borghesia russa) e persino delle "guardie bianche" durante la guerra civile. Nel tentativo di superare gli evidenti limiti del marxismo legale, si sviluppò all'interno del movimento socialdemocratico una corrente più pratica e concreta, ma unicamente interessata a risolvere i problemi di natura sindacale: era la corrente che Lenin chiamava col nome di "economicismo". Non si trattava di una vera alternativa al marxismo legale ma di un suo complemento. Sul piano "legale" infatti si continuava a predicare, anche da parte degli economicisti, la fusione degli intellettuali marxisti coi liberali, mentre su quello "illegale" si chiedeva agli operai di lottare sindacalmente contro i padroni. Gli economicisti -che, come dice Lenin, rifuggivano da qualsiasi " discussione teorica, dissenso di frazione, ogni vasta questione politica, ogni progetto di organizzare i rivoluzionari ecc. "- avevano un loro manifesto: il Credo (redatto dalla Kuskova), che Lenin e altri 17 compagni sottoposero a dura critica scrivendo dalla prigione siberiana la Protesta dei socialdemocratici russi (1899).
Con la Protesta, pubblicata sul Raboceie Dielo, Lenin rivendicava l'unità della lotta economica della classe operaia con quella politica e condannava il revisionismo di Bernstein, che voleva trasformare il partito operaio da rivoluzionario a riformista, spazzando via l'ingrediente fonfdamentale del marxismo: la rivoluzione . Lenin e gli altri autori della Protesta volevano integrare la battaglia contrattuale della classe operaia con una lotta politico-rivoluzionaria organizzata in un partito indipendente, che portasse, anche attraverso il consenso e l'appoggio degli elementi democratico-borghesi del Paese, all'emancipazione di tutti i lavoratori oppressi. Nello stesso tempo Lenin scrisse, fra le altre cose, Il nostro programma , che però rimase inedito fino al 1925. In esso si costatava che l'opinione dominante in seno alla socialdemocrazia russa considerava il marxismo rivoluzionario "invecchiato e inadeguato".
L'influenza del revisionismo si faceva sempre più sentire. Alla stregua di Bernstein ci si limitava -dice Lenin- ad elaborare "piani per riorganizzare la società", a proporre "ai capitalisti e ai loro reggicoda il modo di migliorare la situazione degli operai", a predicare agli operai "la teoria dell'arrendevolezza". Lenin si rendeva conto che un'interpretazione dogmatica del marxismo poteva trasformare questa scienza in una fraseologia senza senso; però teneva a precisare che qualsiasi critica del marxismo non poteva andare oltre le "pietre angolari" da esso poste, "i principi direttivi generali".
La teoria di Marx -diceva Lenin nel Programma- non è qualcosa di "definitivo e di intangibile"; i socialisti devono anzi farla progredire "se non vogliono lasciarsi distanziare dalla vita"; ma con ciò -prosegue Lenin- resta vero che mai potrà esistere "un forte partito socialista se manca una teoria rivoluzionaria che unisca tutti i socialisti". Queste idee Lenin, a causa delle persecuzioni dell'infame regime zarista, dovette portarle avanti all'estero. Con l'aiuto di molti compagni pubblicò per tre anni il giornale Iskra. Nell'importante articolo di fondo scritto nel primo numero, I compiti urgenti del nostro movimento , Lenin, rifiutando le teorie opportuniste dell'economicismo, rivendicava l'unità del socialismo col movimento operaio. Solo mediante questa unità si poteva -a suo giudizio- superare la mera attività propagandistica esercitata, a livello di circolo, dai socialdemocratici russi negli ultimi decenni e, nel contempo, evitare che il movimento operaio e il socialismo cadessero nell'ideologia borghese o degenerassero nello sterile terrorismo individuale (come quello dell'organizzazione clandestina "Volontà del popolo", che, dopo aver assassinato nel 1881 lo zar Alessandro II, venne immediatamente liquidata dal governo).
L'unità, in sostanza, era indispensabile non solo per l'"ortodossia" del socialismo, ma anche per la "ortoprassi" del movimento operaio. "Nessuna classe della storia -dice Lenin nell'articolo suddetto- ha conquistato il potere senza esprimere dei propri capi politici, dei propri rappresentanti d'avanguardia capaci di organizzare e dirigere il movimento". A contatto con le organizzazioni socialdemocratiche all'estero, Lenin poteva facilmente rendersi conto di come la tendenza economicistica avesse acquistato sempre più seguaci. Infatti, dopo il giornale Rabociaia Mysl, stampato in Russia, anche la rivista Raboceie Dielo, stampata a Ginevra, decideva, a partire dal numero 10, di compiere la svolta revisionista verso l'economicismo. Alle giustificazioni ch'essa ne dava, e cioè: 1) l'inesistenza delle condizioni "oggettive" per compiere una rivoluzione (donde l'inutilità di organizzare un partito politico); 2) il timore di vedere la propria attività equiparata a quella dei terroristi - Lenin ribatteva dicendo: 1) "si deve lavorare per creare un'organizzazione combattiva e condurre un'agitazione politica in qualsiasi situazione", anzi, proprio nei momenti di declino dello "spirito rivoluzionario" è particolarmente necessario tale lavoro, "poiché nei momenti degli scoppi e delle esplosioni non si farebbe in tempo a creare un'organizzazione"; 2) "oggi il terrorismo non viene affatto proposto come un'operazione dell'esercito operante, strettamente legata e adeguata a tutto il sistema di lotta, ma come mezzo di attacco singolo, autonomo e indipendente da ogni esercito" (così in due articoli pubblicati nei numeri 23 e 24 dell'Iskra). In altre parole, la situazione di quel momento storico non era "oggettiva" per la rivoluzione solo in questo senso, che non si doveva compiere un "assalto frontale" alle postazioni nemiche prima di aver organizzato debitamente un "regolare assedio". E, allo scopo -pensava Lenin-, nulla era più indispensabile di un giornale politico panrusso: ecco perché era nata l'Iskra. "La maggiore o minore frequenza e regolarità dell'uscita (e diffusione) del giornale -diceva Lenin, con grande senso della concretezza- potrà essere l'indice più esatto della solidità con la quale saremo riusciti a organizzare [il settore della] propaganda e dell'agitazione multiformi e conseguenti". La scelta di un giornale politico, comune a tutto il marxismo rivoluzionario, era stata imposta dalla situazione di frazionamento localistico del movimento operaio.
Essendo "l'enorme maggioranza dei socialdemocratici quasi completamente assorbita dal lavoro puramente locale", l'instabilità e l'incertezza del movimento e dei suoi dirigenti diventavano un fatto inevitabile. Ciò spiega il motivo per cui il giornale non era nato solo per svolgere un ruolo di propagandista e agitatore collettivo, penetrando, attraverso il proletariato, "nelle file della piccola borghesia urbana, degli artigiani rurali e dei contadini", che avrebbe conquistato alla rivoluzione: esso doveva pure svolgere la funzione di "organizzatore collettivo". Nel senso cioè che la rete di "fiduciari" del partito preposta alla redazione e diffusione del giornale, doveva mantenere strettissimi legami "con i comitati locali (gruppi, circoli) del partito", o almeno con quelli che desideravano la loro unificazione in un partito. Attraverso questo lavoro tutti i militanti avrebbero avuto la possibilità non solo di osservare gli avvenimenti da un punto di vista nazionale, ma, in virtù dell'organizzazione capillare, anche l'opportunità d'intervenire direttamente su tali avvenimenti. Gli stessi militanti insomma dovevano diventare i protagonisti dell'Iskra. Un altro importante articolo pubblicato sul no 12 del giornale è il Colloquio con i sostenitori dell'economicismo. Qui Lenin risponde, approfondendo gli argomenti soprattutto nel capitolo Secondo di Che fare? , a una lunga lettera che "un gruppo di compagni" aveva fatto pervenire alla redazione del giornale. In particolare, Lenin rilevava il fatto che "i dirigenti coscienti sono in ritardo sullo sviluppo del movimento spontaneo della massa operaia e degli altri strati sociali". Ai dirigenti, di cui il movimento dispone, mancano le cose più necessarie: solida teoria, vasti orizzonti politici, energia rivoluzionaria, capacità organizzativa. Il grave però è che "dalla fine del 1897 e specialmente dall'autunno del 1898" -dice Lenin-, cioè proprio quando si è voluto costituire il partito operaio socialdemocratico, essi hanno fatto di questi difetti una "virtù", portando il "ritardo" della coscienza rivoluzionaria al livello di una "giustificazione teorica".
Tutte le questioni che in quel periodo più urgevano nel dibattito interno alla socialdemocrazia russa, saranno efficacemente sintetizzate e magistralmente risolte in Che fare? (1902), il libro più importante che Lenin scrisse prima della rivoluzione del 1905. Dopo la svolta del Raboceie Dielo verso l'economicismo, con la quale, fra l'altro, s'impedì d'unificare le organizzazioni socialdemocratiche all'estero in nome del marxismo rivoluzionario, Lenin fu costretto a radicalizzare, anche nello stile letterario, i termini dello scontro. Rendendosi d'altra parte conto che l'economicismo aveva molto più seguito di quel che non si credesse, egli non poteva agire diversamente. L'opposizione fra le due correnti di pensiero era per lui così netta da imporre una "chiarificazione sistematica" su tutti gli aspetti fondamentali del dissenso. Proprio nella drammaticità del confronto con il marxismo "ufficiale", "dominante", venivano alla luce le indicazioni più sicure da seguire.
La "libertà di critica" è il primo aspetto che Lenin esamina nella sua importante opera anti-opportunista Che fare? Trattasi di quella libertà che i marxisti legali e soprattutto gli economicisti, in Russia, si erano presi per indurre il neonato Posdr a trasformarsi da rivoluzionario a riformista. Emulando i colleghi revisionisti di Germania e Francia, essi chiedevano di rinunciare alla pretesa di dare un fondamento scientifico al socialismo e di limitarsi ad accettarlo solo sul piano utopistico, in quanto l'opposizione di principio fra socialismo e liberalismo era per loro inesistente. Essi inoltre negavano il fatto della crescente miseria sociale, cioè della proletarizzazione di ampi strati sociali e dell'inasprimento delle contraddizioni capitalistiche. Respingevano, in sostanza, la teoria della lotta di classe e l'idea della dittatura del proletariato. In un contesto del genere, la "libertà di critica" -pensava Lenin- altro non significava che "critica borghese di tutte le idee fondamentali del marxismo". Naturalmente la novità non era piovuta dal cielo. "Già da tempo -scrive Lenin- si muoveva contro il marxismo questa critica dall'alto della tribuna e della cattedra universitaria, in innumerevoli opuscoli e in una serie di dotti trattati; da decine di anni tutta la nuova gioventù delle classi colte è stata educata a questa critica". In pratica, la linea opportunistica del marxismo era stato il risultato di un trasferimento di concezioni borghesi dalla letteratura liberale a quella socialista.
A livello europeo i migliori rappresentanti di questa nuova tendenza erano Bernstein, sul piano teorico, e Millerand su quello pratico. Avvalendosi della "libertà di critica" come di una rivendicazione politica, essi e gli economicisti in genere evitavano di confrontarsi con le tesi del marxismo rivoluzionario, tacciato preventivamente di "dogmatismo". Ma in tal modo -spiega bene Lenin- la tanto declamata parola d'ordine, libertà di critica anche nei confronti del marxismo, "si riduceva all'assenza di ogni critica", anzi, "all'assenza di ogni giudizio indipendente". Di nuovo, in realtà, c'era solo questo, che "l'urto delle diverse tendenze in seno al socialismo si era per la prima volta trasformato da nazionale in internazionale". Storicamente parlando, gli economicisti rappresentarono una reazione all'intellettualismo parolaio dei marxisti legali. Là dove, nell'ultimo decennio dell'800, si lottò con successo contro il populismo, paventando però l'idea della rivoluzione proletaria, qui invece si pretendeva una maggiore concretezza, una più sollecita attenzione ai problemi di natura sindacale dei lavoratori, benché i tempi -a giudizio di Lenin- fossero maturi per ben altro che non per una semplice politica tradunionista.
Di fronte alle posizioni rinunciatarie e rigorosamente circoscritte, a livello sia teorico che pratico, degli economicisti, Lenin raccomandava anzitutto di "riprendere [sottoponendolo a critica] quel lavoro teorico appena cominciato all'epoca del marxismo legale"; dopodiché occorreva rimediare alla confusione e all'esitazione prodotte dagli economicisti nel movimento "pratico". "Libertà di critica [per gli opportunisti] non significa -scriveva Lenin- la sostituzione di una teoria con un'altra, ma la libertà da ogni teoria coerente e ponderata, eclettismo e mancanza di principi".
Quando una tendenza del genere diventa dominante nel movimento operaio o addirittura nel partito, non resta che separarsene - e Lenin operò appunto in questa direzione. "Ci hanno biasimato -disse- per aver costituito un gruppo a parte e preferito la vita della lotta alla via della conciliazione". Ma non si trattava di settarismo o di frazionismo fine a se stesso. Il fine era quello di realizzare l'unità della classe operaia con un'avanguardia rivoluzionaria. E perché questo potesse avvenire "occorreva anzitutto -dice Lenin- definirsi risolutamente e nettamente" (un'altra traduzione italiana usa il termine delimitarsi). Quando l'unità di un partito o di un movimento è palesemente, irrimediabilmente nociva agli interessi della verità delle masse che aspirano a liberarsi dallo sfruttamento capitalistico, non resta che denunciarla, che rompere il suo formalismo e la sua ipocrisia, ricostituendola su fondamenta più solide, soprattutto più autentiche. Certo, sarà il consenso delle masse popolari a decidere dell'efficacia di una iniziativa del genere. D'altra parte "senza teoria rivoluzionaria -ha detto Lenin- non ci può essere movimento rivoluzionario": "la predicazione opportunistica venuta di moda, viene accompagnata dall'esaltazione delle forme più anguste di azione pratica". Non deve dunque spaventare l'idea d'essere una piccola minoranza (cosa peraltro inevitabile agli inizi); è invece indispensabile avere le idee chiare, saper dove andare, lottare contemporaneamente sul fronte teorico, politico ed economico - questo l'insegnamento che si trae dalle prime pagine di Che fare? .
Nell’esordio dell’importante libro Che fare? , in particolare nel capitolo dedicato alla “libertà di critica” degli opportunisti, Lenin imposta e conduce la sua battaglia sul fronte “teorico”, un fronte che nel capitolo 2° viene approfondito a livello “filosofico” e “ideologico”, per poi esplicitarsi compiutamente in modo “politico” nel capitolo successivo e “organizzativo” negli ultimi due (il primo dei quali di carattere generale, mentre l’altro -delineante il piano di un giornale politico panrusso- a titolo esemplificativo). Il capitolo 2° porta come titolo significativo: La spontaneità delle masse e la coscienza della socialdemocrazia. Lo scopo che lo muove è quello di dimostrare la validità di una precisa tesi posta nella premessa: “La forza del movimento contemporaneo consiste nel risveglio delle masse (e principalmente del proletariato industriale) e la sua debolezza nella mancanza di coscienza e d’iniziativa dei dirigenti rivoluzionari”.
Per “risveglio spontaneo delle masse” Lenin intende quelle manifestazioni popolari di protesta, tipo scioperi, tumulti, distruzioni di macchine ecc., che in Russia, a partire dal 1890, avvennero non con una coscienza esatta della natura dello sfruttamento, ma con l’istinto, giunto a maturazione, di ribellarvisi senza indugio. Il sentire la necessità di una resistenza collettiva, ovvero il bisogno di rompere risolutamente “con la sottomissione servile all’autorità”, faceva parte appunto di quegli atteggiamenti “di disperazione e di vendetta” che, se solo fosse esistita una direzione cosciente e attiva degli intellettuali, avrebbero potuto aprire le porte alla lotta rivoluzionaria vera e propria. “L’elemento spontaneo infatti non è che una forma embrionale della coscienza”. Lenin non sta qui a discutere, in astratto, su quale debba essere il rapporto ideale tra spontaneità delle masse e coscienza dei dirigenti. Il problema, per lui, non stava neppure nel criticare quei dirigenti che non avevano saputo prevedere l’evolversi dei tempi. Certo, questo era un difetto che andava corretto. Ma il problema più grave da risolvere restava un altro, e precisamente quello di come valorizzare la spontaneità delle masse portandola a un livello di consapevolezza politica, tale per cui l’istintiva protesta fosse indotta a rifiutare una semplice opposizione “legale” o “settoriale” al sistema. Per Lenin ciò che più contava era che il dirigente sapesse convincere le masse ad avvertire i loro interessi generali e quelli del sistema di sfruttamento come direttamente antitetici. In effetti, per cambiare qualitativamente la situazione non basta la coscienza di sentirsi sfruttati, né quella di voler reagire in qualche modo: occorre piuttosto -dice Lenin- avere coscienza che l’antagonismo fra gli interessi degli operai e di tutto l’ordinamento politico-sociale capitalistico è irrimediabilmente inconciliabile. Cioè l’antagonismo tra capitale e lavoro non è relativo ma assoluto. Questo significa che se le masse si limitano a una protesta spontanea e locale, al massimo riusciranno ad ottenere una parziale vittoria sul terreno economico, potranno cioè sentirsi soddisfatte d’aver conseguito nell’immediato determinati obiettivi contrattuali, ma in nessun modo esse saranno riuscite ad eliminare i motivi di fondo che le obbligano, con maggiore o minore frequenza e intensità, ad avanzare queste ed altre rivendicazioni.
Ora, perché le masse si rendano conto della realtà di questo irriducibile antagonismo non basta -dice Lenin- che la loro situazione economica peggiori drammaticamente: occorre anche che vi siano dei dirigenti capaci d’iniziativa rivoluzionaria sulla base d’una teoria scientifica, oggettiva. Le masse cioè, in virtù dell’apporto di questi dirigenti, devono arrivare a trasformare la loro lotta sindacale in una lotta generale, rivoluzionaria, per la conquista del potere politico. E perché questo accada occorre ch’esse abbiano la coscienza esatta dei termini dell’antagonismo. Una coscienza del genere può essere il frutto solo di uno studio approfondito, scientifico, uno studio che l’operaio normalmente non fa, sia perché non ne ha il tempo materiale, sia perché non rientra nei suoi immediati interessi. “La classe operaia, con le sole sue forze -dice Lenin-, è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionistica, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni ecc.”. Ma in tal modo essa non giunge mai a considerarsi in “alternativa” a tutto il sistema: lotta sì contro il capitale ma sentendovisi legata. Il fatto stesso di dover lavorare alle sue totali dipendenze, subendone i ritmi e le condizioni di lavoro, le impedisce di assumere una posizione radicale, capace di trasformare la rivendicazione economica in una lotta politica di carattere generale. Ecco perché la coscienza rivoluzionaria “può essere apportata alla classe operaia solo dall’esterno”. Da chi precisamente? Da quell’intellettuale (od operaio colto) che dopo aver compreso il carattere inconciliabile delle contraddizioni capitalistiche, si dedica a tempo pieno, sostenuto dal partito, alla lotta politico-rivoluzionaria, organizzando le forze di quelle classi sociali i cui interessi sono antagonistici agli interessi del capitale. Un operaio “cosciente”, cioè un operaio che sa quanto l’emancipazione della sua classe corrisponda all’emancipazione di tutti i lavoratori, è un operaio che deve essere valorizzato più come “militante” del partito che non come “lavoratore” della fabbrica. L’ideologia politica che aiuta meglio a comprendere la necessità di un rivolgimento totale della società è -come noto- il socialismo scientifico. “La dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate -dice Lenin- dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali”. Anche in Russia il socialismo scientifico è sorto “come risultato naturale ed inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli intellettuali socialisti rivoluzionari”. Lo sviluppo della teoria, pur basandosi sulla prassi storico-sociale, procede indipendente da questa e può giungere a intravedere delle soluzioni finali ai problemi fondamentali delle classi sociali, mentre la coscienza di tali classi è ancora ferma a un tipo di lotta parziale, riduttiva, contro il capitale. Ciò che il leader rivoluzionario deve assolutamente evitare è che lo sviluppo spontaneo delle masse arrivi a soffocare -seppure in modo spontaneo- lo sviluppo della loro propria coscienza. Quando si è consapevoli dell’irriducibile antagonismo fra capitale e lavoro non si può mai giustificare lo spontaneismo delle masse adducendo, come pretesto, la mancanza di condizioni oggettive per la rivoluzione. Se queste condizioni mancassero non vi sarebbe neppure la loro coscienza riflessa. “Se certi elementi spontanei dello sviluppo -dice Lenin- sono accessibili in generale alla coscienza umana, l’errata valutazione di essi equivarrà a una sottovalutazione dell’elemento cosciente. E se sono inaccessibili, noi non li conosciamo e non ne possiamo parlare”. Il che vuol dire, in altre parole: se il dirigente non prende coscienza dello sviluppo spontaneo della rivolta, quando questa c’è, non sottovaluta l’elemento spontaneo, ma la sua stessa coscienza. Ora, sottovalutare la coscienza rivoluzionaria significa subordinare il movimento alla spontaneità e questo, nelle condizioni del capitalismo, significa, inevitabilmente -come dice Lenin- determinare “un rafforzamento dell’influenza dell’ideologia borghese sugli operai”. Ciò in quanto: 1) “in una società dilaniata dagli antagonismi di classe non potrebbe mai esistere un’ideologia al di fuori o al di sopra delle classi”; 2) “l’ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione”.
Ecco perché “quanto più giovane è il movimento socialista di un determinato Paese, tanto più energica dev’essere la lotta contro tutti i tentativi di consolidare l’ideologia non socialista”. Né si deve pensare che il pericolo dell’”imborghesimento” degli operai sia infondato solo perché essi vanno “spontaneamente” verso il socialismo. Che essi ci vadano è dovuto al fatto che la teoria socialista sa meglio interpretare le cause di tutti i loro mali; cionondimeno, se l’adesione immediata, istintiva, non viene approfondita in sede scientifica e non trova nella prassi un adeguato impegno rivoluzionario, l’ideologia borghese, che è “la più diffusa e che resuscita costantemente nelle più svariate forme”, non tarderà a imporsi nuovamente, spontaneamente, alla coscienza dell’operaio.
Paradossalmente è proprio il movimento meramente spontaneo delle masse che conduce al rifiuto (inconsapevole) del socialismo. In sintesi, la teoria riflette sempre una realtà che la precede, ma essa la riflette adeguatamente solo se sa portare la realtà stessa a un livello di autoconsapevolezza critica. Traendo insegnamento dagli errori interpretativi compiuti nel passato, il socialismo scientifico deve saper portare la spontaneità del movimento operaio ad un livello cosciente e rivoluzionario. La spontaneità è la forma istintiva, immediata di lotta: “I primi mezzi di lotta che cadono sottomano saranno sempre nella società contemporanea [capitalistica] i mezzi tradunionistici”.
Lenin tuttavia non ha alcuna intenzione di accusare lo spontaneismo in sé: la sua critica è rivolta a quegli intellettuali che lo giustificano per impedire agli operai di sviluppare una coscienza veramente rivoluzionaria. Egli infatti afferma che “quanto più è grande la spinta spontanea delle masse, quanto più il movimento si estende, tanto più aumenta, in modo incomparabilmente più rapido, il bisogno di coscienza nell’attività teorica, politica e organizzativa”. L’intellettuale che non comprende questo fa, anche senza volerlo, gli interessi del capitale. “Dal fatto che gli interessi economici esercitano una funzione decisiva non consegue affatto che la lotta economica (professionale) sia di sommo interesse, poiché gli interessi essenziali, “decisivi”, delle classi possono essere soddisfatti solamente con trasformazioni politiche radicali”. E’ da questa e da altre analoghe affermazioni di Lenin, contenute in Che fare?, che si è compreso come nell’imperialismo si sia attuato, nell’ambito del marxismo, il passaggio dal primato dell’economia a quello della politica.
E' impressionante la sicurezza con cui Lenin afferma, in Che fare? , che la coscienza politica di classe può essere portata all'operaio solo dall'esterno, cioè dall'esterno della lotta economica o della sfera dei rapporti contrattuali tra operai e imprenditori: ‘ la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni ‘ egli scrisse. Perché questa necessità? Perché l'operaio che lotta sindacalmente contro l'imprenditore capitalistico non ha per questo la consapevolezza che la sua stessa lotta economica, se non si traduce in lotta politica, non serve che a perpetuare il suo sfruttamento. "La politica tradunionistica della classe operaia -dice Lenin- è precisamente la politica borghese della classe operaia". Ora, un operaio che ha consapevolezza di questo non può continuare a fare l'operaio: deve lottare per un fine superiore, organizzando la propria attività in modo politico. "Le masse non impareranno mai a condurre la lotta politica fino a quando non contribuiremo a educare dei dirigenti per tale lotta, sia fra gli operai colti che fra gli intellettuali".
Ma come può un operaio passare dalla lotta economica a quella politica? Egli deve acquisire la consapevolezza che tutta la società borghese va superata e non solo il suo rapporto contingente coll'imprenditore. Se non ha consapevolezza di questa necessità di ordine generale, se non ha rinunciato a tutte le illusioni sulla possibilità di "riformare" la società borghese, egli continuerà per tutta la vita a chiedere aumenti salariali o migliori condizioni di lavoro, senza mai riuscire a superare l'idea in sé dello sfruttamento. Noi invece -dice Lenin- "dobbiamo occuparci di spingere coloro che sono insoddisfatti [di singoli aspetti sociali] a convincersi che quel che non va è l'intero regime politico". Ma, di nuovo, come può l'operaio acquisire tale consapevolezza politica? E' forse l'intellettuale che deve dargliela? Un intellettuale staccato dalle classi sociali non è in grado di fare alcunché. Lenin dice chiaramente che "per dare agli operai cognizioni politiche, i socialdemocratici devono andare fra tutte le classi della popolazione". Ciò in pratica significa che la coscienza politica della necessità di superare in maniera globale la società, può essere solo il frutto di una sensibilizzazione di tutte le classi popolari. Ovvero, quando la stragrande maggioranza è convinta che la società nel suo complesso va superata, ecco che allora si realizza il socialismo. La consapevolezza politica deve maturare nelle masse in modo progressivo, ma chi già la possiede non deve aspettare ch'essa maturi da sola. Egli anzi deve "reagire -dice ancora Lenin- contro ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione, ovunque essa si manifesti e qualunque sia la classe o la categoria sociale che ne soffre". L'operaio cioè di per sé, solo perché "operaio", non ha maggiore consapevolezza politica di chi non lo è.
Perché, secondo Lenin, gli operai non possono avere “la coscienza dell’irriducibile antagonismo fra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo” ? Risposta: perché tale coscienza non riesce a sorgere in loro spontaneamente, naturalmente, ma deve essere data “dall’esterno”, dall’intellettuale consapevole. Lenin arriva a porsi questa domanda guardando la storia del movimento operaio russo, euroccidentale e mondiale. Questa storia dimostra che “la classe operaia con le sole sue forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista”, cioè sindacale. Perché questo limite? Per due ragioni: 1) all’operaio manca il tempo di farsi una consapevolezza teorica dell’irriducibile antagonismo tra lavoro e capitale (non dispone cioè delle condizioni materiali favorevoli); 2) il capitalismo, stando al potere, è in grado di disporre d’ingenti mezzi per propagandare l’ideologia borghese, che è molto più antica di quella socialista: chi detiene il potere materiale detiene anche quello ideologico. Dunque al massimo l’operaio arriva a “sentire”, a “percepire” il suddetto antagonismo, ma non arriva -proprio perché il lavoro da schiavo e il condizionamento dell’ideologia borghese glielo impediscono- a maturare la consapevolezza della necessità di un’alternativa organica, globale, al sistema dominante. Questo è un compito che spetta ai rivoluzionari di professione. “La dottrina del socialismo -dice Lenin- è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali”. Ciò significa ch’esiste un processo autonomo del pensiero, indipendente “dallo sviluppo spontaneo del movimento operaio”, che porta alla consapevolezza della necessità del socialismo. Gli intellettuali progressisti arrivano a “comprendere” sul piano teoretico ciò che gli operai arrivano a “sentire” su quello pratico. Cosa proponeva Lenin? Due cose: 1) permettere anzitutto agli operai dotati di capacità intellettuali, di dedicarsi esclusivamente all’attività politica del partito (le capacità ovviamente vanno dimostrate, cioè possono essere riconosciute solo a-posteriori); 2) far convergere la teoria rivoluzionaria degli intellettuali verso la protesta sindacale degli operai, al fine di creare un movimento di massa capace di prassi rivoluzionaria. Altrimenti la teoria resterà utopica e la prassi velleitaria.
Lo sviluppo coerente di queste due condizioni è in grado di evitare due pericoli: 1) quello di credere che la coscienza dell’irriducibile antagonismo sia un processo che possa maturare solo “dall’esterno” e non anche “dall’interno”; 2) quello di credere che senza “teoria rivoluzionaria” possa esserci una “prassi rivoluzionaria”, ovvero che una “teoria rivoluzionaria”, per funzionare praticamente, possa essere formulata una volta per tutte, e non continuamente riformulata. L’elemento spontaneo e quello consapevole devono quindi integrarsi in un’unica esperienza. Lenin aveva così chiarito il motivo fondamentale per cui, a suo parere, erano falliti tutti i tentativi rivoluzionari condotti in Europa occidentale e in Russia. Ma mentre in Russia si arrivò ad accettare questo suo nuovo modo d’impostare la lotta politica, in Europa invece, in un modo o nell’altro, lo si è sempre rifiutato: sia perché l’individualismo non permetteva di accettare, da parte degli operai, l’idea di una consapevolezza trasmessa dall’esterno; sia perché l’intellettualismo non permetteva di accettare, da parte degli intellettuali, la responsabilità di dover organizzare lo sviluppo di tale consapevolezza in un’esperienza politico- rivoluzionaria.
Qualunque attività (persino quella onirica) ha un significato per il soggetto solo se egli è consapevole. La psicanalisi ha sì scoperto l'inconscio, ma nella misura in cui ha preteso di conoscerlo lo ha reso "conscio", intelligibile. L'inconscio era sicuramente più oscuro e misterioso in quei filosofi romantici tedeschi che ne parlarono prima della psicanalisi (Herbart, Hartmann, Brentano e altri ancora). L'analogia tra questi filosofi e Freud sta nell'aver delineato, dopo aver costatato le contraddizioni della civiltà borghese, un'identità irrazionale dell'inconscio, senza però riuscire a comprendere l'origine economico-sociale di tali contraddizioni; la differenza sta nell'aver cercato di dimostrarlo con esempi concreti: sotto tale aspetto, l'importanza di Freud è decisamente superiore, anche se le sue interpretazioni dei sintomi nevrotici sono spesso arbitrarie. In particolare, Freud ha dimostrato (e qui la differenza da quei filosofi tedeschi è molto netta), che se l'inconscio fosse assolutamente "inconscio", nessuno ne potrebbe parlare, essendo del tutto incomprensibile. In seguito però, Freud è arrivato a sostenere che gli effetti dell'inconscio possono essere rilevanti anche su un soggetto che non ha consapevolezza della propria malattia, in quanto l'Es (fonte di tutti gli istinti) è una forza cieca e irrazionale. Cioè, in pratica, Freud non ha mai abbandonato l'idea tradizionale che l'inconscio fosse una realtà, in ultima istanza, incomprensibile. Questo non gli ha mai permesso di approfondire adeguatamente l'idea secondo cui le nevrosi più significative sono quelle per le quali il soggetto è cosciente della propria alienazione: maggiore è la coscienza e maggiore è la nevrosi, se con una diversa esperienza disalienante non la si risolve. Il che apre le porte alla comprensione del campo delle psicosi, il cui profondo significato sfugge ancora all'indagine analitica. La psicanalisi pretende di conoscere l'inconscio attraverso i sogni, i lapsus, gli errori di lettura, le dimenticanze dei nomi, i tic, le manie..., ma in realtà l'inconscio può essere conosciuto solo in rapporto alla coscienza. Un lapsus ci indica che esiste un inconscio, ma finché non parliamo col soggetto, a partire dal lapsus, interrogandolo sul perché e sul come, noi non faremo un passo avanti. La stessa follia è il frutto di una coscienza distorta delle cose, anche se il soggetto non vuole ammetterlo e ha rimosso nell'inconscio le cause della sua malattia. Non è possibile risalire a queste cause se non passando attraverso la coscienza del malato. Se vogliamo, l'inconscio non ha realtà propria: è come la tasca in cui la mano si nasconde dopo aver gettato il sasso. Nascondiamo la mano perchè ci sentiamo giudicati, da noi stessi e soprattutto dagli altri. Naturalmente è anche possibile che un'azione negativa sia compiuta da un'intera collettività, più o meno grande: in tal caso dovrà essere una coscienza sociale alternativa (che può anche essere minoritaria) a porre il giudizio. L'inconscio, in ogni caso, resta subordinato alla coscienza. Ciò che inoltre si deve accettare è l'idea che non è l'inconscio che può avere la forza di opporsi all'alienazione di una determinata coscienza sociale, ma è la stessa coscienza, la quale può essere superficiale, istintiva, o riflessiva, matura. Parlare di "opposizione inconscia" (p.es. a una ingiustizia, a un'etica formalizzata) altro non vuol dire che parlare dell'opposizione più superficiale della coscienza, destinata a durare poco e a non essere molto efficace. Questo viene in mente leggendo il Che fare? di Lenin (cap.II). "L'elemento spontaneo -dice Lenin- [cioè poco consapevole, istintivo, di cui non si ha ancora piena coscienza e che non permette di acquisirla] non è che la forma embrionale della coscienza". E ancora: "La coscienza dei propri errori [fatti coll'istinto e quindi solo parzialmente consapevoli] equivale già ad una mezza correzione [cioè ad un aumento del lato conscio], ma il mezzo male [cioè la scarsa consapevolezza] diventa un male effettivo quando questa coscienza comincia ad oscurarsi, cioè quando si tenta di giustificare teoricamente la propria sottomissione servile alla spontaneità [o all'inconscio]". Lenin voleva dire che il "mezzo male" (o la mancanza di forte consapevolezza), viene utilizzato dagli intellettuali borghesi, regressivi, come pretesto per non prendere consapevolezza dei propri errori (il che porta a un "male intero"). Il "vero male", quello "totale", nasce quando si vuole imporre la logica dell'inconscio alla coscienza, cioè quando si vuole opporre all'esigenza di un'alternativa, di una transizione, la logica della rassegnazione, dell'opportunismo, del relativismo, sino all'irrazionalismo.
Tuttavia, il male peggiore di tutti -dice Lenin- è quello per cui "il soffocamento della coscienza da parte della spontaneità avviene in modo spontaneo, cioè senza lotta dichiarata fra due concezioni diametralmente opposte", ma attraverso una "lotta occulta", invisibile, difficilissima da combattere. Vi sono degli intellettuali, infatti, che, in piena coscienza, cercano di far passare alle masse, in un modo che dia l'impressione della naturalezza, l'esigenza di conservare inalterato il sistema.
Questa tattica porta gli individui a credere che il prevalere dell'inconscio sulla coscienza delle cose, sia un fatto normale, inevitabile, e non un fatto opinabile, su cui si può e si deve discutere. Lasciare che l'inconscio predomini significa affidarsi alla spontaneità degli eventi, alla casualità del vivere quotidiano, non avere un progetto di vita su di sé, credere ciecamente nel destino o nel potere di un "duce", ovvero lasciarsi dominare dai rapporti di forza. In realtà è la discussione ad essere inevitabile: potrà essere poca o tanta, in rapporto alla coscienza che abbiamo dei nostri problemi, ma è impossibile che non ci sia. Una vita affidata alla spontaneità delle cose può far contento qualcuno, non la maggioranza delle persone o comunque non per un periodo illimitato.
Finché queste persone istintive sono ignoranti e sottomesse, non vi sarà dibattito democratico, ma appena inizia ad aumentare la consapevolezza e la cultura, grazie alle quali possiamo capire gli inganni, i meccanismi dello sfruttamento, la protesta s'impone da sé, anche di fronte alla reazione più dura del sistema. "Se certi elementi spontanei dello sviluppo [sociale] sono accessibili in generale alla coscienza umana -dice Lenin-, l'errata valutazione di essi equivarrà a una sottovalutazione dell'elemento cosciente. E se sono inaccessibili, noi non li conosciamo e non ne possiamo parlare". Dunque, ciò che condiziona negativamente non è tanto l'inconscio, quanto piuttosto il suo prevalere (specie quello teorizzato dagli intellettuali) sulla coscienza. Ecco perchè la spontaneità delle masse esige da parte degli intellettuali progressisti un alto grado di coscienza politica.
Nella storiografia marxista spesso si notano dei giudizi positivi circa il fatto che lo sviluppo degli Stati borghesi implicò la fine delle autonomie locali e regionali, in quanto -si afferma- senza la centralizzazione dei poteri difficilmente la borghesia avrebbe potuto avere la meglio su feudatari e clero. Tuttavia, la stessa storiografia, subito dopo aver costatato il successo della centralizzazione politica, afferma che proprio essa creò nuovi problemi, nuove contraddizioni antagonistiche, che finirono col danneggiare soprattutto gli interessi dei ceti non proprietari. Questo modo di vedere le cose oggi può essere considerato superato, poiché una qualunque forma di centralizzazione dei poteri (anche la più progressista sul piano ideologico), senza una forte democratizzazione a livello locale e regionale, porta sempre a favorire gli interessi di una ristretta minoranza (anche se le intenzioni originarie andavano nella direzione opposta).
Lenin si accorse subito di questo pericolo, ma non ebbe il tempo per scongiurarlo (il suo testamento politico, purtroppo, non venne neppure preso in considerazione). La centralizzazione non può servire a giustificare il superamento più agevole del passato regime, se in tal modo si rischia di compromettere, anche nel breve periodo, l’interesse della maggioranza dei cittadini. Il socialismo sovietico fu favorevole (anche con Lenin) al centralismo, al fine di combattere meglio l’aristocrazia feudo-clericale e la borghesia, e pensò che nel lungo periodo -dopo la vittoria sulla controrivoluzione- le masse avrebbe beneficiato di una ricaduta positiva delle conquiste rivoluzionarie.
Ma tale ricaduta, in realtà, non si è mai verificata, se non in termini molto limitati (relativamente alla situazione socioeconomica, poiché in quella delle libertà civili e politiche la ricaduta non ci fu per nulla). Oggi bisogna affermare che il centralismo può essere condiviso solo a condizione che si affermi, nel contempo, un’ampia democrazia di base e che, in ogni caso, il centralismo ha senso solo se è funzionale alla democrazia e non questa a quello. Nessun centralismo può vincere l’antagonismo sociale e politico senza l’appoggio delle masse.
Nel 1917 Lenin ritorna in Russia dall’esilio svizzero, godendo dell’appoggio del governo tedesco, che ha astutamente capito che nel partito bolscevico (favorevole alla pace) può sperare una breve uscita della Russia dallo scacchiere bellico. Rientrato in Russia, Lenin trova un partito bolscevico dalle idee confuse e decide di stabilizzarlo sfruttando la propria abilità di teorico marxista. Ed è per questo che egli pubblica le celeberrime Tesi d’aprile . In esse si affrontano molti dei problemi che travagliavano la Russia: in primis, come effettuare una rivoluzione in un paese tanto arretrato quale era la Russia. I Menscevichi, in sintonia con il pensiero marxiano, intendevano fare la rivoluzione solo dopo il pieno sviluppo del capitalismo, poiché ritenevano assurdo fare la rivoluzione ancor prima che si fosse giunti al capitalismo.
Lenin la pensava diversamente: ci voleva una rivoluzione immediata, senza passare per il capitalismo, il che sembra assurdo poiché non ha senso fare la rivoluzione socialista in un paese dove non c’è il capitalismo. Ma Lenin sosteneva l’esigenza della rivoluzione proprio per questo: in un paese che di più arretrati non ce n’erano, non aveva senso alcuno che a governare fosse la borghesia. Ne venne fuori una situazione paradossale, in disaccordo con le previsioni di Marx: la piena industrializzazione russa doveva essere gestita non dalla borghesia (come era avvenuto in tutti i paesi europei), bensì dal proletariato. Lenin ci tiene a precisare che il capitalismo non è un fatto di un singolo paese, bensì è un processo di portata mondiale, sicchè non ci si deve aspettare la rivoluzione da paesi capitalisticamente progrediti (quali la Germania o l’Inghilterra), ma dal più arretrato e feudale di tutti (la Russia appunto), poiché essa è ‘ l’anello debole ‘ della catena del capitalismo mondiale.
La rivoluzione sarebbe dunque divampata in Russia (il paese più arretrato) per poi coinvolgere l’intero mondo, trovando il suo epicentro in paesi progrediti quali la Germania o l’Inghilterra: non è dunque corretto parlare di tante e singole rivoluzioni, bensì vi è una sola grande rivoluzione, destinata ad abbattere l’unico capitalismo che infesta il mondo. E del resto, notava Lenin, se la rivoluzione avesse attecchito solo in Russia, una volta terminata la guerra, le grandi potenze reazionarie europee si sarebbero coalizzate per estinguerla brutalmente. Questo ci permette di capire come il Lenin delle Tesi d’ aprile avesse in mente un’idea che verrà poi meglio esplicitata da Trotsky : l’idea di ‘rivoluzione permanente’, che altro non era che la convinzione che la rivoluzione dovesse svilupparsi in tutto il mondo per annientare in esso il capitalismo. Una delle grandi novità proposte da Lenin nelle Tesi d’aprile fu la parola d’ordine ‘ il potere ai soviet ‘: aveva dichiarato aperta ostilità al governo provvisorio di Kerenskij, in nome della lotta intransigente contro la guerra, definita come imperialista indipendentemente dall’assetto politico del paese e aveva espresso la volontà di trasformare il partito di forza minoritaria in forza di maggioranza, guida di una nuova rivoluzione, quella appunto destinata a conseguire il potere ai soviet.
Secondo Lenin il partito bolscevico doveva ‘ spiegare alle masse in modo paziente, sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici, gli errori della loro tattica […], sostenendo in pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai consigli dei deputati operai, perché le masse possano liberarsi dai loro errori sulla base dell’esperienza ‘. Una parola d’ordine che comportava il massimo di democrazia diretta e di autogoverno per le masse popolari veniva così sostenuta attraverso l’esaltazione del ruolo del partito, posto implicitamente al di sopra delle masse stesse, alle quali doveva insegnare a vincere. L’iniziativa spontanea delle masse, che aveva portato ai soviet (Lenin riconobbe sempre il carattere spontaneo delle nuove organizzazioni), doveva assoggettarsi alla direzione del partito: le masse potevano sbagliare, anzi il loro cammino era disseminato di errori, mentre il partito era infallibile. La concezione di Lenin sulla rivoluzione era nettamente diversa da quella di tutte le altre forze socialiste, poiché infatti Lenin, come accennavamo, voleva arrivare immediatamente al regime socialista, senza passare per il capitalismo. In una delle prime Tesi d’aprile egli dice che ‘ l’originalità dell’attuale momento in Russia consiste nel passaggio dalla prima fase della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell’insufficiente grado di coscienza del proletariato alla seconda fase che deve dare il potere al proletariato e agli strati più poveri dei contadini ‘. Lenin voleva arrivare al socialismo bruciando le tappe del capitalismo per diversi motivi: uno di questi consisteva nella convinzione che la guerra avesse creato una crisi profonda degli equilibri politici e dei rapporti di forza nella società in tutta Europa. La Russia sarebbe stato il punto di partenza della rivoluzione che avrebbe presto (secondo Lenin) raggiunto tutto il pianeta proprio perché essa era l’anello debole della catena imperialista, ovvero era il paese in cui il rovesciamento del potere esistente era più facile e rapido.
Questa tesi era già stata sostenuta con grande precisione da Lenin, nel marzo 1917, dall’esilio svizzero: ‘ la Russia è un paese contadino, uno dei paesi più arretrati d’Europa. Il socialismo non vi può vincere direttamente e immediatamente. Ma il carattere contadino del paese […] può dare alla rivoluzione democratica borghese in Russia un’ampiezza formidabile e far sì che la nostra rivoluzione sia il prologo della rivoluzione socialista mondiale, sia un passo verso di essa ‘. Giocava poi a favore della Russia un altro fattore, notava Lenin: la rivoluzione in Russia non avrebbe assunto il carattere di rivoluzione proletaria (come nel resto d’Europa), non sarebbe cioè stata una ribellione di una sola classe sociale (gli operai), ma della stragrande maggioranza della società (operai e contadini), all’interno della quale il partito bolscevico doveva avere un ruolo di guida. Considerando il nuovo stato come il potere della stragrande maggioranza del popolo, contrapposto ad un’esigua minoranza (sia pure la minoranza degli ex privilegiati), Lenin vedeva nel parlamentarismo un inutile orpello, reso oltre tutto antiquato dalle trasformazioni politiche in tutto il mondo. La formula ‘ dittatura democratica degli operai e dei contadini ‘ riassumeva bene il concetto: si sarebbe dovuto trattare di una dittatura, poiché non avrebbe lasciato alla minoranza borghese e aristocratica il diritto di opporsi, ma democratica poiché avrebbe comunque rappresentato la stragrande maggioranza della popolazione. Di questa dittatura democratica i soviet sarebbero stati la migliore espressione ed è per questo che nelle Tesi d’aprile campeggia il motto ‘il potere ai soviet’.
Oltre che nelle Tesi, Lenin tratta dello stato anche in un altro suo scritto, intitolato Stato e Rivoluzione (composto nell’estate del 1917) , in cui sostiene che la rivoluzione deve mettere lo stato in mano al proletariato, ovvero al partito del proletariato poiché il Bolscevismo è un partito di quadri. Lo stato non viene abolito, bensì resta ed è strumento della dittatura del proletariato: qualsiasi regime è sempre, per definizione, la dittatura di una classe sulle altre, anche quando si dà una maschera democratica (il regime pre-rivoluzionario è per esempio dominio della borghesia). Si tratta dunque non di instaurare una dittatura, ma di passare da una dittatura ad un’altra: da quella borghese a quella proletaria. Ed è una dittatura ‘democratica’ perché a favore della stragrande maggioranza contro pochi contrari.
Dopo un po’ di tempo di tale dittatura, però, lo stato porterà all’eliminazione definitiva delle vecchie classi sociali (borghesia in primis), sicchè verrà meno il conflitto di classe (non essendoci più classi antagoniste) e anche la dittatura, in quanto ad esistere sarà solo più il proletariato e la dittatura era sui non-proletari. A questo punto lo stato perderà ogni significato: se prima serviva come strumento di dittatura, ora sarà del tutto inutile. Esso dunque si estingue (l’intera macchina statale finisce ‘ nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all'ascia di bronzo ’, diceva Engels) e si passa all’anarchia. Tuttavia nella storia della Russia rivoluzionaria non si riuscirà mai a sorpassare la fase di dittatura del proletariato e lo stato non verrà mai eliminato, come già temeva Bakunin quando accusava Marx sostenendo che dalla dittatura non si sarebbe mai usciti.
Quando Lenin dice che bisogna dare tutto il potere ai soviet, intende soprattutto dire che è opportuno uscire, il più presto possibile, da quella strana ambiguità di potere per cui il potere effettivo è in mano al governo democratico-liberale dei Cadetti ma senza il consenso dei soviet non può fare nulla. La soluzione la si otterrà quando i Bolscevichi attueranno la Presa del Palazzo d’Inverno. E’ curioso il fatto che Lenin si accorga di come, con la guerra mondiale, lo stato, a livello europeo ma anche mondiale, abbia cessato di essere un puro e semplice strumento del dominio di classe per diventare la massima potenza economica: sul piano dei rapporti delle classi, restava e anzi si esasperava il capitalismo, ma sul piano economico era stata avviata una statalizzazione della produzione che anticipava il socialismo o, addirittura, cominciava ad attuarlo. ‘ La metà materiale, economica ‘ del socialismo era già realizzata; si trattava di realizzare l’altra metà, cioè quella politica. ‘ Il socialismo non è altro che il capitalismo monopolistico di stato messo al servizio di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico. Non vi è via di mezzo. La guerra imperialista è la vigilia della rivoluzione socialista. E non solo perché la guerra con i suoi orrori genera l’insurrezione proletaria, ma perché il capitalismo monopolistico di Stato è la preparazione materiale più completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo ‘.
Lenin avvertiva che con la guerra lo stato si era sempre più militarizzato anche nella sua politica interna (reprimendo ovunque i movimenti socialisti) e andava sempre più maturando la convinzione che alla fine lo stato andasse eliminato, tant’è che fu più volte accusato duramente di anarchismo (soprattutto da Kamenev).
Lenin era convinto nel 1917 della possibilità di una rivoluzione proletaria in Russia, nonostante tale arretratezza. Da tempo Lenin aveva criticato i populisti russi, fautori di un comunismo agrario anticapitalistico, opponendo ad essi la necessità di passare attraverso la fase capitalistica. Ciò non significava che la transizione al socialismo dovesse avvenire attraverso le riforme e la lotta parlamentare: anche per Lenin l' unica via era data dalla rivoluzione. Ma per condurre ad essa era necessaria la formazione di un partito di rivoluzionari professionisti, inteso come avanguardia della classe operaia.
Già nel 1902,
Lenin (pseudonimo di Vladimir Ilic Uianov) era nato nel 1870 a Simbirsk (oggi Uianovks) e suo padre era un ispettore scolastico. Gli anni di studio e di adolescenza coincisero con uno dei periodi più travagliati della storia sociale e politica della Russia. Il governo zarista dopo l'uccisione dello zar Alessandro II nel 1881, da parte dei populisti, si era affrettato ad annullare quelle limitate riforme che erano state introdotte durante il decennio precedente. In questo clima con Lenin ancora 17enne, il fratello Alessandro con più anni di lui e a cui era molto affezionato, viene arrestato e condannato a morte sotto l'accusa di aver partecipato alla preparazione di un attentato allo zar. Anche Lenin viene espulso dall'Università di Kazan per la sua adesione a un circolo studentesco di tendenze rivoluzionarie. Si avvicina allo studio del marxismo, e in particolare al Capitale di Marx, poi nel 1893 si trasferisce a Pietroburgo entrando in contatto con il movimento fondato da Plechanov, "Emancipazione nel lavoro". Movimento che confluisce nel 1898 al Congresso di Minsk, nel partito operaio socialdemocratico di Russia (POSDR). Lenin sempre sotto stretta sorveglianza politica, viene alla fine arrestato e condannato a tre anni con la deportazione in Siberia. E qui che nel 1899, porta a compimento il suo primo saggio: Lo sviluppo del capitalismo in Russia; ed è un'altra polemica contro i populisti.
Polemica già iniziata nel 1894 a Pietroburgo con l'articolo " Che cosa sono "Gli amici del Popolo" e come lottano contro i socialdemocratici ". La questione controversa era -sostenevano i populisti- che la Russia a differenza dell'Europa, sarebbe passata dal feudalesimo al socialismo, senza attraversare la fase dello sviluppo capitalistico. La replica di Lenin, fu nel dimostrare con una minuziosa analisi economica e statistica, che l'agricoltura russa era già entrata nella fase del suo sviluppo capitalistico; e che l'idea populista di una rivoluzione contadina, senza la guida della moderna classe operaia (più sveglia, determinata, consapevole politicamente, unita, e forte, pur non essendo ancora numerosa) era quindi un'utopia. Per molti intellettuali radicali, dalla metà dell'Ottocento, il problema centrale era " ma la Russia è Europa? ", questo orientamento dei radicali era chiamato narodnik , da narod popolo; e s'intendevano le masse rurali in cui si scorgeva la base di una società socialista con una versione rivoluzionaria di tipo marxista. Invece per altri intellettuali (con Lenin in prima fila) la Russia faceva parte già dell'Europa o almeno era in via di europeizzazione, ed era già presente il capitalismo e quindi già presente quella classe operaia che doveva prendere la guida della rivoluzione (e fu questo secondo orientamento rivoluzionario che poi si trasformò in bolscevismo).
La prima domanda posta dai radicali, divise i pensatori russi per tutto l'Ottocento e continua a dividerli ancora oggi. Ed anche Marx quella domanda se la pose, e nel 1877 rispose a un saggio di un noto radicale della linea narod secondo il quale la sua teoria Marxista presupponeva " lo scioglimento delle comunità agricole e l'avvento del capitalismo come condizione preliminare all'affermarsi del socialismo ".
Poi Marx dissentì da questa impostazione enunciando altre alternative; che però convinsero poco quelli della narod e meno ancora i loro avversari che seguitarono a guardare in avanti dando ragione solo a quello che Marx aveva affermato in quelle due righe. Quando Lenin poi ottenne la sua vittoria politica, costrinse all'esilio chi preferiva il Marx della prima maniera.
Ma le difficoltà nell'attuazione del socialismo in Russia - sostennero poi i critici di Lenin - sono insite appunto nel tentativo di realizzare una rivoluzione proletaria in un paese che era prevalentemente agricolo.
Lenin nel 1901 emigrato in Svizzera fondò un periodico rivoluzionario intitolato Iskra (la scintilla), per guidare e organizzare all'estero le lotte e le agitazioni degli operai russi. Ma al secondo congresso del partito socialdemocratico russo, tenutosi a Londra nel 1903 il partito si spaccò in due fazioni; quella maggioritaria (bolscevica) capeggiata da Lenin e quella minoritaria (menscevica) capeggiata da Plechanov e altri: i Menscevichi volevano instaurare un movimento sul modello della Socialdemocrazia tedesca, i Bolscevichi guardavano invece alla rivoluzione e volevano un partito 'di quadri', costituito da pochi esponenti altamente qualificati che guidassero la rivoluzione.
In effetti, in Germania, dove spazio per la democrazia ve n'era (sebbene poi il parlamento, con Bismarck, non contasse nulla), poteva avere un senso un movimento di massa quale la Socialdemocrazia; ma in una realtà quale la Russia, in cui ogni cosa che si intraprendeva naufragava miseramente e tutto era dominato dal rigido regime zarista, aveva molto più senso un movimento elitario a mò di setta segreta, una sorta di seme sotto la neve , per dirla con Silone, che sotto la fredda coltre dell'inattivo regime zarista in mano allo stregone ciarlatano Rasputin, potesse cogliere il momento opportuno per dare una fioritura magnifica.
Lenin intendeva creare l'organizzazione del partito con una struttura fortemente centralizzata alla quale dovevano essere ammessi solo i "rivoluzionari di professione", non le masse popolari (sul modello della Socialdemocrazia tedesca). La divisione interna si approfondì in occasione della rivoluzione del 1905, scoppiata a seguito dell'ingiuriosa sconfitta inflitta dai Giapponesi ai Russi . I menscevichi intendevano lasciare la guida della rivoluzione alle forze della borghesia liberale russa, mentre Lenin pur riconoscendo il carattere democratico-borghese della rivoluzione, sosteneva che essa dovesse essere capeggiata dalla classe operaia e dai contadini, giudicando che la borghesia russa, per la sua debolezza, sarebbe stata incapace di portare la rivoluzione sino all'abbattimento dello zarismo e avrebbe sempre ripiegato su un compromesso con la monarchia e con l'aristocrazia terriera. ' Quando Lenin andò all'estero all'età di trent'anni ' racconta Trotsky, che proprio a Londra, dopo essere fuggito dalla Siberia, lo conobbe per la prima volta, ne La mia vita, ' era già completamente maturo. In Russia, nei circoli studenteschi, nei gruppi socialdemocratici e nelle colonie degli esiliati, egli era un personaggio di spicco. Non poteva non realizzare questo suo potere, se non altro per il fatto che chiunque lo incontrasse o lavorasse con lui glielo dimostrava in modo chiaro. Quando lasciò la Russia, possedeva già un ottimo equipaggiamento teorico ed un solido bagaglio d'esperienza rivoluzionaria.
All'estero, c'erano collaboratori che lo attendevano: il gruppo di 'Emancipazione del lavoro' e, primo fra loro, Plechanov […] 'con questi Lenin entrò presto in contrasto, ' ma Lenin era vigoroso. Tutto ciò di cui necessitava era la convinzione che i più anziani erano incapaci di assumersi una leadership diretta dell'organizzazione militante dell'avanguardia proletaria nella rivoluzione ch'era chiaramente vicina. I più anziani - e non erano gli unici - si sbagliavano nel loro giudizio; Lenin non era semplicemente un rimarcabile lavoratore del partito, egli era un leader, un uomo in cui ogni fibra era tirata verso il raggiungimento di un fine particolare, un uomo che infine, dopo aver lavorato fianco a fianco coi più anziani, aveva realizzato di essere un leader e di essere più forte e più necessario di loro. Nel mezzo degli ancor vaghi atteggiamenti che eran comuni nel gruppo che sorreggeva le bandiere dell'Iskra, Lenin solo, ed in modo definito, concepiva il 'domani', con tutte le sue severe fatiche, i suoi crudeli conflitti e le innumerevoli vittime '.
Dopo il fallimento della rivoluzione del 1905 (conclusasi in un bagno di sangue per il movimento operaio, fucilato sulle piazze dalla polizia), si videro i bolscevichi e i menscevichi impegnati sempre di più in questa aspra polemica; i secondi si identificavano sempre di più con il movimento di "revisione" del marxismo rivoluzionario, inaugurato in Europa occidentale da Bernstein.
Ma la rottura definitiva si completa nella II Internazionale e con lo scoppio della prima guerra mondiale. La parola d'ordine di Lenin è quella di trasformare la "guerra imperialista" in "guerra civile": Lenin era sì convinto che la guerra imperialista fosse un male, ma tuttavia ne vedeva anche gli aspetti positivi. Tutto stava nel riuscire a trasformare la guerra in rivoluzione e così effettivamente fu. Tuttavia il partito bolscevico, a differenza di quello menscevico, fu contrario alla guerra e la Russia bolscevica, all'indomani della rivoluzione, pur di uscire dalla guerra stipulerà accordi con le nazioni nemiche a tal punto sfavorevoli che Lenin li definirà 'vergognosi'.
L'unico scontro conflittuale riconosciuto dai Bolscevichi era, del resto, lo scontro di classe, non la guerra, quell'inutile strage contro cui Lenin si scaglia in chiusura di Stato e Rivoluzione : La deformazione e la congiura del silenzio intorno al problema dell'atteggiamento della rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato non potevano mancare di esercitare un'immensa influenza, in un momento in cui gli Stati, muniti di un apparato militare rafforzato dalle competizioni imperialiste, sono diventati dei mostri militari che mandano allo sterminio milioni di uomini per decidere chi, tra l'Inghilterra e la Germania, tra questo o quel capitale finanziario, dominerà il mondo. Quando scoppia la Rivoluzione in Russia nel febbraio del 1917 Lenin era ancora esule in Svizzera. Rientrato a Pietroburgo con la sua celebre Tesi di Aprile traccia il programma per l'abbattimento del governo liberal-democratico nel frattempo salito al potere dai Cadetti (di ispirazione liberale) e per il passaggio della rivoluzione alla sua fase socialista.
Nei successivi mesi compone la sua famosa opera Stato e Rivoluzione , poi guida l'insurrezione di Ottobre che si conclude con la formazione del primo governo sovietico da lui capeggiato. Gli anni dal 1918 al 1921, sono gli anni del "comunismo di guerra", della "nuova politica economica", ma anche dei forti contrasti con Stalin, che Lenin non può più avversare ma di cui ha già presagito la pericolosità (celebre è lo scritto ' Quello Stalin è pericoloso ') , gravemente ammalato muore il 21 gennaio del 1924, all'età di 54 anni.Alla fine del secolo diciannovesimo, Lenin dovette sostenere, prima in Russia e poi all'estero, una dura lotta contro i "marxisti legali" e gli "economisti". In quegli anni particolarmente difficili, carichi di contraddizioni sociali ed economiche, privi di una vera prospettiva rivoluzionaria, in quanto il movimento socialdemocratico era ancora troppo debole, soprattutto nei livelli direttivi, il marxismo legale era riuscito a emergere nella letteratura sottoposta a http://michaeljackson.forumup.it/images/smiles/mistick_silence.gif solo perché il governo zarista, vendendolo impegnato a combattere le idee populiste, pensava che fosse una corrente meno pericolosa. In realtà i marxisti legali contribuivano alla diffusione del marxismo rivoluzionario, benché tale teoria -osserva Lenin- venisse esposta in un "linguaggio esopico", cioè indiretto, mediato, non trasgressivo. Il progressivo declino del populismo fece diventare il marxismo molto popolare in Russia.
Lenin e la sua "Unione di lotta" non disdegnavano l'intesa con i marxisti legali in funzione antipopulistica, pur essendo consapevoli che tali pseudo-marxisti erano nati dalla fusione di "elementi estremisti con elementi molto moderati". Quando infatti -dopo che il governo s'accorse della loro pericolosità- ci si trovò di fronte all'alternativa di radicalizzare il taglio rivoluzionario degli interventi o di rinunciarvi definitivamente, la maggioranza dei marxisti legali non ebbe dubbi: scelse il revisionismo di Bernstein. A questo punto la rottura, fra marxismo rivoluzionario e legale, divenne inevitabile. Gli "ex-marxisti" continuarono a scrivere su giornali e riviste autorizzati dal governo, rivendicando una piena "libertà di critica" nei confronti dello stesso marxismo, ma questa volta con lo scopo principale di subordinare il movimento operaio agli interessi della borghesia. Affermavano, da un lato, che lo sviluppo capitalistico in Russia era una necessità storica, ma, dall'altro, non ne chiedevano il superamento immediato. Il loro marxismo era "senza socialismo".
Molti di questi "compagni di strada" -come li chiamava Lenin- diventeranno dei "cadetti" (il partito principale della borghesia russa) e persino delle "guardie bianche" durante la guerra civile. Nel tentativo di superare gli evidenti limiti del marxismo legale, si sviluppò all'interno del movimento socialdemocratico una corrente più pratica e concreta, ma unicamente interessata a risolvere i problemi di natura sindacale: era la corrente che Lenin chiamava col nome di "economicismo". Non si trattava di una vera alternativa al marxismo legale ma di un suo complemento. Sul piano "legale" infatti si continuava a predicare, anche da parte degli economicisti, la fusione degli intellettuali marxisti coi liberali, mentre su quello "illegale" si chiedeva agli operai di lottare sindacalmente contro i padroni. Gli economicisti -che, come dice Lenin, rifuggivano da qualsiasi " discussione teorica, dissenso di frazione, ogni vasta questione politica, ogni progetto di organizzare i rivoluzionari ecc. "- avevano un loro manifesto: il Credo (redatto dalla Kuskova), che Lenin e altri 17 compagni sottoposero a dura critica scrivendo dalla prigione siberiana la Protesta dei socialdemocratici russi (1899).
Con la Protesta, pubblicata sul Raboceie Dielo, Lenin rivendicava l'unità della lotta economica della classe operaia con quella politica e condannava il revisionismo di Bernstein, che voleva trasformare il partito operaio da rivoluzionario a riformista, spazzando via l'ingrediente fonfdamentale del marxismo: la rivoluzione . Lenin e gli altri autori della Protesta volevano integrare la battaglia contrattuale della classe operaia con una lotta politico-rivoluzionaria organizzata in un partito indipendente, che portasse, anche attraverso il consenso e l'appoggio degli elementi democratico-borghesi del Paese, all'emancipazione di tutti i lavoratori oppressi. Nello stesso tempo Lenin scrisse, fra le altre cose, Il nostro programma , che però rimase inedito fino al 1925. In esso si costatava che l'opinione dominante in seno alla socialdemocrazia russa considerava il marxismo rivoluzionario "invecchiato e inadeguato".
L'influenza del revisionismo si faceva sempre più sentire. Alla stregua di Bernstein ci si limitava -dice Lenin- ad elaborare "piani per riorganizzare la società", a proporre "ai capitalisti e ai loro reggicoda il modo di migliorare la situazione degli operai", a predicare agli operai "la teoria dell'arrendevolezza". Lenin si rendeva conto che un'interpretazione dogmatica del marxismo poteva trasformare questa scienza in una fraseologia senza senso; però teneva a precisare che qualsiasi critica del marxismo non poteva andare oltre le "pietre angolari" da esso poste, "i principi direttivi generali".
La teoria di Marx -diceva Lenin nel Programma- non è qualcosa di "definitivo e di intangibile"; i socialisti devono anzi farla progredire "se non vogliono lasciarsi distanziare dalla vita"; ma con ciò -prosegue Lenin- resta vero che mai potrà esistere "un forte partito socialista se manca una teoria rivoluzionaria che unisca tutti i socialisti". Queste idee Lenin, a causa delle persecuzioni dell'infame regime zarista, dovette portarle avanti all'estero. Con l'aiuto di molti compagni pubblicò per tre anni il giornale Iskra. Nell'importante articolo di fondo scritto nel primo numero, I compiti urgenti del nostro movimento , Lenin, rifiutando le teorie opportuniste dell'economicismo, rivendicava l'unità del socialismo col movimento operaio. Solo mediante questa unità si poteva -a suo giudizio- superare la mera attività propagandistica esercitata, a livello di circolo, dai socialdemocratici russi negli ultimi decenni e, nel contempo, evitare che il movimento operaio e il socialismo cadessero nell'ideologia borghese o degenerassero nello sterile terrorismo individuale (come quello dell'organizzazione clandestina "Volontà del popolo", che, dopo aver assassinato nel 1881 lo zar Alessandro II, venne immediatamente liquidata dal governo).
L'unità, in sostanza, era indispensabile non solo per l'"ortodossia" del socialismo, ma anche per la "ortoprassi" del movimento operaio. "Nessuna classe della storia -dice Lenin nell'articolo suddetto- ha conquistato il potere senza esprimere dei propri capi politici, dei propri rappresentanti d'avanguardia capaci di organizzare e dirigere il movimento". A contatto con le organizzazioni socialdemocratiche all'estero, Lenin poteva facilmente rendersi conto di come la tendenza economicistica avesse acquistato sempre più seguaci. Infatti, dopo il giornale Rabociaia Mysl, stampato in Russia, anche la rivista Raboceie Dielo, stampata a Ginevra, decideva, a partire dal numero 10, di compiere la svolta revisionista verso l'economicismo. Alle giustificazioni ch'essa ne dava, e cioè: 1) l'inesistenza delle condizioni "oggettive" per compiere una rivoluzione (donde l'inutilità di organizzare un partito politico); 2) il timore di vedere la propria attività equiparata a quella dei terroristi - Lenin ribatteva dicendo: 1) "si deve lavorare per creare un'organizzazione combattiva e condurre un'agitazione politica in qualsiasi situazione", anzi, proprio nei momenti di declino dello "spirito rivoluzionario" è particolarmente necessario tale lavoro, "poiché nei momenti degli scoppi e delle esplosioni non si farebbe in tempo a creare un'organizzazione"; 2) "oggi il terrorismo non viene affatto proposto come un'operazione dell'esercito operante, strettamente legata e adeguata a tutto il sistema di lotta, ma come mezzo di attacco singolo, autonomo e indipendente da ogni esercito" (così in due articoli pubblicati nei numeri 23 e 24 dell'Iskra). In altre parole, la situazione di quel momento storico non era "oggettiva" per la rivoluzione solo in questo senso, che non si doveva compiere un "assalto frontale" alle postazioni nemiche prima di aver organizzato debitamente un "regolare assedio". E, allo scopo -pensava Lenin-, nulla era più indispensabile di un giornale politico panrusso: ecco perché era nata l'Iskra. "La maggiore o minore frequenza e regolarità dell'uscita (e diffusione) del giornale -diceva Lenin, con grande senso della concretezza- potrà essere l'indice più esatto della solidità con la quale saremo riusciti a organizzare [il settore della] propaganda e dell'agitazione multiformi e conseguenti". La scelta di un giornale politico, comune a tutto il marxismo rivoluzionario, era stata imposta dalla situazione di frazionamento localistico del movimento operaio.
Essendo "l'enorme maggioranza dei socialdemocratici quasi completamente assorbita dal lavoro puramente locale", l'instabilità e l'incertezza del movimento e dei suoi dirigenti diventavano un fatto inevitabile. Ciò spiega il motivo per cui il giornale non era nato solo per svolgere un ruolo di propagandista e agitatore collettivo, penetrando, attraverso il proletariato, "nelle file della piccola borghesia urbana, degli artigiani rurali e dei contadini", che avrebbe conquistato alla rivoluzione: esso doveva pure svolgere la funzione di "organizzatore collettivo". Nel senso cioè che la rete di "fiduciari" del partito preposta alla redazione e diffusione del giornale, doveva mantenere strettissimi legami "con i comitati locali (gruppi, circoli) del partito", o almeno con quelli che desideravano la loro unificazione in un partito. Attraverso questo lavoro tutti i militanti avrebbero avuto la possibilità non solo di osservare gli avvenimenti da un punto di vista nazionale, ma, in virtù dell'organizzazione capillare, anche l'opportunità d'intervenire direttamente su tali avvenimenti. Gli stessi militanti insomma dovevano diventare i protagonisti dell'Iskra. Un altro importante articolo pubblicato sul no 12 del giornale è il Colloquio con i sostenitori dell'economicismo. Qui Lenin risponde, approfondendo gli argomenti soprattutto nel capitolo Secondo di Che fare? , a una lunga lettera che "un gruppo di compagni" aveva fatto pervenire alla redazione del giornale. In particolare, Lenin rilevava il fatto che "i dirigenti coscienti sono in ritardo sullo sviluppo del movimento spontaneo della massa operaia e degli altri strati sociali". Ai dirigenti, di cui il movimento dispone, mancano le cose più necessarie: solida teoria, vasti orizzonti politici, energia rivoluzionaria, capacità organizzativa. Il grave però è che "dalla fine del 1897 e specialmente dall'autunno del 1898" -dice Lenin-, cioè proprio quando si è voluto costituire il partito operaio socialdemocratico, essi hanno fatto di questi difetti una "virtù", portando il "ritardo" della coscienza rivoluzionaria al livello di una "giustificazione teorica".
Tutte le questioni che in quel periodo più urgevano nel dibattito interno alla socialdemocrazia russa, saranno efficacemente sintetizzate e magistralmente risolte in Che fare? (1902), il libro più importante che Lenin scrisse prima della rivoluzione del 1905. Dopo la svolta del Raboceie Dielo verso l'economicismo, con la quale, fra l'altro, s'impedì d'unificare le organizzazioni socialdemocratiche all'estero in nome del marxismo rivoluzionario, Lenin fu costretto a radicalizzare, anche nello stile letterario, i termini dello scontro. Rendendosi d'altra parte conto che l'economicismo aveva molto più seguito di quel che non si credesse, egli non poteva agire diversamente. L'opposizione fra le due correnti di pensiero era per lui così netta da imporre una "chiarificazione sistematica" su tutti gli aspetti fondamentali del dissenso. Proprio nella drammaticità del confronto con il marxismo "ufficiale", "dominante", venivano alla luce le indicazioni più sicure da seguire.
La "libertà di critica" è il primo aspetto che Lenin esamina nella sua importante opera anti-opportunista Che fare? Trattasi di quella libertà che i marxisti legali e soprattutto gli economicisti, in Russia, si erano presi per indurre il neonato Posdr a trasformarsi da rivoluzionario a riformista. Emulando i colleghi revisionisti di Germania e Francia, essi chiedevano di rinunciare alla pretesa di dare un fondamento scientifico al socialismo e di limitarsi ad accettarlo solo sul piano utopistico, in quanto l'opposizione di principio fra socialismo e liberalismo era per loro inesistente. Essi inoltre negavano il fatto della crescente miseria sociale, cioè della proletarizzazione di ampi strati sociali e dell'inasprimento delle contraddizioni capitalistiche. Respingevano, in sostanza, la teoria della lotta di classe e l'idea della dittatura del proletariato. In un contesto del genere, la "libertà di critica" -pensava Lenin- altro non significava che "critica borghese di tutte le idee fondamentali del marxismo". Naturalmente la novità non era piovuta dal cielo. "Già da tempo -scrive Lenin- si muoveva contro il marxismo questa critica dall'alto della tribuna e della cattedra universitaria, in innumerevoli opuscoli e in una serie di dotti trattati; da decine di anni tutta la nuova gioventù delle classi colte è stata educata a questa critica". In pratica, la linea opportunistica del marxismo era stato il risultato di un trasferimento di concezioni borghesi dalla letteratura liberale a quella socialista.
A livello europeo i migliori rappresentanti di questa nuova tendenza erano Bernstein, sul piano teorico, e Millerand su quello pratico. Avvalendosi della "libertà di critica" come di una rivendicazione politica, essi e gli economicisti in genere evitavano di confrontarsi con le tesi del marxismo rivoluzionario, tacciato preventivamente di "dogmatismo". Ma in tal modo -spiega bene Lenin- la tanto declamata parola d'ordine, libertà di critica anche nei confronti del marxismo, "si riduceva all'assenza di ogni critica", anzi, "all'assenza di ogni giudizio indipendente". Di nuovo, in realtà, c'era solo questo, che "l'urto delle diverse tendenze in seno al socialismo si era per la prima volta trasformato da nazionale in internazionale". Storicamente parlando, gli economicisti rappresentarono una reazione all'intellettualismo parolaio dei marxisti legali. Là dove, nell'ultimo decennio dell'800, si lottò con successo contro il populismo, paventando però l'idea della rivoluzione proletaria, qui invece si pretendeva una maggiore concretezza, una più sollecita attenzione ai problemi di natura sindacale dei lavoratori, benché i tempi -a giudizio di Lenin- fossero maturi per ben altro che non per una semplice politica tradunionista.
Di fronte alle posizioni rinunciatarie e rigorosamente circoscritte, a livello sia teorico che pratico, degli economicisti, Lenin raccomandava anzitutto di "riprendere [sottoponendolo a critica] quel lavoro teorico appena cominciato all'epoca del marxismo legale"; dopodiché occorreva rimediare alla confusione e all'esitazione prodotte dagli economicisti nel movimento "pratico". "Libertà di critica [per gli opportunisti] non significa -scriveva Lenin- la sostituzione di una teoria con un'altra, ma la libertà da ogni teoria coerente e ponderata, eclettismo e mancanza di principi".
Quando una tendenza del genere diventa dominante nel movimento operaio o addirittura nel partito, non resta che separarsene - e Lenin operò appunto in questa direzione. "Ci hanno biasimato -disse- per aver costituito un gruppo a parte e preferito la vita della lotta alla via della conciliazione". Ma non si trattava di settarismo o di frazionismo fine a se stesso. Il fine era quello di realizzare l'unità della classe operaia con un'avanguardia rivoluzionaria. E perché questo potesse avvenire "occorreva anzitutto -dice Lenin- definirsi risolutamente e nettamente" (un'altra traduzione italiana usa il termine delimitarsi). Quando l'unità di un partito o di un movimento è palesemente, irrimediabilmente nociva agli interessi della verità delle masse che aspirano a liberarsi dallo sfruttamento capitalistico, non resta che denunciarla, che rompere il suo formalismo e la sua ipocrisia, ricostituendola su fondamenta più solide, soprattutto più autentiche. Certo, sarà il consenso delle masse popolari a decidere dell'efficacia di una iniziativa del genere. D'altra parte "senza teoria rivoluzionaria -ha detto Lenin- non ci può essere movimento rivoluzionario": "la predicazione opportunistica venuta di moda, viene accompagnata dall'esaltazione delle forme più anguste di azione pratica". Non deve dunque spaventare l'idea d'essere una piccola minoranza (cosa peraltro inevitabile agli inizi); è invece indispensabile avere le idee chiare, saper dove andare, lottare contemporaneamente sul fronte teorico, politico ed economico - questo l'insegnamento che si trae dalle prime pagine di Che fare? .
Nell’esordio dell’importante libro Che fare? , in particolare nel capitolo dedicato alla “libertà di critica” degli opportunisti, Lenin imposta e conduce la sua battaglia sul fronte “teorico”, un fronte che nel capitolo 2° viene approfondito a livello “filosofico” e “ideologico”, per poi esplicitarsi compiutamente in modo “politico” nel capitolo successivo e “organizzativo” negli ultimi due (il primo dei quali di carattere generale, mentre l’altro -delineante il piano di un giornale politico panrusso- a titolo esemplificativo). Il capitolo 2° porta come titolo significativo: La spontaneità delle masse e la coscienza della socialdemocrazia. Lo scopo che lo muove è quello di dimostrare la validità di una precisa tesi posta nella premessa: “La forza del movimento contemporaneo consiste nel risveglio delle masse (e principalmente del proletariato industriale) e la sua debolezza nella mancanza di coscienza e d’iniziativa dei dirigenti rivoluzionari”.
Per “risveglio spontaneo delle masse” Lenin intende quelle manifestazioni popolari di protesta, tipo scioperi, tumulti, distruzioni di macchine ecc., che in Russia, a partire dal 1890, avvennero non con una coscienza esatta della natura dello sfruttamento, ma con l’istinto, giunto a maturazione, di ribellarvisi senza indugio. Il sentire la necessità di una resistenza collettiva, ovvero il bisogno di rompere risolutamente “con la sottomissione servile all’autorità”, faceva parte appunto di quegli atteggiamenti “di disperazione e di vendetta” che, se solo fosse esistita una direzione cosciente e attiva degli intellettuali, avrebbero potuto aprire le porte alla lotta rivoluzionaria vera e propria. “L’elemento spontaneo infatti non è che una forma embrionale della coscienza”. Lenin non sta qui a discutere, in astratto, su quale debba essere il rapporto ideale tra spontaneità delle masse e coscienza dei dirigenti. Il problema, per lui, non stava neppure nel criticare quei dirigenti che non avevano saputo prevedere l’evolversi dei tempi. Certo, questo era un difetto che andava corretto. Ma il problema più grave da risolvere restava un altro, e precisamente quello di come valorizzare la spontaneità delle masse portandola a un livello di consapevolezza politica, tale per cui l’istintiva protesta fosse indotta a rifiutare una semplice opposizione “legale” o “settoriale” al sistema. Per Lenin ciò che più contava era che il dirigente sapesse convincere le masse ad avvertire i loro interessi generali e quelli del sistema di sfruttamento come direttamente antitetici. In effetti, per cambiare qualitativamente la situazione non basta la coscienza di sentirsi sfruttati, né quella di voler reagire in qualche modo: occorre piuttosto -dice Lenin- avere coscienza che l’antagonismo fra gli interessi degli operai e di tutto l’ordinamento politico-sociale capitalistico è irrimediabilmente inconciliabile. Cioè l’antagonismo tra capitale e lavoro non è relativo ma assoluto. Questo significa che se le masse si limitano a una protesta spontanea e locale, al massimo riusciranno ad ottenere una parziale vittoria sul terreno economico, potranno cioè sentirsi soddisfatte d’aver conseguito nell’immediato determinati obiettivi contrattuali, ma in nessun modo esse saranno riuscite ad eliminare i motivi di fondo che le obbligano, con maggiore o minore frequenza e intensità, ad avanzare queste ed altre rivendicazioni.
Ora, perché le masse si rendano conto della realtà di questo irriducibile antagonismo non basta -dice Lenin- che la loro situazione economica peggiori drammaticamente: occorre anche che vi siano dei dirigenti capaci d’iniziativa rivoluzionaria sulla base d’una teoria scientifica, oggettiva. Le masse cioè, in virtù dell’apporto di questi dirigenti, devono arrivare a trasformare la loro lotta sindacale in una lotta generale, rivoluzionaria, per la conquista del potere politico. E perché questo accada occorre ch’esse abbiano la coscienza esatta dei termini dell’antagonismo. Una coscienza del genere può essere il frutto solo di uno studio approfondito, scientifico, uno studio che l’operaio normalmente non fa, sia perché non ne ha il tempo materiale, sia perché non rientra nei suoi immediati interessi. “La classe operaia, con le sole sue forze -dice Lenin-, è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionistica, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni ecc.”. Ma in tal modo essa non giunge mai a considerarsi in “alternativa” a tutto il sistema: lotta sì contro il capitale ma sentendovisi legata. Il fatto stesso di dover lavorare alle sue totali dipendenze, subendone i ritmi e le condizioni di lavoro, le impedisce di assumere una posizione radicale, capace di trasformare la rivendicazione economica in una lotta politica di carattere generale. Ecco perché la coscienza rivoluzionaria “può essere apportata alla classe operaia solo dall’esterno”. Da chi precisamente? Da quell’intellettuale (od operaio colto) che dopo aver compreso il carattere inconciliabile delle contraddizioni capitalistiche, si dedica a tempo pieno, sostenuto dal partito, alla lotta politico-rivoluzionaria, organizzando le forze di quelle classi sociali i cui interessi sono antagonistici agli interessi del capitale. Un operaio “cosciente”, cioè un operaio che sa quanto l’emancipazione della sua classe corrisponda all’emancipazione di tutti i lavoratori, è un operaio che deve essere valorizzato più come “militante” del partito che non come “lavoratore” della fabbrica. L’ideologia politica che aiuta meglio a comprendere la necessità di un rivolgimento totale della società è -come noto- il socialismo scientifico. “La dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate -dice Lenin- dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali”. Anche in Russia il socialismo scientifico è sorto “come risultato naturale ed inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli intellettuali socialisti rivoluzionari”. Lo sviluppo della teoria, pur basandosi sulla prassi storico-sociale, procede indipendente da questa e può giungere a intravedere delle soluzioni finali ai problemi fondamentali delle classi sociali, mentre la coscienza di tali classi è ancora ferma a un tipo di lotta parziale, riduttiva, contro il capitale. Ciò che il leader rivoluzionario deve assolutamente evitare è che lo sviluppo spontaneo delle masse arrivi a soffocare -seppure in modo spontaneo- lo sviluppo della loro propria coscienza. Quando si è consapevoli dell’irriducibile antagonismo fra capitale e lavoro non si può mai giustificare lo spontaneismo delle masse adducendo, come pretesto, la mancanza di condizioni oggettive per la rivoluzione. Se queste condizioni mancassero non vi sarebbe neppure la loro coscienza riflessa. “Se certi elementi spontanei dello sviluppo -dice Lenin- sono accessibili in generale alla coscienza umana, l’errata valutazione di essi equivarrà a una sottovalutazione dell’elemento cosciente. E se sono inaccessibili, noi non li conosciamo e non ne possiamo parlare”. Il che vuol dire, in altre parole: se il dirigente non prende coscienza dello sviluppo spontaneo della rivolta, quando questa c’è, non sottovaluta l’elemento spontaneo, ma la sua stessa coscienza. Ora, sottovalutare la coscienza rivoluzionaria significa subordinare il movimento alla spontaneità e questo, nelle condizioni del capitalismo, significa, inevitabilmente -come dice Lenin- determinare “un rafforzamento dell’influenza dell’ideologia borghese sugli operai”. Ciò in quanto: 1) “in una società dilaniata dagli antagonismi di classe non potrebbe mai esistere un’ideologia al di fuori o al di sopra delle classi”; 2) “l’ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione”.
Ecco perché “quanto più giovane è il movimento socialista di un determinato Paese, tanto più energica dev’essere la lotta contro tutti i tentativi di consolidare l’ideologia non socialista”. Né si deve pensare che il pericolo dell’”imborghesimento” degli operai sia infondato solo perché essi vanno “spontaneamente” verso il socialismo. Che essi ci vadano è dovuto al fatto che la teoria socialista sa meglio interpretare le cause di tutti i loro mali; cionondimeno, se l’adesione immediata, istintiva, non viene approfondita in sede scientifica e non trova nella prassi un adeguato impegno rivoluzionario, l’ideologia borghese, che è “la più diffusa e che resuscita costantemente nelle più svariate forme”, non tarderà a imporsi nuovamente, spontaneamente, alla coscienza dell’operaio.
Paradossalmente è proprio il movimento meramente spontaneo delle masse che conduce al rifiuto (inconsapevole) del socialismo. In sintesi, la teoria riflette sempre una realtà che la precede, ma essa la riflette adeguatamente solo se sa portare la realtà stessa a un livello di autoconsapevolezza critica. Traendo insegnamento dagli errori interpretativi compiuti nel passato, il socialismo scientifico deve saper portare la spontaneità del movimento operaio ad un livello cosciente e rivoluzionario. La spontaneità è la forma istintiva, immediata di lotta: “I primi mezzi di lotta che cadono sottomano saranno sempre nella società contemporanea [capitalistica] i mezzi tradunionistici”.
Lenin tuttavia non ha alcuna intenzione di accusare lo spontaneismo in sé: la sua critica è rivolta a quegli intellettuali che lo giustificano per impedire agli operai di sviluppare una coscienza veramente rivoluzionaria. Egli infatti afferma che “quanto più è grande la spinta spontanea delle masse, quanto più il movimento si estende, tanto più aumenta, in modo incomparabilmente più rapido, il bisogno di coscienza nell’attività teorica, politica e organizzativa”. L’intellettuale che non comprende questo fa, anche senza volerlo, gli interessi del capitale. “Dal fatto che gli interessi economici esercitano una funzione decisiva non consegue affatto che la lotta economica (professionale) sia di sommo interesse, poiché gli interessi essenziali, “decisivi”, delle classi possono essere soddisfatti solamente con trasformazioni politiche radicali”. E’ da questa e da altre analoghe affermazioni di Lenin, contenute in Che fare?, che si è compreso come nell’imperialismo si sia attuato, nell’ambito del marxismo, il passaggio dal primato dell’economia a quello della politica.
E' impressionante la sicurezza con cui Lenin afferma, in Che fare? , che la coscienza politica di classe può essere portata all'operaio solo dall'esterno, cioè dall'esterno della lotta economica o della sfera dei rapporti contrattuali tra operai e imprenditori: ‘ la coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni ‘ egli scrisse. Perché questa necessità? Perché l'operaio che lotta sindacalmente contro l'imprenditore capitalistico non ha per questo la consapevolezza che la sua stessa lotta economica, se non si traduce in lotta politica, non serve che a perpetuare il suo sfruttamento. "La politica tradunionistica della classe operaia -dice Lenin- è precisamente la politica borghese della classe operaia". Ora, un operaio che ha consapevolezza di questo non può continuare a fare l'operaio: deve lottare per un fine superiore, organizzando la propria attività in modo politico. "Le masse non impareranno mai a condurre la lotta politica fino a quando non contribuiremo a educare dei dirigenti per tale lotta, sia fra gli operai colti che fra gli intellettuali".
Ma come può un operaio passare dalla lotta economica a quella politica? Egli deve acquisire la consapevolezza che tutta la società borghese va superata e non solo il suo rapporto contingente coll'imprenditore. Se non ha consapevolezza di questa necessità di ordine generale, se non ha rinunciato a tutte le illusioni sulla possibilità di "riformare" la società borghese, egli continuerà per tutta la vita a chiedere aumenti salariali o migliori condizioni di lavoro, senza mai riuscire a superare l'idea in sé dello sfruttamento. Noi invece -dice Lenin- "dobbiamo occuparci di spingere coloro che sono insoddisfatti [di singoli aspetti sociali] a convincersi che quel che non va è l'intero regime politico". Ma, di nuovo, come può l'operaio acquisire tale consapevolezza politica? E' forse l'intellettuale che deve dargliela? Un intellettuale staccato dalle classi sociali non è in grado di fare alcunché. Lenin dice chiaramente che "per dare agli operai cognizioni politiche, i socialdemocratici devono andare fra tutte le classi della popolazione". Ciò in pratica significa che la coscienza politica della necessità di superare in maniera globale la società, può essere solo il frutto di una sensibilizzazione di tutte le classi popolari. Ovvero, quando la stragrande maggioranza è convinta che la società nel suo complesso va superata, ecco che allora si realizza il socialismo. La consapevolezza politica deve maturare nelle masse in modo progressivo, ma chi già la possiede non deve aspettare ch'essa maturi da sola. Egli anzi deve "reagire -dice ancora Lenin- contro ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione, ovunque essa si manifesti e qualunque sia la classe o la categoria sociale che ne soffre". L'operaio cioè di per sé, solo perché "operaio", non ha maggiore consapevolezza politica di chi non lo è.
Perché, secondo Lenin, gli operai non possono avere “la coscienza dell’irriducibile antagonismo fra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo” ? Risposta: perché tale coscienza non riesce a sorgere in loro spontaneamente, naturalmente, ma deve essere data “dall’esterno”, dall’intellettuale consapevole. Lenin arriva a porsi questa domanda guardando la storia del movimento operaio russo, euroccidentale e mondiale. Questa storia dimostra che “la classe operaia con le sole sue forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista”, cioè sindacale. Perché questo limite? Per due ragioni: 1) all’operaio manca il tempo di farsi una consapevolezza teorica dell’irriducibile antagonismo tra lavoro e capitale (non dispone cioè delle condizioni materiali favorevoli); 2) il capitalismo, stando al potere, è in grado di disporre d’ingenti mezzi per propagandare l’ideologia borghese, che è molto più antica di quella socialista: chi detiene il potere materiale detiene anche quello ideologico. Dunque al massimo l’operaio arriva a “sentire”, a “percepire” il suddetto antagonismo, ma non arriva -proprio perché il lavoro da schiavo e il condizionamento dell’ideologia borghese glielo impediscono- a maturare la consapevolezza della necessità di un’alternativa organica, globale, al sistema dominante. Questo è un compito che spetta ai rivoluzionari di professione. “La dottrina del socialismo -dice Lenin- è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali”. Ciò significa ch’esiste un processo autonomo del pensiero, indipendente “dallo sviluppo spontaneo del movimento operaio”, che porta alla consapevolezza della necessità del socialismo. Gli intellettuali progressisti arrivano a “comprendere” sul piano teoretico ciò che gli operai arrivano a “sentire” su quello pratico. Cosa proponeva Lenin? Due cose: 1) permettere anzitutto agli operai dotati di capacità intellettuali, di dedicarsi esclusivamente all’attività politica del partito (le capacità ovviamente vanno dimostrate, cioè possono essere riconosciute solo a-posteriori); 2) far convergere la teoria rivoluzionaria degli intellettuali verso la protesta sindacale degli operai, al fine di creare un movimento di massa capace di prassi rivoluzionaria. Altrimenti la teoria resterà utopica e la prassi velleitaria.
Lo sviluppo coerente di queste due condizioni è in grado di evitare due pericoli: 1) quello di credere che la coscienza dell’irriducibile antagonismo sia un processo che possa maturare solo “dall’esterno” e non anche “dall’interno”; 2) quello di credere che senza “teoria rivoluzionaria” possa esserci una “prassi rivoluzionaria”, ovvero che una “teoria rivoluzionaria”, per funzionare praticamente, possa essere formulata una volta per tutte, e non continuamente riformulata. L’elemento spontaneo e quello consapevole devono quindi integrarsi in un’unica esperienza. Lenin aveva così chiarito il motivo fondamentale per cui, a suo parere, erano falliti tutti i tentativi rivoluzionari condotti in Europa occidentale e in Russia. Ma mentre in Russia si arrivò ad accettare questo suo nuovo modo d’impostare la lotta politica, in Europa invece, in un modo o nell’altro, lo si è sempre rifiutato: sia perché l’individualismo non permetteva di accettare, da parte degli operai, l’idea di una consapevolezza trasmessa dall’esterno; sia perché l’intellettualismo non permetteva di accettare, da parte degli intellettuali, la responsabilità di dover organizzare lo sviluppo di tale consapevolezza in un’esperienza politico- rivoluzionaria.
Qualunque attività (persino quella onirica) ha un significato per il soggetto solo se egli è consapevole. La psicanalisi ha sì scoperto l'inconscio, ma nella misura in cui ha preteso di conoscerlo lo ha reso "conscio", intelligibile. L'inconscio era sicuramente più oscuro e misterioso in quei filosofi romantici tedeschi che ne parlarono prima della psicanalisi (Herbart, Hartmann, Brentano e altri ancora). L'analogia tra questi filosofi e Freud sta nell'aver delineato, dopo aver costatato le contraddizioni della civiltà borghese, un'identità irrazionale dell'inconscio, senza però riuscire a comprendere l'origine economico-sociale di tali contraddizioni; la differenza sta nell'aver cercato di dimostrarlo con esempi concreti: sotto tale aspetto, l'importanza di Freud è decisamente superiore, anche se le sue interpretazioni dei sintomi nevrotici sono spesso arbitrarie. In particolare, Freud ha dimostrato (e qui la differenza da quei filosofi tedeschi è molto netta), che se l'inconscio fosse assolutamente "inconscio", nessuno ne potrebbe parlare, essendo del tutto incomprensibile. In seguito però, Freud è arrivato a sostenere che gli effetti dell'inconscio possono essere rilevanti anche su un soggetto che non ha consapevolezza della propria malattia, in quanto l'Es (fonte di tutti gli istinti) è una forza cieca e irrazionale. Cioè, in pratica, Freud non ha mai abbandonato l'idea tradizionale che l'inconscio fosse una realtà, in ultima istanza, incomprensibile. Questo non gli ha mai permesso di approfondire adeguatamente l'idea secondo cui le nevrosi più significative sono quelle per le quali il soggetto è cosciente della propria alienazione: maggiore è la coscienza e maggiore è la nevrosi, se con una diversa esperienza disalienante non la si risolve. Il che apre le porte alla comprensione del campo delle psicosi, il cui profondo significato sfugge ancora all'indagine analitica. La psicanalisi pretende di conoscere l'inconscio attraverso i sogni, i lapsus, gli errori di lettura, le dimenticanze dei nomi, i tic, le manie..., ma in realtà l'inconscio può essere conosciuto solo in rapporto alla coscienza. Un lapsus ci indica che esiste un inconscio, ma finché non parliamo col soggetto, a partire dal lapsus, interrogandolo sul perché e sul come, noi non faremo un passo avanti. La stessa follia è il frutto di una coscienza distorta delle cose, anche se il soggetto non vuole ammetterlo e ha rimosso nell'inconscio le cause della sua malattia. Non è possibile risalire a queste cause se non passando attraverso la coscienza del malato. Se vogliamo, l'inconscio non ha realtà propria: è come la tasca in cui la mano si nasconde dopo aver gettato il sasso. Nascondiamo la mano perchè ci sentiamo giudicati, da noi stessi e soprattutto dagli altri. Naturalmente è anche possibile che un'azione negativa sia compiuta da un'intera collettività, più o meno grande: in tal caso dovrà essere una coscienza sociale alternativa (che può anche essere minoritaria) a porre il giudizio. L'inconscio, in ogni caso, resta subordinato alla coscienza. Ciò che inoltre si deve accettare è l'idea che non è l'inconscio che può avere la forza di opporsi all'alienazione di una determinata coscienza sociale, ma è la stessa coscienza, la quale può essere superficiale, istintiva, o riflessiva, matura. Parlare di "opposizione inconscia" (p.es. a una ingiustizia, a un'etica formalizzata) altro non vuol dire che parlare dell'opposizione più superficiale della coscienza, destinata a durare poco e a non essere molto efficace. Questo viene in mente leggendo il Che fare? di Lenin (cap.II). "L'elemento spontaneo -dice Lenin- [cioè poco consapevole, istintivo, di cui non si ha ancora piena coscienza e che non permette di acquisirla] non è che la forma embrionale della coscienza". E ancora: "La coscienza dei propri errori [fatti coll'istinto e quindi solo parzialmente consapevoli] equivale già ad una mezza correzione [cioè ad un aumento del lato conscio], ma il mezzo male [cioè la scarsa consapevolezza] diventa un male effettivo quando questa coscienza comincia ad oscurarsi, cioè quando si tenta di giustificare teoricamente la propria sottomissione servile alla spontaneità [o all'inconscio]". Lenin voleva dire che il "mezzo male" (o la mancanza di forte consapevolezza), viene utilizzato dagli intellettuali borghesi, regressivi, come pretesto per non prendere consapevolezza dei propri errori (il che porta a un "male intero"). Il "vero male", quello "totale", nasce quando si vuole imporre la logica dell'inconscio alla coscienza, cioè quando si vuole opporre all'esigenza di un'alternativa, di una transizione, la logica della rassegnazione, dell'opportunismo, del relativismo, sino all'irrazionalismo.
Tuttavia, il male peggiore di tutti -dice Lenin- è quello per cui "il soffocamento della coscienza da parte della spontaneità avviene in modo spontaneo, cioè senza lotta dichiarata fra due concezioni diametralmente opposte", ma attraverso una "lotta occulta", invisibile, difficilissima da combattere. Vi sono degli intellettuali, infatti, che, in piena coscienza, cercano di far passare alle masse, in un modo che dia l'impressione della naturalezza, l'esigenza di conservare inalterato il sistema.
Questa tattica porta gli individui a credere che il prevalere dell'inconscio sulla coscienza delle cose, sia un fatto normale, inevitabile, e non un fatto opinabile, su cui si può e si deve discutere. Lasciare che l'inconscio predomini significa affidarsi alla spontaneità degli eventi, alla casualità del vivere quotidiano, non avere un progetto di vita su di sé, credere ciecamente nel destino o nel potere di un "duce", ovvero lasciarsi dominare dai rapporti di forza. In realtà è la discussione ad essere inevitabile: potrà essere poca o tanta, in rapporto alla coscienza che abbiamo dei nostri problemi, ma è impossibile che non ci sia. Una vita affidata alla spontaneità delle cose può far contento qualcuno, non la maggioranza delle persone o comunque non per un periodo illimitato.
Finché queste persone istintive sono ignoranti e sottomesse, non vi sarà dibattito democratico, ma appena inizia ad aumentare la consapevolezza e la cultura, grazie alle quali possiamo capire gli inganni, i meccanismi dello sfruttamento, la protesta s'impone da sé, anche di fronte alla reazione più dura del sistema. "Se certi elementi spontanei dello sviluppo [sociale] sono accessibili in generale alla coscienza umana -dice Lenin-, l'errata valutazione di essi equivarrà a una sottovalutazione dell'elemento cosciente. E se sono inaccessibili, noi non li conosciamo e non ne possiamo parlare". Dunque, ciò che condiziona negativamente non è tanto l'inconscio, quanto piuttosto il suo prevalere (specie quello teorizzato dagli intellettuali) sulla coscienza. Ecco perchè la spontaneità delle masse esige da parte degli intellettuali progressisti un alto grado di coscienza politica.
Nella storiografia marxista spesso si notano dei giudizi positivi circa il fatto che lo sviluppo degli Stati borghesi implicò la fine delle autonomie locali e regionali, in quanto -si afferma- senza la centralizzazione dei poteri difficilmente la borghesia avrebbe potuto avere la meglio su feudatari e clero. Tuttavia, la stessa storiografia, subito dopo aver costatato il successo della centralizzazione politica, afferma che proprio essa creò nuovi problemi, nuove contraddizioni antagonistiche, che finirono col danneggiare soprattutto gli interessi dei ceti non proprietari. Questo modo di vedere le cose oggi può essere considerato superato, poiché una qualunque forma di centralizzazione dei poteri (anche la più progressista sul piano ideologico), senza una forte democratizzazione a livello locale e regionale, porta sempre a favorire gli interessi di una ristretta minoranza (anche se le intenzioni originarie andavano nella direzione opposta).
Lenin si accorse subito di questo pericolo, ma non ebbe il tempo per scongiurarlo (il suo testamento politico, purtroppo, non venne neppure preso in considerazione). La centralizzazione non può servire a giustificare il superamento più agevole del passato regime, se in tal modo si rischia di compromettere, anche nel breve periodo, l’interesse della maggioranza dei cittadini. Il socialismo sovietico fu favorevole (anche con Lenin) al centralismo, al fine di combattere meglio l’aristocrazia feudo-clericale e la borghesia, e pensò che nel lungo periodo -dopo la vittoria sulla controrivoluzione- le masse avrebbe beneficiato di una ricaduta positiva delle conquiste rivoluzionarie.
Ma tale ricaduta, in realtà, non si è mai verificata, se non in termini molto limitati (relativamente alla situazione socioeconomica, poiché in quella delle libertà civili e politiche la ricaduta non ci fu per nulla). Oggi bisogna affermare che il centralismo può essere condiviso solo a condizione che si affermi, nel contempo, un’ampia democrazia di base e che, in ogni caso, il centralismo ha senso solo se è funzionale alla democrazia e non questa a quello. Nessun centralismo può vincere l’antagonismo sociale e politico senza l’appoggio delle masse.
Nel 1917 Lenin ritorna in Russia dall’esilio svizzero, godendo dell’appoggio del governo tedesco, che ha astutamente capito che nel partito bolscevico (favorevole alla pace) può sperare una breve uscita della Russia dallo scacchiere bellico. Rientrato in Russia, Lenin trova un partito bolscevico dalle idee confuse e decide di stabilizzarlo sfruttando la propria abilità di teorico marxista. Ed è per questo che egli pubblica le celeberrime Tesi d’aprile . In esse si affrontano molti dei problemi che travagliavano la Russia: in primis, come effettuare una rivoluzione in un paese tanto arretrato quale era la Russia. I Menscevichi, in sintonia con il pensiero marxiano, intendevano fare la rivoluzione solo dopo il pieno sviluppo del capitalismo, poiché ritenevano assurdo fare la rivoluzione ancor prima che si fosse giunti al capitalismo.
Lenin la pensava diversamente: ci voleva una rivoluzione immediata, senza passare per il capitalismo, il che sembra assurdo poiché non ha senso fare la rivoluzione socialista in un paese dove non c’è il capitalismo. Ma Lenin sosteneva l’esigenza della rivoluzione proprio per questo: in un paese che di più arretrati non ce n’erano, non aveva senso alcuno che a governare fosse la borghesia. Ne venne fuori una situazione paradossale, in disaccordo con le previsioni di Marx: la piena industrializzazione russa doveva essere gestita non dalla borghesia (come era avvenuto in tutti i paesi europei), bensì dal proletariato. Lenin ci tiene a precisare che il capitalismo non è un fatto di un singolo paese, bensì è un processo di portata mondiale, sicchè non ci si deve aspettare la rivoluzione da paesi capitalisticamente progrediti (quali la Germania o l’Inghilterra), ma dal più arretrato e feudale di tutti (la Russia appunto), poiché essa è ‘ l’anello debole ‘ della catena del capitalismo mondiale.
La rivoluzione sarebbe dunque divampata in Russia (il paese più arretrato) per poi coinvolgere l’intero mondo, trovando il suo epicentro in paesi progrediti quali la Germania o l’Inghilterra: non è dunque corretto parlare di tante e singole rivoluzioni, bensì vi è una sola grande rivoluzione, destinata ad abbattere l’unico capitalismo che infesta il mondo. E del resto, notava Lenin, se la rivoluzione avesse attecchito solo in Russia, una volta terminata la guerra, le grandi potenze reazionarie europee si sarebbero coalizzate per estinguerla brutalmente. Questo ci permette di capire come il Lenin delle Tesi d’ aprile avesse in mente un’idea che verrà poi meglio esplicitata da Trotsky : l’idea di ‘rivoluzione permanente’, che altro non era che la convinzione che la rivoluzione dovesse svilupparsi in tutto il mondo per annientare in esso il capitalismo. Una delle grandi novità proposte da Lenin nelle Tesi d’aprile fu la parola d’ordine ‘ il potere ai soviet ‘: aveva dichiarato aperta ostilità al governo provvisorio di Kerenskij, in nome della lotta intransigente contro la guerra, definita come imperialista indipendentemente dall’assetto politico del paese e aveva espresso la volontà di trasformare il partito di forza minoritaria in forza di maggioranza, guida di una nuova rivoluzione, quella appunto destinata a conseguire il potere ai soviet.
Secondo Lenin il partito bolscevico doveva ‘ spiegare alle masse in modo paziente, sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici, gli errori della loro tattica […], sostenendo in pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai consigli dei deputati operai, perché le masse possano liberarsi dai loro errori sulla base dell’esperienza ‘. Una parola d’ordine che comportava il massimo di democrazia diretta e di autogoverno per le masse popolari veniva così sostenuta attraverso l’esaltazione del ruolo del partito, posto implicitamente al di sopra delle masse stesse, alle quali doveva insegnare a vincere. L’iniziativa spontanea delle masse, che aveva portato ai soviet (Lenin riconobbe sempre il carattere spontaneo delle nuove organizzazioni), doveva assoggettarsi alla direzione del partito: le masse potevano sbagliare, anzi il loro cammino era disseminato di errori, mentre il partito era infallibile. La concezione di Lenin sulla rivoluzione era nettamente diversa da quella di tutte le altre forze socialiste, poiché infatti Lenin, come accennavamo, voleva arrivare immediatamente al regime socialista, senza passare per il capitalismo. In una delle prime Tesi d’aprile egli dice che ‘ l’originalità dell’attuale momento in Russia consiste nel passaggio dalla prima fase della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell’insufficiente grado di coscienza del proletariato alla seconda fase che deve dare il potere al proletariato e agli strati più poveri dei contadini ‘. Lenin voleva arrivare al socialismo bruciando le tappe del capitalismo per diversi motivi: uno di questi consisteva nella convinzione che la guerra avesse creato una crisi profonda degli equilibri politici e dei rapporti di forza nella società in tutta Europa. La Russia sarebbe stato il punto di partenza della rivoluzione che avrebbe presto (secondo Lenin) raggiunto tutto il pianeta proprio perché essa era l’anello debole della catena imperialista, ovvero era il paese in cui il rovesciamento del potere esistente era più facile e rapido.
Questa tesi era già stata sostenuta con grande precisione da Lenin, nel marzo 1917, dall’esilio svizzero: ‘ la Russia è un paese contadino, uno dei paesi più arretrati d’Europa. Il socialismo non vi può vincere direttamente e immediatamente. Ma il carattere contadino del paese […] può dare alla rivoluzione democratica borghese in Russia un’ampiezza formidabile e far sì che la nostra rivoluzione sia il prologo della rivoluzione socialista mondiale, sia un passo verso di essa ‘. Giocava poi a favore della Russia un altro fattore, notava Lenin: la rivoluzione in Russia non avrebbe assunto il carattere di rivoluzione proletaria (come nel resto d’Europa), non sarebbe cioè stata una ribellione di una sola classe sociale (gli operai), ma della stragrande maggioranza della società (operai e contadini), all’interno della quale il partito bolscevico doveva avere un ruolo di guida. Considerando il nuovo stato come il potere della stragrande maggioranza del popolo, contrapposto ad un’esigua minoranza (sia pure la minoranza degli ex privilegiati), Lenin vedeva nel parlamentarismo un inutile orpello, reso oltre tutto antiquato dalle trasformazioni politiche in tutto il mondo. La formula ‘ dittatura democratica degli operai e dei contadini ‘ riassumeva bene il concetto: si sarebbe dovuto trattare di una dittatura, poiché non avrebbe lasciato alla minoranza borghese e aristocratica il diritto di opporsi, ma democratica poiché avrebbe comunque rappresentato la stragrande maggioranza della popolazione. Di questa dittatura democratica i soviet sarebbero stati la migliore espressione ed è per questo che nelle Tesi d’aprile campeggia il motto ‘il potere ai soviet’.
Oltre che nelle Tesi, Lenin tratta dello stato anche in un altro suo scritto, intitolato Stato e Rivoluzione (composto nell’estate del 1917) , in cui sostiene che la rivoluzione deve mettere lo stato in mano al proletariato, ovvero al partito del proletariato poiché il Bolscevismo è un partito di quadri. Lo stato non viene abolito, bensì resta ed è strumento della dittatura del proletariato: qualsiasi regime è sempre, per definizione, la dittatura di una classe sulle altre, anche quando si dà una maschera democratica (il regime pre-rivoluzionario è per esempio dominio della borghesia). Si tratta dunque non di instaurare una dittatura, ma di passare da una dittatura ad un’altra: da quella borghese a quella proletaria. Ed è una dittatura ‘democratica’ perché a favore della stragrande maggioranza contro pochi contrari.
Dopo un po’ di tempo di tale dittatura, però, lo stato porterà all’eliminazione definitiva delle vecchie classi sociali (borghesia in primis), sicchè verrà meno il conflitto di classe (non essendoci più classi antagoniste) e anche la dittatura, in quanto ad esistere sarà solo più il proletariato e la dittatura era sui non-proletari. A questo punto lo stato perderà ogni significato: se prima serviva come strumento di dittatura, ora sarà del tutto inutile. Esso dunque si estingue (l’intera macchina statale finisce ‘ nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all'ascia di bronzo ’, diceva Engels) e si passa all’anarchia. Tuttavia nella storia della Russia rivoluzionaria non si riuscirà mai a sorpassare la fase di dittatura del proletariato e lo stato non verrà mai eliminato, come già temeva Bakunin quando accusava Marx sostenendo che dalla dittatura non si sarebbe mai usciti.
Quando Lenin dice che bisogna dare tutto il potere ai soviet, intende soprattutto dire che è opportuno uscire, il più presto possibile, da quella strana ambiguità di potere per cui il potere effettivo è in mano al governo democratico-liberale dei Cadetti ma senza il consenso dei soviet non può fare nulla. La soluzione la si otterrà quando i Bolscevichi attueranno la Presa del Palazzo d’Inverno. E’ curioso il fatto che Lenin si accorga di come, con la guerra mondiale, lo stato, a livello europeo ma anche mondiale, abbia cessato di essere un puro e semplice strumento del dominio di classe per diventare la massima potenza economica: sul piano dei rapporti delle classi, restava e anzi si esasperava il capitalismo, ma sul piano economico era stata avviata una statalizzazione della produzione che anticipava il socialismo o, addirittura, cominciava ad attuarlo. ‘ La metà materiale, economica ‘ del socialismo era già realizzata; si trattava di realizzare l’altra metà, cioè quella politica. ‘ Il socialismo non è altro che il capitalismo monopolistico di stato messo al servizio di tutto il popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico. Non vi è via di mezzo. La guerra imperialista è la vigilia della rivoluzione socialista. E non solo perché la guerra con i suoi orrori genera l’insurrezione proletaria, ma perché il capitalismo monopolistico di Stato è la preparazione materiale più completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo ‘.
Lenin avvertiva che con la guerra lo stato si era sempre più militarizzato anche nella sua politica interna (reprimendo ovunque i movimenti socialisti) e andava sempre più maturando la convinzione che alla fine lo stato andasse eliminato, tant’è che fu più volte accusato duramente di anarchismo (soprattutto da Kamenev).
Lenin era convinto nel 1917 della possibilità di una rivoluzione proletaria in Russia, nonostante tale arretratezza. Da tempo Lenin aveva criticato i populisti russi, fautori di un comunismo agrario anticapitalistico, opponendo ad essi la necessità di passare attraverso la fase capitalistica. Ciò non significava che la transizione al socialismo dovesse avvenire attraverso le riforme e la lotta parlamentare: anche per Lenin l' unica via era data dalla rivoluzione. Ma per condurre ad essa era necessaria la formazione di un partito di rivoluzionari professionisti, inteso come avanguardia della classe operaia.
Già nel 1902,
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Re: Grandi personaggi della storia
LUIGI XIV il Grande, detto il Re Sole
Luigi XIV (Louis-Dieudonné) (5 settembre 1638 - 1 settembre 1715), terzo della casa di Borbone della dinastia capetingia, regnò come Re di Francia e Re di Navarra dal 14 maggio 1643 alla sua morte.La sua nascita (Château-Neuf di Saint-Germain-en-Laye) apparve miracolosa, avvenendo dopo 23 anni di matrimonio sterile tra i suoi genitori, Luigi XIII e Anna d'Austria. Di questa regale devozione è traccia nel nome Louis Dieudonné, giacchè nella sua nascita si vide una grazia del cielo dovuta al voto di consacrazione della Francia alla Vergine Maria fatto da Luigi XIII e celebrata nell'agosto 1638. E non rimase figlio unico, Louis Dieudonné, giacchè due anni più tardi avvenne la nascita di Filippo, duca d'Angiò e poi duca di Orléans, detto Monsieur.Non aveva ancora compiuto cinque anni quando ereditò il trono di Francia; e non prese realmente in mano il governo fino alla morte del suo capo ministro, il Cardinale Mazarino, avvenuta nel 1661. Luigi, che è noto anche come il Re Sole (in Francese: Le Roi Soleil) e come "Luigi il Grande" (Louis le Grand), governò sulla Francia per oltre settant'anni, più di qualsiasi altro monarca francese e di tutti i principali monarchi europei.
Sposò l'infanta di Spagna Maria Teresa d'Austria (1638-1683), figlia di Filippo IV Asburgo e di Elisabetta di Francia (Elisabetta di Borbone, figlia di Enrico IV). Ne ebbe 5 figli, che morirono tutti prima di lui:
Luigi di Francia (1661-1711), detto il Gran Delfino;
Maria Teresa (1667-1672);
Anna Elisabetta (1662-1662);
Luigi di Francia (1667-1683);
Maria Anna (1664-1664).
Luigi XIV ebbe molte amanti, alcune delle quali esercitarono un grande ascendente sugli intrighi politici, ma anche sulla cultura del loro tempo, tra cui Madame de Montespan e Madame de Maintenon (che sposò in segreto dopo la morte della regina, nel 1684). A Versailles fece allestire scale segrete per raggiungere più facilmente le sue amiche. Queste relazioni irritavano fortemente il partito dei devoti e moralisti di corte, tra cui il precettore del Gran Delfino, Bossuet e, comprensibilmente, Madame de Maintenon.
I problemi legati alla successione e il cattivo stato di salute intristirono gli anni finali del regno del Re Sole.
Dopo il Gran Delfino morirono di vaiolo anche suo figlio, Luigi duca di Borgogna, e il primo figlio ed erede di questi. Rimaneva, unico principe del sangue erede legittimo di Luigi XIV, il figlio minore del duca di Borgogna, Luigi duca d'Angiò.
Degli altri due figli del Gran Delfino uno, re di Spagna con il nome di Filippo V, dovette rinunciare alla successione al trono di Francia in forza del trattato di Utrecht; l'altro morì anch'egli prima di Luigi XIV.
Il re decise allora di estendere il diritto di successione a due dei sette figli avuti dalla Montespan, Luigi Augusto di Borbone duca del Maine (1670-1736), e Luigi Alessandro di Borbone conte di Tolosa (1678-1737).
Luigi XIV morì il 1 settembre 1715 di cancrena, dopo 72 anni e 100 giorni di regno. Gli successe il pronipote Luigi duca d'Angiò, con il nome di Luigi XV e sotto la reggenza, fino alla maggiore età (nel 1723, a 13 anni), del duca Filippo di Orléans, nipote e genero del defunto Re Sole.
Durante il suo regno la Francia fu la dominatrice e il modello culturale dell'intera Europa (si pensi solo al "modello Versailles" di regge e ville di tutta Europa, dalla Svezia alla Reggia di Caserta, fino alla Meknès rifondata da Moulay Ismail e alla tarda imitazione di Herrenchiemsee, voluta da Ludwig II di Baviera), e il francese s'impose come lingua dell'aristocrazia e della diplomazia fino a tutto il XVIII secolo.
Si deve al Re Sole la trasformazione della monarchia francese in monarchia assoluta, ma in funzione di una precisa strategia volta a ridurre il potere della nobiltà, sempre pronta ad interferire con i suoi intrighi nelle scelte politiche della corona.
La frase che gli viene spesso attribuita, "L'état, c'est moi!" ("Lo Stato sono io!"), è molto probabilmente apocrifa, giacché il suo regno fu contrassegnato da grandi progressi nel diritto pubblico, proprio nella distinzione tra la persona fisica del re e lo Stato, mentre più veritiera appare l'altra frase celebre attribuitagli sul letto di morte: «Je m'en vais, mais l'État demeurera toujours.» (Io me ne vado, ma lo Stato resterà sempre).
Luigi si impegnò, piuttosto, a indebolire la nobiltà di spada costringendone i membri a servire (assai dispendiosamente) alla sua corte e a trasferire al contempo l'esercizio effettivo del potere da una parte ad una amministrazione assai centralizzata, e dall'altra alla nobiltà di censo, che essendo un suo prodotto sarebbe stata certamente fedele e non competitiva nei riguardi della monarchia.
Allo stesso modo procedette nei riguardi della Chiesa di Roma, che considerava (non a torto) promotrice e sostenitrice di non minori intrighi: la chiesa cattolica francese fu fortemente sostenuta, ma nella sua versione gallicana, facendo approvare nel 1682 dall'assemblea dei vescovi francesi, i quattro principi secondo cui:
Il Papa non aveva autorità sul potere temporale e il Re non era soggetto alla Chiesa in materia di cose civili.
Il Concilio Generale aveva autorità sul Papa.
Le antiche libertà della Chiesa francese erano inviolabili.
Il giudizio del Papa non era inconfutabile.
Nel 1685 poi, appena morto Colbert che li proteggeva, Luigi pensò bene di liberarsi dei protestanti revocando l'Editto di Nantes (revoca motivata con il pretesto che in Francia non esistevano più protestanti!), il che però provocò un esodo di categorie fortemente produttive verso l'Olanda e l'Inghilterra, che ebbe risultati disastrosi sull'economia francese sia direttamente, sia sul piano della concorrenza internazionale.
Questa scelta strategica di fortissimo accentramento trovò la propria manifestazione architettonica nella costruzione della nuova reggia a Versailles (che aveva l'ulteriore vantaggio di liberare la corte dall'assedio, sempre un po' allarmante, della sovraffollata, turbolenta e pochissimo igienica Parigi dell'epoca), e l'architetto istituzionale in Jean-Baptiste Colbert, creatore del sistema amministrativo che fece della Francia assolutista il primo paese moderno d'Europa.
Un esempio assai significativo di questo mix tra assolutismo politico ed intelligenza amministrativa fu il "Code noir", raccolta delle ordinanze relative agli schiavi neri d'America in seguito all'acquisto della Martinica nel 1674 e pubblicato dopo la morte di Colbert, nel 1685, che fece da modello fino all'800 ad altri analoghi regolamenti coloniali.
Sicuramente severo e pregiudizialmente intento a cristianizzare gli schiavi vietando loro qualsiasi altro culto, il Codice tendeva tuttavia a metterli al riparo dagli eccessi dei loro proprietari, riconosceva il loro diritto a possedere beni, seppur con dei limiti, a subire pene corporali non superiori o diverse da quelle che venivano inflitte ai francesi liberi. In particolare, le schiave messe incinte dai loro padroni avevano diritto ad essere liberate e ad essere legalmente sposate.
Abbastanza disinteressato alle conquiste coloniali, Luigi condusse invece varie guerre a carattere dinastico: la Guerra di Devoluzione, la Guerra Olandese, la Guerra della Grande Alleanza e la Guerra di successione spagnola. Alla fine, sul trono di Spagna era salito suo nipote Filippo V, ma il trattato di Utrecht segnava l'ascesa sulla scena europea di due nuove potenze, l'Inghilterra e l'Austria.
Luigi XIV fu il vero inventore della categoria della grandeur francese e perciò rimane assai amato dai francesi.
D'altra parte, la grandeur ha alti costi, di guerre e di pace. Questi costi portarono lo stato alla bancarotta, e all'applicazione di pesanti imposte sul mondo contadino e sulla provincia. Secondo lo storico Alexis de Tocqueville, la trasformazione dei nobili in cortigiani, insieme alla crescita di una borghesia che poteva sì pensare ed esprimersi, ma non aveva accesso al potere politico, furono alla radice dell'instabilità politica, sociale ed economica che sfociarono nella Rivoluzione francese.
Luigi XIV (Louis-Dieudonné) (5 settembre 1638 - 1 settembre 1715), terzo della casa di Borbone della dinastia capetingia, regnò come Re di Francia e Re di Navarra dal 14 maggio 1643 alla sua morte.La sua nascita (Château-Neuf di Saint-Germain-en-Laye) apparve miracolosa, avvenendo dopo 23 anni di matrimonio sterile tra i suoi genitori, Luigi XIII e Anna d'Austria. Di questa regale devozione è traccia nel nome Louis Dieudonné, giacchè nella sua nascita si vide una grazia del cielo dovuta al voto di consacrazione della Francia alla Vergine Maria fatto da Luigi XIII e celebrata nell'agosto 1638. E non rimase figlio unico, Louis Dieudonné, giacchè due anni più tardi avvenne la nascita di Filippo, duca d'Angiò e poi duca di Orléans, detto Monsieur.Non aveva ancora compiuto cinque anni quando ereditò il trono di Francia; e non prese realmente in mano il governo fino alla morte del suo capo ministro, il Cardinale Mazarino, avvenuta nel 1661. Luigi, che è noto anche come il Re Sole (in Francese: Le Roi Soleil) e come "Luigi il Grande" (Louis le Grand), governò sulla Francia per oltre settant'anni, più di qualsiasi altro monarca francese e di tutti i principali monarchi europei.
Sposò l'infanta di Spagna Maria Teresa d'Austria (1638-1683), figlia di Filippo IV Asburgo e di Elisabetta di Francia (Elisabetta di Borbone, figlia di Enrico IV). Ne ebbe 5 figli, che morirono tutti prima di lui:
Luigi di Francia (1661-1711), detto il Gran Delfino;
Maria Teresa (1667-1672);
Anna Elisabetta (1662-1662);
Luigi di Francia (1667-1683);
Maria Anna (1664-1664).
Luigi XIV ebbe molte amanti, alcune delle quali esercitarono un grande ascendente sugli intrighi politici, ma anche sulla cultura del loro tempo, tra cui Madame de Montespan e Madame de Maintenon (che sposò in segreto dopo la morte della regina, nel 1684). A Versailles fece allestire scale segrete per raggiungere più facilmente le sue amiche. Queste relazioni irritavano fortemente il partito dei devoti e moralisti di corte, tra cui il precettore del Gran Delfino, Bossuet e, comprensibilmente, Madame de Maintenon.
I problemi legati alla successione e il cattivo stato di salute intristirono gli anni finali del regno del Re Sole.
Dopo il Gran Delfino morirono di vaiolo anche suo figlio, Luigi duca di Borgogna, e il primo figlio ed erede di questi. Rimaneva, unico principe del sangue erede legittimo di Luigi XIV, il figlio minore del duca di Borgogna, Luigi duca d'Angiò.
Degli altri due figli del Gran Delfino uno, re di Spagna con il nome di Filippo V, dovette rinunciare alla successione al trono di Francia in forza del trattato di Utrecht; l'altro morì anch'egli prima di Luigi XIV.
Il re decise allora di estendere il diritto di successione a due dei sette figli avuti dalla Montespan, Luigi Augusto di Borbone duca del Maine (1670-1736), e Luigi Alessandro di Borbone conte di Tolosa (1678-1737).
Luigi XIV morì il 1 settembre 1715 di cancrena, dopo 72 anni e 100 giorni di regno. Gli successe il pronipote Luigi duca d'Angiò, con il nome di Luigi XV e sotto la reggenza, fino alla maggiore età (nel 1723, a 13 anni), del duca Filippo di Orléans, nipote e genero del defunto Re Sole.
Durante il suo regno la Francia fu la dominatrice e il modello culturale dell'intera Europa (si pensi solo al "modello Versailles" di regge e ville di tutta Europa, dalla Svezia alla Reggia di Caserta, fino alla Meknès rifondata da Moulay Ismail e alla tarda imitazione di Herrenchiemsee, voluta da Ludwig II di Baviera), e il francese s'impose come lingua dell'aristocrazia e della diplomazia fino a tutto il XVIII secolo.
Si deve al Re Sole la trasformazione della monarchia francese in monarchia assoluta, ma in funzione di una precisa strategia volta a ridurre il potere della nobiltà, sempre pronta ad interferire con i suoi intrighi nelle scelte politiche della corona.
La frase che gli viene spesso attribuita, "L'état, c'est moi!" ("Lo Stato sono io!"), è molto probabilmente apocrifa, giacché il suo regno fu contrassegnato da grandi progressi nel diritto pubblico, proprio nella distinzione tra la persona fisica del re e lo Stato, mentre più veritiera appare l'altra frase celebre attribuitagli sul letto di morte: «Je m'en vais, mais l'État demeurera toujours.» (Io me ne vado, ma lo Stato resterà sempre).
Luigi si impegnò, piuttosto, a indebolire la nobiltà di spada costringendone i membri a servire (assai dispendiosamente) alla sua corte e a trasferire al contempo l'esercizio effettivo del potere da una parte ad una amministrazione assai centralizzata, e dall'altra alla nobiltà di censo, che essendo un suo prodotto sarebbe stata certamente fedele e non competitiva nei riguardi della monarchia.
Allo stesso modo procedette nei riguardi della Chiesa di Roma, che considerava (non a torto) promotrice e sostenitrice di non minori intrighi: la chiesa cattolica francese fu fortemente sostenuta, ma nella sua versione gallicana, facendo approvare nel 1682 dall'assemblea dei vescovi francesi, i quattro principi secondo cui:
Il Papa non aveva autorità sul potere temporale e il Re non era soggetto alla Chiesa in materia di cose civili.
Il Concilio Generale aveva autorità sul Papa.
Le antiche libertà della Chiesa francese erano inviolabili.
Il giudizio del Papa non era inconfutabile.
Nel 1685 poi, appena morto Colbert che li proteggeva, Luigi pensò bene di liberarsi dei protestanti revocando l'Editto di Nantes (revoca motivata con il pretesto che in Francia non esistevano più protestanti!), il che però provocò un esodo di categorie fortemente produttive verso l'Olanda e l'Inghilterra, che ebbe risultati disastrosi sull'economia francese sia direttamente, sia sul piano della concorrenza internazionale.
Questa scelta strategica di fortissimo accentramento trovò la propria manifestazione architettonica nella costruzione della nuova reggia a Versailles (che aveva l'ulteriore vantaggio di liberare la corte dall'assedio, sempre un po' allarmante, della sovraffollata, turbolenta e pochissimo igienica Parigi dell'epoca), e l'architetto istituzionale in Jean-Baptiste Colbert, creatore del sistema amministrativo che fece della Francia assolutista il primo paese moderno d'Europa.
Un esempio assai significativo di questo mix tra assolutismo politico ed intelligenza amministrativa fu il "Code noir", raccolta delle ordinanze relative agli schiavi neri d'America in seguito all'acquisto della Martinica nel 1674 e pubblicato dopo la morte di Colbert, nel 1685, che fece da modello fino all'800 ad altri analoghi regolamenti coloniali.
Sicuramente severo e pregiudizialmente intento a cristianizzare gli schiavi vietando loro qualsiasi altro culto, il Codice tendeva tuttavia a metterli al riparo dagli eccessi dei loro proprietari, riconosceva il loro diritto a possedere beni, seppur con dei limiti, a subire pene corporali non superiori o diverse da quelle che venivano inflitte ai francesi liberi. In particolare, le schiave messe incinte dai loro padroni avevano diritto ad essere liberate e ad essere legalmente sposate.
Abbastanza disinteressato alle conquiste coloniali, Luigi condusse invece varie guerre a carattere dinastico: la Guerra di Devoluzione, la Guerra Olandese, la Guerra della Grande Alleanza e la Guerra di successione spagnola. Alla fine, sul trono di Spagna era salito suo nipote Filippo V, ma il trattato di Utrecht segnava l'ascesa sulla scena europea di due nuove potenze, l'Inghilterra e l'Austria.
Luigi XIV fu il vero inventore della categoria della grandeur francese e perciò rimane assai amato dai francesi.
D'altra parte, la grandeur ha alti costi, di guerre e di pace. Questi costi portarono lo stato alla bancarotta, e all'applicazione di pesanti imposte sul mondo contadino e sulla provincia. Secondo lo storico Alexis de Tocqueville, la trasformazione dei nobili in cortigiani, insieme alla crescita di una borghesia che poteva sì pensare ed esprimersi, ma non aveva accesso al potere politico, furono alla radice dell'instabilità politica, sociale ed economica che sfociarono nella Rivoluzione francese.
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Re: Grandi personaggi della storia
Martin Lutero
Martin Lutero (Martin Luther), il grande riformatore tedesco, nacque il 10 novembre 1483 ad Eisleben, una cittadina nella Turingia, regione centro-orientale della Germania. Suo padre, Hans Luther, originariamente un contadino, fece fortuna come imprenditore nelle miniere di rame, mentre la madre, Margarethe Ziegler era una massaia.
Nel 1484, proprio poco dopo la nascita del piccolo Martin (primogenito di sette fratelli), i genitori si trasferirono nel vicino paese di Mansfeld, in seguito alla nomina del padre a magistrato - grazie alla rilevante fortuna acquisita - di quella cittadina. A Mansfeld Lutero frequentò la scuola di latino mentre nel 1497 si recò a Magdeburgo per intraprendere gli studi presso la scuola dei Fratelli della Vita Comune, fondati dal mistico Geert de Groote. Tuttavia Lutero vi rimase solo per un anno, andando a vivere successivamente da alcuni parenti ad Eisenach, dove risedette fino al 1501.
In quell'anno il padre lo inviò ad iscriversi all'università della città imperiale di Erfurt dove il giovane studiò arti liberali, conseguendo il baccalaureato nel 1502 e il titolo di magister artium nel febbraio 1505. E fu proprio il 1505 un anno cruciale per Lutero: secondo i suoi biografi, il 2 luglio, ritornando ad Erfurt dopo una visita ai genitori, vicino al villaggio di Stotternheim incappò in un violento temporale durante il quale fu quasi ucciso da un fulmine. Si racconta che nella tormenta Lutero, terrorizzato, fece voto a Sant'Anna che se fosse sopravvissuto avrebbe preso i voti.
Il temporale passò e lo studioso mantenne la promessa due settimane più tardi.
Naturalmente, l'episodio del temporale affrettò probabilmente un'evoluzione già in corso da tempo e non fu, come si vuol troppo semplicisticamente credere, un'illuminazione improvvisa.
Ad ogni modo entrò, contro la volontà paterna, nel convento agostiniano-eremitano di Erfurt, dove pronunciò i voti nel 1506, e dove venne ordinato sacerdote il 3 Aprile 1507. La regola dell'Ordine prescriveva una sistematica lettura della Bibbia. In breve Lutero acquistò una conoscenza straordinaria della Sacra Scrittura.
In convento, inoltre, sotto la guida del frate superiore Johann Staupitz, si dedicò allo studio degli scritti di Aristotele, Sant'Agostino, Pietro Lombardo e del filosofo scolastico Gabriel Biel, commentatore del pensiero nominalista di Guglielmo di Ockham, il cui orientamento teologico era dominante presso gli agostiniani.
Nel 1508, dietro raccomandazione di Staupitz, gli venne assegnata una cattedra di filosofia morale ed etica aristotelica all'università di Wittenberg, appena fondata nel 1502 dal principe elettore Federico III di Sassonia, detto il Saggio.
Nelle sue riflessioni stava prendendo corpo la convinzione che le nostre opere non possono essere altro che peccaminose, perché la natura umana è solo peccato. Il corollario, sul piano delle fede, è che la salvezza è concessa da Dio per la sola fede e la sola grazia.
Da Wittenberg il futuro riformatore si recò nel 1510 a Roma, assieme al suo maestro Johann Nathin, per portare una lettera di protesta in merito ad una diatriba interna all'ordine agostiniano. Lutero ne approfittò per visitare la città, facendo il giro dei luoghi santi, per guadagnare, come era consuetudine, indulgenze.
La prassi delle indulgenze, nata durante le crociate, prevedeva inizialmente che chi non poteva rispondere fisicamente all'appello dei Papi per la liberazione dei luoghi santi, si concedeva la possibilità di una partecipazione mediante un contributo in denaro accompagnato da pratiche spirituali. In seguito il principio andò estendendosi ad altre opere buone. Le indulgenze si trasformarono poi in un grosso affare bancario. La concessione dell'indulgenza ai vivi e ai defunti era dilatata al massimo ed era liberata in gran parte degli obblighi spirituali riducendosi al puro versamento del denaro.Il 31 ottobre 1517 Lutero scrisse una lettera ad Alberto di Hohenzollern Brandeburgo, arcivescovo di Magdeburgo e di Magonza, e al vescovo di Brandeburgo, Schultz, chiedendo di ritirare la "Instructio" che disciplinava la concessione delle indulgenze e di dare doverose disposizioni. La lettera era accompagnata dalle famose 95 tesi, in cui si trattava il problema dell'indulgenza.
Solo in seguito, alla mancata risposta da parte dei vescovi egli si decise di far conoscere le sue tesi dentro e fuori Wittenberg. Le 95 tesi non respingono del tutto la dottrina delle indulgenze, ma ne limitano molto l'efficacia, soprattutto sottraendola al solo atto formale dell'offerta.
Le 95 tesi, tuttavia, non sembrarono ancora un aperto invito alla ribellione (vi affiora infatti l'immagine di un Papa non informato a sufficienza degli abusi).
Nell'ottobre del 1518, però, Lutero invitava il Papa a convocare un Concilio, riconoscendo ancora implicitamente un'autorità della Chiesa superiore al Papa. Si trattava in ogni caso del famoso appello al Concilio contro il Papa, già severamente condannato da Pio II con la bolla "Execrabilis" del 1459.
L'anno seguente, il 1519, Lutero negava pure l'autorità dei Concili. La Sola Scrittura, in pratica solo la Bibbia, e non il Magistero della Chiesa, dovevano considerarsi fonte di verità, tutte considerazioni poi approfondite in alcuni celebri scritti.
Con il presentare sulla base del principio "Sola fede, sola grazia, sola Scrittura", intendendo cioè il rapporto tra Dio e l'uomo come diretto e personale, Lutero eliminava la Chiesa quale mediatrice mediante i Sacramenti. Essi, infatti, erano ridotti al solo Battesimo e alla sola Eucarestia, sia quale detentrice del magistero. Affermazioni che non potevano non provocare un enorme scandalo, che infatti diede origine alla scissione da Santa Romana Chiesa e diede il via a quell'enorme rivoluzione culturale che va sotto il nome di Protestantesimo.
Dopo aver sconvolto con la sua Riforma l'Europa e l'equilibrio fra gli Stati, Lutero muore a Eisleben, sua città natale, il 18 febbraio 1546.
Martin Lutero (Martin Luther), il grande riformatore tedesco, nacque il 10 novembre 1483 ad Eisleben, una cittadina nella Turingia, regione centro-orientale della Germania. Suo padre, Hans Luther, originariamente un contadino, fece fortuna come imprenditore nelle miniere di rame, mentre la madre, Margarethe Ziegler era una massaia.
Nel 1484, proprio poco dopo la nascita del piccolo Martin (primogenito di sette fratelli), i genitori si trasferirono nel vicino paese di Mansfeld, in seguito alla nomina del padre a magistrato - grazie alla rilevante fortuna acquisita - di quella cittadina. A Mansfeld Lutero frequentò la scuola di latino mentre nel 1497 si recò a Magdeburgo per intraprendere gli studi presso la scuola dei Fratelli della Vita Comune, fondati dal mistico Geert de Groote. Tuttavia Lutero vi rimase solo per un anno, andando a vivere successivamente da alcuni parenti ad Eisenach, dove risedette fino al 1501.
In quell'anno il padre lo inviò ad iscriversi all'università della città imperiale di Erfurt dove il giovane studiò arti liberali, conseguendo il baccalaureato nel 1502 e il titolo di magister artium nel febbraio 1505. E fu proprio il 1505 un anno cruciale per Lutero: secondo i suoi biografi, il 2 luglio, ritornando ad Erfurt dopo una visita ai genitori, vicino al villaggio di Stotternheim incappò in un violento temporale durante il quale fu quasi ucciso da un fulmine. Si racconta che nella tormenta Lutero, terrorizzato, fece voto a Sant'Anna che se fosse sopravvissuto avrebbe preso i voti.
Il temporale passò e lo studioso mantenne la promessa due settimane più tardi.
Naturalmente, l'episodio del temporale affrettò probabilmente un'evoluzione già in corso da tempo e non fu, come si vuol troppo semplicisticamente credere, un'illuminazione improvvisa.
Ad ogni modo entrò, contro la volontà paterna, nel convento agostiniano-eremitano di Erfurt, dove pronunciò i voti nel 1506, e dove venne ordinato sacerdote il 3 Aprile 1507. La regola dell'Ordine prescriveva una sistematica lettura della Bibbia. In breve Lutero acquistò una conoscenza straordinaria della Sacra Scrittura.
In convento, inoltre, sotto la guida del frate superiore Johann Staupitz, si dedicò allo studio degli scritti di Aristotele, Sant'Agostino, Pietro Lombardo e del filosofo scolastico Gabriel Biel, commentatore del pensiero nominalista di Guglielmo di Ockham, il cui orientamento teologico era dominante presso gli agostiniani.
Nel 1508, dietro raccomandazione di Staupitz, gli venne assegnata una cattedra di filosofia morale ed etica aristotelica all'università di Wittenberg, appena fondata nel 1502 dal principe elettore Federico III di Sassonia, detto il Saggio.
Nelle sue riflessioni stava prendendo corpo la convinzione che le nostre opere non possono essere altro che peccaminose, perché la natura umana è solo peccato. Il corollario, sul piano delle fede, è che la salvezza è concessa da Dio per la sola fede e la sola grazia.
Da Wittenberg il futuro riformatore si recò nel 1510 a Roma, assieme al suo maestro Johann Nathin, per portare una lettera di protesta in merito ad una diatriba interna all'ordine agostiniano. Lutero ne approfittò per visitare la città, facendo il giro dei luoghi santi, per guadagnare, come era consuetudine, indulgenze.
La prassi delle indulgenze, nata durante le crociate, prevedeva inizialmente che chi non poteva rispondere fisicamente all'appello dei Papi per la liberazione dei luoghi santi, si concedeva la possibilità di una partecipazione mediante un contributo in denaro accompagnato da pratiche spirituali. In seguito il principio andò estendendosi ad altre opere buone. Le indulgenze si trasformarono poi in un grosso affare bancario. La concessione dell'indulgenza ai vivi e ai defunti era dilatata al massimo ed era liberata in gran parte degli obblighi spirituali riducendosi al puro versamento del denaro.Il 31 ottobre 1517 Lutero scrisse una lettera ad Alberto di Hohenzollern Brandeburgo, arcivescovo di Magdeburgo e di Magonza, e al vescovo di Brandeburgo, Schultz, chiedendo di ritirare la "Instructio" che disciplinava la concessione delle indulgenze e di dare doverose disposizioni. La lettera era accompagnata dalle famose 95 tesi, in cui si trattava il problema dell'indulgenza.
Solo in seguito, alla mancata risposta da parte dei vescovi egli si decise di far conoscere le sue tesi dentro e fuori Wittenberg. Le 95 tesi non respingono del tutto la dottrina delle indulgenze, ma ne limitano molto l'efficacia, soprattutto sottraendola al solo atto formale dell'offerta.
Le 95 tesi, tuttavia, non sembrarono ancora un aperto invito alla ribellione (vi affiora infatti l'immagine di un Papa non informato a sufficienza degli abusi).
Nell'ottobre del 1518, però, Lutero invitava il Papa a convocare un Concilio, riconoscendo ancora implicitamente un'autorità della Chiesa superiore al Papa. Si trattava in ogni caso del famoso appello al Concilio contro il Papa, già severamente condannato da Pio II con la bolla "Execrabilis" del 1459.
L'anno seguente, il 1519, Lutero negava pure l'autorità dei Concili. La Sola Scrittura, in pratica solo la Bibbia, e non il Magistero della Chiesa, dovevano considerarsi fonte di verità, tutte considerazioni poi approfondite in alcuni celebri scritti.
Con il presentare sulla base del principio "Sola fede, sola grazia, sola Scrittura", intendendo cioè il rapporto tra Dio e l'uomo come diretto e personale, Lutero eliminava la Chiesa quale mediatrice mediante i Sacramenti. Essi, infatti, erano ridotti al solo Battesimo e alla sola Eucarestia, sia quale detentrice del magistero. Affermazioni che non potevano non provocare un enorme scandalo, che infatti diede origine alla scissione da Santa Romana Chiesa e diede il via a quell'enorme rivoluzione culturale che va sotto il nome di Protestantesimo.
Dopo aver sconvolto con la sua Riforma l'Europa e l'equilibrio fra gli Stati, Lutero muore a Eisleben, sua città natale, il 18 febbraio 1546.
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Re: Grandi personaggi della storia
MARCO POLO
Marco Polo nasce nel 1254 a Venezia da una nobile famiglia di mercanti, originaria di Sebenico in Dalmazia.
Nei mesi intorno alla sua nascita, il padre Niccolò e lo zio Matteo, partono per un viaggio commerciale in Oriente e si stabiliscono, prima a Costantinopoli, poi a Soldaia, in Crimea.
I due facoltosi mercanti puntavano ad ottenere facilitazioni mercantili e commerciali attraverso le nuove vie ed i nuovi contatti con l'Oriente per i propri commerci e quelli della loro città, in concorrenza con le altre città marinare.
Nel loro viaggio, i fratelli Polo si spingono fino alla corte del grande Qubilai, il conquistatore e unificatore della Cina, il più illustre discendente di Gengis Can e durante questo loro primo soggiorno ottengono importanti privilegi e probabilmente anche la dignità nobiliare mongola.
Nel 1269, quando il padre e lo zio fanno ritorno a Venezia, Marco ha solo quindici anni e, nella primavera o nell’estate del 1271, quando ripartono, parte insieme con loro per la Cina, dove rimarrà per circa venticinque anni.
Dopo aver lasciato, nel novembre del 1271, San Giovanni d’Acri con un viaggio attraverso steppe e montagne dell'Asia, durato più di tre anni, i Polo giungono a Pechino alla corte del Gran Kahn verso il maggio 1275, nel punto nevralgico di un impero enorme e favoloso.
Marco Polo su incarico dall’Imperatore, ispeziona le regioni al confine del Tibet e lo Yün-nan fregiandosi del titolo di “Messere”, titolo che lo lega direttamente alla figura del sovrano, rappresentandolo come informatore ed ambasciatore personale presso tutti i popoli dell’impero.
Durante tutta la sua permanenza presso la corte mongola, Marco svolgerà, per conto del Gran Khan, anche attività amministrative, incarichi diplomatici, lunghe e delicate ambascerie, compiendo per questo diversi viaggi che lo portarono in ogni angolo dell'impero.
Nel 1278 Marco Polo viene nominato Governatore di Hang-chou, già capitale, sotto la dinastia dei Sung, del reame dei Mangi.
Nel 1292, a ventun'anni dalla partenza da Venezia, Marco Polo inizia il viaggio di ritorno salpando dal porto di Zaitun e arrivando in patria nel 1295.
Nel 1298, durante una delle tante battaglie navali che a quel tempo avvenivano tra veneziani e genovesi, probabilmente nella battaglia di Curzola, Marco Polo cade prigioniero dei genovesi.
In carcere racconta le avventure e il suo lungo soggiorno in Oriente ad un suo compagno di cella, Rustichello da Pisa che le trascrive in francese misto ad espressioni in veneto e italiano.
Questo resoconto di viaggio intitolato "Le Divisament du Monde", ben presto volgarizzato, circolerà in versioni toscane più o meno fedeli, riscuoterà, fin dai primi anni del Trecento, un notevole successo con il titolo di "Milione", soprannome della famiglia dei Polo, dal nome Emilione, un antenato della famiglia.
Il «nobilis vir Marchus Paulo Milioni» — così come l’illustre viaggiatore è chiamato in un documento del 1305, muore a Venezia tra il 1324 e il 1325 lasciando il primo esempio di prosa scientifica moderna, un libro con notizie precise e dettagliate sugli usi, i costumi, la geografia e l'economia di popoli e di terre sconosciute e lontane.
Marco Polo nasce nel 1254 a Venezia da una nobile famiglia di mercanti, originaria di Sebenico in Dalmazia.
Nei mesi intorno alla sua nascita, il padre Niccolò e lo zio Matteo, partono per un viaggio commerciale in Oriente e si stabiliscono, prima a Costantinopoli, poi a Soldaia, in Crimea.
I due facoltosi mercanti puntavano ad ottenere facilitazioni mercantili e commerciali attraverso le nuove vie ed i nuovi contatti con l'Oriente per i propri commerci e quelli della loro città, in concorrenza con le altre città marinare.
Nel loro viaggio, i fratelli Polo si spingono fino alla corte del grande Qubilai, il conquistatore e unificatore della Cina, il più illustre discendente di Gengis Can e durante questo loro primo soggiorno ottengono importanti privilegi e probabilmente anche la dignità nobiliare mongola.
Nel 1269, quando il padre e lo zio fanno ritorno a Venezia, Marco ha solo quindici anni e, nella primavera o nell’estate del 1271, quando ripartono, parte insieme con loro per la Cina, dove rimarrà per circa venticinque anni.
Dopo aver lasciato, nel novembre del 1271, San Giovanni d’Acri con un viaggio attraverso steppe e montagne dell'Asia, durato più di tre anni, i Polo giungono a Pechino alla corte del Gran Kahn verso il maggio 1275, nel punto nevralgico di un impero enorme e favoloso.
Marco Polo su incarico dall’Imperatore, ispeziona le regioni al confine del Tibet e lo Yün-nan fregiandosi del titolo di “Messere”, titolo che lo lega direttamente alla figura del sovrano, rappresentandolo come informatore ed ambasciatore personale presso tutti i popoli dell’impero.
Durante tutta la sua permanenza presso la corte mongola, Marco svolgerà, per conto del Gran Khan, anche attività amministrative, incarichi diplomatici, lunghe e delicate ambascerie, compiendo per questo diversi viaggi che lo portarono in ogni angolo dell'impero.
Nel 1278 Marco Polo viene nominato Governatore di Hang-chou, già capitale, sotto la dinastia dei Sung, del reame dei Mangi.
Nel 1292, a ventun'anni dalla partenza da Venezia, Marco Polo inizia il viaggio di ritorno salpando dal porto di Zaitun e arrivando in patria nel 1295.
Nel 1298, durante una delle tante battaglie navali che a quel tempo avvenivano tra veneziani e genovesi, probabilmente nella battaglia di Curzola, Marco Polo cade prigioniero dei genovesi.
In carcere racconta le avventure e il suo lungo soggiorno in Oriente ad un suo compagno di cella, Rustichello da Pisa che le trascrive in francese misto ad espressioni in veneto e italiano.
Questo resoconto di viaggio intitolato "Le Divisament du Monde", ben presto volgarizzato, circolerà in versioni toscane più o meno fedeli, riscuoterà, fin dai primi anni del Trecento, un notevole successo con il titolo di "Milione", soprannome della famiglia dei Polo, dal nome Emilione, un antenato della famiglia.
Il «nobilis vir Marchus Paulo Milioni» — così come l’illustre viaggiatore è chiamato in un documento del 1305, muore a Venezia tra il 1324 e il 1325 lasciando il primo esempio di prosa scientifica moderna, un libro con notizie precise e dettagliate sugli usi, i costumi, la geografia e l'economia di popoli e di terre sconosciute e lontane.
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Re: Grandi personaggi della storia
Napoleone Bonaparte
Napoleone Bonaparte , Condottiero, Statista, Imperatore dei francesi e Re d'Italia, nacque ad Ajaccio in Corsica il 15 agosto 1769.
Appartenente alla piccola nobiltà provinciale corsa, studiò nel collegio di Autun, poi indirizzato dal padre avvocato alla carriera militare studiò nel collegio militare di Brienne e, dopo i 15 anni, alla scuola militare di Parigi, ottenendo il grado di sottotenente di artiglieria un anno dopo.
La Francia sta affrontando le insurezioni della Rivoluzione Francese ed i meriti di Napolene Bonaparte sono tali che nel 1791 viene nominato comandante di battaglione nella Guardia Nazionale di Ajaccio ed in seguito, distintosi nell'assedio di Tolone, occupata dagli inglesi viene nominato Generale di Brigata nell'ottobre del 1793.
Fervido sostenitore della causa giacobina e legato al gruppo di Robespierre, venne arrestato, dopo il colpo di stato del termidoro, radiato dall'esercito e reintegrato nei gradi quando Barras gli affidò il compito di reprimere il colpo di stato realista del 13 vendemmiaio 1795.
Avuto il 2 marzo 1796 il comando dell'Armata in Italia, con il compito di impegnare le forze austro-piemontesi, alleggerendo in tal modo il fronte tedesco, conseguì parecchie vittorie, fino alla Pace di Campoformio, consolidando ulteriormente la sua posizione.
Dotato di un temperamento emotivo ed inquieto, desideroso di potere, dotato di uno spiccato senso dell'opportunità, forte del prestigio conquistato sul campo, nel settembre del 1797 aiutò il Direttorio ad eliminare dalle assemblee alcuni membri compiendo un vero e proprio colpo di stato (il Coup d'etat di Fruttidoro) ed impose una determinata linea diplomatica che pesò sull'assetto istituzionale dei territori conquistati.
Nel 1798 gli fu affidata la spedizione in Egitto, destinata a tagliare i collegamenti dell'Inghilterra con l'India e gli altri suoi possedimenti d'oltremare.
All'inizio fu una campagna vittoriosa, Napoleone Bonaparte conquistò in giugno l'isola di Malta, in luglio Alessandria d'Egitto e cominciò ad avanzare verso la Siria, ma queste vittorie furono vanificata dalla distruzione, in agosto, della flotta francese ad opera dell'ammiraglio inglese Nelson nella baia di Abukir.
Per colmo di sfortuna, l'esercito francese fu colpito dalla peste nel maggio 1799 e Napoleone, costretto ad abbandonare l'Egitto, salpò da Alessandria in agosto, riuscendo a malapena a sfuggire alla sorveglianza della flotta inglese ed a sbarcare in Francia, mentre il paese era sotto la minaccia dell'invasione.
Il diciotto brumaio Napoleone, facendo ricorso all'esercito, instaurò una dittatura militare che, attraverso una riforma costituzionale, affidava il potere a tre Consoli, di cui il primo era lui stesso .
Quando fu eletto Primo Console, Napoleone aveva solo 30 anni e gestiva un potere enorme: costrinse alla pace prima l'Austria nel 1801 e l'Inghilterra nel 1802 e poi si dedicò alla riorganizzazione interna della Francia.
Fautore di una riorganizzazione dello stato fondata su un forte potere esecutivo e sull'accentramento amministrativo, Napoleone Bonaparte sottopose l'intero territorio francese al controllo del governo centrale tramite l'azione dei prefetti e dei sindaci che erano di nomina governativa.
Realizzò una grande riorganizzazione degli ordinamenti legislativi e diede grande importanza al Codice Civile che, estese a tutti gli Stati annessi o vassalli, sancendo i principi della libertà individuale, dell'uguaglianza giuridica e della proprietà privata.
Grande riformatore, Napoleone istituì la Banca di Francia per liberare lo stato dalla dipendenza dai banchieri privati; per favorire la pace sociale amnistiò i fuorusciti monarchici disposti a giurare fedeltà al regime e, per soddisfare le aspettative dei cattolici, stipulò nel 1801 un concordato con la Santa Sede, riconoscendo il cattolicesimo come religione della maggior parte dei francesi.
La politica estera perseguita da Napoleone Bonaparte gli consentì, con la forza delle armi (guerre napoleoniche), di riorganizzare temporaneamente l'Europa centroccidentale in modo conforme agli interessi francesi, introducendo profonde riforme negli assetti istituzionali e sociali dei paesi assoggettati.
Nel 1804 fu incoronato, dal Papa, Imperatore dei francesi, a Parigi, nella Chiesa di Notre Dame e, l'anno dopo, si proclamò Re d'Italia.
Negli anni seguenti una lunga serie di vittorie gli permise di frantumare la terza coalizione, formata da Gran Bretagna, Austria e Russia e nel 1810, preoccupato di lasciare una discendenza, Napoleone sposò Marie Louise d'Austria che gli diede un figlio, Napoleone II.
Nel 1812 Gran Bretagna, Russia e Svezia si allearono ad altre nazioni, dando vita alla quarta coalizione e nel tentativo abbatterla, Napoleone tentò l'invasione della Russia con 600.000 uomini, la "Grande Armata", invasione che si trasformò in una sconfitta che costò la vita di 500.000 uomini.
Le nazioni coalizzate invasero la Francia indifesa, il 4 marzo 1814 Parigi venne occupata dalle truppe nemiche, il il 6 aprile Napoleone è costretto ad abdicare in favore di suo figlio e poi a rinunciare alla totalità dei suoi poteri andando in esilio all'isola d'Elba il 7 luglio dello stesso anno.
Durante il suo esilio, Austriaci, Prussiani, Inglesi e Russi, nel corso del Congresso di Vienna, si divisero quello che fu il Grande Impero di Napoleone Bonaparte che, nel marzo 1815, fuggi dalla prigionia e sbarcò in Francia, riorganizzò un esercito, sognando di riconquistare il potere, ma, dopo "cento giorni", il 18 giugno 1815 lo aspettava la disfatta sui campi di Waterloo .
Confinato nella lontana Isola di Sant'Elena, Napoleone Bonaparte morì a Longwood, sotto la sorveglianza degli inglesi, il 5 Maggio 1821.
Napoleone Bonaparte , Condottiero, Statista, Imperatore dei francesi e Re d'Italia, nacque ad Ajaccio in Corsica il 15 agosto 1769.
Appartenente alla piccola nobiltà provinciale corsa, studiò nel collegio di Autun, poi indirizzato dal padre avvocato alla carriera militare studiò nel collegio militare di Brienne e, dopo i 15 anni, alla scuola militare di Parigi, ottenendo il grado di sottotenente di artiglieria un anno dopo.
La Francia sta affrontando le insurezioni della Rivoluzione Francese ed i meriti di Napolene Bonaparte sono tali che nel 1791 viene nominato comandante di battaglione nella Guardia Nazionale di Ajaccio ed in seguito, distintosi nell'assedio di Tolone, occupata dagli inglesi viene nominato Generale di Brigata nell'ottobre del 1793.
Fervido sostenitore della causa giacobina e legato al gruppo di Robespierre, venne arrestato, dopo il colpo di stato del termidoro, radiato dall'esercito e reintegrato nei gradi quando Barras gli affidò il compito di reprimere il colpo di stato realista del 13 vendemmiaio 1795.
Avuto il 2 marzo 1796 il comando dell'Armata in Italia, con il compito di impegnare le forze austro-piemontesi, alleggerendo in tal modo il fronte tedesco, conseguì parecchie vittorie, fino alla Pace di Campoformio, consolidando ulteriormente la sua posizione.
Dotato di un temperamento emotivo ed inquieto, desideroso di potere, dotato di uno spiccato senso dell'opportunità, forte del prestigio conquistato sul campo, nel settembre del 1797 aiutò il Direttorio ad eliminare dalle assemblee alcuni membri compiendo un vero e proprio colpo di stato (il Coup d'etat di Fruttidoro) ed impose una determinata linea diplomatica che pesò sull'assetto istituzionale dei territori conquistati.
Nel 1798 gli fu affidata la spedizione in Egitto, destinata a tagliare i collegamenti dell'Inghilterra con l'India e gli altri suoi possedimenti d'oltremare.
All'inizio fu una campagna vittoriosa, Napoleone Bonaparte conquistò in giugno l'isola di Malta, in luglio Alessandria d'Egitto e cominciò ad avanzare verso la Siria, ma queste vittorie furono vanificata dalla distruzione, in agosto, della flotta francese ad opera dell'ammiraglio inglese Nelson nella baia di Abukir.
Per colmo di sfortuna, l'esercito francese fu colpito dalla peste nel maggio 1799 e Napoleone, costretto ad abbandonare l'Egitto, salpò da Alessandria in agosto, riuscendo a malapena a sfuggire alla sorveglianza della flotta inglese ed a sbarcare in Francia, mentre il paese era sotto la minaccia dell'invasione.
Il diciotto brumaio Napoleone, facendo ricorso all'esercito, instaurò una dittatura militare che, attraverso una riforma costituzionale, affidava il potere a tre Consoli, di cui il primo era lui stesso .
Quando fu eletto Primo Console, Napoleone aveva solo 30 anni e gestiva un potere enorme: costrinse alla pace prima l'Austria nel 1801 e l'Inghilterra nel 1802 e poi si dedicò alla riorganizzazione interna della Francia.
Fautore di una riorganizzazione dello stato fondata su un forte potere esecutivo e sull'accentramento amministrativo, Napoleone Bonaparte sottopose l'intero territorio francese al controllo del governo centrale tramite l'azione dei prefetti e dei sindaci che erano di nomina governativa.
Realizzò una grande riorganizzazione degli ordinamenti legislativi e diede grande importanza al Codice Civile che, estese a tutti gli Stati annessi o vassalli, sancendo i principi della libertà individuale, dell'uguaglianza giuridica e della proprietà privata.
Grande riformatore, Napoleone istituì la Banca di Francia per liberare lo stato dalla dipendenza dai banchieri privati; per favorire la pace sociale amnistiò i fuorusciti monarchici disposti a giurare fedeltà al regime e, per soddisfare le aspettative dei cattolici, stipulò nel 1801 un concordato con la Santa Sede, riconoscendo il cattolicesimo come religione della maggior parte dei francesi.
La politica estera perseguita da Napoleone Bonaparte gli consentì, con la forza delle armi (guerre napoleoniche), di riorganizzare temporaneamente l'Europa centroccidentale in modo conforme agli interessi francesi, introducendo profonde riforme negli assetti istituzionali e sociali dei paesi assoggettati.
Nel 1804 fu incoronato, dal Papa, Imperatore dei francesi, a Parigi, nella Chiesa di Notre Dame e, l'anno dopo, si proclamò Re d'Italia.
Negli anni seguenti una lunga serie di vittorie gli permise di frantumare la terza coalizione, formata da Gran Bretagna, Austria e Russia e nel 1810, preoccupato di lasciare una discendenza, Napoleone sposò Marie Louise d'Austria che gli diede un figlio, Napoleone II.
Nel 1812 Gran Bretagna, Russia e Svezia si allearono ad altre nazioni, dando vita alla quarta coalizione e nel tentativo abbatterla, Napoleone tentò l'invasione della Russia con 600.000 uomini, la "Grande Armata", invasione che si trasformò in una sconfitta che costò la vita di 500.000 uomini.
Le nazioni coalizzate invasero la Francia indifesa, il 4 marzo 1814 Parigi venne occupata dalle truppe nemiche, il il 6 aprile Napoleone è costretto ad abdicare in favore di suo figlio e poi a rinunciare alla totalità dei suoi poteri andando in esilio all'isola d'Elba il 7 luglio dello stesso anno.
Durante il suo esilio, Austriaci, Prussiani, Inglesi e Russi, nel corso del Congresso di Vienna, si divisero quello che fu il Grande Impero di Napoleone Bonaparte che, nel marzo 1815, fuggi dalla prigionia e sbarcò in Francia, riorganizzò un esercito, sognando di riconquistare il potere, ma, dopo "cento giorni", il 18 giugno 1815 lo aspettava la disfatta sui campi di Waterloo .
Confinato nella lontana Isola di Sant'Elena, Napoleone Bonaparte morì a Longwood, sotto la sorveglianza degli inglesi, il 5 Maggio 1821.
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