I ricordi della mia Infanzia:articolo scritto da MJ per OLAM
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I ricordi della mia Infanzia:articolo scritto da MJ per OLAM
MICHAEL JACKSON: Memories of my Childhood
When I look back on my childhood, it is not an idyllic landscape of memories. My relationship with my father was strained, and my childhood was an emotionally difficult time for me. I began performing when I was five years old, and my father - a tough man - pushed my brothers and me hard, from the earliest age, to be the best performers we could be.
Although we all worked hard to perform, he never really complimented me. If I did a great show, he would tell me it was a good show. And if I did an OK show, he didn’t say anything at all. He seemed intent, above all else, on making us a commercial success. And at that he was more than adept. My father was a managerial genius, and my brothers and I owe our professional success, in no small measure, to the forceful way he pushed us. He trained me as a showman, and under his guidance I couldn’t miss a step.
Those of you who are familiar with the Jackson Five know that since I began performing at that tender age I haven’t stopped dancing or singing. But while performing and making music undoubtedly remain among my greatest joys, when I was young I wanted more than anything else to be a typical little boy. I wanted to build tree houses, have water balloon fights and play hide-n-seek with my friends. But fate had it otherwise, and all I could do was envy the laughter and playtime that seemed to be going on all around me.
There was no respite from my professional life. But on Sundays I would go “Pioneering”, the term used for the missionary work that Jehovah’s Witnesses do. It was then that I was able to see the magic of other people’s childhood.
Since I was already a celebrity, I had to don a disguise of fat suit, wig, beard and glasses, and we would spend the day in the suburbs of Southern California, going door-to-door or making the rounds of shopping malls, distributing our Watchtower magazine. I loved to set foot in all those regular suburban houses and catch sight of the shag rugs and La-Z-Boy armchairs, kids playing Monopoly and grandmas babysitting and all those wonderful, ordinary and starry scenes of everyday life. Many, I know, would argue that these things are no big deal. But to me they were mesmerizing - because they symbolized, to me, a home life that I seemed to be missing.
My father was not openly affectionate with us, but he would show his love in different ways. I remember once when I was about four years old, we were at a little carnival and he picked me up and put me on a pony. It was a tiny gesture, probably something he forgot five minutes later. But because of that one moment, I have this special place in my heart for him. Because that’s how kids are, the little things mean so much to them and for me, that one moment meant everything. It was a gesture that showed his caring, and his love. I only experienced it that one time, but it made me feel really good, about him and the world.
And I have other memories too, of other gestures, however imperfect, that showed his love for us. When I was a kid, I had a real sweet tooth - we all did. I loved eating glazed doughnuts, and my father knew that. So every few weeks I would come downstairs in the morning and there on the kitchen counter was a bag of glazed doughnuts - no note, no explanation, just the doughnuts. It was like a fairy godmother had visited our kitchen. It was like Santa Claus. Sometimes, I would think about staying up late so I could see him leave them there, but as with Santa Claus, I didn’t want to ruin the magic, for fear that he would never do it again.
I think now that my father had to leave the doughnuts secretly at night so that no one would catch him with his guard down. He was scared of human emotion, he didn’t understand it, or know how to deal with it. But, he did know doughnuts.
And when I allow the floodgates to open up, there are other memories that come rushing back, memories of other tiny gestures, however imperfect, that showed that he did what he could.
With hindsight and maturity, I have come to see that even my father’s harshness was a kind of love. An imperfect love, sure, but love nonetheless. He pushed me because he loved me. He pushed me because he wanted me to have more than he EVER had, and he wanted my life to be better than his EVER was.
It has taken me a long time to realize this, but now I feel the resentments of my childhood are finally being put to rest. My bitterness has been replaced by blessing, and in place of my anger, I have found absolution. And with this knowledge, that my father loved his children, I have found peace.
Articolo scritto da Michael per la rivista Olam nel 2000
Quando guardo alla mia infanzia,non vedo un paesaggio idilliaco di ricordi. Il rapporto con mio padre era teso e la mia infanzia è stata un periodo emotivamente difficile per me.
Ho iniziato ad esibirmi quando avevo cinque anni, e mio padre - un uomo duro - ha spinto me e i miei fratelli,fin dalla più tenera età, a diventare i migliori interpreti che potevamo essere. Anche se abbiamo sempre lavorato duramente,non mi ha mai fatto veramente un complimento. Se facevo un grande show,lui mi diceva che lo spettacolo era stato bello e se facevo uno spettacolo OK,non mi diceva niente. Sembrava intento, soprattutto, a fare di noi un successo commerciale. E in questo è stato più che abile. Mio padre era un genio manageriale,ed io e i miei fratelli gli dobbiamo il nostro successo professionale, in misura non trascurabile, per il modo forte in cui ci ha spinto. Lui mi ha formato come uomo di spettacolo, e sotto la sua guida non potevo perdere un passo. Quelli di voi che hanno familiarità con i Jackson Five sanno che fin da quando ho iniziato a quella tenera età non ho mai smesso di ballare e cantare. Ballare e fare musica rimangono sicuramente tra le mie gioie più grandi, ma quando ero piccolo volevo solo essere un ragazzo come tutti gli altri. Avrei voluto costruire case sugli alberi, avrei voluto fare la lotta con i palloncini pieni d'acqua e avrei voluto giocare a nascondino con i miei amici. Ma il destino aveva in serbo altre cose per me, così non potevo far altro che invidiare le risate dei bambini che vedevo giocare intorno a me.
La mia vita professionale non mi dava tregua,ma la domenica andavo a fare proselitismo per i Testimoni di Geova ed era allora che potevo osservare la magia dell'infanzia in altre persone.
Dal momento che ero già una celebrità, andavo in giro indossando un travestimento-mi ingrassavo e portavo parrucca, barba e occhiali- e passavamo la giornata nei sobborghi della California del Sud, andando di porta in porta o a fare il giro dei centri commerciali per distribuire la nostra rivista Torre di Guardia.
Amavo entrare in quelle piccole case di periferia e guardare i tappeti e le poltrone in tessuto felpato e i ragazzi che giocavano a Monopoli e le nonne che facevano da baby sitter e tutte quelle scene meravigliose di una semplice vita quotidiana. Molti,lo so, diranno che non sono questi i grossi problemi,ma per me era ipnotizzante, perchè simboleggiavano per me una vita familiare che sembrava mancarmi.
Mio padre non era apertamente affettuoso con noi, ma ci mostrava il suo amore in modi diversi. Mi ricordo di una volta, quando avevo circa quattro anni, mi portò alle giostre e mi prese in braccio e mi fece sedere su un pony. Fu un gesto piccolo, probabilmente un gesto che chiunque dimenticherebbe cinque minuti dopo, ma essendo stato l'unico, lo conservo in un posto speciale del mio cuore. Perché i bambini sono così, le piccole cose significano tanto per loro e per me,quel momento, significava tutto. Con quel gesto mi dimostrava il suo amore e la sua cura ed avendolo fatto solo quella volta, mi fece provare amore verso di lui e verso il mondo.
Ho anche altri ricordi, di altri gesti che, per quanto imperfetti, ci mostravano il suo amore per noi. Quando ero un ragazzino, ero veramente tanto goloso- lo saremo stati tutti. Mi piacevano le ciambelle con la glassa e mio padre lo sapeva. Così,ogni due settimane, appena mi alzavo la mattina sul bancone della cucina c'era un sacchetto pieno di ciambelle con la glassa- nessun gesto, nessuna spiegazione, solo le ciambelle. Era come se una fata madrina avesse visitato la nostra cucina. Era come se fosse venuto Babbo Natale. A volte,sarei voluto rimanere sveglio tutta la notte per vederlo mentre lasciava il sacchetto ma, come per Babbo Natale, non volevo rovinare la magia per paura che non lo avrebbe fatto di nuovo. Ancora adesso ripenso a mio padre che di notte lascia le ciambelle di nascosto in modo che nessuno lo vedesse. Aveva paura delle emozioni umane, non le capiva e non sapeva come affrontarle. Ma ci faceva sapere che ci voleva bene con le ciambelle. E quando mi permetto di riaprire i cassetti della memoria, affiorano altri ricordi, altri gesti imperfetti, altri piccoli gesti che ci dimostravano che lui faceva quel che poteva.
Con la maturità e il senno di poi, ho capito che anche la durezza di mio padre era una specie di amore. Un amore imperfetto, certo, ma amore comunque. Mi ha spinto perché mi amava. Mi ha spinto perché voleva che io avessi tutto quello che non avevamo mai avuto e voleva che la mia vita fosse migliore di quanto non lo fosse mai stata la sua. Ci ho messo molto tempo per realizzare questo, ma ora sento che il risentimento per la mia infanzia si può finalmente mettere a riposo. La mia amarezza è stata sostituita dalla benedizione, e al posto della mia rabbia, ho trovato l'assoluzione. E con questa conoscenza, che mio padre amava i suoi figli, ho trovato la pace.
Fonte: http://www.jewishjournal.com/hollywood_jew/article/michael_jackson_memories_of_my_childhood_20090626/
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