Il fantasma che si innamorò di un uomo
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Il fantasma che si innamorò di un uomo
PROLOGO
NOT GUILTY. 10:06 p.m. June 13, 2005
SANTA MARIA, California.
"Michael Jackson è stato giudicato non colpevole di tutti e 10 i capi d'accusa a suo carico che lo hanno coinvolto in un processo per molestie sessuali su minori. Così si è conclusa la saga legale durata 2 anni per una delle pop stars più conosciute al mondo."
Questi titolo e trafiletto del Times di lunedì 14 giugno 2005.
Jermaine Jackson stringe orgoglioso il quotidiano e lo sventola come a volere che tutte, ma proprio tutte le particelle che compongono la materia vengano a contatto con il foglio di cellulosa.
Jermaine si sa, ha sempre amato fotografie e dichiarazioni, e come membro di maggior spicco della jackson family ci tiene a sottolineare che come famiglia rimarranno tutti uniti e stretti attorno a michael, e che nonostante tutto, supereranno anche questa.
Una vera dichiarazione all'americana, come si conviene.
Ma lui esce dall'aula di tribunale senza mostrare emozioni. Non esulta, non sorride.
E' tranquillo, sembra intorpidito. Saluta debolmente i fans che sono stati fatti sistemare dietro ad alcune transenne a debita distanza. Lui non c'è.
Forse è troppo deluso e non gli frega più di niente.
Doveva essere sollevato quantomeno, ma era troppo lacerato. Stanco. Si era arreso.
All'inizio della mattinata il sole era caldo, forse troppo, per una giornata di inizio estate. Ma si sa, la California è così, riesce sempre a farti sentire in vacanza, con quel clima a tratti temperato, a tratti tropicale, ma troppo umido per poterlo essere veramente.
Ed anche lui è così. Un uomo variopinto e poliedrico. Un uomo in grado di stupire gli altri con i suoi modi da bambino e la semplicità negli occhi, ma troppo ingenuo perchè gli altri ci credessero veramente. Non poteva essere che un uomo potesse davvero essere 'così'.
Due occhi profondi ed immensi che un tempo erano anche stati capaci di sognare.
Occhi che si sono forse appesantiti al ritmo delle stagioni e non solo, occhi nascosti, per la maggior parte del tempo.
Ma nemmeno lui, l'indiscusso tiranno e sovrano unico delle nostre carni mortali, aveva potuto niente su quegli occhi.
Aveva potuto lasciare i suoi effetti sui tratti del viso, sui muscoli, sulla pelle. E sul cuore. Ma non su quegli occhi.
I capelli corvini che erano stati costretti ad essere lisci, anche se poi alla fine un'onda verso la fine si ricreava sempre, sovversiva fra gli obbedienti. Il viso scavato. Un portamento elegante, quasi regale con quel completo nero.
CASA. june 15,2005
Le immagini scorrevano veloci e frammentarie al notiziario delle 20 mentre un perspicace quanto inopportuno giornalista faceva notare quanto quell'uomo dal viso teso e dalle membra smagrite non assomigliasse più al fenomeno vestito di rosso che ballava insieme agli zombie.
Seguo tutto questo dal mio salottino sollevata e amareggiata nel contempo.
Una modesta villetta a schiera in un modesto paesello dimenticato alla periferia di Milano, la mia città natale
Il mio nome è Andrea Josè Ferrari. Ho 32 anni e nelle mie vene scorre un sangue misto. Italo-cilena.
In realtà non sono mai stata in Cile, a parte una settimana quando ero in fasce per il battesimo. Mamma è originaria di Santiago ma è emigrata in italia nel 70. Da allora non è più tornata eccezion fatta per quella unica settimana nel gennaio del 1973. Non mi ha mai detto perchè, nè io lo ho mai chiesto.
Mio padre è italiano.
Ho un nome maschile perchè lui avrebbe sempre voluto un maschio.
Gli armadi della mia famiglia sono pieni di scheletri, come quelli di tante altre famiglie, o forse di più.
Ma riesumerò quei fantasmi sconnessi e privi di forma solo nella misura in cui questo sia funzionale al mio racconto.
Perchè il perdono è la miglior cura per le anime tormentate.
Perchè io stessa sono un'anima tormentata. Come tante altre, o forse di più.
Ma soprattutto perchè questa è la storia di un fantasma che si innamorò di un uomo.
CAPITOLO 1a
DANGEROUS WORLD TOUR. jul 7, 1992
MONZA, Stadio Brianteo
Il giorno più bello della mia vita fino ad allora.
I poster che tappezavano le pareti senza risparmiarne un singolo centimetro. Michael. la musica. Un faro. Una fuga dal resto.
In un turbinio di luci e di emozioni ho ballato, sognato, pianto, invidiato la biondina che lo ha abbracciato durante 'she's out of my life'.
I poster che tappezzavano le mie pareti avevano un unico soggetto: lui.
Lui cosparso di cinghie e borchie vestito di nero, lui che tiene una pantera al guinzaglio completamente a suo agio come se si trattasse di un chiwawa ( ), lui in primo piano con dei fantastici ray ban e la giacca militare, con un sorriso che oscura la luce del sole, lui sul palco che canta tutto sudato.
Ogni sera lo stesso monologo fra me e lui, che non poteva sentirmi nè immaginare della mia esistenza.
Ogni notte prima di addormentarmi la sua musica. Se non c'è 'i just can't stop loving you' non si dorme sereni. Proprio no.
Il walkman nelle orecchie alla fermata dell'autobus. La musicassetta tutta rovinata sempre nello stesso punto, là dove c'era la canzone che continuavo a riavvolgere perchè ascoltarla una sola volta non bastava. Non era mai la stessa. Cambiava in base al periodo.
I sacrifici per comperare l'ultimo album. O qualche gadget.
Così ho trascorso gi anni 80 e buona parte dei 90.
Poi negli anni lo scotc che incollava i poster ai miei muri bianchi si è fatto sempre più secco ed ha iniziato a perdere la presa.
E giorno dopo giorno anche i miei sogni di adolescente si sono staccati come foglie dai miei pensieri, lasciando spazio ai progetti pragmatici dell'età adulta. Ognuno viva la sua vita.
MILANO. Feb 18, 1998
110 e lode. Questo il voto che sanciva il conseguimento della mia laurea in medicina e chirurgia veterinaria.
Adoravo gli animali e avrei trascorso tutto il mio tempo con loro. Sono tutto quello che non siamo noi. Privi di cattiveria.
Il fatto di poterli aiutare alleviando le loro sofferenze fisiche mi faceva sentire un essere migliore, come una sorta di redenzione, anche se non mi ripuliva del tutto dalla colpa di appartenere alla mia specie.
Trovai lavoro dapprima come impiegata allo zoo comunale.
Poi iniziò la mia avventura.
LANSERIA (Johannesburg), SOUTH AFRICA. April 6, 2000
Mi ero appena trasferita in questo angolo di paradiso lontano da tutto e da tutti.
Ero al Lion zoo park di Lanseria e lavoravo a stretto contatto con una strepitosa equipe di medici veterinari e ricercatori il cui unico obiettivo era quello di reinserire leoni ed altri grandi mammiferi africani nel loro habitat dopo che erano stati catturati o feriti da bracconieri, oppure nati affetti da malattie e malformazioni varie.
Fu lì che presi la mia specializzazione in etologia, diventando un pò la loro 'psicoterapeuta'. Mi esprimevo con loro e cercavo di ascoltarli dalla mattina alla sera. Si dimostravano talmente migliori dei miei simili che passavo intere giornate senza parlare nella mia lingua.
Insieme alle speranze di una vita migliore e a tanti buoni propositi dentro di me iniziava a crescere qualcos'altro.
Qualcosa che scombussolò totalmente i miei piani.
Lo chiamai Satya Josè, un nome metà indiano (in indi significa 'verità') e metà ispanico, per conservare le nostre origni.
LOS OLIVOS, California-NEVERLAND VALLEY RANCH. Aug 6, 2003
E' qui che inizia la parte davvero interessante da raccontare miei cari amici.
Ebbene, dopo tutti questi giri di valzer sono finita proprio negli USA. I motivi a dire il vero sono stati diversi, il principale riguarda mio figlio. Il [/color]mio piccolo Saty sta crecendo velocemente e nel modo che più desidero per lui: a stretto e completo contatto con gli animali e con la natura. Ma come per ogni cosa ci sono dei pro e dei contro..diciamo che i contro iniziano ad essere troppo numerosi, fra cui il fatto principale che uno zoo safari può diventare anche molto pericoloso per un bimbo così piccolo e curioso, che fra l'altro ha pochi coetanei con cui poter familiarizzare.
Inoltre il mio lavoro mi assorbe totalmente e non è facile occuparmi di Saty completamente sola.
Ho preso la decisione definitiva proprio la settimana scorsa, quando mi è stata recapitata una lettera dall'America che mi offre un buon lavoro a tempo parziale e con un lauto stipendio in uno zoo privato di cui non viene da subito specificato il nome.
Mi sembra una buona soluzione per offrire a Saty qualcosa in più, soprattutto tempo.
Tra l'altro nella lettera Si fa riferimento alle mie referenze che, con mio grande stupore si sono fatte strada fino al nuovo mondo.
Ho deciso, Ci trasferiremo. Sarà doloroso ma è necessario.
Potrete immaginare lo stupore nei miei occhi quando ho letto l'indirizzo nel quale recarmi per il colloquio.
Sono anni che non seguo più le vicende del mio cantante preferito data la piega che ha preso la mia vita; di lui ho conservato però qualche canzone nell'mp3 che sarebbe più doloroso rimuovere piuttosto che riascoltare, a volte, con gli occhi umidi di passato.
Quando il taxi ci ha lasciati davanti all'imponente cancello di ferro nero e dorato tutti i ricordi e le emozioni di quella ragazzina un pò sulle nuvole sono riaffiorati, sistematicamente.
CAPITOLO 1b
Mi riceve il portiere che, evidentemente informato del mio arrivo, mi fa subito entrare. In pochi minuti arrivano un uomo e una donna sulla quarantina vestiti impeccabilmente come fossero una hostess ed uno stewart che molto garbatamente mi fanno accomodare in una saletta di una piccola dependance all'interno dell'immenso parco.
Sì, sono rimasta sovrastata dalle dimensioni: pur essendo abituata a vivere in uno zoo safari non mi sarei aspettata che quello è solo il 'giardino' di una villa. Saty si guarda intorno affascinato.
-soliti vezzi da star- penso, anche un pò stupita dal mio giudizio così prematuro..forse 3 anni nella savana sono sufficienti per farti considerare cosa è indispensabile e cosa non lo è.
Il colloquio con questi due ordinatissimi personaggi -probabilmente gli addetti al personale- scorre velocemente, mi fanno domande sull'Africa e mi sembra che abbiano su di me molte più informazioni di quante stia concedendo loro con le mie risposte brevi e un pò imbarazzate. Il mio inglese fra l'altro non è a livelli elevatissimi, quindi non so esprimermi velocemente e con la scioltezza di un madrelingua. Loro se ne accorgono e molto cortesemente rallentano il ritmo.
Con grande perizia mi spiegano i dettagli del contratto, lavorerò ogni mattina dalle 8 alle 13 ed avrò il compito di dirigere la manutenzione di tutte le gabbie, oltre ovviamente ad occuparmi del benessere di tutti i 'pets' di mr Jackson.
E' un'occasione senza pari, avrò ogni giorno la possibilità di stare con mio figlio per buona parte del tempo.
Chiedo di poter fare un giro e visitare subito lo zoo per 'conoscere' i miei nuovi amici. I due dalle camicie inamidate mi sorridono e mi chiedono di attendere l'arrivo di due membri dello staff -inservienti penso- che mi accompagneranno nel tour.
Sringendomi la mano con fare amichevole mi comunicano che se necessito di un alloggio provvisorio essendo appena arrivata non ho che da chiedere, nel frattempo mi hanno prenotato una camera in un bell'hotel vicino a Santa Barbara.
-Non si preoccupi, per le spese provvederemo noi, a nome di Mr. Jackson, dopo il trasferimento immaginiamo sia complicato per lei organizzarsi..-
mi dicono sorridendo.
Ringrazio cordialmente per l'hotel,davvero lusingata, specifico però che, per quella che sarà la mia sistemazione definitiva, preferisco cavarmela da sola, come ho sempre fatto.
Terminati gli ultimi convenevoli mi congedano e faccio la conoscenza di john e Kelly, due simpatici ragazzi di alcuni anni più giovani di me, entrambi afro-americani. Le loro tonalità color ebano mi fanno subito salire una malinconia senza pari.
A stento trattengo le lascrime per una buona manciata di minuti. Ah..la mia Africa. Loro però sono molto carini ed accoglienti e presto mi mettono a mio agio, mi mostrano gli animali -aiuto, quanti sono! Altro che lavoro part time!- elencando nomi e peculiarità di questi e di quelli..la lista è lunga e penso che mi ci vorrà del tempo per ricordare tutto.
Il povero Saty nel frattempo, sfiancato dal jet lag mi si è addormentato fra le braccia.
Mentre ci avviamo ai cancelli -ho espresso il desiderio di raggiungere l'hotel perchè inizio a vederci doppio dalla stanchezza- i ragazzi mi spiegano come saranno organizzati i nostri compiti quotidiani, mentre io non posso proprio fare meno di chiedermi dove sia lui, se sia in casa, quasi rammaricata dal fatto che non sia venuto personalmente a parlarmi -ma che razza di idiozie, per quale cavolo di motivo Michael Jackson no, dico e ripeto: Michael Jackson dovrebbe interessarsi a un cavolo di veterinario che tra l'altro lavora pure part time!- Devo essere proprio stanca.
Essere nella sua proprietà mi fa effetto, non lo nego.
Sono un misto fra l'esaltazione e l'incredulità.
Saluto i ragazzi e il portiere mentre un enorme suv dai vetri oscurati entra nel vialetto principale sfiorandomi i lembi della gonna bianca di lino con il paraurti. Ho un attimo di trasalimento e temo che il sangue che mi si è appena gelato nelle vene sia perfettamente visibile a tutti. Non posso vedere l'interno della macchina ma mi sento osservata, è una sensazione strana. Mi sento nello stesso tempo eccitata perchè credo di immaginare chi sia seduto sul sedile posteriore, ma anche intrusa indebitamente nell'altrui proprietà proprio quando manca il padrone.
Lo so, sono pensieri del tutto irrazionali, ma mi vengono.
Sorrido della mia apprensione quasi adolescenziale e mentre il vento tiepido mi attraversa le lunghe lisce ciocche castane facendole allontanare di molto dalla schiena sulla quale erano appoggiate, mi allontano rispondendo con un ultimo cenno della mano ai saluti di john e kelly.
NOT GUILTY. 10:06 p.m. June 13, 2005
SANTA MARIA, California.
"Michael Jackson è stato giudicato non colpevole di tutti e 10 i capi d'accusa a suo carico che lo hanno coinvolto in un processo per molestie sessuali su minori. Così si è conclusa la saga legale durata 2 anni per una delle pop stars più conosciute al mondo."
Questi titolo e trafiletto del Times di lunedì 14 giugno 2005.
Jermaine Jackson stringe orgoglioso il quotidiano e lo sventola come a volere che tutte, ma proprio tutte le particelle che compongono la materia vengano a contatto con il foglio di cellulosa.
Jermaine si sa, ha sempre amato fotografie e dichiarazioni, e come membro di maggior spicco della jackson family ci tiene a sottolineare che come famiglia rimarranno tutti uniti e stretti attorno a michael, e che nonostante tutto, supereranno anche questa.
Una vera dichiarazione all'americana, come si conviene.
Ma lui esce dall'aula di tribunale senza mostrare emozioni. Non esulta, non sorride.
E' tranquillo, sembra intorpidito. Saluta debolmente i fans che sono stati fatti sistemare dietro ad alcune transenne a debita distanza. Lui non c'è.
Forse è troppo deluso e non gli frega più di niente.
Doveva essere sollevato quantomeno, ma era troppo lacerato. Stanco. Si era arreso.
All'inizio della mattinata il sole era caldo, forse troppo, per una giornata di inizio estate. Ma si sa, la California è così, riesce sempre a farti sentire in vacanza, con quel clima a tratti temperato, a tratti tropicale, ma troppo umido per poterlo essere veramente.
Ed anche lui è così. Un uomo variopinto e poliedrico. Un uomo in grado di stupire gli altri con i suoi modi da bambino e la semplicità negli occhi, ma troppo ingenuo perchè gli altri ci credessero veramente. Non poteva essere che un uomo potesse davvero essere 'così'.
Due occhi profondi ed immensi che un tempo erano anche stati capaci di sognare.
Occhi che si sono forse appesantiti al ritmo delle stagioni e non solo, occhi nascosti, per la maggior parte del tempo.
Ma nemmeno lui, l'indiscusso tiranno e sovrano unico delle nostre carni mortali, aveva potuto niente su quegli occhi.
Aveva potuto lasciare i suoi effetti sui tratti del viso, sui muscoli, sulla pelle. E sul cuore. Ma non su quegli occhi.
I capelli corvini che erano stati costretti ad essere lisci, anche se poi alla fine un'onda verso la fine si ricreava sempre, sovversiva fra gli obbedienti. Il viso scavato. Un portamento elegante, quasi regale con quel completo nero.
CASA. june 15,2005
Le immagini scorrevano veloci e frammentarie al notiziario delle 20 mentre un perspicace quanto inopportuno giornalista faceva notare quanto quell'uomo dal viso teso e dalle membra smagrite non assomigliasse più al fenomeno vestito di rosso che ballava insieme agli zombie.
Seguo tutto questo dal mio salottino sollevata e amareggiata nel contempo.
Una modesta villetta a schiera in un modesto paesello dimenticato alla periferia di Milano, la mia città natale
Il mio nome è Andrea Josè Ferrari. Ho 32 anni e nelle mie vene scorre un sangue misto. Italo-cilena.
In realtà non sono mai stata in Cile, a parte una settimana quando ero in fasce per il battesimo. Mamma è originaria di Santiago ma è emigrata in italia nel 70. Da allora non è più tornata eccezion fatta per quella unica settimana nel gennaio del 1973. Non mi ha mai detto perchè, nè io lo ho mai chiesto.
Mio padre è italiano.
Ho un nome maschile perchè lui avrebbe sempre voluto un maschio.
Gli armadi della mia famiglia sono pieni di scheletri, come quelli di tante altre famiglie, o forse di più.
Ma riesumerò quei fantasmi sconnessi e privi di forma solo nella misura in cui questo sia funzionale al mio racconto.
Perchè il perdono è la miglior cura per le anime tormentate.
Perchè io stessa sono un'anima tormentata. Come tante altre, o forse di più.
Ma soprattutto perchè questa è la storia di un fantasma che si innamorò di un uomo.
CAPITOLO 1a
DANGEROUS WORLD TOUR. jul 7, 1992
MONZA, Stadio Brianteo
Il giorno più bello della mia vita fino ad allora.
I poster che tappezavano le pareti senza risparmiarne un singolo centimetro. Michael. la musica. Un faro. Una fuga dal resto.
In un turbinio di luci e di emozioni ho ballato, sognato, pianto, invidiato la biondina che lo ha abbracciato durante 'she's out of my life'.
I poster che tappezzavano le mie pareti avevano un unico soggetto: lui.
Lui cosparso di cinghie e borchie vestito di nero, lui che tiene una pantera al guinzaglio completamente a suo agio come se si trattasse di un chiwawa ( ), lui in primo piano con dei fantastici ray ban e la giacca militare, con un sorriso che oscura la luce del sole, lui sul palco che canta tutto sudato.
Ogni sera lo stesso monologo fra me e lui, che non poteva sentirmi nè immaginare della mia esistenza.
Ogni notte prima di addormentarmi la sua musica. Se non c'è 'i just can't stop loving you' non si dorme sereni. Proprio no.
Il walkman nelle orecchie alla fermata dell'autobus. La musicassetta tutta rovinata sempre nello stesso punto, là dove c'era la canzone che continuavo a riavvolgere perchè ascoltarla una sola volta non bastava. Non era mai la stessa. Cambiava in base al periodo.
I sacrifici per comperare l'ultimo album. O qualche gadget.
Così ho trascorso gi anni 80 e buona parte dei 90.
Poi negli anni lo scotc che incollava i poster ai miei muri bianchi si è fatto sempre più secco ed ha iniziato a perdere la presa.
E giorno dopo giorno anche i miei sogni di adolescente si sono staccati come foglie dai miei pensieri, lasciando spazio ai progetti pragmatici dell'età adulta. Ognuno viva la sua vita.
MILANO. Feb 18, 1998
110 e lode. Questo il voto che sanciva il conseguimento della mia laurea in medicina e chirurgia veterinaria.
Adoravo gli animali e avrei trascorso tutto il mio tempo con loro. Sono tutto quello che non siamo noi. Privi di cattiveria.
Il fatto di poterli aiutare alleviando le loro sofferenze fisiche mi faceva sentire un essere migliore, come una sorta di redenzione, anche se non mi ripuliva del tutto dalla colpa di appartenere alla mia specie.
Trovai lavoro dapprima come impiegata allo zoo comunale.
Poi iniziò la mia avventura.
LANSERIA (Johannesburg), SOUTH AFRICA. April 6, 2000
Mi ero appena trasferita in questo angolo di paradiso lontano da tutto e da tutti.
Ero al Lion zoo park di Lanseria e lavoravo a stretto contatto con una strepitosa equipe di medici veterinari e ricercatori il cui unico obiettivo era quello di reinserire leoni ed altri grandi mammiferi africani nel loro habitat dopo che erano stati catturati o feriti da bracconieri, oppure nati affetti da malattie e malformazioni varie.
Fu lì che presi la mia specializzazione in etologia, diventando un pò la loro 'psicoterapeuta'. Mi esprimevo con loro e cercavo di ascoltarli dalla mattina alla sera. Si dimostravano talmente migliori dei miei simili che passavo intere giornate senza parlare nella mia lingua.
Insieme alle speranze di una vita migliore e a tanti buoni propositi dentro di me iniziava a crescere qualcos'altro.
Qualcosa che scombussolò totalmente i miei piani.
Lo chiamai Satya Josè, un nome metà indiano (in indi significa 'verità') e metà ispanico, per conservare le nostre origni.
LOS OLIVOS, California-NEVERLAND VALLEY RANCH. Aug 6, 2003
E' qui che inizia la parte davvero interessante da raccontare miei cari amici.
Ebbene, dopo tutti questi giri di valzer sono finita proprio negli USA. I motivi a dire il vero sono stati diversi, il principale riguarda mio figlio. Il [/color]mio piccolo Saty sta crecendo velocemente e nel modo che più desidero per lui: a stretto e completo contatto con gli animali e con la natura. Ma come per ogni cosa ci sono dei pro e dei contro..diciamo che i contro iniziano ad essere troppo numerosi, fra cui il fatto principale che uno zoo safari può diventare anche molto pericoloso per un bimbo così piccolo e curioso, che fra l'altro ha pochi coetanei con cui poter familiarizzare.
Inoltre il mio lavoro mi assorbe totalmente e non è facile occuparmi di Saty completamente sola.
Ho preso la decisione definitiva proprio la settimana scorsa, quando mi è stata recapitata una lettera dall'America che mi offre un buon lavoro a tempo parziale e con un lauto stipendio in uno zoo privato di cui non viene da subito specificato il nome.
Mi sembra una buona soluzione per offrire a Saty qualcosa in più, soprattutto tempo.
Tra l'altro nella lettera Si fa riferimento alle mie referenze che, con mio grande stupore si sono fatte strada fino al nuovo mondo.
Ho deciso, Ci trasferiremo. Sarà doloroso ma è necessario.
Potrete immaginare lo stupore nei miei occhi quando ho letto l'indirizzo nel quale recarmi per il colloquio.
Sono anni che non seguo più le vicende del mio cantante preferito data la piega che ha preso la mia vita; di lui ho conservato però qualche canzone nell'mp3 che sarebbe più doloroso rimuovere piuttosto che riascoltare, a volte, con gli occhi umidi di passato.
Quando il taxi ci ha lasciati davanti all'imponente cancello di ferro nero e dorato tutti i ricordi e le emozioni di quella ragazzina un pò sulle nuvole sono riaffiorati, sistematicamente.
CAPITOLO 1b
Mi riceve il portiere che, evidentemente informato del mio arrivo, mi fa subito entrare. In pochi minuti arrivano un uomo e una donna sulla quarantina vestiti impeccabilmente come fossero una hostess ed uno stewart che molto garbatamente mi fanno accomodare in una saletta di una piccola dependance all'interno dell'immenso parco.
Sì, sono rimasta sovrastata dalle dimensioni: pur essendo abituata a vivere in uno zoo safari non mi sarei aspettata che quello è solo il 'giardino' di una villa. Saty si guarda intorno affascinato.
-soliti vezzi da star- penso, anche un pò stupita dal mio giudizio così prematuro..forse 3 anni nella savana sono sufficienti per farti considerare cosa è indispensabile e cosa non lo è.
Il colloquio con questi due ordinatissimi personaggi -probabilmente gli addetti al personale- scorre velocemente, mi fanno domande sull'Africa e mi sembra che abbiano su di me molte più informazioni di quante stia concedendo loro con le mie risposte brevi e un pò imbarazzate. Il mio inglese fra l'altro non è a livelli elevatissimi, quindi non so esprimermi velocemente e con la scioltezza di un madrelingua. Loro se ne accorgono e molto cortesemente rallentano il ritmo.
Con grande perizia mi spiegano i dettagli del contratto, lavorerò ogni mattina dalle 8 alle 13 ed avrò il compito di dirigere la manutenzione di tutte le gabbie, oltre ovviamente ad occuparmi del benessere di tutti i 'pets' di mr Jackson.
E' un'occasione senza pari, avrò ogni giorno la possibilità di stare con mio figlio per buona parte del tempo.
Chiedo di poter fare un giro e visitare subito lo zoo per 'conoscere' i miei nuovi amici. I due dalle camicie inamidate mi sorridono e mi chiedono di attendere l'arrivo di due membri dello staff -inservienti penso- che mi accompagneranno nel tour.
Sringendomi la mano con fare amichevole mi comunicano che se necessito di un alloggio provvisorio essendo appena arrivata non ho che da chiedere, nel frattempo mi hanno prenotato una camera in un bell'hotel vicino a Santa Barbara.
-Non si preoccupi, per le spese provvederemo noi, a nome di Mr. Jackson, dopo il trasferimento immaginiamo sia complicato per lei organizzarsi..-
mi dicono sorridendo.
Ringrazio cordialmente per l'hotel,davvero lusingata, specifico però che, per quella che sarà la mia sistemazione definitiva, preferisco cavarmela da sola, come ho sempre fatto.
Terminati gli ultimi convenevoli mi congedano e faccio la conoscenza di john e Kelly, due simpatici ragazzi di alcuni anni più giovani di me, entrambi afro-americani. Le loro tonalità color ebano mi fanno subito salire una malinconia senza pari.
A stento trattengo le lascrime per una buona manciata di minuti. Ah..la mia Africa. Loro però sono molto carini ed accoglienti e presto mi mettono a mio agio, mi mostrano gli animali -aiuto, quanti sono! Altro che lavoro part time!- elencando nomi e peculiarità di questi e di quelli..la lista è lunga e penso che mi ci vorrà del tempo per ricordare tutto.
Il povero Saty nel frattempo, sfiancato dal jet lag mi si è addormentato fra le braccia.
Mentre ci avviamo ai cancelli -ho espresso il desiderio di raggiungere l'hotel perchè inizio a vederci doppio dalla stanchezza- i ragazzi mi spiegano come saranno organizzati i nostri compiti quotidiani, mentre io non posso proprio fare meno di chiedermi dove sia lui, se sia in casa, quasi rammaricata dal fatto che non sia venuto personalmente a parlarmi -ma che razza di idiozie, per quale cavolo di motivo Michael Jackson no, dico e ripeto: Michael Jackson dovrebbe interessarsi a un cavolo di veterinario che tra l'altro lavora pure part time!- Devo essere proprio stanca.
Essere nella sua proprietà mi fa effetto, non lo nego.
Sono un misto fra l'esaltazione e l'incredulità.
Saluto i ragazzi e il portiere mentre un enorme suv dai vetri oscurati entra nel vialetto principale sfiorandomi i lembi della gonna bianca di lino con il paraurti. Ho un attimo di trasalimento e temo che il sangue che mi si è appena gelato nelle vene sia perfettamente visibile a tutti. Non posso vedere l'interno della macchina ma mi sento osservata, è una sensazione strana. Mi sento nello stesso tempo eccitata perchè credo di immaginare chi sia seduto sul sedile posteriore, ma anche intrusa indebitamente nell'altrui proprietà proprio quando manca il padrone.
Lo so, sono pensieri del tutto irrazionali, ma mi vengono.
Sorrido della mia apprensione quasi adolescenziale e mentre il vento tiepido mi attraversa le lunghe lisce ciocche castane facendole allontanare di molto dalla schiena sulla quale erano appoggiate, mi allontano rispondendo con un ultimo cenno della mano ai saluti di john e kelly.
marina56- Moderator
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Re: Il fantasma che si innamorò di un uomo
CAPITOLO 2
Santa Barbara (CA). Mason beach Inn Hotel.
Non so a quanti sia capitato, ma io non sono mai entrata in una suite nella mia vita. E devo dire che per oggi i cambiamenti sono stati parecchio..come dire..'radicali'..
Qui c'è ogni genere di comfort: televisione, wireless, internet, cesti di frutta fresca su ogni tavolo, una fantastica terrazza con vista oceano (non ho mai visto il pacifico), e un lungomare in cui potrebbero comparire Pamela Anderson e tutto il team di Baywatch da un momento all'altro, per quanto mi riguarda.
Non sono abituata a tutto ciò, soprattutto se penso che solo 24 ore fa mi trovavo nel mio trilocale in compensato nel villaggio di Yeoville a Johannesburg.
Due realtà completamente opposte direi.
Mi sento fortunata, sento di avere fra le mani una fantastica occasione. Guadagnerò bene e questo mi permetterà di trovare un bel posticino per me e Saty dove iniziare una nuova vita. Con il tempo mi abbandonerà questo senso di smarrimento che provo, accompagnato dalla solita strana sensazione.
Non so descriverla, mi sento osservata anche se so benissimo che non è così.
Sono solo paranoie da jet lag, lo so.
Mio figlio è più furbo di me, si è addormentato profondamente..dovrei seguire il suo esempio..
Mi metto giù anch'io. Non ho sonno. Che cavolo, ma possibile?!
Forse se accendo un pò di musica. Ma si, accendo l'ipod e metto in modalità selezione casuale...
I was wandering in the rain ----------------------------------mi stavo facendo delle domande sotto la pioggia
Mask of life, feelin' insane ------------------------------------una maschera di vita. misentivo pazzo
Swift and sudden fall from grace --------------------------una improvvisa e rapida caduta dalla grazia
Sunny days seem far away ----------------------------------i giorni soleggiati sembrano lontani
Kremlin's shadow belittlin' me -----------------------------l'ombra del Cremlino mi sminuisce
Stalin's tomb won't let me be -------------------------------la tomba di Stalin non mi da pace
On and on and on it came -----------------------------------continuava e continuava ad arrivare
Wish the rain would just let me be------------------------vorrei che la pioggia mi lasciasse in pace
How does it feel --------------------------------------------------come ci si sente
when you're alone and you're cold inside-------------e sei freddo dentro?
Like a stranger in Moscow ----------------------------------come uno straniero a Mosca
Like a stranger in Moscow
We're takin' danger ----------------------------------------------stiamo rischiando baby
We're takin' danger baby
Like a stranger in Moscow
I'm livin' lonely -----------------------------------------------------vivo nella solitudine
I'm livin' lonely baby
A stranger in Moscow ------------------------------------------come uno straniero a mosca
Mai parole più azzeccate per descrivere come mi sento in questo momento.
Morfeo verrà a prendermi tra poco. Ora si.
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LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Aug 14, 2003
Le giornate scorrono veloci qui a Neverland. Le cose da fare sono moltissime e con l'aiuto di John e kelly -sono davvero adorabili- riusciamo sempre in un paio d'ore a sistemare le gabbie -il lavoro più noioso- così che il tempo rimanente lo trascorriamo nel modo che più preferisco: giochiamo e comunichiamo con gli animali.
Oggi ho familiarizzato con Gipsy e Melville, due grandi pachidermi indiani. A differenza del genere africano a cui sono abituata, questi sono più bassi e con le orecchie più piccole ed il dorso buffamente ricurvo verso il basso..tutto questo conferisce loro un aspetto più paffuto e 'aerodinamico' !
Dopo averli lavati -con una canna che assomiglia più ad un idrante dei pompieri- e nutriti - 3 cocomeri e un casco di banane ciascuno- ho appurato che forse Melville ha una cotta per me: ogni volta che mi allontano il poverino mi rincorre e con la possente proboscide mi trattiene per la vita facendomi ondeggiare a destra e a sinistra, ma molto molto dolcemente. Io non sono sicuramente la classica graziosa ragazza filiforme e slanciata, ho tutto ciò che una donna deve avere nel posto giusto, intendiamoci, ma sono piuttosto piccola di statura e muscolosa, quindi non sono una piuma. Ciononostante quel gigante gentile riesce a sollevarmi da terra con una facilità estrema.
A fine turno verso le 13 mi piace pranzare con i ragazzi e ne approfitto per chiedere delle loro vite, dei percorsi che li hanno portati fin lì e perchè no, racconto della mia Africa, incalzata dalle loro domande. Racconto di quando il sole spariva sull'orlo della distesa pianeggiante dell'arida savana ricamandone i confini con toni caldi, dorati e rosso acceso, andando a morire là dietro come se quello fosse stato davvero il suo giaciglio. I tramonti sono una di quelle cose che non scorderò mai.
Con una certa nonchalance mi guardo spesso attorno come a voler scorgere chissà quale presenza, senza tener conto che l'area in cui mi trovo non è che una piccola parte dell'immensa proprietà, e che, soprattutto, non è una zona di passaggio.
Chiedo anche informazioni sugli altri membri dello staff, piccoli pettegolezzi fra colleghi -ormai c'è confidenza, soprattutto con Kelly- e cerco anche di capire il perchè della mia assunzione così repentina. Mi spiegano che molte persone -fra i tanti il veterinario dello zoo, appunto- si sono licenziate qualche mese fa a causa di una pioggia di scandali piombati su Mr. Jackson nel mese di febbraio.
Proprio in quel periodo -mi spiegano- è avvenuta la messa in onda di un documentario intitolato 'Living with MJ' in cui un giornalista inglese intervista Mr. Jackson per un periodo di 8 mesi sugli argomenti più personali... Ne è uscito un filmato di 90 minuti editato in maniera arbitraria, per niente aderente alle registrazioni effetive, che ha fonito un'immagine negativa, secondo Kelly addirittura deviata, del nostro datore di lavoro. E così molti hanno pensato che essere alle dipendenze di un pazzo non avrebbe certo giovato ai loro curricola.
Sono dispiaciuta ed incuriosita.
NELLA TESTA DI MICHAEL
Non ce la faccio più. Ogni volta che cerco di fidarmi di qualcuno vengo tradito.
Ogni volta che cerco di aprirmi agli altri le mie aspettative vengono puntualmente disattese. No ora basta. Non mi fiderò mai più di nessuno.
A questo mondo non mi restano che loro. I miei figli.
*Ho creduto a Martin Bashir invitandolo ad entrare nella mia vita e in quella della mia famiglia perchè avevo bisogno che la verità venisse a galla.
Martin Bashir ha carpito la mia fiducia facendomi credere che sarebbe stato un onesto e garbato ritratto della mia vita... Sono molto sorpreso che un giornalista professionista comprometta la sua integrità trattandomi in questo modo.
Oggi mi sento più tradito che mai; che qualcuno, al quale ho dato la possibilità di conoscere i miei figli, il mio staff e me stesso aprendogli il cuore e dicendo la verità, possa aver sacrificato la fede che avevo riposto in lui per produrre un così terribile e poco realistico documentario.
Tutti quelli che mi conoscono sanno la verità, che i miei figli vengono prima di tutto nella mia vita e che mai farei del male ad alcun bambino.
...
Dall'Inghilterra la gente mi ha inviato moltissime mail dicendomi quanto fosse stato poco corretto il documentario proposto da Bashir.
Il loro amore e il loro supporto mi hanno veramente toccato nel profondo.*
L'unica cosa che posso fare ora per arginare almeno in parte i danni causati dall'arrivismo e dall'avidità è cercare qualcuno disposto a produrre un'altra versione, quella vera stavolta, di tutto il materiale raccolto l'anno scorso da Bashir.
In qualche modo la verità deve venire a galla.
Non posso sopportare l'idea che Prince o Paris o il piccolo Blanket (anche se, buon'anima, è ancora troppo piccino) possano accendere la tv o andare su internet e sentirsi dire che il loro padre è un deviato, un pervertito, un automa che rifiuta il suo aspetto, la sua razza, un mitomane che ama stare in compagnia dei minorenni fra sfarzi e lussi irriguardosi verso la povertà. Io non sono niente di tutto questo.
Io so cosa è la povertà. Io non ho avuto l'adolescenza di quel damerino che ostenta un'inglese perfetto per far vedere che ha cultura. Io non ho avuto la possibilità di studiare a Oxford facendomi pagare tutto da papino.
Il mio percorso è stato un altro. E mi ha portato Dio solo sa quante soddisfazioni.
Ma giuro, giuro su quello che ho di più caro, che se oggi posso permettermi un certo tenore di vita è solo perchè me lo sono guadagnato lavorando duramente.
E per guadagnare non ho mai calpestato la dignità di nessuno. Io.
* tratto da un reale comunicato scritto da michael.
Ore 14:00 pm.
Mi appresto a liberarmi degli stivaloni infangati che uso normalmente per lavorare perchè devo andare a recuperare Satya.
Ho trovato un asilo molto carino nei pressi di Santa Ynez, una località che dista circa 5 miglia da Neverland.
In funzione dell'asilo e della vicinanza con il posto di lavoro anche il nostro appartamentino è a Santa Ynez. E' un bel posticino, piccolo ma accogliente.
Saty non sembra molto entusiasta dei nuovi rapporti stretti con i coetanei, è un bimbo molto timido e schivo, abituato come la sua mamma ad avere pochi rapporti con il mondo umano. Spero che questo lato di lui si modifichi presto, perchè non vorrei che a causa della sua chiusura pasasse un'infanzia di solitudine, come la mia. Per facilitare un pò le cose ogni giorno lo porto un pò al mare dove è pieno di ragazzini.
A circa mezzoretta da casa c'è Refugio State Beach, una piccola località protetta da una lieve insenatura, lontana dalle passerelle mondane di Malibu, sita una decina di miglia a sud. Nuotiamo e parliamo.
Il mio inglese sta migliorando. Riesco a seguire perfettamente la cnn delle 19. Anche Saty impara, molto più in fretta di me.
Sono contenta perchè ora conosce 3 lingue molto bene.
Ore 17:00 pm.
Ci apprestiamo a rientrare a casa quando mi suona il cellulare. E' Kelly - vieni subito, c'è un'emergenza-
Riattacco e volo a casa. Fra mille ringraziamenti affido Saty a Pedra, la mia dirimpettaia portoricana dalle forme generose e dal sorriso contagioso. E' sempre stata carina ed ospitale con noi, fin da quando ci siamo trasferiti. Lo fa entrare in casa carezzandogli la testa amorevolmente, le schiocco un bacio sulla guancia e volo alla volta di Neverland.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Oltrepassato il gran cancello principale mi si parano davanti Kelly e una donna che non conosco, incedono velocemente nella mia direzione.
Hanno uno sguardo scuro, costernato. Quasi correndo per il lungo sentiero illuminato, tirata per un braccio da kelly, vengo informata della situazione.
La donna che ci segue dice di chiamarsi Grace ed ha uno sguado terribilmente preoccupato.
Giungiamo ad un grande spiazzo rivestito da sassolini grigi e color salmone. Non mi ero mai spinta così vicina all'abitazione.
Un enorme orologio ci sovrasta. Sono le 17:30 e i ritocchi della campana celata dai cespugli rieccheggia rimbombandomi nei timpani.
Un gruppetto di una decina di persone forma un cerchio al cui centro si trova una bambina di circa 5 anni piegata sulle ginocchia. Piange rumorosamente.
E' Paris Jackson.
Avvicinandomi maggiormente noto una piccola figura sul selciato.
E' Ariel, un cucciolo di labrador color crema. Avrà si e no quattro mesi, non di più. Giace privo di sensi.
-Vieni tesoro, è arrivato il dottore, lasciamolo lavorare- Grace si avvicina e solleva da terra la piccola con le guance tumefatte da pianto.
- Ti prego, salvala, sta male e non so cos'ha. Ti prego per favore aiutala.- Mi supplica con uno sguardo annebbiato dalle lacrime.
Immediatamente mi chino sulla bestiola e controllo subito se respira. Il battito è debole e irregolare. Mi faccio subito portare un lenzuolino che fungerà da mini-barella e trasportiamo in cucciolo nell'infermeria che si trova in una dependance poco distante. Dopo una piccola ecografia capisco che la situazione è abbastanza grave: Ariel ha [CENSORED] to qualcosa che si è incastrato nell'esofago e comprime la trachea rendendo la respirazione difficoltosa.
Le faccio l'anestesia e procedo chirurgicamente. John mi aiuta con i ferri mentre Kelly e Jane tengono monitorati i parametri vitali.
Ore 19:00 pm. Ariel è fuori pericolo.
Tolgo i guanti di lattice e, indossando ancora mascherina e camice verde, mi dirigo nell'atrio della costruzione in mattoni rossi.
La piccola Paris è seduta sulle ginocchia di Grace - la sua tata, a quanto mi sembra- e appena mi vede balza in piedi correndomi incontro. Ha occhi grandi e verdi.
- La tua piccola peste è fuori pericolo. aveva [CENSORED] to una pallina, di quelle dure in gomma che rimbalzano! L'abbiamo operata ed ora sta bene. Dovrà riposare però-
Alla mia comunicazione c'è un'esplosione di giubilo generale, la piccola mi corre incontro e mi abbraccia da sopra in camicione che porto, è felicissima - Grazie, grazie, grazie sei il dottore dei cani più bravo del mondo!!!! Posso andare a vederla?-
- Si, però fai attenzione è ancora molto debole, non farla muovere troppo..-
Grace emette un lungo sospiro di sollievo e mi rivolge un sorriso estremamente eloquente.
Restituisco l'espressione rilassata ed abbozzo un sorriso slacciando uno dei lembi che tengono ancorata la mascherina chirurgica al mio viso.
Sposto lo sguardo oltre la tata e mi accorgo di una presenza alle sue spalle. Una presenza che probabilmente era sempre stata lì fin dal mio arrivo di un'ora e mezza prima, ma di cui mi accorgo solo ora.
Si alza in piedi posandomi uno sguardo che non so decifrare, date le lenti scure che porta.
Camicia nera aperta sul petto. Maglietta bianca sotto. Pantaloni neri con la riga davanti. Stivaletti neri, pitonati suppongo.
Completamente paralizzata mi rendo conto che sta succedendo veramente e credo che anche lui si accorga della mia difficoltà perchè abbozza un sorriso avvicinandosi.
- Grazie per essere venuta così in fretta anche fuori dall'orario di lavoro. La sua tempestività è stata fondamentale. Se Ariel non.... bè ecco.. non so come avremmo potuto consolare mia figlia..lei adora i suoi cuccioli..- Il tono è fermo e gentile, sembra vento che soffia nei bicchieri.
Come ho detto sono completamente paralizzata e il mio sistema nervoso non pare voler rispondere alla quantità di adrenalina che ho in circolo. Sto facendo la figura della cretina, mi sembra di vedermi dall'esterno. Riesco solo ad abbozzare la frase più idiota che posso tirare fuori.
- Anche a me p-piacciono molto gli animali- . No. Ma dico. CI RENDIAMO CONTO?!?!?!?!?!? Ma per quale diavolo di motivo mi sto comportando come una CRETINA?? Avessi 10 anni...ma ne ho 30! 30 capito!?!
- Bè è una buona cosa questa.. - ribatte lui in tono ironico. Eccerto, in tono ironico, perchè per caso esistono veterinari a cui non piacciono gli animali o che comunque, anche fosse, lo dichiarano apertamente davanti al datore di lavoro!?!?! che banalità mioddio!
Il silenzio che si crea, corredato dalla mia faccia da ebete, ha il peso di un airbus 4454 direttamente sullo stomaco.
- Lei è nuova dottoressa, vero? E' la stessa persona che ho visto sul vialetto una decina di giorni fa?- Cerca di spezzare la mia agonia imbarazzata.
- S-si c-credo che ero io..- uau che atto di coraggio! bella risposta ad una domanda così complicata eh? brava Andrea, brava!
- Oh allora non le ho ancora dato il mio benvenuto..mi spiace non averlo fatto prima, ma sono spesso fuori casa..- si rabbuia
- Sono Michael!- mi tende la mano e sorride.
- Mi chiamo Andrea..Andrea Ferrari- mi esce una voce da oltretomba, come a vergognarmi di quel nome.. faccio per stringergli la mano ma è piena di quella polverina bianca e appiccicosa che rilasciano i guanti di lattice. Completamente viola in volto gliela mostro e con uno sguardo eloquente gli faccio capire che non è il caso di imbrattare anche lui..
Sorride e fa un cenno di assenso con il capo.
- Che bel nome..particolare direi! - ancora con un mezzo sorriso, accortosi evidentemente che si tratta di un nome che normalmente non si accosterebbe ad una donna - Lei è la benvenuta qui, spero che si troverà bene fra noi!-
- Si, ho già fatto la conoscenza di molti colleghi e sono tutte persone carinissime..- sono finalmente riuscita ad articolare una frase!
- Mi fa molto molto piacere e....- Paris e Grace seguite da Kelly escono dalla saletta nella quale la piccola Ariel convalescente sta riposando.
- Papà papà Ariel sta bene!-
- Lo so amore, te l'avevo detto di non disperare!- La prende in braccio e le stampa un super bacio sulla guancia
- mi sono spaventata tanto...-
- lo so, ma ora è passato. Hai ringraziato la dottoressa per essere corsa qui?-
- Si.. Grazie dottoressa, sei la più brava del mondo!-
Arrossisco e non posso fare più che un sorriso, un sorriso di sollievo, per tutto.
Allontanandosi con la bambina in braccio e seguito da uno stuolo di persone trova lo spazio per voltarsi un'ultima volta
- Arrivederci Miss Ferrari, buona serata e grazie ancora!-
E' stato gentile e accogliente.
Mi ha dato del lei.
Mi ha trattato con garbo e rispetto nonostante la mia estrema goffaggine.
Credo che a casa mi prenderò a schiaffi.
Santa Barbara (CA). Mason beach Inn Hotel.
Non so a quanti sia capitato, ma io non sono mai entrata in una suite nella mia vita. E devo dire che per oggi i cambiamenti sono stati parecchio..come dire..'radicali'..
Qui c'è ogni genere di comfort: televisione, wireless, internet, cesti di frutta fresca su ogni tavolo, una fantastica terrazza con vista oceano (non ho mai visto il pacifico), e un lungomare in cui potrebbero comparire Pamela Anderson e tutto il team di Baywatch da un momento all'altro, per quanto mi riguarda.
Non sono abituata a tutto ciò, soprattutto se penso che solo 24 ore fa mi trovavo nel mio trilocale in compensato nel villaggio di Yeoville a Johannesburg.
Due realtà completamente opposte direi.
Mi sento fortunata, sento di avere fra le mani una fantastica occasione. Guadagnerò bene e questo mi permetterà di trovare un bel posticino per me e Saty dove iniziare una nuova vita. Con il tempo mi abbandonerà questo senso di smarrimento che provo, accompagnato dalla solita strana sensazione.
Non so descriverla, mi sento osservata anche se so benissimo che non è così.
Sono solo paranoie da jet lag, lo so.
Mio figlio è più furbo di me, si è addormentato profondamente..dovrei seguire il suo esempio..
Mi metto giù anch'io. Non ho sonno. Che cavolo, ma possibile?!
Forse se accendo un pò di musica. Ma si, accendo l'ipod e metto in modalità selezione casuale...
I was wandering in the rain ----------------------------------mi stavo facendo delle domande sotto la pioggia
Mask of life, feelin' insane ------------------------------------una maschera di vita. misentivo pazzo
Swift and sudden fall from grace --------------------------una improvvisa e rapida caduta dalla grazia
Sunny days seem far away ----------------------------------i giorni soleggiati sembrano lontani
Kremlin's shadow belittlin' me -----------------------------l'ombra del Cremlino mi sminuisce
Stalin's tomb won't let me be -------------------------------la tomba di Stalin non mi da pace
On and on and on it came -----------------------------------continuava e continuava ad arrivare
Wish the rain would just let me be------------------------vorrei che la pioggia mi lasciasse in pace
How does it feel --------------------------------------------------come ci si sente
when you're alone and you're cold inside-------------e sei freddo dentro?
Like a stranger in Moscow ----------------------------------come uno straniero a Mosca
Like a stranger in Moscow
We're takin' danger ----------------------------------------------stiamo rischiando baby
We're takin' danger baby
Like a stranger in Moscow
I'm livin' lonely -----------------------------------------------------vivo nella solitudine
I'm livin' lonely baby
A stranger in Moscow ------------------------------------------come uno straniero a mosca
Mai parole più azzeccate per descrivere come mi sento in questo momento.
Morfeo verrà a prendermi tra poco. Ora si.
**********************************************************************************
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Aug 14, 2003
Le giornate scorrono veloci qui a Neverland. Le cose da fare sono moltissime e con l'aiuto di John e kelly -sono davvero adorabili- riusciamo sempre in un paio d'ore a sistemare le gabbie -il lavoro più noioso- così che il tempo rimanente lo trascorriamo nel modo che più preferisco: giochiamo e comunichiamo con gli animali.
Oggi ho familiarizzato con Gipsy e Melville, due grandi pachidermi indiani. A differenza del genere africano a cui sono abituata, questi sono più bassi e con le orecchie più piccole ed il dorso buffamente ricurvo verso il basso..tutto questo conferisce loro un aspetto più paffuto e 'aerodinamico' !
Dopo averli lavati -con una canna che assomiglia più ad un idrante dei pompieri- e nutriti - 3 cocomeri e un casco di banane ciascuno- ho appurato che forse Melville ha una cotta per me: ogni volta che mi allontano il poverino mi rincorre e con la possente proboscide mi trattiene per la vita facendomi ondeggiare a destra e a sinistra, ma molto molto dolcemente. Io non sono sicuramente la classica graziosa ragazza filiforme e slanciata, ho tutto ciò che una donna deve avere nel posto giusto, intendiamoci, ma sono piuttosto piccola di statura e muscolosa, quindi non sono una piuma. Ciononostante quel gigante gentile riesce a sollevarmi da terra con una facilità estrema.
A fine turno verso le 13 mi piace pranzare con i ragazzi e ne approfitto per chiedere delle loro vite, dei percorsi che li hanno portati fin lì e perchè no, racconto della mia Africa, incalzata dalle loro domande. Racconto di quando il sole spariva sull'orlo della distesa pianeggiante dell'arida savana ricamandone i confini con toni caldi, dorati e rosso acceso, andando a morire là dietro come se quello fosse stato davvero il suo giaciglio. I tramonti sono una di quelle cose che non scorderò mai.
Con una certa nonchalance mi guardo spesso attorno come a voler scorgere chissà quale presenza, senza tener conto che l'area in cui mi trovo non è che una piccola parte dell'immensa proprietà, e che, soprattutto, non è una zona di passaggio.
Chiedo anche informazioni sugli altri membri dello staff, piccoli pettegolezzi fra colleghi -ormai c'è confidenza, soprattutto con Kelly- e cerco anche di capire il perchè della mia assunzione così repentina. Mi spiegano che molte persone -fra i tanti il veterinario dello zoo, appunto- si sono licenziate qualche mese fa a causa di una pioggia di scandali piombati su Mr. Jackson nel mese di febbraio.
Proprio in quel periodo -mi spiegano- è avvenuta la messa in onda di un documentario intitolato 'Living with MJ' in cui un giornalista inglese intervista Mr. Jackson per un periodo di 8 mesi sugli argomenti più personali... Ne è uscito un filmato di 90 minuti editato in maniera arbitraria, per niente aderente alle registrazioni effetive, che ha fonito un'immagine negativa, secondo Kelly addirittura deviata, del nostro datore di lavoro. E così molti hanno pensato che essere alle dipendenze di un pazzo non avrebbe certo giovato ai loro curricola.
Sono dispiaciuta ed incuriosita.
NELLA TESTA DI MICHAEL
Non ce la faccio più. Ogni volta che cerco di fidarmi di qualcuno vengo tradito.
Ogni volta che cerco di aprirmi agli altri le mie aspettative vengono puntualmente disattese. No ora basta. Non mi fiderò mai più di nessuno.
A questo mondo non mi restano che loro. I miei figli.
*Ho creduto a Martin Bashir invitandolo ad entrare nella mia vita e in quella della mia famiglia perchè avevo bisogno che la verità venisse a galla.
Martin Bashir ha carpito la mia fiducia facendomi credere che sarebbe stato un onesto e garbato ritratto della mia vita... Sono molto sorpreso che un giornalista professionista comprometta la sua integrità trattandomi in questo modo.
Oggi mi sento più tradito che mai; che qualcuno, al quale ho dato la possibilità di conoscere i miei figli, il mio staff e me stesso aprendogli il cuore e dicendo la verità, possa aver sacrificato la fede che avevo riposto in lui per produrre un così terribile e poco realistico documentario.
Tutti quelli che mi conoscono sanno la verità, che i miei figli vengono prima di tutto nella mia vita e che mai farei del male ad alcun bambino.
...
Dall'Inghilterra la gente mi ha inviato moltissime mail dicendomi quanto fosse stato poco corretto il documentario proposto da Bashir.
Il loro amore e il loro supporto mi hanno veramente toccato nel profondo.*
L'unica cosa che posso fare ora per arginare almeno in parte i danni causati dall'arrivismo e dall'avidità è cercare qualcuno disposto a produrre un'altra versione, quella vera stavolta, di tutto il materiale raccolto l'anno scorso da Bashir.
In qualche modo la verità deve venire a galla.
Non posso sopportare l'idea che Prince o Paris o il piccolo Blanket (anche se, buon'anima, è ancora troppo piccino) possano accendere la tv o andare su internet e sentirsi dire che il loro padre è un deviato, un pervertito, un automa che rifiuta il suo aspetto, la sua razza, un mitomane che ama stare in compagnia dei minorenni fra sfarzi e lussi irriguardosi verso la povertà. Io non sono niente di tutto questo.
Io so cosa è la povertà. Io non ho avuto l'adolescenza di quel damerino che ostenta un'inglese perfetto per far vedere che ha cultura. Io non ho avuto la possibilità di studiare a Oxford facendomi pagare tutto da papino.
Il mio percorso è stato un altro. E mi ha portato Dio solo sa quante soddisfazioni.
Ma giuro, giuro su quello che ho di più caro, che se oggi posso permettermi un certo tenore di vita è solo perchè me lo sono guadagnato lavorando duramente.
E per guadagnare non ho mai calpestato la dignità di nessuno. Io.
* tratto da un reale comunicato scritto da michael.
Ore 14:00 pm.
Mi appresto a liberarmi degli stivaloni infangati che uso normalmente per lavorare perchè devo andare a recuperare Satya.
Ho trovato un asilo molto carino nei pressi di Santa Ynez, una località che dista circa 5 miglia da Neverland.
In funzione dell'asilo e della vicinanza con il posto di lavoro anche il nostro appartamentino è a Santa Ynez. E' un bel posticino, piccolo ma accogliente.
Saty non sembra molto entusiasta dei nuovi rapporti stretti con i coetanei, è un bimbo molto timido e schivo, abituato come la sua mamma ad avere pochi rapporti con il mondo umano. Spero che questo lato di lui si modifichi presto, perchè non vorrei che a causa della sua chiusura pasasse un'infanzia di solitudine, come la mia. Per facilitare un pò le cose ogni giorno lo porto un pò al mare dove è pieno di ragazzini.
A circa mezzoretta da casa c'è Refugio State Beach, una piccola località protetta da una lieve insenatura, lontana dalle passerelle mondane di Malibu, sita una decina di miglia a sud. Nuotiamo e parliamo.
Il mio inglese sta migliorando. Riesco a seguire perfettamente la cnn delle 19. Anche Saty impara, molto più in fretta di me.
Sono contenta perchè ora conosce 3 lingue molto bene.
Ore 17:00 pm.
Ci apprestiamo a rientrare a casa quando mi suona il cellulare. E' Kelly - vieni subito, c'è un'emergenza-
Riattacco e volo a casa. Fra mille ringraziamenti affido Saty a Pedra, la mia dirimpettaia portoricana dalle forme generose e dal sorriso contagioso. E' sempre stata carina ed ospitale con noi, fin da quando ci siamo trasferiti. Lo fa entrare in casa carezzandogli la testa amorevolmente, le schiocco un bacio sulla guancia e volo alla volta di Neverland.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Oltrepassato il gran cancello principale mi si parano davanti Kelly e una donna che non conosco, incedono velocemente nella mia direzione.
Hanno uno sguardo scuro, costernato. Quasi correndo per il lungo sentiero illuminato, tirata per un braccio da kelly, vengo informata della situazione.
La donna che ci segue dice di chiamarsi Grace ed ha uno sguado terribilmente preoccupato.
Giungiamo ad un grande spiazzo rivestito da sassolini grigi e color salmone. Non mi ero mai spinta così vicina all'abitazione.
Un enorme orologio ci sovrasta. Sono le 17:30 e i ritocchi della campana celata dai cespugli rieccheggia rimbombandomi nei timpani.
Un gruppetto di una decina di persone forma un cerchio al cui centro si trova una bambina di circa 5 anni piegata sulle ginocchia. Piange rumorosamente.
E' Paris Jackson.
Avvicinandomi maggiormente noto una piccola figura sul selciato.
E' Ariel, un cucciolo di labrador color crema. Avrà si e no quattro mesi, non di più. Giace privo di sensi.
-Vieni tesoro, è arrivato il dottore, lasciamolo lavorare- Grace si avvicina e solleva da terra la piccola con le guance tumefatte da pianto.
- Ti prego, salvala, sta male e non so cos'ha. Ti prego per favore aiutala.- Mi supplica con uno sguardo annebbiato dalle lacrime.
Immediatamente mi chino sulla bestiola e controllo subito se respira. Il battito è debole e irregolare. Mi faccio subito portare un lenzuolino che fungerà da mini-barella e trasportiamo in cucciolo nell'infermeria che si trova in una dependance poco distante. Dopo una piccola ecografia capisco che la situazione è abbastanza grave: Ariel ha [CENSORED] to qualcosa che si è incastrato nell'esofago e comprime la trachea rendendo la respirazione difficoltosa.
Le faccio l'anestesia e procedo chirurgicamente. John mi aiuta con i ferri mentre Kelly e Jane tengono monitorati i parametri vitali.
Ore 19:00 pm. Ariel è fuori pericolo.
Tolgo i guanti di lattice e, indossando ancora mascherina e camice verde, mi dirigo nell'atrio della costruzione in mattoni rossi.
La piccola Paris è seduta sulle ginocchia di Grace - la sua tata, a quanto mi sembra- e appena mi vede balza in piedi correndomi incontro. Ha occhi grandi e verdi.
- La tua piccola peste è fuori pericolo. aveva [CENSORED] to una pallina, di quelle dure in gomma che rimbalzano! L'abbiamo operata ed ora sta bene. Dovrà riposare però-
Alla mia comunicazione c'è un'esplosione di giubilo generale, la piccola mi corre incontro e mi abbraccia da sopra in camicione che porto, è felicissima - Grazie, grazie, grazie sei il dottore dei cani più bravo del mondo!!!! Posso andare a vederla?-
- Si, però fai attenzione è ancora molto debole, non farla muovere troppo..-
Grace emette un lungo sospiro di sollievo e mi rivolge un sorriso estremamente eloquente.
Restituisco l'espressione rilassata ed abbozzo un sorriso slacciando uno dei lembi che tengono ancorata la mascherina chirurgica al mio viso.
Sposto lo sguardo oltre la tata e mi accorgo di una presenza alle sue spalle. Una presenza che probabilmente era sempre stata lì fin dal mio arrivo di un'ora e mezza prima, ma di cui mi accorgo solo ora.
Si alza in piedi posandomi uno sguardo che non so decifrare, date le lenti scure che porta.
Camicia nera aperta sul petto. Maglietta bianca sotto. Pantaloni neri con la riga davanti. Stivaletti neri, pitonati suppongo.
Completamente paralizzata mi rendo conto che sta succedendo veramente e credo che anche lui si accorga della mia difficoltà perchè abbozza un sorriso avvicinandosi.
- Grazie per essere venuta così in fretta anche fuori dall'orario di lavoro. La sua tempestività è stata fondamentale. Se Ariel non.... bè ecco.. non so come avremmo potuto consolare mia figlia..lei adora i suoi cuccioli..- Il tono è fermo e gentile, sembra vento che soffia nei bicchieri.
Come ho detto sono completamente paralizzata e il mio sistema nervoso non pare voler rispondere alla quantità di adrenalina che ho in circolo. Sto facendo la figura della cretina, mi sembra di vedermi dall'esterno. Riesco solo ad abbozzare la frase più idiota che posso tirare fuori.
- Anche a me p-piacciono molto gli animali- . No. Ma dico. CI RENDIAMO CONTO?!?!?!?!?!? Ma per quale diavolo di motivo mi sto comportando come una CRETINA?? Avessi 10 anni...ma ne ho 30! 30 capito!?!
- Bè è una buona cosa questa.. - ribatte lui in tono ironico. Eccerto, in tono ironico, perchè per caso esistono veterinari a cui non piacciono gli animali o che comunque, anche fosse, lo dichiarano apertamente davanti al datore di lavoro!?!?! che banalità mioddio!
Il silenzio che si crea, corredato dalla mia faccia da ebete, ha il peso di un airbus 4454 direttamente sullo stomaco.
- Lei è nuova dottoressa, vero? E' la stessa persona che ho visto sul vialetto una decina di giorni fa?- Cerca di spezzare la mia agonia imbarazzata.
- S-si c-credo che ero io..- uau che atto di coraggio! bella risposta ad una domanda così complicata eh? brava Andrea, brava!
- Oh allora non le ho ancora dato il mio benvenuto..mi spiace non averlo fatto prima, ma sono spesso fuori casa..- si rabbuia
- Sono Michael!- mi tende la mano e sorride.
- Mi chiamo Andrea..Andrea Ferrari- mi esce una voce da oltretomba, come a vergognarmi di quel nome.. faccio per stringergli la mano ma è piena di quella polverina bianca e appiccicosa che rilasciano i guanti di lattice. Completamente viola in volto gliela mostro e con uno sguardo eloquente gli faccio capire che non è il caso di imbrattare anche lui..
Sorride e fa un cenno di assenso con il capo.
- Che bel nome..particolare direi! - ancora con un mezzo sorriso, accortosi evidentemente che si tratta di un nome che normalmente non si accosterebbe ad una donna - Lei è la benvenuta qui, spero che si troverà bene fra noi!-
- Si, ho già fatto la conoscenza di molti colleghi e sono tutte persone carinissime..- sono finalmente riuscita ad articolare una frase!
- Mi fa molto molto piacere e....- Paris e Grace seguite da Kelly escono dalla saletta nella quale la piccola Ariel convalescente sta riposando.
- Papà papà Ariel sta bene!-
- Lo so amore, te l'avevo detto di non disperare!- La prende in braccio e le stampa un super bacio sulla guancia
- mi sono spaventata tanto...-
- lo so, ma ora è passato. Hai ringraziato la dottoressa per essere corsa qui?-
- Si.. Grazie dottoressa, sei la più brava del mondo!-
Arrossisco e non posso fare più che un sorriso, un sorriso di sollievo, per tutto.
Allontanandosi con la bambina in braccio e seguito da uno stuolo di persone trova lo spazio per voltarsi un'ultima volta
- Arrivederci Miss Ferrari, buona serata e grazie ancora!-
E' stato gentile e accogliente.
Mi ha dato del lei.
Mi ha trattato con garbo e rispetto nonostante la mia estrema goffaggine.
Credo che a casa mi prenderò a schiaffi.
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Re: Il fantasma che si innamorò di un uomo
CAPITOLO 3
NELLA MIA TESTA.
Non riesco davvero ad immaginare come sarebbe stato averlo accanto durante tutti quei mesi.
Forse non sarei nemmeno partita per l'Africa ed avremmo avuto una vita normale, come una vera famiglia.
Forse non mi sarei sentita sola con le mie depressioni, con le voglie di kiwi australiano alle 3 di notte.
Forse avrei avuto qualcuno con cui riderne.
Forse non avrei partorito senza nessuno in sala d'aspetto ad attendere, appunto.
E non avrei scelto il nome, le tutine, la culla, e tutto quello che ho avuto l'onore di scegliere per lui, da sola.
Ma appena ha saputo che ero incinta mi ha chiesto di scegliere. E un uomo non potrebbe commettere errore più scellerato.
Non riesco davvero ad immaginare come sarebbe stato avere qualcuno accanto in questi anni, proprio no.
Meglio nessun padre che un padre di merda però.
****
Lui è stato incredibilmente gentile stasera.
Non te lo aspetti da uno così. Chissà perchè poi, l'equazione è sempre uguale: ricco=stronzo.
Forse perchè è così la maggior parte delle volte.
Ma non questa. Va bé ma io che ne so.
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Aug 24, 2003
Il caldo di oggi da alla testa.
E fosse solo quello!
Dopo l'incontro di ieri mi riesce sempre più difficile evitare di guardarmi intorno come se qualcuno mi stesse osservando, la sensazione è sempre la stessa, solo più forte. Se qualcuno mi osservasse attentamente sembrerei una psicopatica, ne sono certa.
Alle 13 terminato il lavoro e dopo il solito grande bagno di coccole con Melville, che, sempre più affranto dalla mia dipartita, mi ha dedicato un profondo barrito tonante, decido di recarmi all'infermeria dove è ancora convalescente la piccola Ariel.
All'ingresso noto che la porta è socchiusa, non so se avvicinarmi o se desistere, ma poi concludo che rientra comunque nelle mie mansioni lavorative controllare il post-operatorio di un mio paziente. - sono specializzata in animali tropicali e non in cani, unitamente al fatto che sono un comportamentalista più che un chirurgo, ma tutto sommato chissenefrega, questo gli altri non lo sanno-
Entro nella stanza e nella penombra vedo una piccola forma. E' Paris, ed è venuta presumo a controllare la sua cagnolina.
Appena mi vede mi sorride. - Ciao dottoressa. Hai visto la mia Ariel? Oggi sta meglio-
- oh lo vedo..!- La cagnolina accortasi della mia presenza prende a scodinzolare come una forsennata, vorrebbe alzarsi e saltellare in quel modo adorabile che appartiene solo ai cuccioli, ma è ancora un pò debole ed il collare elisabettiano le impedisce la maggior parte dei movimenti.
- buona, stai buona piccola..- Cerco di tranquillizzare la bestiolina e le faccio una piccola visita. Tutto ok.
- Quando guarirà?- Mi chiede aprendo i grandi occhi verdi che brillano di luce propria anche nella penombra
- Al massimo una settimana e poi possiamo togliere i punti- Le mostro la piccola fasciatura azzurra appena sopra lo sterno che ho applicato alla cucciola meno di 24 ore prima.
- Io voglio che guarisca, non voglio più che stia male..- Mi comunica aggrottando la fronte in modo adorabile
- Non succederà più niente di male alla tua cagnolina, e poi comunque ci sarò io a curarla- Le do un buffetto sulla guanciotta paffuta.
E' proprio una bimba dolcissima.
- Paris eccoti, non ti trovavo più! Mi hai fatto prendere un colpo!- E' Grace che entra nella stanza con lo stesso sguardo preoccupato del giorno prima
- certo che ne ha parecchi di grattacapi questa donna ogni giorno- penso.
Le rivolgo uno sguardo che esprime tutto il mio appoggio, accarezzo la piccola Paris, poi Ariel ed esco.
Ore 15:00 pm.
Oggi si lavora a tempo pieno, c'è il consueto ciclo di vaccinazioni semestrali per tutti gli abitanti dello zoo.
Proprio la giornata ideale considerato che ci saranno 40 gradi all'ombra!
Lavoriamo in silenzio, forse per non sprecare troppe energie. Ci vogliono comunque tre ore abbondanti.
Le tigri Masha e Robert richiedono più tempo del previsto, sembra che su di loro il potente sedativo somministrato per permetterci di entrare nelle gabbie non voglia fare effetto.
Alle 18:00 passate, ormai stremata, decido di passare a fare un ultimo saluto a Melville approfittandone per rinfrescarlo con un bel getto d'acqua a misura di tzunami che sicuramente coinvolgerà anche me, ma, devo dire, non mi dispiacerà affatto.
Salgo in piedi sulla scala ed inizio a bagnare la pelle coriacea grigia scura che ricopre il dorso del mio amico, che, come prevedevo, in una manifestazione di giubilo riconoscente inizia ad agitarsi tutto..il risultato è che la canottierina color panna e gli shorts di jeans che indosso si inzuppano come fossero un costume da bagno.
Rido divertita e continuiamo questo nostro gioco un pò umido, quando la sensazione di essere osservata mi pervade così prepotentemente che mi giro di scatto.
E non posso credere a quello che vedo.
Mr Jackson se ne sta appoggiato al recinto di legno in una posizione un pò defilata rispetto alla mia e sorride divertito alla scena.
Per quanto mi riguarda, stessa identica reazione avuta il giorno prima: pietrificata, sangue gelido, faccia da ebete.
Non pensiate che sia divertente perchè non lo è. Cercare di parlare e sentire le corde vocali che non vibrano non è bello.
Ho smesso di chiedermi il perchè di questo effetto. Lo subisco e basta.
- buonasera Miss Ferrari..mi scusi se l'ho spaventata ma stavo passeggiando ed ho sentito delle risate..sono venuto a vedere ..- sembra arrossire -
poi incalza - E' straordinario vedere come vi divertite insieme!- Questa volta sorride.
Melville sembra rendersi conto che l'attenzione non è più rivolta solo a lui allorquando effettua un brusco movimento urtandomi.
Dal canto mio, inebetita come sono, e ancora concentrata nell'emettere un sibilo che si avvicini ad un verso umano, non ho la giusta prontezza di riflessi per risistemare il mio baricentro.
Anche la scala mi abbandona, iniziando ad oscillare pericolosamente....Il risultato è scontato. Cado.
Ma trattandosi di me non può essere una caduta dignitosa. No no. La mia è una classica caduta da film, di quelle che di solito, per essere girate, necessitano di uno stunt man.
Atterro di schiena con entrambe le gambe tese verso l'alto. Divaricate. Emetto anche un suono che potrebbe essere accostato al verso che fa la cornacchia.
Sotto di me la superficie è molle ed umida. Credo sia terriccio, ma, sempre conoscendo il mio Karma, sarà sicuramente frammisto a qualcos'altro.
Anche la scala obbedisce alla forza di gravità appena dopo di me, rovinandomi addosso.
- Ommioddio!- Mr Jackson si precipita all'interno del recinto. Solleva la scala dal mio corpo e cerca di sollevare anche me, mettendomi un braccio dietro alla schiena e con l'altro issandomi prendendo la mia mano.
- Mr Jackson i-io non.. mi scusi, mi scusi tantissimo..io...- riesco solo a biascicare
- Si è fatta male Andrea?- Mi guarda con un'espressione mista fra il preoccupato ed il divertito. Nella sua ansia preoccupata mi chiama per nome.
- N-no.. credo che vada tutto bene..cioè io..-
- L'importante è che non abbia battuto la testa. Anche se..qui il terreno mi sembra abbastanza morbido!- indica la poltilia marrone non ben identificata ai miei piedi.
E io mi accorgo dell'orrore.
Nell'entrare nel recinto si è imbrattato scarpe e pantaloni e, nel sollevarmi, la sua camicia che un tempo era stata immacolata si è ridotta ad un ricettacolo di pois marroni di dubbio gusto.
Completamente mortificata sono colta da una brillante idea. Forse una delle più geniali che mi siano capitate dacchè esisto.
Prendo l'iniziativa di rimuovere le macchie dalle sue spalle e dal petto.
- Aspetti Mr Jackson, le do una mano a...- con le mie stesse mani imbrattate cerco di afferrare i grumi ottenendo come risultato una fantastica spalmata di terra/quello che è sulla sua camicia. Lui mi lascia fare ma ha gli occhi sbarrati. In poche frazioni di secondo mi accorgo di aver riproposto la pubblicità della nutella in chiave moderna sulla camicia di Michael Jackson. A questo punto sto per svenire dalla vergogna.
- Ommioddio..mi disiace io..io sono un'imbecille..sono..i-io..- ormai paonazza in volto.
Mi guarda attonito. Sono pronta al licenziamento. Chiudo gli occhi per nascondermi almeno un pò. E lo sento scoppiare in una fragorosa risata. Poi si blocca arrossendo, forse pensa di essere stato troppo sfacciato. Ci guardiamo negli occhi. Un guizzo, una scintilla.
Esplodiamo entrambi in una fragorosa risata liberatoria, ognuno per i suoi motivi.
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- Perchè è così dura con se stessa? Non è successo niente di male!- Sorride e poi sghignazza.
- Bè n-non direi, guardi come siamo conciati a causa della mia sbadataggine!!- Ma perchè balbetto?!?!
- Ma certe volte è bello sporcarsi un pò le mani senza troppi pensieri, no? E' liberatorio!- Dice così e si avvicina alla cesta della frutta, prende una , la sbuccia e si avvicina a Melville il quale non si fa certo pregare e si dirige verso di lui tutto contento. Gliela sistema fra le fauci rivolgendogli un sorrisone.
Gli porge una carezza sulla lunga proboscide.
Da questi pochi gesti mi rendo conto che abbiamo qualcosa in comune. Comunica con gli animali ed ama farlo.
Poi si volta verso di me.
- Per farsi capire da loro basta uno sguardo- mi dice - E non servono mille parole, mille scuse. Solo uno sguardo-
Poi apre ulteriormente gli enormi occhi neri - Ma lei Andrea questo lo deve sapere molto meglio di me, ho detto una cosa banale, credo-
- Oh no..in realtà non sono in molti a comprenderlo..-
- Forse perchè le persone sono troppo occupate a pensare ai loro affari, a questioni materiali che non hanno alcuna importanza alla fine, ma che le fanno sentire..in un certo senso 'piene'. Lo spirito però necessita di ben altro nutrimento..-
E' incredibilmente sensibile e..saggio. Sono rapita dalle sue parole, ma anche dal modo in cui le dice.
- Spesso però rinunciare al mondo esterno conduce inevitabilmente alla solitudine, non è vero?- mi chiede una conferma delle sue verità
- Non è facile- rispondo
- Lo so che non è facile. Non lo è mai- Il suo sguardo si posa su di me e mi sento completamente nuda. Sono ubriaca.
L'amara rassegnazione che ha negli occhi mi lascia sgomenta.
Rimaniamo lì nel recinto per un tempo indefinibile. Potrebbero essere minuti o giorni, non lo so.
Queste le uniche frasi che ci concediamo.
Continuo a svolgere il mio lavoro interrotto, lavo Gipsy e Melville con la canna, poi gli abbeveratoi, metto dell'acqua pulita e pulisco a terra.
Lui ci osserva, appoggiato alla staccionata.
Non provo più alcun tipo di imbarazzo e non so perchè. Forse le parole che mi ha detto mi hanno tranquillizzata.
Per la prima volta ho sentito i concetti uscire dal mio cervello ed attraversare la bocca di un'altra persona prima di uscire allo scoperto.
- E' bello vedervi insieme, il modo in cui loro la guardano e la seguono..è fantastico- mi dice mentre sto chiudendo il recinto cercando di scrollarmi di dosso la terra ormai secca e dura.
- Si, sono contenta di aver familiarizzato in fretta, per me è molto importante..- rispondo un pò imbarazzata. - In ogni caso devo dire che possiede animali davvero di buon carattere, sono affabilissimi!-
- Sanno di essere amati. E per me è molto importante che siano seguiti dalle persone migliori, che condividano la mia stessa passione per loro. E lei è una di quelle persone.- Sento di essere arrossita a dismisura e non so come rispondere. Maledetta impacciataggine!
- Sa, Gipsy è un regalo di Elizabeth, una mia carissima amica.. tengo molto a lei..- dice interrompendo il silenzio da me creato.
-Oh..capisco- Mi sento quasi in colpa per aver legato di più con Melville. Ditemi voi se sono normale.
Quest'uomo si comporta in maniera estremamente insolita. Non è il classico comportamento da VIP. Ama passeggiare in giardino e conosce perfettamente tutti i nomi degli animali che possiede. Entra nei loro recinti e li nutre. In questo momento è pieno di fango (nella migliore delle ipotesi) e non è per niente infastidito o schifato. Se dovessi credere a tutto quello che leggo sui giornali direi che in questo momento sto sognando.
- Senta Andrea, le andrebbe di fare una passeggiata per il parco? Io la faccio sempre verso sera, se le va mi faccia compagnia..e poi scommetto che non glielo hanno mostrato tutto- Mi domanda come farebbe un bimbo che vuole essere accompagnato al luna park.
E lui lo è. Ogni sua parola è pervasa da quell'innocenza ingenua che hanno i bambini. L'unica differenza è che lui il luna park lo possiede nel giardino di casa.
Sto per rispondere quando nel mio cervello riecheggiano le parole -verso sera- ..quindi è SERA?!?!
- Ommioddio! Satya!!- esclamo allarmatissima. Guardo l'orologio. Le 20:00. Sono una madre degenere.
- Come?!? Chi è Satya??- chiede incuriosito da quello strano nome, ma anche un pò frastornato dalla mia irruenza finora celata.
-E'..è mio figlio. Ha 3 anni e lo ho lasciato da un'amica, ma è decisamente troppo tardi.. devo scappare, mi dispiace!-
Mi fissa con i suoi occhi grandi e profondi. Dentro c'è una luce. E' sorpreso.
- Oh, certo, non sapevo che.. si insomma è colpa mia che l'ho trattenuta fino a quest'ora..-
- Ma assolutamente no, sono io che sono una pasticciona.. e la sua camicia ne sa qualcosa..- Gli dico con fare divertito indicando il suo povero indumento bicolore.
Scoppia di nuovo a ridere. Anche lui è divertito. - Bè devo dire che era tempo che non mi imbrattavo così, anzi, a dirla tutta non so nemmeno se sia mai stato così sporco in vita mia...Ma è stato divertente, molto- fa una pausa. poi: - allora vorrà dire che il tour del ranch lo faremo un altro giorno, ok?-
- C-certo, con piacere..sa dove trovarmi!- Cerco di apparire disinvolta ma arrossisco di nuovo.
- La faccio accompagnare dal mio autista, così farà prima..-
- No, grazie Mr Jackson, sono già motorizzata, ho parcheggiato proprio alla fine del vialetto! Grazie mille comunque!-
Mi allontano e lo saluto con un gesto della mano.
Di nuovo il vento fa danzare i miei capelli come se fossero fronde di alghe marine preda della corrente.
Di nuovo la sensazione di essere osservata.
Ma stavolta so perchè.
NELLA MIA TESTA.
Non riesco davvero ad immaginare come sarebbe stato averlo accanto durante tutti quei mesi.
Forse non sarei nemmeno partita per l'Africa ed avremmo avuto una vita normale, come una vera famiglia.
Forse non mi sarei sentita sola con le mie depressioni, con le voglie di kiwi australiano alle 3 di notte.
Forse avrei avuto qualcuno con cui riderne.
Forse non avrei partorito senza nessuno in sala d'aspetto ad attendere, appunto.
E non avrei scelto il nome, le tutine, la culla, e tutto quello che ho avuto l'onore di scegliere per lui, da sola.
Ma appena ha saputo che ero incinta mi ha chiesto di scegliere. E un uomo non potrebbe commettere errore più scellerato.
Non riesco davvero ad immaginare come sarebbe stato avere qualcuno accanto in questi anni, proprio no.
Meglio nessun padre che un padre di merda però.
****
Lui è stato incredibilmente gentile stasera.
Non te lo aspetti da uno così. Chissà perchè poi, l'equazione è sempre uguale: ricco=stronzo.
Forse perchè è così la maggior parte delle volte.
Ma non questa. Va bé ma io che ne so.
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Aug 24, 2003
Il caldo di oggi da alla testa.
E fosse solo quello!
Dopo l'incontro di ieri mi riesce sempre più difficile evitare di guardarmi intorno come se qualcuno mi stesse osservando, la sensazione è sempre la stessa, solo più forte. Se qualcuno mi osservasse attentamente sembrerei una psicopatica, ne sono certa.
Alle 13 terminato il lavoro e dopo il solito grande bagno di coccole con Melville, che, sempre più affranto dalla mia dipartita, mi ha dedicato un profondo barrito tonante, decido di recarmi all'infermeria dove è ancora convalescente la piccola Ariel.
All'ingresso noto che la porta è socchiusa, non so se avvicinarmi o se desistere, ma poi concludo che rientra comunque nelle mie mansioni lavorative controllare il post-operatorio di un mio paziente. - sono specializzata in animali tropicali e non in cani, unitamente al fatto che sono un comportamentalista più che un chirurgo, ma tutto sommato chissenefrega, questo gli altri non lo sanno-
Entro nella stanza e nella penombra vedo una piccola forma. E' Paris, ed è venuta presumo a controllare la sua cagnolina.
Appena mi vede mi sorride. - Ciao dottoressa. Hai visto la mia Ariel? Oggi sta meglio-
- oh lo vedo..!- La cagnolina accortasi della mia presenza prende a scodinzolare come una forsennata, vorrebbe alzarsi e saltellare in quel modo adorabile che appartiene solo ai cuccioli, ma è ancora un pò debole ed il collare elisabettiano le impedisce la maggior parte dei movimenti.
- buona, stai buona piccola..- Cerco di tranquillizzare la bestiolina e le faccio una piccola visita. Tutto ok.
- Quando guarirà?- Mi chiede aprendo i grandi occhi verdi che brillano di luce propria anche nella penombra
- Al massimo una settimana e poi possiamo togliere i punti- Le mostro la piccola fasciatura azzurra appena sopra lo sterno che ho applicato alla cucciola meno di 24 ore prima.
- Io voglio che guarisca, non voglio più che stia male..- Mi comunica aggrottando la fronte in modo adorabile
- Non succederà più niente di male alla tua cagnolina, e poi comunque ci sarò io a curarla- Le do un buffetto sulla guanciotta paffuta.
E' proprio una bimba dolcissima.
- Paris eccoti, non ti trovavo più! Mi hai fatto prendere un colpo!- E' Grace che entra nella stanza con lo stesso sguardo preoccupato del giorno prima
- certo che ne ha parecchi di grattacapi questa donna ogni giorno- penso.
Le rivolgo uno sguardo che esprime tutto il mio appoggio, accarezzo la piccola Paris, poi Ariel ed esco.
Ore 15:00 pm.
Oggi si lavora a tempo pieno, c'è il consueto ciclo di vaccinazioni semestrali per tutti gli abitanti dello zoo.
Proprio la giornata ideale considerato che ci saranno 40 gradi all'ombra!
Lavoriamo in silenzio, forse per non sprecare troppe energie. Ci vogliono comunque tre ore abbondanti.
Le tigri Masha e Robert richiedono più tempo del previsto, sembra che su di loro il potente sedativo somministrato per permetterci di entrare nelle gabbie non voglia fare effetto.
Alle 18:00 passate, ormai stremata, decido di passare a fare un ultimo saluto a Melville approfittandone per rinfrescarlo con un bel getto d'acqua a misura di tzunami che sicuramente coinvolgerà anche me, ma, devo dire, non mi dispiacerà affatto.
Salgo in piedi sulla scala ed inizio a bagnare la pelle coriacea grigia scura che ricopre il dorso del mio amico, che, come prevedevo, in una manifestazione di giubilo riconoscente inizia ad agitarsi tutto..il risultato è che la canottierina color panna e gli shorts di jeans che indosso si inzuppano come fossero un costume da bagno.
Rido divertita e continuiamo questo nostro gioco un pò umido, quando la sensazione di essere osservata mi pervade così prepotentemente che mi giro di scatto.
E non posso credere a quello che vedo.
Mr Jackson se ne sta appoggiato al recinto di legno in una posizione un pò defilata rispetto alla mia e sorride divertito alla scena.
Per quanto mi riguarda, stessa identica reazione avuta il giorno prima: pietrificata, sangue gelido, faccia da ebete.
Non pensiate che sia divertente perchè non lo è. Cercare di parlare e sentire le corde vocali che non vibrano non è bello.
Ho smesso di chiedermi il perchè di questo effetto. Lo subisco e basta.
- buonasera Miss Ferrari..mi scusi se l'ho spaventata ma stavo passeggiando ed ho sentito delle risate..sono venuto a vedere ..- sembra arrossire -
poi incalza - E' straordinario vedere come vi divertite insieme!- Questa volta sorride.
Melville sembra rendersi conto che l'attenzione non è più rivolta solo a lui allorquando effettua un brusco movimento urtandomi.
Dal canto mio, inebetita come sono, e ancora concentrata nell'emettere un sibilo che si avvicini ad un verso umano, non ho la giusta prontezza di riflessi per risistemare il mio baricentro.
Anche la scala mi abbandona, iniziando ad oscillare pericolosamente....Il risultato è scontato. Cado.
Ma trattandosi di me non può essere una caduta dignitosa. No no. La mia è una classica caduta da film, di quelle che di solito, per essere girate, necessitano di uno stunt man.
Atterro di schiena con entrambe le gambe tese verso l'alto. Divaricate. Emetto anche un suono che potrebbe essere accostato al verso che fa la cornacchia.
Sotto di me la superficie è molle ed umida. Credo sia terriccio, ma, sempre conoscendo il mio Karma, sarà sicuramente frammisto a qualcos'altro.
Anche la scala obbedisce alla forza di gravità appena dopo di me, rovinandomi addosso.
- Ommioddio!- Mr Jackson si precipita all'interno del recinto. Solleva la scala dal mio corpo e cerca di sollevare anche me, mettendomi un braccio dietro alla schiena e con l'altro issandomi prendendo la mia mano.
- Mr Jackson i-io non.. mi scusi, mi scusi tantissimo..io...- riesco solo a biascicare
- Si è fatta male Andrea?- Mi guarda con un'espressione mista fra il preoccupato ed il divertito. Nella sua ansia preoccupata mi chiama per nome.
- N-no.. credo che vada tutto bene..cioè io..-
- L'importante è che non abbia battuto la testa. Anche se..qui il terreno mi sembra abbastanza morbido!- indica la poltilia marrone non ben identificata ai miei piedi.
E io mi accorgo dell'orrore.
Nell'entrare nel recinto si è imbrattato scarpe e pantaloni e, nel sollevarmi, la sua camicia che un tempo era stata immacolata si è ridotta ad un ricettacolo di pois marroni di dubbio gusto.
Completamente mortificata sono colta da una brillante idea. Forse una delle più geniali che mi siano capitate dacchè esisto.
Prendo l'iniziativa di rimuovere le macchie dalle sue spalle e dal petto.
- Aspetti Mr Jackson, le do una mano a...- con le mie stesse mani imbrattate cerco di afferrare i grumi ottenendo come risultato una fantastica spalmata di terra/quello che è sulla sua camicia. Lui mi lascia fare ma ha gli occhi sbarrati. In poche frazioni di secondo mi accorgo di aver riproposto la pubblicità della nutella in chiave moderna sulla camicia di Michael Jackson. A questo punto sto per svenire dalla vergogna.
- Ommioddio..mi disiace io..io sono un'imbecille..sono..i-io..- ormai paonazza in volto.
Mi guarda attonito. Sono pronta al licenziamento. Chiudo gli occhi per nascondermi almeno un pò. E lo sento scoppiare in una fragorosa risata. Poi si blocca arrossendo, forse pensa di essere stato troppo sfacciato. Ci guardiamo negli occhi. Un guizzo, una scintilla.
Esplodiamo entrambi in una fragorosa risata liberatoria, ognuno per i suoi motivi.
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- Perchè è così dura con se stessa? Non è successo niente di male!- Sorride e poi sghignazza.
- Bè n-non direi, guardi come siamo conciati a causa della mia sbadataggine!!- Ma perchè balbetto?!?!
- Ma certe volte è bello sporcarsi un pò le mani senza troppi pensieri, no? E' liberatorio!- Dice così e si avvicina alla cesta della frutta, prende una , la sbuccia e si avvicina a Melville il quale non si fa certo pregare e si dirige verso di lui tutto contento. Gliela sistema fra le fauci rivolgendogli un sorrisone.
Gli porge una carezza sulla lunga proboscide.
Da questi pochi gesti mi rendo conto che abbiamo qualcosa in comune. Comunica con gli animali ed ama farlo.
Poi si volta verso di me.
- Per farsi capire da loro basta uno sguardo- mi dice - E non servono mille parole, mille scuse. Solo uno sguardo-
Poi apre ulteriormente gli enormi occhi neri - Ma lei Andrea questo lo deve sapere molto meglio di me, ho detto una cosa banale, credo-
- Oh no..in realtà non sono in molti a comprenderlo..-
- Forse perchè le persone sono troppo occupate a pensare ai loro affari, a questioni materiali che non hanno alcuna importanza alla fine, ma che le fanno sentire..in un certo senso 'piene'. Lo spirito però necessita di ben altro nutrimento..-
E' incredibilmente sensibile e..saggio. Sono rapita dalle sue parole, ma anche dal modo in cui le dice.
- Spesso però rinunciare al mondo esterno conduce inevitabilmente alla solitudine, non è vero?- mi chiede una conferma delle sue verità
- Non è facile- rispondo
- Lo so che non è facile. Non lo è mai- Il suo sguardo si posa su di me e mi sento completamente nuda. Sono ubriaca.
L'amara rassegnazione che ha negli occhi mi lascia sgomenta.
Rimaniamo lì nel recinto per un tempo indefinibile. Potrebbero essere minuti o giorni, non lo so.
Queste le uniche frasi che ci concediamo.
Continuo a svolgere il mio lavoro interrotto, lavo Gipsy e Melville con la canna, poi gli abbeveratoi, metto dell'acqua pulita e pulisco a terra.
Lui ci osserva, appoggiato alla staccionata.
Non provo più alcun tipo di imbarazzo e non so perchè. Forse le parole che mi ha detto mi hanno tranquillizzata.
Per la prima volta ho sentito i concetti uscire dal mio cervello ed attraversare la bocca di un'altra persona prima di uscire allo scoperto.
- E' bello vedervi insieme, il modo in cui loro la guardano e la seguono..è fantastico- mi dice mentre sto chiudendo il recinto cercando di scrollarmi di dosso la terra ormai secca e dura.
- Si, sono contenta di aver familiarizzato in fretta, per me è molto importante..- rispondo un pò imbarazzata. - In ogni caso devo dire che possiede animali davvero di buon carattere, sono affabilissimi!-
- Sanno di essere amati. E per me è molto importante che siano seguiti dalle persone migliori, che condividano la mia stessa passione per loro. E lei è una di quelle persone.- Sento di essere arrossita a dismisura e non so come rispondere. Maledetta impacciataggine!
- Sa, Gipsy è un regalo di Elizabeth, una mia carissima amica.. tengo molto a lei..- dice interrompendo il silenzio da me creato.
-Oh..capisco- Mi sento quasi in colpa per aver legato di più con Melville. Ditemi voi se sono normale.
Quest'uomo si comporta in maniera estremamente insolita. Non è il classico comportamento da VIP. Ama passeggiare in giardino e conosce perfettamente tutti i nomi degli animali che possiede. Entra nei loro recinti e li nutre. In questo momento è pieno di fango (nella migliore delle ipotesi) e non è per niente infastidito o schifato. Se dovessi credere a tutto quello che leggo sui giornali direi che in questo momento sto sognando.
- Senta Andrea, le andrebbe di fare una passeggiata per il parco? Io la faccio sempre verso sera, se le va mi faccia compagnia..e poi scommetto che non glielo hanno mostrato tutto- Mi domanda come farebbe un bimbo che vuole essere accompagnato al luna park.
E lui lo è. Ogni sua parola è pervasa da quell'innocenza ingenua che hanno i bambini. L'unica differenza è che lui il luna park lo possiede nel giardino di casa.
Sto per rispondere quando nel mio cervello riecheggiano le parole -verso sera- ..quindi è SERA?!?!
- Ommioddio! Satya!!- esclamo allarmatissima. Guardo l'orologio. Le 20:00. Sono una madre degenere.
- Come?!? Chi è Satya??- chiede incuriosito da quello strano nome, ma anche un pò frastornato dalla mia irruenza finora celata.
-E'..è mio figlio. Ha 3 anni e lo ho lasciato da un'amica, ma è decisamente troppo tardi.. devo scappare, mi dispiace!-
Mi fissa con i suoi occhi grandi e profondi. Dentro c'è una luce. E' sorpreso.
- Oh, certo, non sapevo che.. si insomma è colpa mia che l'ho trattenuta fino a quest'ora..-
- Ma assolutamente no, sono io che sono una pasticciona.. e la sua camicia ne sa qualcosa..- Gli dico con fare divertito indicando il suo povero indumento bicolore.
Scoppia di nuovo a ridere. Anche lui è divertito. - Bè devo dire che era tempo che non mi imbrattavo così, anzi, a dirla tutta non so nemmeno se sia mai stato così sporco in vita mia...Ma è stato divertente, molto- fa una pausa. poi: - allora vorrà dire che il tour del ranch lo faremo un altro giorno, ok?-
- C-certo, con piacere..sa dove trovarmi!- Cerco di apparire disinvolta ma arrossisco di nuovo.
- La faccio accompagnare dal mio autista, così farà prima..-
- No, grazie Mr Jackson, sono già motorizzata, ho parcheggiato proprio alla fine del vialetto! Grazie mille comunque!-
Mi allontano e lo saluto con un gesto della mano.
Di nuovo il vento fa danzare i miei capelli come se fossero fronde di alghe marine preda della corrente.
Di nuovo la sensazione di essere osservata.
Ma stavolta so perchè.
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Re: Il fantasma che si innamorò di un uomo
CAPITOLO 4
NELLA TESTA DI MICHAEL
Sono stanco di trascorrere giornate intere nello studio dell'avvocato per riuscire a capire come poter fare per bloccare la messa in onda di quel maledetto programma. Sono stanco, davvero. Se avessi saputo..se solo avessi potuto immaginare non mi sarei prestato a questa pagliacciata.
Sono per l'ennesima volta un fenomeno da baraccone.
Come se non bastasse anche i bambini mi preoccupano. Blanket è alle prese con il suo primo raffreddore..e mi si stringe il cuore a guardarlo lì, nel suo lettino, intontito dall'antivirale. E' così piccolo e indifeso.
Lo so, sono un pò apprensivo.
E Paris è un pò depressa perchè la sua cagnolina non si riprende in fretta come spererebbe. Si colpevolizza molto per quello che è successo l'altro giorno. Continua a dire che se lei non fosse stata così cattiva a lasciare le sue palline di gomma sul selciato ora Ariel starebbe bene.
Ho sempre cercato di infondere nei miei figli il senso del dovere e della responsabilità. Per me è molto importante che capiscano che le loro azioni hanno delle conseguenze, e che non potrò sempre essere lì a rimediare ai loro errori o ad evitare che li facciano.
Non vorrei però aver esagerato un pò con i miei precetti. Non voglio che Paris soffra.
La vita non risparmierà nessuno di loro dalla sofferenza, ma vorrei che questo accadesse il più tardi possibile.
Unica nota divertente di questa disastrosa settimana è che ieri ho chiacchierato un pò con una persona nuova.
Si chiama Andrea (ma non è un nome maschile per caso?!) ed è la nuova veterinaria dello zoo.
A dire il vero sono giorni che la osservo dal mio albero preferito -my giving tree-. All'inizio lo facevo per scrupolo, in fondo non l'ho assunta personalmente e vorrei avere un'idea delle facce che si aggirano per il ranch. Poi mi ha colpito con i suoi modi verso Melville e ho continuato ad osservarla anche i giorni successivi.
A guardarla non le si darebbero più di una ventina d'anni. Ma è sicuramente più grande perchè è già laureata da qualche anno mi hanno detto i miei collaboratori.
Viene dall’Africa. Che cosa interessante, spero di potermi fare raccontare qualcosa, adoro le storie di vita.
Ha un viso così pulito. Gli occhi grandi e verdi, come quelli di Paris. Ma sono tristi.
A dire il vero non parla molto, preferisce parlare con gli animali.
Adoro il modo che ha di trattare con loro. C'è molto rispetto, in tutto quello che fa.
In compenso non credo ami avere a che fare con le persone, i suoi silenzi sono fra i più eloquenti che abbia ascoltato. Sembra impaurita. E indifesa.
Non credo si tratti di timore reverenziale verso di me, penso che dietro a certi sguardi bui si celi qualcosa in più.
Ha lo sguardo timido e spesso è piuttosto..impacciata.. stasera per esempio mi ha imbrattato involontariamente nel recinto degli elefanti tanto che, al mio rientro a casa, mi hanno chiesto se avessi fatto la lotta con gli ippopotami...ma qui non possiedo ippopotami!
Ho voglia di parlarle e di rimanere lì ad ascoltare quei suoi silenzi.
Sento di non averla ringraziata abbastanza per quello che ha fatto per Ariel.
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Aug 26, 2003
A causa del caldo torrido di questo agosto infernale ci hanno cambiato i turni di lavoro, lavoreremo in orari più 'freschi'. Nella fattispecie dalle 8:00 alle 11:00 e dalle 17:00 alle 19/20:00, dipende dalla quantità di lavoro.
Devo dire che sebbene sia molto meglio così per la salute, quelle sei ore di buco non mi sono comodissime, mi ero organizzata in un altro modo anche con Pedra che mi da una mano con Saty e ora.. è andato tutto all'aria!
Sono passati alcuni giorni dal mio incontro ravvicinato del terzo tipo, ma lui non è più tornato a trovarmi. Avrà sicuramente da fare cose molto più importanti di stare qui a parlare con me... So che è giusto pensarla così, ma in un certo senso ci avevo sperato.. di rincontrarlo per fare quel giro.
Invece si è trattato solo di un'occasione del tutto estemporanea, che ho mandato all'aria perchè era tardi.
Ha rinnovato l'invito ad un'altro giorno per pura cortesia. Se ne sarà sicuramente dimenticato.
Va bè, mi faccio bastare quello che ho avuto, non è stato poco in fondo, no?
Ore 21:00
Che stanchezza! Sono ancora qui al lavoro, ne ho approfittato insieme a qualche collega per fermarmi un pò di più a riordinare i vari registri. Sapete, qui sono annotate tutte ma proprio tutte le vaccinazioni, le medicine, gli eventuali interventi subiti da ogni singolo animale. Bisogna essere estremamente meticolosi nel compilarli. Noi abbiamo preferito questo momento della giornata perchè non c'è rumore e perchè il caldo attanaglia molto meno. Rumore e caldo: nemici della precisione!
Approfitto del fatto che Pedra abbia portato Satya e le sue due pesti al cinema a vedere 'l'era glaciale' (ci vorrebbe che capitasse davvero in questi giorni, non sopporto il caldo, mi sento cera in liquefazione un momento si e l'altro pure!), per concludere il lavoro e rientrare a casa con più calma.
Ora però è ora di andare sul serio. Raccolgo le mie cose e mi appresto a chiudere il capannone con una chiave che, non senza fatica a causa dell'oscurità, inserisco nella serratura metallica ben oleata.
Sto già pregustando la sensazione dell'acqua gelida che mi scorrerà addosso, liberandomi da quella sottile, impercettibile ma onnipresente patina di sudore adagiata sulla mia pelle, già evidentemente proiettata avanti nel tempo di una ventina di minuti. Inserisco le chiavi del capannone in borsa, un ultimo sguardo in giro per controllare che tutto sia a posto e..
- Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhhhhhhhhh!-
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L'oscurità e il mio essere sovrappensiero non fanno che amplificare la portata del mio spavento.
Mr Jackson si è parato esattamente dietro di me più silenzioso di una pantera, con l'idea presumo di farmi uno ‘scherzo’. Credo gli piaccia questo genere di cose.
Ma a me no.
Nel girarmi di scatto gli sbatto contro ed emetto uno dei più acuti ululati di cui sono capace, e, come se ciò non bastasse, non riconoscendolo subito brandisco la borsa, unica arma di cui dispongo, come se fosse una katana e gli assesto istintivamente il colpo in testa più forte di cui sono capace, quest'ultimo accompagnato da un nuovo urlo, stavolta più combattivo. Devo dire che un samurai potrebbe farmi le scarpe in questo contesto.
-Ahi!- esclama
Mi accorgo subito della vera identità del mio 'aggressore' e, ancora una volta, sento che sto per sentirmi male.
- Ommioddio....m-m-Mr Jackson..ma che ci fa lei qua??- Ma che razza di domande faccio?!? Questa è casa sua, lui va dove vuole!
- Niente, passeggiavo, la ho vista uscire e ho pensato di...insomma..- sembra giustificarsi. E' di una tenerezza immane.
Non termina la frase, imbarazzatissimo non riesce a confessare di aver tentato di farmi uno scherzo così malriuscito. Si massaggia il capo.
- Mi deve scusare Andrea, non intendevo spaventarla..effettivamente con il buio..potevo immaginare insomma..-
- No, Mr Jackson, mi deve scusare lei, sono stata un pò troppo impulsiva..è che..sa, lo spavento fa fare di tutto..- Ennesima figura da idiota. Una completa idiota.
Mentre mi sto stringendo il cilicio mentalmente e mi ripeto quanto sono stata inopportuna sento una fragorosa risata.
Ride, ride e ride e si massaggia la testa e ride ancora..è incredibile ma è anche contagioso e...rido anch'io.
- Fa bene ad essere così combattiva, al giorno d'oggi non si sa mai, con la gente che c'è in giro..- dice ridendo divertito dal suo stesso tono paternalistico
- Sono davvero mortificata..spero di non averle fatto troppo male..- mi viene da ridere ma mi sento irrispettosa e cerco di trattenermi
Incrociamo i nostri sguardi per un lasso indefinibile.
- E' già passato..e poi mi sta bene, la prossima volta imparo a fare gli agguati!- sghignazza - E non si trattenga, è ancora più buffa così!-
Deve essere davvero un burlone quando vuole.
Tutto il rumore che ho fatto prima, unitamente alle nostre risate di adesso, hanno svegliato i babbuini che, pensando probabilmente che sia l'ora del rancio, hanno iniziato ad urlare e gorgheggiare come pazzi, sbattendo le 'mani' sui cancelli e producendo un rumore veramente assordante.
Come se non bastasse in lontananza si vedono due fasci di luce, presumo due torce.
- Oh no, la sorveglianza..devono aver sentito i rumori...uff non ho voglia di dare spiegazioni..- dice interrompendo quel lungo momento di ilarità che ci aveva visti protagonisti. E' visibilmente scocciato. Non ha voglia di identificarsi e parlare con le guardie, credo.
- Forse è meglio che vada allora..-
- No, non è una buona idea, le farebbero una ramanzina sul fatto che oltre una certa ora non ci si aggira nei pressi delle gabbie per via dell'assicurazione e la sicurezza e bla...bla..- Alza gli occhi al cielo - Venga con me!-
Mi prende la mano e mi conduce là dove la vegetazione forma dei disegni indefiniti in assenza di luce, cammina velocemente ed ogni tanto si volta a rassicurare la mia espressione sorpresa e leggermente impaurita. - Siamo quasi arrivati..ancora un attimo- Il fitto intreccio di rami e fronde sembra chiudersi sulle nostre teste formando un tunnel. Non so più distinguere le forme dalle ombre, gli alberi dalle nuvole, la realtà dal sogno.
Dopo qualche minuto ci ritroviamo in un grande spiazzo stavolta decisamente più illuminato. Riconosco i colori dei sassolini. Non dobbiamo essere molto lontani dalla casa.
- Mi scusi se l'ho coinvolta in questa specie di fuga, ma sinceramente non avevo voglia di fornire spiegazioni. Devo sempre fornire spiegazioni, per ogni cosa che faccio ultimamente, quindi se ogni tanto posso evitare..- E' un misto fra lo scocciato, l'arrabbiato e l'avvilito il suo tono.
Decido di cambiare subito discorso - Se c'è qualcuno che qui si deve scusare quella sono io, Mr Jackson, è la seconda volta che ci vediamo e lei ha rimediato una camicia da buttare e un bernoccolo..-
Scoppia a ridere di nuovo. - Lei è davvero una forza della natura, Andrea- ride di gusto.
Se c'è una cosa che mi ha sempre affascinato, e non sempre nel senso più platonico del termine, quella è il suo sorriso. Lo guardavo da bambina e mi sembrava perfetto. Da adolescente sognavo un uomo con un sorriso così. Ora non sono più una bambina, nè un'adolescente. Lui è più maturo e affascinante del ragazzo borchiato del poster. E mi sta elargendo tanti, tanti di quei sorrisi che avevo sognato.
Proprio qui, davanti a me.
- Allora mi dica Andrea, le andrebbe di fare quella famosa passeggiata di cui parlavamo l'altro giorno?- si ricorda.
- Adesso?-
- Si, adesso-
Mi guarda. Il magnetismo che sprigionano quegli occhi è indescrivibile.
Ed io sono uno spillo che cerca di sfuggire ad un magnete grande quanto un grattacielo. Inutile.
Mi arrendo subito, anche se ho paura. Mi lascerò attirare dal mio magnete, come ogni bravo spillo.
In silenzio ci incamminiamo lungo il sentiero reso ben visibile da impercettibili lumini ai suoi lati. E' rivestito da pietre di diversi colori che con il gioco di luci e di ombre sembrano cambiare forma, colore e sostanza al nostro passaggio. Sembra di camminare in groppa ad un serpentello che si prende gioco di noi variando costantemente la sua direzione di marcia, è capriccioso e volubile. Fortunatamente la meta a cui ci conduce è ben visibile e rettilinea, davanti ai nostri occhi.
Le luci che da lontano si fondevano con le luminarie del vialetto a formare un fascio giallo nell'oscurità ora sono ben definite, si intrecciano in una danza variopinta che riveste diverse strutture dalla forma sinuosa.
Un otto volante, un enorme galeone dei pirati, una specie di disco volante, una giostra con i cavalli, una ruota panoramica.
Sapevo, mi avevano raccontato, avevo letto, visto alla tv..ma trovarsi qui è un'altra cosa.
Totalmente rapita dal tutto non ho nemmeno il tempo di rendermi conto che la dolce morsa che aveva legato le nostre mani durante lo spostamento di prima non si è mai allentata, ma anzi, il mio infantile stupore dinnanzi a cotanta magnificenza ne ha aumentato l'intensità.
- Questo è il mio piccolo angolo di paradiso, che ne pensa?-
La sua voce mi desta dal visionario torpore in cui mi trovo, ma esce dolce, ed in perfetta armonia con il concerto d'archi che mi risuona nei timpani, frutto della mia totale mancanza di self control.
- Uh..Oh...ehm- cerco di riacquisire lucidità e sgancio la mano imbarazzatissima - E'..è..magnifico..è enorme..è..-
Sorride divertito - Sembra una bambina davanti ad una montagna di caramelle!- ridacchia
- Sì, è vero..è che tutte queste luci lo fanno sembrare ancora più magico-
- La sera è il momento migliore per venire, infatti. Io vengo qui quasi ogni sera, quando mi è possibile. E' uno dei posti che preferisco, soprattutto qui- indicando la ruota panoramica - Mi riporta indietro nel tempo. Anche se è un'attrazione piuttosto vecchia e tradizionale trovo che abbia un fascino speciale. Purtroppo quando ero un bambino non ho potuto godere molto di queste cose, ed ora cerco di rifarmi..-
L'abisso oscuro che ora ha negli occhi attraversa lo spazio che ci separa e mi colpisce con la violenza di una freccia, si diffonde in me come una macchia di petrolio nell'acqua limpida, e poi mi attraversa come un pugnale, da parte a parte. E' così violento questo senso di tristezza che ho freddo anch'io.
- Bè, non so se può esserle di consolazione, ma io che da piccola alle giostre ci potevo andare, non salivo mai sulla ruota panoramica perchè sono sempre stata terrorizzata dall'altezza- ammetto non senza vergogna
- Davvero?! Bisogna assolutamente rimediare allora, non può essere così crudele con se stessa da non concedersi un'emozione così..!- Esclama riacquistando nuova luce in volto.
- Mi sono concessa tante altre cose belle, davvero, non credo che..-
- Una cosa, bella o brutta che sia, non ci potrà mai mancare se non l'abbiamo posseduta almeno una volta- incalza
Mi accorgo che non so cosa rispondere e soprattutto temo di essermi gettata la zappa sui piedi nel tentativo di consolare lui. Sento che non demorderà e sento che sarò io a rimetterci, per lo stesso discorso dello spillo e del magnete.
- Forza, non perdiamo altro tempo, si è privata di una cosa bella troppo a lungo..- Mi afferra di nuovo la mano in una presa dolce ma salda.
- No, io non credo di poterlo fare, io sono terrorizzata.. ho troppa paura, non..-
- Ma non sarà sola Andrea, ci sarò io, e se avrà troppa paura allora scenderemo subito, quantomeno però potrà dire di averci provato!-
Ormai ha deciso, e di nuovo non farò resistenza, anche se non so fino a che punto la mia arrendevolezza mi gioverà.
Mi guida gentilmente facendomi sedere per prima, poi si posiziona accanto a me. Abbassa la barra di protezione che si blocca sui nostri ventri e schiaccia il pulsante sul telecomando che tiene in mano.
Continuo a chiedermi come ho fatto a cacciarmi in una situazione simile.
L'enorme struttura inizia a muoversi e insieme a lei il mio stomaco, il fegato e la milza, mentre i muscoli non rispondono più, contratti e tesi in una morsa paralizzante.
Ho una paura terribile e nella mia bocca non c'è traccia di saliva.
Prevedendo il tutto, la sua mano non tarda ad arrivare a prendere la mia. Si intrecciano in un incastro perfetto. Non vedo più niente.
- Mi racconti, che cosa l'ha portata fin qui? E' tanto che fa questo lavoro?- cerca di farmi pensare ad altro. Un guizzo beffardo negli occhi.
- Dal '98.. ho iniziato con un impiego nella mia città, Milano, nello zoo municipale e..-
- Milano?? Ci sono stato a Milano..per un concerto, qualche anno fa..- mi interrompe colto dalla sorpresa
- Già, lo so..-
- Lo sa?!-
-Si, io..ehm..lo so, sarebbe impossibile non ricordare il traffico che si creò ovunque..quella sera ci misi più di un'ora per rientrare a casa dall'università!!-
Mi diverte la situazione, perchè quella sera avrei fatto carte false per poter andare a vederlo, e adesso gli sto praticamente rinfacciando che a causa della sua presenza la città si bloccò. Sono completamente fuori di testa.
- Oh..- sembra quasi dispiaciuto. E' incredibile.
- Ma credo che sia una cosa del tutto normale, cioè, intendo, credo sia successo un pò in tutte le città in cui ha fatto tappa nei suoi tour..- dico rendendomi conto di essere stata un pò insensibile.
- Si, è sempre così, ovunque vada c'è sempre folla, si creano code e traffico..mi dispiace di essere la causa di tanti problemi, io non lo vorrei.
Molte volte avrei semplicemente voluto fare due chiacchiere, bere un caffè, parlare di un libro, avere una vita 'normale', anche se questa parola può voler dire tutto e niente. Ci sono sempre due facce della medaglia, in ogni cosa, anche in quelle che secondo i più sono perfette da ogni punto di vista. La verità è che ci si può sentire molto soli nella mia situazione-
- Siamo tutti soli Michael..- Terza figuraccia della settimana. Chiamo il mio capo per nome senza averne avuta autorizzazione alcuna.
- M-mi scusi..Mr Jackson-
- Mi hai chiamato Michael..- mi domanda attonito e dandomi del tu. La confidenza che si è appena preso mi fa trasalire in un brivido che non definirei proprio casto. Gli occhi fissi nei miei. Sorride.
Faccio per giustificarmi ma mi blocca con un cenno. - Ne sono felice, e sarei ancora più felice se potessimo darci del tu senza imbarazzo-
Poi aggiunge - Sai, avrei voluto chiedertelo prima- arrossisce.
- Forse sarebbe più naturale- Ormai i pensieri mi scorrono dalla mente alla bocca senza filtro.
- Senza forse!- sembra sollevato. - E poi, si può dire che ora tu sia nelle mie mani..- Alludendo alla rotazione che l'immensa ruota sta compiendo.
Solo ora mi accorgo che siamo al quarto giro.
- Non è poi così terribile volare, cosa dici?- mi chiede con un'espressione ibrida, fra il soddisfatto e il malizioso
- Ommioddio, non ho avuto paura..cioè non mi sono accorta che..- dico questo rimanendo completamente basita dal mio comportamento.
Io che per prendere l'aereo mi devo imbottire di valeriana, io che non salgo su una scala più alta di un metro, io, proprio la stessa persona di sempre, ora mi trovo a trenta metri da terra e STO BENE.
A questo punto il colpo di grazia:
- Se non hai tentato non ha mai vissuto*- una brezza mi sussurra all'orecchio destro.
Mi chiedo se sia solo il frutto della mia immaginazione. Mi giro.
Vedo lui perso in un sorriso complice che si spegne quando mi fa un occhiolino beffardo e soddisfatto.
Non è stata immaginazione. E' tutto reale.
- Buonanotte Andrea, e grazie- mi dice dinnanzi all'apertura del possente cancello
- Grazie di cosa?- chiedo incredula
- Grazie di avermi fatto compagnia.-
Troppa emozione. Non riesco a parlare.
- Buonanotte Michael-
Mi allontano nella notte sperando di trovare riparo nell'oscurità.
Riparo da quel turbinio di emozioni a cui non sono abituata.
Riparo nella coltre silenziosa dei miei pensieri, unici abitanti di un mondo di immaginazione che mi sono costruita con fatica in questi anni per nascondermi dalla realtà. [/b]
NELLA TESTA DI MICHAEL
Sono stanco di trascorrere giornate intere nello studio dell'avvocato per riuscire a capire come poter fare per bloccare la messa in onda di quel maledetto programma. Sono stanco, davvero. Se avessi saputo..se solo avessi potuto immaginare non mi sarei prestato a questa pagliacciata.
Sono per l'ennesima volta un fenomeno da baraccone.
Come se non bastasse anche i bambini mi preoccupano. Blanket è alle prese con il suo primo raffreddore..e mi si stringe il cuore a guardarlo lì, nel suo lettino, intontito dall'antivirale. E' così piccolo e indifeso.
Lo so, sono un pò apprensivo.
E Paris è un pò depressa perchè la sua cagnolina non si riprende in fretta come spererebbe. Si colpevolizza molto per quello che è successo l'altro giorno. Continua a dire che se lei non fosse stata così cattiva a lasciare le sue palline di gomma sul selciato ora Ariel starebbe bene.
Ho sempre cercato di infondere nei miei figli il senso del dovere e della responsabilità. Per me è molto importante che capiscano che le loro azioni hanno delle conseguenze, e che non potrò sempre essere lì a rimediare ai loro errori o ad evitare che li facciano.
Non vorrei però aver esagerato un pò con i miei precetti. Non voglio che Paris soffra.
La vita non risparmierà nessuno di loro dalla sofferenza, ma vorrei che questo accadesse il più tardi possibile.
Unica nota divertente di questa disastrosa settimana è che ieri ho chiacchierato un pò con una persona nuova.
Si chiama Andrea (ma non è un nome maschile per caso?!) ed è la nuova veterinaria dello zoo.
A dire il vero sono giorni che la osservo dal mio albero preferito -my giving tree-. All'inizio lo facevo per scrupolo, in fondo non l'ho assunta personalmente e vorrei avere un'idea delle facce che si aggirano per il ranch. Poi mi ha colpito con i suoi modi verso Melville e ho continuato ad osservarla anche i giorni successivi.
A guardarla non le si darebbero più di una ventina d'anni. Ma è sicuramente più grande perchè è già laureata da qualche anno mi hanno detto i miei collaboratori.
Viene dall’Africa. Che cosa interessante, spero di potermi fare raccontare qualcosa, adoro le storie di vita.
Ha un viso così pulito. Gli occhi grandi e verdi, come quelli di Paris. Ma sono tristi.
A dire il vero non parla molto, preferisce parlare con gli animali.
Adoro il modo che ha di trattare con loro. C'è molto rispetto, in tutto quello che fa.
In compenso non credo ami avere a che fare con le persone, i suoi silenzi sono fra i più eloquenti che abbia ascoltato. Sembra impaurita. E indifesa.
Non credo si tratti di timore reverenziale verso di me, penso che dietro a certi sguardi bui si celi qualcosa in più.
Ha lo sguardo timido e spesso è piuttosto..impacciata.. stasera per esempio mi ha imbrattato involontariamente nel recinto degli elefanti tanto che, al mio rientro a casa, mi hanno chiesto se avessi fatto la lotta con gli ippopotami...ma qui non possiedo ippopotami!
Ho voglia di parlarle e di rimanere lì ad ascoltare quei suoi silenzi.
Sento di non averla ringraziata abbastanza per quello che ha fatto per Ariel.
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Aug 26, 2003
A causa del caldo torrido di questo agosto infernale ci hanno cambiato i turni di lavoro, lavoreremo in orari più 'freschi'. Nella fattispecie dalle 8:00 alle 11:00 e dalle 17:00 alle 19/20:00, dipende dalla quantità di lavoro.
Devo dire che sebbene sia molto meglio così per la salute, quelle sei ore di buco non mi sono comodissime, mi ero organizzata in un altro modo anche con Pedra che mi da una mano con Saty e ora.. è andato tutto all'aria!
Sono passati alcuni giorni dal mio incontro ravvicinato del terzo tipo, ma lui non è più tornato a trovarmi. Avrà sicuramente da fare cose molto più importanti di stare qui a parlare con me... So che è giusto pensarla così, ma in un certo senso ci avevo sperato.. di rincontrarlo per fare quel giro.
Invece si è trattato solo di un'occasione del tutto estemporanea, che ho mandato all'aria perchè era tardi.
Ha rinnovato l'invito ad un'altro giorno per pura cortesia. Se ne sarà sicuramente dimenticato.
Va bè, mi faccio bastare quello che ho avuto, non è stato poco in fondo, no?
Ore 21:00
Che stanchezza! Sono ancora qui al lavoro, ne ho approfittato insieme a qualche collega per fermarmi un pò di più a riordinare i vari registri. Sapete, qui sono annotate tutte ma proprio tutte le vaccinazioni, le medicine, gli eventuali interventi subiti da ogni singolo animale. Bisogna essere estremamente meticolosi nel compilarli. Noi abbiamo preferito questo momento della giornata perchè non c'è rumore e perchè il caldo attanaglia molto meno. Rumore e caldo: nemici della precisione!
Approfitto del fatto che Pedra abbia portato Satya e le sue due pesti al cinema a vedere 'l'era glaciale' (ci vorrebbe che capitasse davvero in questi giorni, non sopporto il caldo, mi sento cera in liquefazione un momento si e l'altro pure!), per concludere il lavoro e rientrare a casa con più calma.
Ora però è ora di andare sul serio. Raccolgo le mie cose e mi appresto a chiudere il capannone con una chiave che, non senza fatica a causa dell'oscurità, inserisco nella serratura metallica ben oleata.
Sto già pregustando la sensazione dell'acqua gelida che mi scorrerà addosso, liberandomi da quella sottile, impercettibile ma onnipresente patina di sudore adagiata sulla mia pelle, già evidentemente proiettata avanti nel tempo di una ventina di minuti. Inserisco le chiavi del capannone in borsa, un ultimo sguardo in giro per controllare che tutto sia a posto e..
- Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaahhhhhhhhhhhhhh!-
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L'oscurità e il mio essere sovrappensiero non fanno che amplificare la portata del mio spavento.
Mr Jackson si è parato esattamente dietro di me più silenzioso di una pantera, con l'idea presumo di farmi uno ‘scherzo’. Credo gli piaccia questo genere di cose.
Ma a me no.
Nel girarmi di scatto gli sbatto contro ed emetto uno dei più acuti ululati di cui sono capace, e, come se ciò non bastasse, non riconoscendolo subito brandisco la borsa, unica arma di cui dispongo, come se fosse una katana e gli assesto istintivamente il colpo in testa più forte di cui sono capace, quest'ultimo accompagnato da un nuovo urlo, stavolta più combattivo. Devo dire che un samurai potrebbe farmi le scarpe in questo contesto.
-Ahi!- esclama
Mi accorgo subito della vera identità del mio 'aggressore' e, ancora una volta, sento che sto per sentirmi male.
- Ommioddio....m-m-Mr Jackson..ma che ci fa lei qua??- Ma che razza di domande faccio?!? Questa è casa sua, lui va dove vuole!
- Niente, passeggiavo, la ho vista uscire e ho pensato di...insomma..- sembra giustificarsi. E' di una tenerezza immane.
Non termina la frase, imbarazzatissimo non riesce a confessare di aver tentato di farmi uno scherzo così malriuscito. Si massaggia il capo.
- Mi deve scusare Andrea, non intendevo spaventarla..effettivamente con il buio..potevo immaginare insomma..-
- No, Mr Jackson, mi deve scusare lei, sono stata un pò troppo impulsiva..è che..sa, lo spavento fa fare di tutto..- Ennesima figura da idiota. Una completa idiota.
Mentre mi sto stringendo il cilicio mentalmente e mi ripeto quanto sono stata inopportuna sento una fragorosa risata.
Ride, ride e ride e si massaggia la testa e ride ancora..è incredibile ma è anche contagioso e...rido anch'io.
- Fa bene ad essere così combattiva, al giorno d'oggi non si sa mai, con la gente che c'è in giro..- dice ridendo divertito dal suo stesso tono paternalistico
- Sono davvero mortificata..spero di non averle fatto troppo male..- mi viene da ridere ma mi sento irrispettosa e cerco di trattenermi
Incrociamo i nostri sguardi per un lasso indefinibile.
- E' già passato..e poi mi sta bene, la prossima volta imparo a fare gli agguati!- sghignazza - E non si trattenga, è ancora più buffa così!-
Deve essere davvero un burlone quando vuole.
Tutto il rumore che ho fatto prima, unitamente alle nostre risate di adesso, hanno svegliato i babbuini che, pensando probabilmente che sia l'ora del rancio, hanno iniziato ad urlare e gorgheggiare come pazzi, sbattendo le 'mani' sui cancelli e producendo un rumore veramente assordante.
Come se non bastasse in lontananza si vedono due fasci di luce, presumo due torce.
- Oh no, la sorveglianza..devono aver sentito i rumori...uff non ho voglia di dare spiegazioni..- dice interrompendo quel lungo momento di ilarità che ci aveva visti protagonisti. E' visibilmente scocciato. Non ha voglia di identificarsi e parlare con le guardie, credo.
- Forse è meglio che vada allora..-
- No, non è una buona idea, le farebbero una ramanzina sul fatto che oltre una certa ora non ci si aggira nei pressi delle gabbie per via dell'assicurazione e la sicurezza e bla...bla..- Alza gli occhi al cielo - Venga con me!-
Mi prende la mano e mi conduce là dove la vegetazione forma dei disegni indefiniti in assenza di luce, cammina velocemente ed ogni tanto si volta a rassicurare la mia espressione sorpresa e leggermente impaurita. - Siamo quasi arrivati..ancora un attimo- Il fitto intreccio di rami e fronde sembra chiudersi sulle nostre teste formando un tunnel. Non so più distinguere le forme dalle ombre, gli alberi dalle nuvole, la realtà dal sogno.
Dopo qualche minuto ci ritroviamo in un grande spiazzo stavolta decisamente più illuminato. Riconosco i colori dei sassolini. Non dobbiamo essere molto lontani dalla casa.
- Mi scusi se l'ho coinvolta in questa specie di fuga, ma sinceramente non avevo voglia di fornire spiegazioni. Devo sempre fornire spiegazioni, per ogni cosa che faccio ultimamente, quindi se ogni tanto posso evitare..- E' un misto fra lo scocciato, l'arrabbiato e l'avvilito il suo tono.
Decido di cambiare subito discorso - Se c'è qualcuno che qui si deve scusare quella sono io, Mr Jackson, è la seconda volta che ci vediamo e lei ha rimediato una camicia da buttare e un bernoccolo..-
Scoppia a ridere di nuovo. - Lei è davvero una forza della natura, Andrea- ride di gusto.
Se c'è una cosa che mi ha sempre affascinato, e non sempre nel senso più platonico del termine, quella è il suo sorriso. Lo guardavo da bambina e mi sembrava perfetto. Da adolescente sognavo un uomo con un sorriso così. Ora non sono più una bambina, nè un'adolescente. Lui è più maturo e affascinante del ragazzo borchiato del poster. E mi sta elargendo tanti, tanti di quei sorrisi che avevo sognato.
Proprio qui, davanti a me.
- Allora mi dica Andrea, le andrebbe di fare quella famosa passeggiata di cui parlavamo l'altro giorno?- si ricorda.
- Adesso?-
- Si, adesso-
Mi guarda. Il magnetismo che sprigionano quegli occhi è indescrivibile.
Ed io sono uno spillo che cerca di sfuggire ad un magnete grande quanto un grattacielo. Inutile.
Mi arrendo subito, anche se ho paura. Mi lascerò attirare dal mio magnete, come ogni bravo spillo.
In silenzio ci incamminiamo lungo il sentiero reso ben visibile da impercettibili lumini ai suoi lati. E' rivestito da pietre di diversi colori che con il gioco di luci e di ombre sembrano cambiare forma, colore e sostanza al nostro passaggio. Sembra di camminare in groppa ad un serpentello che si prende gioco di noi variando costantemente la sua direzione di marcia, è capriccioso e volubile. Fortunatamente la meta a cui ci conduce è ben visibile e rettilinea, davanti ai nostri occhi.
Le luci che da lontano si fondevano con le luminarie del vialetto a formare un fascio giallo nell'oscurità ora sono ben definite, si intrecciano in una danza variopinta che riveste diverse strutture dalla forma sinuosa.
Un otto volante, un enorme galeone dei pirati, una specie di disco volante, una giostra con i cavalli, una ruota panoramica.
Sapevo, mi avevano raccontato, avevo letto, visto alla tv..ma trovarsi qui è un'altra cosa.
Totalmente rapita dal tutto non ho nemmeno il tempo di rendermi conto che la dolce morsa che aveva legato le nostre mani durante lo spostamento di prima non si è mai allentata, ma anzi, il mio infantile stupore dinnanzi a cotanta magnificenza ne ha aumentato l'intensità.
- Questo è il mio piccolo angolo di paradiso, che ne pensa?-
La sua voce mi desta dal visionario torpore in cui mi trovo, ma esce dolce, ed in perfetta armonia con il concerto d'archi che mi risuona nei timpani, frutto della mia totale mancanza di self control.
- Uh..Oh...ehm- cerco di riacquisire lucidità e sgancio la mano imbarazzatissima - E'..è..magnifico..è enorme..è..-
Sorride divertito - Sembra una bambina davanti ad una montagna di caramelle!- ridacchia
- Sì, è vero..è che tutte queste luci lo fanno sembrare ancora più magico-
- La sera è il momento migliore per venire, infatti. Io vengo qui quasi ogni sera, quando mi è possibile. E' uno dei posti che preferisco, soprattutto qui- indicando la ruota panoramica - Mi riporta indietro nel tempo. Anche se è un'attrazione piuttosto vecchia e tradizionale trovo che abbia un fascino speciale. Purtroppo quando ero un bambino non ho potuto godere molto di queste cose, ed ora cerco di rifarmi..-
L'abisso oscuro che ora ha negli occhi attraversa lo spazio che ci separa e mi colpisce con la violenza di una freccia, si diffonde in me come una macchia di petrolio nell'acqua limpida, e poi mi attraversa come un pugnale, da parte a parte. E' così violento questo senso di tristezza che ho freddo anch'io.
- Bè, non so se può esserle di consolazione, ma io che da piccola alle giostre ci potevo andare, non salivo mai sulla ruota panoramica perchè sono sempre stata terrorizzata dall'altezza- ammetto non senza vergogna
- Davvero?! Bisogna assolutamente rimediare allora, non può essere così crudele con se stessa da non concedersi un'emozione così..!- Esclama riacquistando nuova luce in volto.
- Mi sono concessa tante altre cose belle, davvero, non credo che..-
- Una cosa, bella o brutta che sia, non ci potrà mai mancare se non l'abbiamo posseduta almeno una volta- incalza
Mi accorgo che non so cosa rispondere e soprattutto temo di essermi gettata la zappa sui piedi nel tentativo di consolare lui. Sento che non demorderà e sento che sarò io a rimetterci, per lo stesso discorso dello spillo e del magnete.
- Forza, non perdiamo altro tempo, si è privata di una cosa bella troppo a lungo..- Mi afferra di nuovo la mano in una presa dolce ma salda.
- No, io non credo di poterlo fare, io sono terrorizzata.. ho troppa paura, non..-
- Ma non sarà sola Andrea, ci sarò io, e se avrà troppa paura allora scenderemo subito, quantomeno però potrà dire di averci provato!-
Ormai ha deciso, e di nuovo non farò resistenza, anche se non so fino a che punto la mia arrendevolezza mi gioverà.
Mi guida gentilmente facendomi sedere per prima, poi si posiziona accanto a me. Abbassa la barra di protezione che si blocca sui nostri ventri e schiaccia il pulsante sul telecomando che tiene in mano.
Continuo a chiedermi come ho fatto a cacciarmi in una situazione simile.
L'enorme struttura inizia a muoversi e insieme a lei il mio stomaco, il fegato e la milza, mentre i muscoli non rispondono più, contratti e tesi in una morsa paralizzante.
Ho una paura terribile e nella mia bocca non c'è traccia di saliva.
Prevedendo il tutto, la sua mano non tarda ad arrivare a prendere la mia. Si intrecciano in un incastro perfetto. Non vedo più niente.
- Mi racconti, che cosa l'ha portata fin qui? E' tanto che fa questo lavoro?- cerca di farmi pensare ad altro. Un guizzo beffardo negli occhi.
- Dal '98.. ho iniziato con un impiego nella mia città, Milano, nello zoo municipale e..-
- Milano?? Ci sono stato a Milano..per un concerto, qualche anno fa..- mi interrompe colto dalla sorpresa
- Già, lo so..-
- Lo sa?!-
-Si, io..ehm..lo so, sarebbe impossibile non ricordare il traffico che si creò ovunque..quella sera ci misi più di un'ora per rientrare a casa dall'università!!-
Mi diverte la situazione, perchè quella sera avrei fatto carte false per poter andare a vederlo, e adesso gli sto praticamente rinfacciando che a causa della sua presenza la città si bloccò. Sono completamente fuori di testa.
- Oh..- sembra quasi dispiaciuto. E' incredibile.
- Ma credo che sia una cosa del tutto normale, cioè, intendo, credo sia successo un pò in tutte le città in cui ha fatto tappa nei suoi tour..- dico rendendomi conto di essere stata un pò insensibile.
- Si, è sempre così, ovunque vada c'è sempre folla, si creano code e traffico..mi dispiace di essere la causa di tanti problemi, io non lo vorrei.
Molte volte avrei semplicemente voluto fare due chiacchiere, bere un caffè, parlare di un libro, avere una vita 'normale', anche se questa parola può voler dire tutto e niente. Ci sono sempre due facce della medaglia, in ogni cosa, anche in quelle che secondo i più sono perfette da ogni punto di vista. La verità è che ci si può sentire molto soli nella mia situazione-
- Siamo tutti soli Michael..- Terza figuraccia della settimana. Chiamo il mio capo per nome senza averne avuta autorizzazione alcuna.
- M-mi scusi..Mr Jackson-
- Mi hai chiamato Michael..- mi domanda attonito e dandomi del tu. La confidenza che si è appena preso mi fa trasalire in un brivido che non definirei proprio casto. Gli occhi fissi nei miei. Sorride.
Faccio per giustificarmi ma mi blocca con un cenno. - Ne sono felice, e sarei ancora più felice se potessimo darci del tu senza imbarazzo-
Poi aggiunge - Sai, avrei voluto chiedertelo prima- arrossisce.
- Forse sarebbe più naturale- Ormai i pensieri mi scorrono dalla mente alla bocca senza filtro.
- Senza forse!- sembra sollevato. - E poi, si può dire che ora tu sia nelle mie mani..- Alludendo alla rotazione che l'immensa ruota sta compiendo.
Solo ora mi accorgo che siamo al quarto giro.
- Non è poi così terribile volare, cosa dici?- mi chiede con un'espressione ibrida, fra il soddisfatto e il malizioso
- Ommioddio, non ho avuto paura..cioè non mi sono accorta che..- dico questo rimanendo completamente basita dal mio comportamento.
Io che per prendere l'aereo mi devo imbottire di valeriana, io che non salgo su una scala più alta di un metro, io, proprio la stessa persona di sempre, ora mi trovo a trenta metri da terra e STO BENE.
A questo punto il colpo di grazia:
- Se non hai tentato non ha mai vissuto*- una brezza mi sussurra all'orecchio destro.
Mi chiedo se sia solo il frutto della mia immaginazione. Mi giro.
Vedo lui perso in un sorriso complice che si spegne quando mi fa un occhiolino beffardo e soddisfatto.
Non è stata immaginazione. E' tutto reale.
- Buonanotte Andrea, e grazie- mi dice dinnanzi all'apertura del possente cancello
- Grazie di cosa?- chiedo incredula
- Grazie di avermi fatto compagnia.-
Troppa emozione. Non riesco a parlare.
- Buonanotte Michael-
Mi allontano nella notte sperando di trovare riparo nell'oscurità.
Riparo da quel turbinio di emozioni a cui non sono abituata.
Riparo nella coltre silenziosa dei miei pensieri, unici abitanti di un mondo di immaginazione che mi sono costruita con fatica in questi anni per nascondermi dalla realtà. [/b]
marina56- Moderator
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Re: Il fantasma che si innamorò di un uomo
CAPITOLO 5
NELLA TESTA DI MICHAEL
Certo che la vita è strana.
Proprio nel momento in cui avevo scelto di ritirarmi in un guscio invisibile agli occhi ma impenetrabile al cuore, ormai deluso e amareggiato da tutto e da tutti, proprio quando ogni speranza di poter riporre fiducia nel prossimo era volata via con la stessa urgenza di una rondine che fugge dall’agonia invernale, ecco che mi devo ricredere.
Il fatto in sé non è da ritenersi del tutto negativo, poiché ricredersi su qualcosa di cui si era fermamente convinti è sempre segno di elasticità, mutazione e quindi apprendimento.
Il divenire sta alla base di tutte le cose e guai se così non fosse.
Rimarremmo imprigionati in rigidi schemi dietro a barricate insormontabili, testimoni inermi della morte di ogni lampo di creatività, di ogni guizzo della mente e dello spirito; ed il cuore resterebbe imbrigliato come un toro al giogo, o come un leone in gabbia, incapace di sferzare spietato i suoi colpi ritmici, artefici della creazione del succo della vita: l’amore.
Anche a 45 anni è lecito ricredersi. Ed io lo farò con piacere e con paura. La stessa che ho visto in quegli occhi l’altra sera. Occhi che per un breve lasso non mi hanno permesso di pensare a tutto il resto.
BEVERLY HILLS, California- SANTA MONICA BLVD. Aug 28, 2003
Oggi è il mio giorno libero. Come ogni giovedì mi prendo del tempo per me stessa e mi dedico alla mia attività preferita: fare la mamma. Ogni settimana io e Satya abbiamo una meta diversa, è la prima volta per entrambi qui nel nuovo mondo, quindi la voglia di esplorare paesaggi e luoghi così diversi da quelli a cui eravamo abituati è davvero molto forte.
Abbiamo la fortuna di essere capitati in California, una terra calda e ricca di cose da vedere.
Mio figlio mi ha chiesto di poter visitare Hollywood perché, essendo un amante del looney tunes , vorrebbe vedere da vicino gli studios nei quali i disegnatori diedero vita ai celeberrimi disegni animati. Dal canto mio sono sempre stata affascinata da questi luoghi che fecero la storia del cinema, ma anche della musica con la quale sono cresciuta..quindi: mattino presto, zainetto, macchina fotografica da turista europeo (è un marchio che credo non ci toglieremo mai di dosso) e via!
Dopo quasi 3 ore di statale 101, altrimenti chiamata El Camino Real (qui si inizia a sentire la vicinanza con l’amico Messico), arriviamo a Beverly Hills.
E’ tutto esattamente come lo posso ricordare solamente attraverso film e telefilm, soprattutto i negozi, le persone, le auto. E’ tutto bello. Tutti sembrano giovani, rilassati e alla moda. Nei negozi gli abiti delle ultime tendenze aspettano solo di essere acquistati da gaie ragazze in perfetta forma fisica e dal portafoglio sempre alla mano. Le auto parcheggiate sono quasi tutte decappottabili e fiammanti e, a ben guardare, credo che il mio intero conto in banca non basterebbe ad acquistarne una portiera.
Peccato, vorrà dire che mi accontenterò del mio fuoristrada grigio di quinta mano!
Dopo la visita guidata agli Hollywood Studios durata più di due ore, due passi in Sunset Boulevard –la via dei vip-, altri due passi in Melrose Avenue –dove mi sono sentita una pezzente con il mio abitino smanicato turchese e le infradito-, un riposino ad Hancook Park -dove Saty ha dormito un paio d’ore, sfiancato- si sono fatte le 19 e ritengo che per oggi sia tutto.
Ci avviamo quindi al parcheggio che si trova in una traversa di Santa Monica BLVD. La via è in sé abbastanza piccola ed insignificante rispetto a quelle visitate oggi, non riesco quindi a capire perché sia così trafficata. Macchine in doppia fila, persone scalpitanti che camminano a passo veloce, clacson. Ci avviciniamo ad un edificio elegante, direi un grattacielo dai vetri scuri, la cui insegna dice: ‘The Beverly Hilton’ . Qui scoppia il putiferio.
Dall’altro lato della strada le stesse persone che prima camminavano semplicemente a passo spedito cercando di darsi un contegno ora urlano come aquile e si raggruppano attorno alla porta principale del lussuoso albergo a 200 stelle. Alcuni abbandonano le auto in mezzo alla strada accese, altri con l’intento di raggiungere la loro meta spintonano con veemenza chiunque si trovi sul loro percorso.
Quasi shoccata dalla scena prendo istintivamente in braccio Saty che sgrana i suoi grandi occhi verdi e stanchi. Mi sento minacciata e decido di spostarmi in una posizione più sicura, sotto un portone. Poi però la curiosità è troppa e mi faccio ancora avanti sul marciapiede mantenendo una debita distanza di sicurezza. Ecco che dalla porta scorrevole sulla facciata principale della costruzione si rivela il motivo di tutta quell’isteria di massa.
Il mio datore di lavoro è avvolto da una giacca di pelle marrone chiaro con la cerniera slacciata che lascia intravedere una camicia nera aperta fino al petto, i capelli sono lisci ma scomposti da un po’ di gel volumizzante, i Ray Ban immancabili celano gli occhi, ma non è del tutto avaro perché esce regalando sorrisi in direzione della folla che sta emettendo versi da stadio.
Si avvia verso un mastodontico suv parcheggiato a pochi metri, quando si ferma. La testa è voltata nella mia direzione ma non immagino che mi abbia vista. La conferma non tarda ad arrivare però, perché si toglie immediatamente gli occhiali da sole e incrocia il suo sguardo al mio. Ho un attimo di trasalimento.
Accenna un sorriso ma non ha il tempo di fare di più perché viene caldamente invitato da un energumeno alle sue spalle ad entrare nel suv , fermo esattamente dal lato opposto della strada rispetto a me.
La macchina scura parte accompagnata da grida di parole indecifrabili.
Ci vuole un po’, a questo punto, perché la viabilità e gli animi dei presenti -il mio compreso-, si riassestino.
Proseguo quindi alla volta della mia macchina con Saty in braccio. Non la vedo, spero di non essermi persa. Continuo a camminare finchè mi ritrovo in un vicolo illuminato da un unico lampione da cui esce una debole luce opalescente. Stamattina quando siamo arrivati non avrei mai immaginato che al calare del sole la famosa Beverly Hills potesse diventare un ambiente così sinistro.
Affretto istintivamente il passo quando sento il rumore di un’auto avvicinarsi, ma non abbastanza evidentemente, perché mi raggiunge.
Arrivata alla mia altezza decelera, sembra fermarsi, insieme al mio cuore.
Un finestrino nero che non si lascia attraversare si abbassa lentamente ed io mi preparo alla fuga.
-Andrea! Allora ho visto bene prima! Ma che ci fai qua??- Michael Jackson mi parla in tono concitato dall’interno della macchina, ha lo sguardo preoccupato e, dal modo in cui si sporge verso di me, direi che non intende lasciare molto spazio ai convenevoli.
-Sto andando a cercare la mia macchina, l’avevo parcheggiata qui, da qualche parte, solo che..-
-Ma non puoi girare da sola per queste strade oltre una certa ora!- mi sta rimproverando.
-Ma sono solo le 19:30!- cerco di protestare.
-Ma non conta! Quando tramonta il sole questi vicoli secondari sono molto pericolosi..Sali subito, ti accompagno io alla macchina-
Il modo in cui ha aperto lo sportello mi fa pensare che non abbia alcuna intenzione di cambiare idea. Salgo.
-E’ la prima volta che vieni qui, vero?- mi chiede non appena il macchinone riparte.
-Si..- mi sento una sprovveduta
-E questo dev’essere il tuo piccolo..-
-Satya- lo aiuto a ricordare quel nome che ha sentito solo una volta e che gli riesce difficile persino pronunciare. Saty è con Morfeo già da quando la sua mamma si stava preoccupando nel vicolo malfamato.
-E’ la tua fotocopia- sussurra con una voce flebile per non fare troppo rumore.
Gli sorrido, stringendo il mio piccolo ometto addormentato.
I nostri sguardi si incrociano in una danza silenziosa, eterna, sacra a tal punto da infondere un oscuro timore in chiunque, per vezzo, o per necessità, osi interromperla.
-Visto che è la tua prima volta qui, ti porto a vedere una cosa- mi dice- Faremo presto- aggiunge con tono rassicurante, come se avesse percepito il velo di inquietudine che ho negli occhi. Vorrei non essere così trasparente a volte.
Dice un paio di parole alle persone sedute sui sedili anteriori che rispondono con un cenno del capo in maniera poco entusiasta.
-Vieni, vieni a vedere- mi aiuta a scendere mentre Saty destato dai miei movimenti si sveglia debolmente, arricciando il naso e con le manine fra i miei capelli, come sempre.
-Dove siamo?- chiedo spaesata.
-Siamo a Palo Vista Drive, non è molto conosciuto, ma credo valga la pena..-
Non finisce la frase perché si rende conto dall’espressione che ho in viso che apprezzo molto.
Davanti a noi si vedono tutte le colline disseminate di mille lumi in lontananza; la celebre scritta ‘hollywood’ si erige mastodontica e cubitale, eretta da potenti travi in acciaio, ma è sufficientemente lontana da non sovrastarci annichilendoci.
Satya si regge con le manine al mio vestito stropicciandone un poco i lembi, e quelle stesse luci si possono distinguere riflesse nei suoi grandi occhi spalancati, ancora umidi di sonno.
-E’..meraviglioso, credo di averlo visto solo in cartolina..ma no, neanche- riesco solo a biascicare.
-Si, devo dire che è il belvedere che preferisco, questo- anche i suoi di occhi scintillano da quei riflessi.
-Ma sono proprio un maleducato!- esclama –Non mi sono ancora presentato a questo piccolo papero- allude al cappellino di Donald Duck di Saty, omaggio ricevuto all’uscita degli Studios, oggi pomeriggio.
-Molto piacere, io sono Michael!- dice con tono buffamente solenne.
-Amore, saluta- incalzo Saty che, per l’occasione preferisce scendere a terra. Gli porge la manina gonfiandosi come un piccolo pavone data l’attenzione che ha appena ricevuto da quello sconosciuto dai capelli scuri e dal sorriso simpatico.
-Piacere, Satya Josè Ferrari, detto Nino- Il braccio teso non riesce ad arrivare nemmeno alla cinta del suo interlocutore, che, non senza difficoltà, sta cercando di trattenere le risa.
I boccoli castani gli oscurano un poco i grandi occhi verdi, la pelle ambrata del viso sembra di cera appena levigata.
E’ davvero un bel bambino, e sembra più grande della sua età.
Michael lo guarda con occhi un po’ lucidi di tenerezza. Ho sempre sognato per lui che ricevesse un simile sguardo da suo padre. Ma le cose sono andate in un altro modo.
Si stringono la mano con fare cerimonioso mentre sprizzo orgoglio da tutti i pori per la presentazione che mio figlio ha fatto di se stesso.
-Mr Jackson..dovremmo andare, qui non è molto sicuro..-
Una voce spezza questo incanto. Lui sembra dispiaciuto e deluso da quella comunicazione, ma la stanca rassegnazione che ha in viso mi lascia intendere che sia necessario andare.
Dopo aver percorso una strada in discesa e dalle mille curve ci ritroviamo di nuovo vicino al centro abitato, e dopo aver fornito qualche sommaria indicazione all’autista ritroviamo la mia vecchia jeep in fondo alla strada, esattamente dove l’avevo lasciata alcune ore prima.
Michael ha lo stesso sguardo perso nel vuoto di qualche giorno fa, ed io la stessa sensazione di impotenza. Data la bella sorpresa che mi ha fatto e data la sua gentilezza mi sento davvero in colpa per non essere in grado di spezzare l’incantesimo che lo costringe a pensieri tristi, così come triste ha tutta l’aria di essere la sua serata a venire.
-Torni a Neverland?- sento la mia bocca chiedergli.
-Si- non sembra incuriosito da quello a cui voglio andare a parare.
-Anche io torno a casa, a Santa Ynez- mi sento di informarlo.
-E’ un posto molto carino, le palme, i vialetti..hai fatto bene a sistemarti lì, è pieno di verde- cerca di mostrarsi il più gioviale possibile, ma è assente.
Decido di sferrare il colpo, a mio rischio e pericolo, pur di risollevarlo da quel mesto torpore.
-Senti, dato che dobbiamo fare la stessa strada, che ne diresti di salire in macchina con noi, tanto Saty non reggerà più di un quarto d’ora, e questa macchina non ha l’aria di essere un salotto da thè per conversare..potremo chiacchierare, così il tempo passerà più in fretta- non posso credere di averlo detto.
Mi sento terribilmente indiscreta ed inopportuna, e non è bello.
Quando sto per scusarmi ecco che vengo folgorata, per l’ennesima volta, da quel sorriso maledetto.
-Davvero?- chiede incredulo, come se avesse vinto alla lotteria.
-Si perché? – chiedo neutra –certo, non ci saranno i sedili in pelle e lo schermo incastonato nel vano anteriore per vedere i film, se ti accontenti..- ora sono ironica.
-Oh bè, vedrò di sopravvivere lo stesso- risponde altisonante. Poi scoppia a ridere.
Eccitatissimo dalla cosa –mi sembra di vedere Saty oggi agli studios- si avvolge completamente il capo con una sciarpa nera, lasciando uno spiraglio solo per gli occhi, che copre comunque con le lenti scure.
Mentre ci apprestiamo a scendere per poi sgattaiolare nel mio fuoristrada, uno degli energumeni seduti davanti protesta –Sappia che non sono d’accordo con questa cosa, Mr Jackson. E’ pericoloso e potrebbe..-
-Non preoccupatevi, andrò piano, non succederà niente- intervengo
-Ma non ha nemmeno i vetri scuri..- fa un ultimo tentativo.
-Meglio Wayne, così potrò vedere il mondo che mi circonda con i suoi reali colori, una volta tanto- risponde Michael scocciato.
-Noi saremo sempre dietro di voi- ci intima lanciandomi uno sguardo intimidatorio.
-Ok- sorrido, ormai ho vinto io.
-Finalmente il caldo ci lascia un po’ di respiro- cerco di rompere il silenzio. Stavolta non è perché mi crea imbarazzo, ma perché vorrei davvero conversare con lui e so di avere un tempo molto limitato per farlo.
-Si, la sera è tutta un’altra cosa. Anche se devo dire che oggi non l’ho sentito più di tanto, sai in hotel c’è sempre l’aria condizionata- mi informa di una cosa che già so. Ma forse vuole solo sentirsi domandare qualcos’altro. Il pesce non tarda ad abboccare.
-A proposito, se posso chiedere, che ci facevi a Beverly Hills oggi?- Subito mi pento della mia indiscrezione.
-Si, certo che puoi chiedere! – mi tranquillizza come sempre -Direi per due motivi, uno ufficiale ed uno ufficioso, quale vuoi sapere?-
-Ovviamente quello ufficioso, di solito è quello più interessante- affermo non senza malizia.
-Bè allora ti dirò prima quello ufficiale, non vorrei svelarmi troppo risultando così poco interessante, o peggio, meno interessante rispetto al me stesso di un lasso di tempo precedente- sa giocare le sue carte, nulla da dire.
-Ok, vorrà dire che mi accontenterò- affermo con tono ironicamente rassegnato.
Mi penetra con lo sguardo dalla postazione in cui si trova nel sedile accanto al mio, non posso vedere dove sia rivolto esattamente, poiché sto guidando, ma lo percepisco ovunque, con lo stesso calore che hanno i raggi di una doccia solare a pochi centimetri dalla pelle.
Dopo questo infinito momento di silenzio si accinge a parlare, avendomi attentamente studiata.
-Ho deciso di incontrare alcuni fans che molto gentilmente mi hanno portato dei bellissimi regali per il mio compleanno di domani..sai sono stati molto carini, mi hanno contattato mille volte tramite il fan club ma ero sempre troppo impegnato, così, non essendo quest’anno in giro per il mondo a fare chissà cosa, ho pensato che fosse carino riceverne una ventina e parlare un po’, fare qualche foto..insomma passare una giornata lontano dalle solite cose e fare contenti loro e me stesso!- sembra sinceramente sollevato.
-A me sembra che tu abbia avuto un’ottima idea! Ogni tanto staccare dalla routine fa bene!- confermo.
-E tu Andrea, che ci facevi in un vicolo buio a Beverly Hills stasera?- il tono è ancora di rimprovero, nonostante siano passate alcune ore.
-Siccome era il mio giorno libero e Saty desiderava vedere gli Studios di Hollywood..-
-Davvero siete stati agli studios?! Ma è fantastico, io adoro andarci!- eccolo nuovamente bambino.
-Anche Saty ha molto apprezzato, sai è un fan agguerritissimo dei Looney Tunes, non si perde mai una puntata- confermo
-Allora chissà cosa direbbe se vedesse la mia collezione, ce li ho praticamente tutti..mi mancano forse le prime due edizioni del 1930-31-
-Credo che impazzirebbe!-
-Fagli sapere, dato che come prevedevi è crollato, che potrà venire a vederli ogni volta che vorrà-
Si volta a guardare mio figlio raggomitolato sul suo seggiolino appoggiato sul sedile posteriore. Con un gesto impercettibilmente delicato si toglie la giacca in morbida pelle, la stessa che aveva fatto strabuzzare gli occhi assatanati delle ragazze fuori dall’hotel poco prima, e gliela posa come una copertina, lasciando scoperto solo il piccolo viso, dal naso in su.
-Grazie Michael- sussurro – E’ davvero molto stanco, oggi ne ha fatte di tutti i colori-
-Immagino- annuisce comprensivo.
Mi giro verso di lui e per un istante ci scambiamo uno sguardo d’intesa, prima di proseguire nella notte illuminata da fari lontani dispersi in mezzo al mare, che pare fatto di lucciole.
NELLA TESTA DI MICHAEL
La guardo mentre guida. L’abito fine copre poco la coscia tornita e levigata e svolazza piano, vittima della leggera brezza che entra dal finestrino un poco aperto. I capelli obbediscono a questo scampolo di vento ed ondeggiano leggeri. Sono lunghi, lisci e di un bel castano ramato, che non fa che accentuare gli occhi color del mare, ma anche del cielo, e del miele vicino alla pupilla.
Oltre ad essere una gioia da guardare è anche una musica da ascoltare, che parte lenta, quasi incerta, per poi crescere, trasportando con le sue voluttuose scale ogni mio tentativo di restare ancorato alla realtà.
Con lei tutto è relativo e tutto è naturale. E’ vero, limpido come non lo avevo mai visto prima.
Ma non posso tuttavia perdermi in queste note, poiché la paura, la delusione e la rabbia hanno cancellato la chiave di violino sul mio pentagramma, unico strumento per poterle leggere.
-Grazie Andrea, del passaggio e..della chiacchierata- dice a bassa voce, ancora seduto sul sedile accanto al mio. Siamo fuori dalla mia casa a Santa Ynez, da qui proseguirà fino a Neverland che si trova circa 5 miglia a nord, con gli energumeni che lo aspettano nel suv scuro che ci ha seguiti per tutto il tempo e che ora è parcheggiato a pochi metri da noi.
Sono le 23 circa e non vedo l’ora che sia domani. Non so perché.
-Grazie a te per avermi portata al belvedere, per avermi salvata da un vicolo buio e per avermi tenuto compagnia durante questo lungo viaggio- gli sorrido a conferma della mia sincerità.
Sorride ma è concentrato in qualcos’altro. Sta considerando se dire o meno qualcosa. Prende tempo.
Alla fine parla.
-Senti Andrea. Domani sera darò un piccolo party a casa mia e sarei felice se venissi, se ovviamente non hai altri impegni- mi chiede a bruciapelo.
-oh..io..non so..- sono colta dalla solita paralisi psicologica che pensavo di aver superato.
-Qual è il problema? Se hai altri impegni non importa,io..-
-No, è che..si insomma bisogna essere eleganti?- mi rendo immediatamente conto della quarta figura meschina appena fatta. Ora penserà che sono una vera pezzente. Come per le figuracce precedenti anche questa volta lo sento ridere.
-Ma che problemi sono questi? Che importa il vestito, non ho mica invitato un vestito, ho invitato te- nel dirlo i suoi occhi mi attraversano come lame nel burro caldo. Sento che sto per morire.
-Metti quello che vuoi, tanto sei bellissima comunque- sorride spontaneo e limpido.
-O-ok Michael..- E’ incredibile l’alternanza di stati d’animo a cui quest’uomo mi sottopone. Sta giocando abilmente ad un gioco di cui lui solo conosce le regole.
Credevo che il ghiaccio fosse rotto e credevo di poter dire addio a goffaggine e timidezza, ma ecco che, con una sua semplice parola, tutto cambia, o meglio, tutto torna come prima.
-Posso salutarti?- mi chiede ancora con un mezzo sorriso.
-Si..- rispondo senza pensare a cosa si riferisca.
Ed ecco l’inizio della fine.
Si sporge verso di me, e passandomi un solo braccio dietro alla schiena mi stringe a metà, affiancando il suo viso al mio, per un breve istante. E’ un gesto rapido, ma come il morso di un mamba verde dell’Argentina*, breve, profondo e letale.
-Questa giornata è stata piacevole, ma non avrebbe potuto concludersi in un modo migliore-
Così dicendo scende dalla macchina e scompare nel suv dietro di noi.
*serpente velenosissimo
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Aug 26, 2003
Ore 23:40
-Mr Jackson, mi scusi se la disturbo a quest’ora, ma c’è una telefonata urgente per lei, è Mr Bernstein e dice che è molto importante- La voce di Josephine, domestica personale di Michael, riecheggia nella grande sala da pranzo in cui egli, appena rientrato, si è accomodato con un bicchiere di succo in una mano ed un tramezzino nell’altra.
A dire il vero il suo turno di lavoro sarebbe dovuto terminare qualche ora fa, ma colta dal senso del dovere e dalla profonda dedizione per il suo lavoro, si è sentita di restare alzata per assicurarsi che fosse tutto a posto per il rientro di Michael.
-Va bene Josy, passami la chiamata nello studio, grazie, e vai pure a riposare che è tardi-
-Come desidera. A domani- esce dalla stanza felice per quelle ultime parole.
-Pronto, Michael?- una voce ruvida al di là del ricevitore.
-Si, ciao John. A cosa devo questa chiamata notturna? E’ successo qualcosa?- dice con una vena di preoccupazione. Il suo manager non è solito fare telefonate notturne al limite della buona educazione, quindi dev’essere qualcosa di veramente importante, se non grave addirittura.
-No, piuttosto vorrei parlarti di qualcosa che ancora NON è successo, SPERO- il tono non lascia scampo a dubbi: non è una telefonata di cortesia.
-A cosa ti riferisci?- chiede con una punta di irritazione.
-Sono stato informato del fatto che hai stretto un rapporto un po’..diciamo ‘personale’ con una tua dipendente, mi confermi?-
La domanda è evidentemente retorica e scivola insidiosa come un serpente, destabilizzandolo. Quasi non gli esce la voce.
-Cerco sempre di stringere rapporti umani con le persone che lavorano per me, e con questo? Mica sono schiavi! Perché piuttosto non arriviamo al punto John, non mi sembra l’orario più opportuno per mettere in campo i tuoi giochetti criptici, che ne dici?- risponde con il cuore in gola, ma cercando di dare la parvenza di avere la situazione sotto controllo.
-Nessun giochetto criptico, Michael. Questa situazione è tutto fuorchè un gioco, e non devo essere io a ricordartelo! Parlerò chiaro e solo una volta, visto che sembri non capire. Ti devo ricordare forse cosa è successo 10 anni fa o te lo ricordi da solo? Ti devo ricordare che per esserti fidato di una sconosciuta siamo finiti davanti ad un giudice con il mondo che ti dava del pedofilo ed il tuo portafogli che si alleggeriva di una cosa come 22 milioni? Te lo devo ricordare io o te lo ricordi da solo?- Le amare parole di Barnstein escono come proiettili da un fucile, e come proiettili vanno a fare il loro dovere dritti al cuore del ricevente.
Nessuna risposta dall’altro capo del filo.
-Michael io non voglio che si vengano a creare ancora determinate situazioni, per la tua persona, per la tua immagine e per la tua carriera. Lo capisci questo?-
-Si- esce flebile, come fosse scappato dall’uscita di servizio.
-Molto bene. Cerca di ragionare, cosa sai di questa donna tu? Niente, non sai niente, e nella tua posizione non puoi permetterti di rischiare. Ora, il fatto che siano venuti a raccontarmi che con lei sei molto più ‘premuroso’ del dovuto, significa che la cosa è alla luce del sole ed evidente a tutti, e questo non deve essere! Andiamo Mike, non devo spiegarti io certi meccanismi..-
-No infatti John, non devi spiegarmeli tu..- dice con tono stanco.
-Ecco, allora non andare oltre ad un normale rapporto capo-dipendente, soprattutto in una fase delicata per la tua carriera come questa, dove..-
-Ho afferrato John, c’è dell’altro che devi dirmi sulla mia vita?-
-Si, volevo sapere come è andato l’incontro con Shaffel di oggi-
-Bene, direi bene. Possiamo rimandare a domani per i dettagli? Sono molto stanco e dopo questa conversazione ho anche mal di testa-
-Ok Mike, non trascurarti. E ricordati che siamo una squadra. A domani sera-
-Ciao- Posa il ricevitore esausto e con la testa che ribolle.
E’ così arrabbiato che vorrebbe spaccare qualcosa. Le parole di Barnestein gli risuonano nelle orecchie in tutta la loro cruda freddezza. La consapevolezza di non essere mai stato padrone della sua vita e delle sue scelte ora è insopportabile e brucia come fosse acido.
Si siede sul davanzale in legno ed osserva le collinette che disegnano i contorni della sua immensa proprietà.
E alla fine hanno la meglio ancora loro, quei calcoli da burocrate, quei piani da mercenario, che lo portano a questo, come ultimo pensiero della giornata.
-In fondo la mia vita è sempre stata costellata da burocrati e da mercenari, e sempre sarà così. Ma la cosa che fa più male è che molto spesso dicono cose vere, anche se lo fanno solo per soldi. In fondo è vero.
Lei è solo il veterinario del mio zoo ed io solo il suo capriccioso e vile datore di lavoro.
Non sappiamo nulla l’uno dell’altro.
Non mi lascerò andare e non rischierò.
E’ così che deve essere e così sarà-
NELLA TESTA DI MICHAEL
Certo che la vita è strana.
Proprio nel momento in cui avevo scelto di ritirarmi in un guscio invisibile agli occhi ma impenetrabile al cuore, ormai deluso e amareggiato da tutto e da tutti, proprio quando ogni speranza di poter riporre fiducia nel prossimo era volata via con la stessa urgenza di una rondine che fugge dall’agonia invernale, ecco che mi devo ricredere.
Il fatto in sé non è da ritenersi del tutto negativo, poiché ricredersi su qualcosa di cui si era fermamente convinti è sempre segno di elasticità, mutazione e quindi apprendimento.
Il divenire sta alla base di tutte le cose e guai se così non fosse.
Rimarremmo imprigionati in rigidi schemi dietro a barricate insormontabili, testimoni inermi della morte di ogni lampo di creatività, di ogni guizzo della mente e dello spirito; ed il cuore resterebbe imbrigliato come un toro al giogo, o come un leone in gabbia, incapace di sferzare spietato i suoi colpi ritmici, artefici della creazione del succo della vita: l’amore.
Anche a 45 anni è lecito ricredersi. Ed io lo farò con piacere e con paura. La stessa che ho visto in quegli occhi l’altra sera. Occhi che per un breve lasso non mi hanno permesso di pensare a tutto il resto.
BEVERLY HILLS, California- SANTA MONICA BLVD. Aug 28, 2003
Oggi è il mio giorno libero. Come ogni giovedì mi prendo del tempo per me stessa e mi dedico alla mia attività preferita: fare la mamma. Ogni settimana io e Satya abbiamo una meta diversa, è la prima volta per entrambi qui nel nuovo mondo, quindi la voglia di esplorare paesaggi e luoghi così diversi da quelli a cui eravamo abituati è davvero molto forte.
Abbiamo la fortuna di essere capitati in California, una terra calda e ricca di cose da vedere.
Mio figlio mi ha chiesto di poter visitare Hollywood perché, essendo un amante del looney tunes , vorrebbe vedere da vicino gli studios nei quali i disegnatori diedero vita ai celeberrimi disegni animati. Dal canto mio sono sempre stata affascinata da questi luoghi che fecero la storia del cinema, ma anche della musica con la quale sono cresciuta..quindi: mattino presto, zainetto, macchina fotografica da turista europeo (è un marchio che credo non ci toglieremo mai di dosso) e via!
Dopo quasi 3 ore di statale 101, altrimenti chiamata El Camino Real (qui si inizia a sentire la vicinanza con l’amico Messico), arriviamo a Beverly Hills.
E’ tutto esattamente come lo posso ricordare solamente attraverso film e telefilm, soprattutto i negozi, le persone, le auto. E’ tutto bello. Tutti sembrano giovani, rilassati e alla moda. Nei negozi gli abiti delle ultime tendenze aspettano solo di essere acquistati da gaie ragazze in perfetta forma fisica e dal portafoglio sempre alla mano. Le auto parcheggiate sono quasi tutte decappottabili e fiammanti e, a ben guardare, credo che il mio intero conto in banca non basterebbe ad acquistarne una portiera.
Peccato, vorrà dire che mi accontenterò del mio fuoristrada grigio di quinta mano!
Dopo la visita guidata agli Hollywood Studios durata più di due ore, due passi in Sunset Boulevard –la via dei vip-, altri due passi in Melrose Avenue –dove mi sono sentita una pezzente con il mio abitino smanicato turchese e le infradito-, un riposino ad Hancook Park -dove Saty ha dormito un paio d’ore, sfiancato- si sono fatte le 19 e ritengo che per oggi sia tutto.
Ci avviamo quindi al parcheggio che si trova in una traversa di Santa Monica BLVD. La via è in sé abbastanza piccola ed insignificante rispetto a quelle visitate oggi, non riesco quindi a capire perché sia così trafficata. Macchine in doppia fila, persone scalpitanti che camminano a passo veloce, clacson. Ci avviciniamo ad un edificio elegante, direi un grattacielo dai vetri scuri, la cui insegna dice: ‘The Beverly Hilton’ . Qui scoppia il putiferio.
Dall’altro lato della strada le stesse persone che prima camminavano semplicemente a passo spedito cercando di darsi un contegno ora urlano come aquile e si raggruppano attorno alla porta principale del lussuoso albergo a 200 stelle. Alcuni abbandonano le auto in mezzo alla strada accese, altri con l’intento di raggiungere la loro meta spintonano con veemenza chiunque si trovi sul loro percorso.
Quasi shoccata dalla scena prendo istintivamente in braccio Saty che sgrana i suoi grandi occhi verdi e stanchi. Mi sento minacciata e decido di spostarmi in una posizione più sicura, sotto un portone. Poi però la curiosità è troppa e mi faccio ancora avanti sul marciapiede mantenendo una debita distanza di sicurezza. Ecco che dalla porta scorrevole sulla facciata principale della costruzione si rivela il motivo di tutta quell’isteria di massa.
Il mio datore di lavoro è avvolto da una giacca di pelle marrone chiaro con la cerniera slacciata che lascia intravedere una camicia nera aperta fino al petto, i capelli sono lisci ma scomposti da un po’ di gel volumizzante, i Ray Ban immancabili celano gli occhi, ma non è del tutto avaro perché esce regalando sorrisi in direzione della folla che sta emettendo versi da stadio.
Si avvia verso un mastodontico suv parcheggiato a pochi metri, quando si ferma. La testa è voltata nella mia direzione ma non immagino che mi abbia vista. La conferma non tarda ad arrivare però, perché si toglie immediatamente gli occhiali da sole e incrocia il suo sguardo al mio. Ho un attimo di trasalimento.
Accenna un sorriso ma non ha il tempo di fare di più perché viene caldamente invitato da un energumeno alle sue spalle ad entrare nel suv , fermo esattamente dal lato opposto della strada rispetto a me.
La macchina scura parte accompagnata da grida di parole indecifrabili.
Ci vuole un po’, a questo punto, perché la viabilità e gli animi dei presenti -il mio compreso-, si riassestino.
Proseguo quindi alla volta della mia macchina con Saty in braccio. Non la vedo, spero di non essermi persa. Continuo a camminare finchè mi ritrovo in un vicolo illuminato da un unico lampione da cui esce una debole luce opalescente. Stamattina quando siamo arrivati non avrei mai immaginato che al calare del sole la famosa Beverly Hills potesse diventare un ambiente così sinistro.
Affretto istintivamente il passo quando sento il rumore di un’auto avvicinarsi, ma non abbastanza evidentemente, perché mi raggiunge.
Arrivata alla mia altezza decelera, sembra fermarsi, insieme al mio cuore.
Un finestrino nero che non si lascia attraversare si abbassa lentamente ed io mi preparo alla fuga.
-Andrea! Allora ho visto bene prima! Ma che ci fai qua??- Michael Jackson mi parla in tono concitato dall’interno della macchina, ha lo sguardo preoccupato e, dal modo in cui si sporge verso di me, direi che non intende lasciare molto spazio ai convenevoli.
-Sto andando a cercare la mia macchina, l’avevo parcheggiata qui, da qualche parte, solo che..-
-Ma non puoi girare da sola per queste strade oltre una certa ora!- mi sta rimproverando.
-Ma sono solo le 19:30!- cerco di protestare.
-Ma non conta! Quando tramonta il sole questi vicoli secondari sono molto pericolosi..Sali subito, ti accompagno io alla macchina-
Il modo in cui ha aperto lo sportello mi fa pensare che non abbia alcuna intenzione di cambiare idea. Salgo.
-E’ la prima volta che vieni qui, vero?- mi chiede non appena il macchinone riparte.
-Si..- mi sento una sprovveduta
-E questo dev’essere il tuo piccolo..-
-Satya- lo aiuto a ricordare quel nome che ha sentito solo una volta e che gli riesce difficile persino pronunciare. Saty è con Morfeo già da quando la sua mamma si stava preoccupando nel vicolo malfamato.
-E’ la tua fotocopia- sussurra con una voce flebile per non fare troppo rumore.
Gli sorrido, stringendo il mio piccolo ometto addormentato.
I nostri sguardi si incrociano in una danza silenziosa, eterna, sacra a tal punto da infondere un oscuro timore in chiunque, per vezzo, o per necessità, osi interromperla.
-Visto che è la tua prima volta qui, ti porto a vedere una cosa- mi dice- Faremo presto- aggiunge con tono rassicurante, come se avesse percepito il velo di inquietudine che ho negli occhi. Vorrei non essere così trasparente a volte.
Dice un paio di parole alle persone sedute sui sedili anteriori che rispondono con un cenno del capo in maniera poco entusiasta.
-Vieni, vieni a vedere- mi aiuta a scendere mentre Saty destato dai miei movimenti si sveglia debolmente, arricciando il naso e con le manine fra i miei capelli, come sempre.
-Dove siamo?- chiedo spaesata.
-Siamo a Palo Vista Drive, non è molto conosciuto, ma credo valga la pena..-
Non finisce la frase perché si rende conto dall’espressione che ho in viso che apprezzo molto.
Davanti a noi si vedono tutte le colline disseminate di mille lumi in lontananza; la celebre scritta ‘hollywood’ si erige mastodontica e cubitale, eretta da potenti travi in acciaio, ma è sufficientemente lontana da non sovrastarci annichilendoci.
Satya si regge con le manine al mio vestito stropicciandone un poco i lembi, e quelle stesse luci si possono distinguere riflesse nei suoi grandi occhi spalancati, ancora umidi di sonno.
-E’..meraviglioso, credo di averlo visto solo in cartolina..ma no, neanche- riesco solo a biascicare.
-Si, devo dire che è il belvedere che preferisco, questo- anche i suoi di occhi scintillano da quei riflessi.
-Ma sono proprio un maleducato!- esclama –Non mi sono ancora presentato a questo piccolo papero- allude al cappellino di Donald Duck di Saty, omaggio ricevuto all’uscita degli Studios, oggi pomeriggio.
-Molto piacere, io sono Michael!- dice con tono buffamente solenne.
-Amore, saluta- incalzo Saty che, per l’occasione preferisce scendere a terra. Gli porge la manina gonfiandosi come un piccolo pavone data l’attenzione che ha appena ricevuto da quello sconosciuto dai capelli scuri e dal sorriso simpatico.
-Piacere, Satya Josè Ferrari, detto Nino- Il braccio teso non riesce ad arrivare nemmeno alla cinta del suo interlocutore, che, non senza difficoltà, sta cercando di trattenere le risa.
I boccoli castani gli oscurano un poco i grandi occhi verdi, la pelle ambrata del viso sembra di cera appena levigata.
E’ davvero un bel bambino, e sembra più grande della sua età.
Michael lo guarda con occhi un po’ lucidi di tenerezza. Ho sempre sognato per lui che ricevesse un simile sguardo da suo padre. Ma le cose sono andate in un altro modo.
Si stringono la mano con fare cerimonioso mentre sprizzo orgoglio da tutti i pori per la presentazione che mio figlio ha fatto di se stesso.
-Mr Jackson..dovremmo andare, qui non è molto sicuro..-
Una voce spezza questo incanto. Lui sembra dispiaciuto e deluso da quella comunicazione, ma la stanca rassegnazione che ha in viso mi lascia intendere che sia necessario andare.
Dopo aver percorso una strada in discesa e dalle mille curve ci ritroviamo di nuovo vicino al centro abitato, e dopo aver fornito qualche sommaria indicazione all’autista ritroviamo la mia vecchia jeep in fondo alla strada, esattamente dove l’avevo lasciata alcune ore prima.
Michael ha lo stesso sguardo perso nel vuoto di qualche giorno fa, ed io la stessa sensazione di impotenza. Data la bella sorpresa che mi ha fatto e data la sua gentilezza mi sento davvero in colpa per non essere in grado di spezzare l’incantesimo che lo costringe a pensieri tristi, così come triste ha tutta l’aria di essere la sua serata a venire.
-Torni a Neverland?- sento la mia bocca chiedergli.
-Si- non sembra incuriosito da quello a cui voglio andare a parare.
-Anche io torno a casa, a Santa Ynez- mi sento di informarlo.
-E’ un posto molto carino, le palme, i vialetti..hai fatto bene a sistemarti lì, è pieno di verde- cerca di mostrarsi il più gioviale possibile, ma è assente.
Decido di sferrare il colpo, a mio rischio e pericolo, pur di risollevarlo da quel mesto torpore.
-Senti, dato che dobbiamo fare la stessa strada, che ne diresti di salire in macchina con noi, tanto Saty non reggerà più di un quarto d’ora, e questa macchina non ha l’aria di essere un salotto da thè per conversare..potremo chiacchierare, così il tempo passerà più in fretta- non posso credere di averlo detto.
Mi sento terribilmente indiscreta ed inopportuna, e non è bello.
Quando sto per scusarmi ecco che vengo folgorata, per l’ennesima volta, da quel sorriso maledetto.
-Davvero?- chiede incredulo, come se avesse vinto alla lotteria.
-Si perché? – chiedo neutra –certo, non ci saranno i sedili in pelle e lo schermo incastonato nel vano anteriore per vedere i film, se ti accontenti..- ora sono ironica.
-Oh bè, vedrò di sopravvivere lo stesso- risponde altisonante. Poi scoppia a ridere.
Eccitatissimo dalla cosa –mi sembra di vedere Saty oggi agli studios- si avvolge completamente il capo con una sciarpa nera, lasciando uno spiraglio solo per gli occhi, che copre comunque con le lenti scure.
Mentre ci apprestiamo a scendere per poi sgattaiolare nel mio fuoristrada, uno degli energumeni seduti davanti protesta –Sappia che non sono d’accordo con questa cosa, Mr Jackson. E’ pericoloso e potrebbe..-
-Non preoccupatevi, andrò piano, non succederà niente- intervengo
-Ma non ha nemmeno i vetri scuri..- fa un ultimo tentativo.
-Meglio Wayne, così potrò vedere il mondo che mi circonda con i suoi reali colori, una volta tanto- risponde Michael scocciato.
-Noi saremo sempre dietro di voi- ci intima lanciandomi uno sguardo intimidatorio.
-Ok- sorrido, ormai ho vinto io.
-Finalmente il caldo ci lascia un po’ di respiro- cerco di rompere il silenzio. Stavolta non è perché mi crea imbarazzo, ma perché vorrei davvero conversare con lui e so di avere un tempo molto limitato per farlo.
-Si, la sera è tutta un’altra cosa. Anche se devo dire che oggi non l’ho sentito più di tanto, sai in hotel c’è sempre l’aria condizionata- mi informa di una cosa che già so. Ma forse vuole solo sentirsi domandare qualcos’altro. Il pesce non tarda ad abboccare.
-A proposito, se posso chiedere, che ci facevi a Beverly Hills oggi?- Subito mi pento della mia indiscrezione.
-Si, certo che puoi chiedere! – mi tranquillizza come sempre -Direi per due motivi, uno ufficiale ed uno ufficioso, quale vuoi sapere?-
-Ovviamente quello ufficioso, di solito è quello più interessante- affermo non senza malizia.
-Bè allora ti dirò prima quello ufficiale, non vorrei svelarmi troppo risultando così poco interessante, o peggio, meno interessante rispetto al me stesso di un lasso di tempo precedente- sa giocare le sue carte, nulla da dire.
-Ok, vorrà dire che mi accontenterò- affermo con tono ironicamente rassegnato.
Mi penetra con lo sguardo dalla postazione in cui si trova nel sedile accanto al mio, non posso vedere dove sia rivolto esattamente, poiché sto guidando, ma lo percepisco ovunque, con lo stesso calore che hanno i raggi di una doccia solare a pochi centimetri dalla pelle.
Dopo questo infinito momento di silenzio si accinge a parlare, avendomi attentamente studiata.
-Ho deciso di incontrare alcuni fans che molto gentilmente mi hanno portato dei bellissimi regali per il mio compleanno di domani..sai sono stati molto carini, mi hanno contattato mille volte tramite il fan club ma ero sempre troppo impegnato, così, non essendo quest’anno in giro per il mondo a fare chissà cosa, ho pensato che fosse carino riceverne una ventina e parlare un po’, fare qualche foto..insomma passare una giornata lontano dalle solite cose e fare contenti loro e me stesso!- sembra sinceramente sollevato.
-A me sembra che tu abbia avuto un’ottima idea! Ogni tanto staccare dalla routine fa bene!- confermo.
-E tu Andrea, che ci facevi in un vicolo buio a Beverly Hills stasera?- il tono è ancora di rimprovero, nonostante siano passate alcune ore.
-Siccome era il mio giorno libero e Saty desiderava vedere gli Studios di Hollywood..-
-Davvero siete stati agli studios?! Ma è fantastico, io adoro andarci!- eccolo nuovamente bambino.
-Anche Saty ha molto apprezzato, sai è un fan agguerritissimo dei Looney Tunes, non si perde mai una puntata- confermo
-Allora chissà cosa direbbe se vedesse la mia collezione, ce li ho praticamente tutti..mi mancano forse le prime due edizioni del 1930-31-
-Credo che impazzirebbe!-
-Fagli sapere, dato che come prevedevi è crollato, che potrà venire a vederli ogni volta che vorrà-
Si volta a guardare mio figlio raggomitolato sul suo seggiolino appoggiato sul sedile posteriore. Con un gesto impercettibilmente delicato si toglie la giacca in morbida pelle, la stessa che aveva fatto strabuzzare gli occhi assatanati delle ragazze fuori dall’hotel poco prima, e gliela posa come una copertina, lasciando scoperto solo il piccolo viso, dal naso in su.
-Grazie Michael- sussurro – E’ davvero molto stanco, oggi ne ha fatte di tutti i colori-
-Immagino- annuisce comprensivo.
Mi giro verso di lui e per un istante ci scambiamo uno sguardo d’intesa, prima di proseguire nella notte illuminata da fari lontani dispersi in mezzo al mare, che pare fatto di lucciole.
NELLA TESTA DI MICHAEL
La guardo mentre guida. L’abito fine copre poco la coscia tornita e levigata e svolazza piano, vittima della leggera brezza che entra dal finestrino un poco aperto. I capelli obbediscono a questo scampolo di vento ed ondeggiano leggeri. Sono lunghi, lisci e di un bel castano ramato, che non fa che accentuare gli occhi color del mare, ma anche del cielo, e del miele vicino alla pupilla.
Oltre ad essere una gioia da guardare è anche una musica da ascoltare, che parte lenta, quasi incerta, per poi crescere, trasportando con le sue voluttuose scale ogni mio tentativo di restare ancorato alla realtà.
Con lei tutto è relativo e tutto è naturale. E’ vero, limpido come non lo avevo mai visto prima.
Ma non posso tuttavia perdermi in queste note, poiché la paura, la delusione e la rabbia hanno cancellato la chiave di violino sul mio pentagramma, unico strumento per poterle leggere.
-Grazie Andrea, del passaggio e..della chiacchierata- dice a bassa voce, ancora seduto sul sedile accanto al mio. Siamo fuori dalla mia casa a Santa Ynez, da qui proseguirà fino a Neverland che si trova circa 5 miglia a nord, con gli energumeni che lo aspettano nel suv scuro che ci ha seguiti per tutto il tempo e che ora è parcheggiato a pochi metri da noi.
Sono le 23 circa e non vedo l’ora che sia domani. Non so perché.
-Grazie a te per avermi portata al belvedere, per avermi salvata da un vicolo buio e per avermi tenuto compagnia durante questo lungo viaggio- gli sorrido a conferma della mia sincerità.
Sorride ma è concentrato in qualcos’altro. Sta considerando se dire o meno qualcosa. Prende tempo.
Alla fine parla.
-Senti Andrea. Domani sera darò un piccolo party a casa mia e sarei felice se venissi, se ovviamente non hai altri impegni- mi chiede a bruciapelo.
-oh..io..non so..- sono colta dalla solita paralisi psicologica che pensavo di aver superato.
-Qual è il problema? Se hai altri impegni non importa,io..-
-No, è che..si insomma bisogna essere eleganti?- mi rendo immediatamente conto della quarta figura meschina appena fatta. Ora penserà che sono una vera pezzente. Come per le figuracce precedenti anche questa volta lo sento ridere.
-Ma che problemi sono questi? Che importa il vestito, non ho mica invitato un vestito, ho invitato te- nel dirlo i suoi occhi mi attraversano come lame nel burro caldo. Sento che sto per morire.
-Metti quello che vuoi, tanto sei bellissima comunque- sorride spontaneo e limpido.
-O-ok Michael..- E’ incredibile l’alternanza di stati d’animo a cui quest’uomo mi sottopone. Sta giocando abilmente ad un gioco di cui lui solo conosce le regole.
Credevo che il ghiaccio fosse rotto e credevo di poter dire addio a goffaggine e timidezza, ma ecco che, con una sua semplice parola, tutto cambia, o meglio, tutto torna come prima.
-Posso salutarti?- mi chiede ancora con un mezzo sorriso.
-Si..- rispondo senza pensare a cosa si riferisca.
Ed ecco l’inizio della fine.
Si sporge verso di me, e passandomi un solo braccio dietro alla schiena mi stringe a metà, affiancando il suo viso al mio, per un breve istante. E’ un gesto rapido, ma come il morso di un mamba verde dell’Argentina*, breve, profondo e letale.
-Questa giornata è stata piacevole, ma non avrebbe potuto concludersi in un modo migliore-
Così dicendo scende dalla macchina e scompare nel suv dietro di noi.
*serpente velenosissimo
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Aug 26, 2003
Ore 23:40
-Mr Jackson, mi scusi se la disturbo a quest’ora, ma c’è una telefonata urgente per lei, è Mr Bernstein e dice che è molto importante- La voce di Josephine, domestica personale di Michael, riecheggia nella grande sala da pranzo in cui egli, appena rientrato, si è accomodato con un bicchiere di succo in una mano ed un tramezzino nell’altra.
A dire il vero il suo turno di lavoro sarebbe dovuto terminare qualche ora fa, ma colta dal senso del dovere e dalla profonda dedizione per il suo lavoro, si è sentita di restare alzata per assicurarsi che fosse tutto a posto per il rientro di Michael.
-Va bene Josy, passami la chiamata nello studio, grazie, e vai pure a riposare che è tardi-
-Come desidera. A domani- esce dalla stanza felice per quelle ultime parole.
-Pronto, Michael?- una voce ruvida al di là del ricevitore.
-Si, ciao John. A cosa devo questa chiamata notturna? E’ successo qualcosa?- dice con una vena di preoccupazione. Il suo manager non è solito fare telefonate notturne al limite della buona educazione, quindi dev’essere qualcosa di veramente importante, se non grave addirittura.
-No, piuttosto vorrei parlarti di qualcosa che ancora NON è successo, SPERO- il tono non lascia scampo a dubbi: non è una telefonata di cortesia.
-A cosa ti riferisci?- chiede con una punta di irritazione.
-Sono stato informato del fatto che hai stretto un rapporto un po’..diciamo ‘personale’ con una tua dipendente, mi confermi?-
La domanda è evidentemente retorica e scivola insidiosa come un serpente, destabilizzandolo. Quasi non gli esce la voce.
-Cerco sempre di stringere rapporti umani con le persone che lavorano per me, e con questo? Mica sono schiavi! Perché piuttosto non arriviamo al punto John, non mi sembra l’orario più opportuno per mettere in campo i tuoi giochetti criptici, che ne dici?- risponde con il cuore in gola, ma cercando di dare la parvenza di avere la situazione sotto controllo.
-Nessun giochetto criptico, Michael. Questa situazione è tutto fuorchè un gioco, e non devo essere io a ricordartelo! Parlerò chiaro e solo una volta, visto che sembri non capire. Ti devo ricordare forse cosa è successo 10 anni fa o te lo ricordi da solo? Ti devo ricordare che per esserti fidato di una sconosciuta siamo finiti davanti ad un giudice con il mondo che ti dava del pedofilo ed il tuo portafogli che si alleggeriva di una cosa come 22 milioni? Te lo devo ricordare io o te lo ricordi da solo?- Le amare parole di Barnstein escono come proiettili da un fucile, e come proiettili vanno a fare il loro dovere dritti al cuore del ricevente.
Nessuna risposta dall’altro capo del filo.
-Michael io non voglio che si vengano a creare ancora determinate situazioni, per la tua persona, per la tua immagine e per la tua carriera. Lo capisci questo?-
-Si- esce flebile, come fosse scappato dall’uscita di servizio.
-Molto bene. Cerca di ragionare, cosa sai di questa donna tu? Niente, non sai niente, e nella tua posizione non puoi permetterti di rischiare. Ora, il fatto che siano venuti a raccontarmi che con lei sei molto più ‘premuroso’ del dovuto, significa che la cosa è alla luce del sole ed evidente a tutti, e questo non deve essere! Andiamo Mike, non devo spiegarti io certi meccanismi..-
-No infatti John, non devi spiegarmeli tu..- dice con tono stanco.
-Ecco, allora non andare oltre ad un normale rapporto capo-dipendente, soprattutto in una fase delicata per la tua carriera come questa, dove..-
-Ho afferrato John, c’è dell’altro che devi dirmi sulla mia vita?-
-Si, volevo sapere come è andato l’incontro con Shaffel di oggi-
-Bene, direi bene. Possiamo rimandare a domani per i dettagli? Sono molto stanco e dopo questa conversazione ho anche mal di testa-
-Ok Mike, non trascurarti. E ricordati che siamo una squadra. A domani sera-
-Ciao- Posa il ricevitore esausto e con la testa che ribolle.
E’ così arrabbiato che vorrebbe spaccare qualcosa. Le parole di Barnestein gli risuonano nelle orecchie in tutta la loro cruda freddezza. La consapevolezza di non essere mai stato padrone della sua vita e delle sue scelte ora è insopportabile e brucia come fosse acido.
Si siede sul davanzale in legno ed osserva le collinette che disegnano i contorni della sua immensa proprietà.
E alla fine hanno la meglio ancora loro, quei calcoli da burocrate, quei piani da mercenario, che lo portano a questo, come ultimo pensiero della giornata.
-In fondo la mia vita è sempre stata costellata da burocrati e da mercenari, e sempre sarà così. Ma la cosa che fa più male è che molto spesso dicono cose vere, anche se lo fanno solo per soldi. In fondo è vero.
Lei è solo il veterinario del mio zoo ed io solo il suo capriccioso e vile datore di lavoro.
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E’ così che deve essere e così sarà-
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Re: Il fantasma che si innamorò di un uomo
CAPITOLO 6
-Pedraaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!- Esordisco così in casa della mia pazientissima amica per raccontarle di tutto ciò che è accaduto stasera.
Ha uno sguardo quasi materno quando mi ascolta. Lei è un’amica con la A maiuscola, sempre disposta a darmi una mano sia pratica che psicologica.
E anche questa volta confido fermamente nel fatto che mi tirerà fuori dai guai.
Si, perché stavolta sono in guai seri: sono stata invitata ad un party a casa di Michael –non riesco più a considerarlo per il celeberrimo artista scala classifiche che è, né per l’impero che possiede, ma solo per la persona gentile che offre passaggi nella notte e che si rapporta a mio figlio come se gli volesse bene davvero- e non ho assolutamente nulla di adeguato o anche solo di dignitoso da poter indossare.
Del resto sono qui da appena un mese e posso garantire che in Africa non sono mai serviti abiti da sera o gioielli. Lì era sufficiente la voglia di lavorare e di mettersi in discussione, ogni giorno.
-Pedra dimmi come faccio, ho 24 ore per trovare qualcosa da mettere. Ci saranno persone ricchissime ed elegantissime, la crème de la crème, ed il vestito più bello che possiedo è questo- Affermo con tono desolato indicando l’abitino che ho usato oggi per andare ad Hollywood.
-Ma cara, domani potremmo andare a cercare qualcosa al negozio che c’è in centro, vedrai che avranno sicuramente qualcosa che fa al caso tuo. Tu sei bella, ti sta bene tutto- Com’è carina.
-No, non posso, ho usato l’anticipo che mi hanno dato per pagare l’affitto di questo mese, non posso spendere altri soldi per qualcosa che fra l’altro indosserò solo una volta!- Sono a terra.
Non posso nemmeno permettermi di chiedere un anticipo a lei, pover’anima, vive da sola con due bimbi piccoli e percepisce un terzo del salario del marito che faceva il pescatore, prima di morire tre anni fa.
Anche lei ora sembra affranta, come se il problema fosse il suo. La dolcezza di questa donna mi commuove.
-Ecco cosa facciamo!- sembra illuminarsi improvvisamente –Domani mattina presto vado al negozio di stoffe indiane giù in fondo alla strada e ne prendo un paio di scampoli, poi ti cucio qualcosa di semplice. Sai, mi è già capitato di cucire, non sono una sarta, ma posso provare..-
Non la lascio finire che subito le corro incontro stringendola forte a me. E’ il mio angelo custode.
-Aspetta però..arrivo subito!- Corro a casa a rovistare fra le mie cose e, come ricordavo, conservo in un baule un telo di canapa intrecciata e colorata a mano dalle donne Masai. E’ intessuto finemente a maglia sottile ed è di un turchese cangiante con degli inserti dorati. E’ stato uno dei regali di addio all’Africa, anche se preferisco pensare che si sia trattato di un arrivederci. Sarà perfetto.
SANTA YNEZ, California. CASA MIA. Aug 29,2003
Ore 21:00
Oggi al lavoro il tempo sembrava non voler passare mai. E’ stata una lenta agonia emotiva che mi sbatteva da una parte all’altra, come se fossi stata la vela di una povera nave in balia della tempesta.
Si alternavano momenti di euforia impaziente, che mi rendevano protagonista di fantasie adolescenziali in cui, stretti in un voluttuoso abbraccio senza fine, io e l’uomo dal sorriso magnetico danzavamo con la musica de ‘il tempo delle mele’ con annesso bacio passionale alla fine, a momenti di totale mancanza di autostima, in cui mettevo in più occasioni addirittura in dubbio il fatto di andarci alla festa.
Una giornata terribile, che per fortuna è finita.
A casa mi porto tanta adrenalina ora che devo prepararmi, e l’unica certezza che mi protegge da paure irrazionali è il pensiero che Michael mi ha invitato a questa festa e ha detto che gli avrebbe fatto piacere se ci fossi andata, punto.
Pedra ha cucito un abito splendido. Provare a descriverlo lo sminuisce perché è fatto per essere guardato, ma ci voglio provare comunque.
Una sottile corda dorata tiene uniti i due scampoli di tessuto che coprono il seno, fasciandolo, e si va ad ancorare dietro al collo, lasciando la porzione superiore della schiena scoperta.
Sul costato il tessuto riprende a fasciare il busto e la parte inferiore della schiena, scende aderente sui fianchi sottolineandone la rotondità, per andare a terminare libero ai piedi. Su entrambi i lati si aprono due immensi spacchi esattamente sulla linea del profilo che rendono agevoli i movimenti e rivelano la porzione laterale delle gambe ad ogni falcata del mio incedere.
Ai polsi numerosi bracciali africani in legno, impreziositi da filetti in bronzo frammisti qua e là al materiale meno nobile. In alto sulla linea della vita un cinturone in cuoio che riprende i sandali intessuti nello stesso elemento. Alle caviglie due cavigliere indiane ed ai lobi ampi anelli turchesi, come l’abito.
Porto i capelli raccolti in un fermaglio che amplifica la loro lunghezza. Un velo leggero di trucco.
Pedra dice che sono una visione.
Io non mi sono mai sentita così elegante in vita mia.
La ringrazio con un interminabile abbraccio umido di lacrime da entrambe le parti, le affido mio figlio che mi guarda andare via con gli occhi spalancati, quindi parto.
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Aug 29, 2003.
Ore 22:30
Mentre la mia vecchia jeep si fa strada fra Lamborghini, Mustang e Rolls Royce poste a formare una cornice di lusso lungo il vialetto, mi torna quel prepotente senso di insicurezza che più volte mi induce a pensare a quanto sarebbe meglio tornarsene a casa.
Alla fine, e non senza fatica, decido di finirla con tutta questa introspezione, che nella vita mi ha portato molto più spesso nella direzione dell’infelicità, e finalmente entro.
Oltre la porta si apre un ampio spazio ellissoidale di un bianco quasi fastidioso agli occhi, pochi mobili essenziali in stile rococò, alle pareti enormi dipinti raffiguranti varie figure mitologiche o scene tratte da antichi poemi fra cui posso riconoscere ‘Apollo al bagno con le ragazze’, una poco sobria fontanella canticchia al centro della sala e ad accentuare il già ben marcato stile neoclassico pacchianeggiante dell’architettura si erigono alcune colonne laterali, intagliate in uno dei tre stili architettonici ellenici, ora non saprei riconoscere quale.
Questo ambiente sostanzialmente freddo e decisamente troppo altisonante, appare ancor meno rassicurante una volta buttato l’occhio agli individui che lo popolano.
Ci saranno circa un centinaio di persone fra cui non riesco a scorgere nemmeno un volto ‘amico’. Mentre mi faccio strada fra paillettes, botox e vestiti firmati mi vengono lanciati sguardi morbosi ed inquisitori, accompagnati quasi sempre da commenti sottovoce nemmeno troppo celati.
Data la situazione direi che l’istinto è quello di darsela a gambe, anche perché il padrone di casa, vero motivo per cui mi trovo in questo museo delle cere, non si è nemmeno degnato di venirmi a salutare o ricevere. Penso però che andarsene ora sarebbe prova di scarso carattere, quindi sfilo dal vassoio argentato che un pinguino sta trasportando coi palmi aperti, un bicchiere di qualcosa, presumo champagne, e lo tracanno in un solo sorso, bisognosa di scaldarmi i visceri paralizzati.
Mentre rivolta all’ampia terrazza che da sulla piscina inizio a pensare che comunque non posso rimanere a lungo in una simile situazione, sento una voce inconfondibile avvicinarsi.
Istantaneamente mi volto ed è lui.
Indossa una camicia bianca di seta coi primi tre bottoni slacciati, nessuna consueta maglietta bianca sotto, ai polsi due coppie di gemelli brillanti, jeans bianchi, stivaletti a punta borchiati in metallo.
I capelli sono sciolti e non seguono nessuna regola, a metà fra il liscio e il mosso, ricordo solo quell’effetto bagnato. E dimentico ogni cosa.
Sembra venire verso di me. Non è solo, con lui ci sono una donna ed un uomo che non ho mai visto.
Non so esattamente come comportarmi, quindi decido per un sorriso a trentacinque denti, il resto verrà da sé. Mentre guardo quella figura celestiale avvicinarsi mi ritorna in mente la figuraccia di qualche giorno prima, in cui ho ridotto da buttare una camicia simile a quella, e penso a quanti altri scenari vorrei per noi, ai discorsi, come quello della sera prima, alle risate, ai confronti diretti o ai silenzi, penso al senso di incompletezza di ora e al senso di appagamento di ieri nell’averlo semplicemente seduto accanto, a quanta paura e tristezza nei suoi occhi, a quanto profondamente è riuscito a leggere nei miei, penso a lui, insomma.
-Buonasera miss Ferrari- esordisce pomposo e formale senza che i suoi occhi mi possano rivelare di più, mentre i due con cui stava parlando non si spostano di un centimetro.
-Buonasera Mr Jackson- rispondo quasi divertita da questo strano gioco.
-Sono lieto che sia passata, spero che abbia una buona serata- risponde freddamente e, congedandomi con un sorriso di circostanza e gli occhi vitrei, si allontana con gli interlocutori di prima, senza per altro presentarmi a chicchessia.
Mi sento una completa cretina fuori luogo.
La delusione mi pervade beffarda come un veleno oleoso, lentamente ma inesorabilmente dentro alle vene. E’ così densa e viscosa questa sensazione da rendermi prigioniera del mio stesso corpo, poiché sono assolutamente paralizzata. A questo pesante fardello bisogna anche aggiungere la rabbia verso di lui per essere stato così meschino, e verso di me, che come una stupida ragazzina illusa ho lasciato che la mia mente venisse condita da false lusinghe rendendomi vulnerabile, ancora una volta.
Non più intenzionata a sopportare la situazione mi avvio alla porta più velocemente possibile, quando sento una mano che mi afferra il polso dove io non ho campo visivo.
-Andrea! Ci sei anche tu? Che bello!- La voce squillante di Grace mi giunge da dietro imponendomi di fermarmi.
-Si..ciao Grace, effettivamente ci sono anch’io..ma ancora per poco, stavo per andare..- rispondo sbrigativa
-No dai non andare così presto, sei la prima faccia amica che vedo in quasi un’ora che sono qui..beviamoci una cosa e spettegoliamo dietro a questi snob..- mi propone complice
-Bè ma io..avrei mal di testa e..- cerco di abbozzare una scusa pietosa mentre Grace mi ha già preso sotto braccio e trascinato lontano dalla mia meta.
-Ci può fare due Malibu?- chiede al barista –Allora,ma guarda che bel vestito..ti dona. Anche tu costretta a sorbirti questa noia micidiale?-
-Si, grazie è il regalo di un’amica.. in realtà non dovevo venire..-
-Oh nemmeno io, lo dico tutti gli anni, ma poi lo faccio per Michael, mi dice sempre che odia stare con questi manichini tutta la sera e che ogni tanto gli piace l’idea di prendere una boccata d’aria..- mi spiega
-Bè, a giudicare da come lo vedo ora non si direbbe proprio che si stia annoiando..- dico con tono sarcastico mentre lo vedo brindare con una versione caricaturale di Marilyn Monroe dall’ampia scollatura.
-Oh, credo lo faccia più per una questione di forma che di sostanza- mi dice col tono di una che la sa lunga.
-Sarà, ma se non amo una cosa in genere non la faccio, soprattutto se è il mio compleanno- alludo.
-Lo so, ma sai Michael è un uomo molto particolare-
-Oh direi piuttosto che appartiene alla comune specie degli stronzi, da cui si salvano ben pochi per non dire nessuno- vorrei dirlo ma fortunatamente mi trattengo.
-Ascolta volevo chiederti una cosa- mi dice -Uno di questi giorni porterò i bambini al mare perché si sono stufati di stare sempre in piscina, ti andrebbe di accompagnarmi? Ci divertiremo..-
-Io però alle sei devo riprendere a lavorare, sai l’orario estivo..- spiego
-Oh certo, saremo sicuramente a casa per quell’ora- mi rassicura
-Posso portare anche mio figlio?-
-Non sapevo che avessi un figlio.., ma certo, faranno amicizia!- sembra entusiasta.
A parte lo spiacevole comportamento del mio datore di lavoro (che, con ogni probabilità avevo idealizzato ingenuamente), la serata sembra scorrere piacevole, la compagnia di Grace e qualche cocktail colorato fanno la loro parte, unitamente ad un insolito Wayne che mi saluta cordialmente e mi chiede addirittura di ballare dopo aver fatto roteare un po’ Grace sulle note di ‘Jail house rock’ di Elvis.
-Non sapevo fossi anche un ballerino oltre all’energumeno di Mr Jackson- avanzo in un passo a due sulle note di ‘only you’ dei Platters e lo prendo un po’ in giro, anche per stemperare la tensione che sembrava essersi creata fra noi il giorno prima.
-Bè bisogna saper fare un po’ di tutto di questi tempi- mi risponde stando al gioco.
-Compreso dilettare gli annoiati?- chiedo velenosa
-Se necessario- risponde sicuro dall’alto del suo metro e novantacinque –Volevo anche approfittarne per chiederti di scusarci se siamo un po’..rudi ogni tanto, non c’è nulla di personale, ma per il nostro lavoro..-
-Nessun problema, lo so- gli faccio capire che è tutto a posto.
-Vorrei darti un consiglio Andrea- l’espressione si fa più seria –Nel tuo interesse, esclusivamente nel tuo interesse, e credimi, io non ci guadagno nulla dicendoti questo: finchè il tuo rapporto con chi sai tu resta lavorativo sarà sempre tutto ok, se vai oltre inizieranno i problemi. Credimi, lo dico perché sei una brava persona, so che magari dopo certi atteggiamenti uno si aspetta che..-
-Ma cosa dici? Non c’è niente che..- lo interrompo quasi infastidita, ma lui mi precede
-Fammi finire. Ho visto come ti ha abbracciata ieri sera. Ma ho visto anche troppa sofferenza in questi anni. Troppa sofferenza intorno a lui. Non farti coinvolgere, ti farai solo del male- Mi guarda glaciale e comprensivo allo stesso tempo, spiacente di avermi dato quel monito che ha sbriciolato ogni lume di sorpresa nei miei occhi. Sono fredda, dentro e fuori. Ricoperta da un’onta inconscia, che mi ha fatto sognare per decine di istanti qualcosa che non ho mai avuto realmente e che, ora so, non mi apparterrà mai.
-Sei una bellissima ragazza Andrea, puoi avere tutti gli uomini che desideri-
-Grazie Wayne, non c’è bisogno di fare questi complimenti, non c’è alcuna pillola che mi devi addolcire- cerco invano di apparire distaccata rispetto all’argomento per non fare la figura della cretina anche con gli altri oltre che con me stessa.
-Questo non l’ho detto per addolcirti alcuna pillola. Sei bella davvero- così dicendo mi sfila il fermaglio a forma di pesce lasciando i lunghi capelli piovere giù, lungo la schiena scoperta per metà e passandosene una ciocca fra le dita per lisciarla. Prima che io possa replicare alcunché aggiunge:
-Ora preparati per il gran finale- mi fa così compiere due rapidissime rotazioni su me stessa, poi mi lascia e mi riprende al limite del pavimento dopo il caschè rituale.
Appena torno in posizione verticale mi accorgo che siamo al centro di un cerchio umano creatosi presumo per osservarci. Parte anche un applauso. Ed in mezzo al trambusto lo vedo in piedi, a pochi metri da me in linea d’aria ma a mille chilometri ormai. Mi fissa senza sosta con uno sguardo che non so decifrare. Poi prende dal taschino della camicia un paio di occhiali scuri e li infila.
Buio.
NELLA TESTA DI MICHAEL
Stasera è stupenda. Quell’abito magnifico non fa che accentuare le forme così armoniose di quel corpo che inizia ad essere parte integrante dei miei pensieri, da un mese a questa parte ormai.
Per tutto il tempo della preparazione della festa non ho fatto che immaginare come sarebbe stato rivederla, poterle parlare e poter ascoltare quei dolci pensieri che le escono così liberi dalla mente.
E anche stasera nell’avvicinarmi ho sentito che la limpidezza di quegli occhi non mi ha deluso, e mi ha detto che era felice di vedermi.
Ma io sono stato orribile. Orribile schiavo del pensiero altrui, che bene o male mi perseguiterà sempre, ma anche di me stesso, così incapace di reagire alle illazioni ed alle imposizioni.
Un cumulo di spazzatura, ecco cosa sono. Alcune persone mi venerano, ma se davvero sapessero.
Io che vado predicando l’amore in ogni cosa sono il primo che non ascolta il cuore, anzi lo vesso sotterrandolo in profonde trincee ogni volta che lui inizia a battere e cerca disperatamente di esprimersi.
Ora la guardo impotente mentre balla con Wayne. Che cosa darei per esserci io lì e stringerla fra le braccia, per sentire il profumo di quei capelli immensi, per scordarmi di tutto, di nuovo.
Invece mi detesta, ne sono sicuro, per come l’ho trattata. Come biasimarla.
Un leggero vento, l’ampio spacco del vestito si apre di più e lascia intravedere il profilo delle sue gambe. Parlano fitto lei e Wayne. Chissà cosa si staranno dicendo. Lui le toglie il fermaglio e le liscia una ciocca.
C’è una certa intimità.
Dio dammi la forza.
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Direi che con il ballo estemporaneo e rivelatore che ho appena fatto la serata può davvero concludersi.
Saluto e ringrazio Grace e Wayne che, malgrado tutto, mi hanno reso le cose decisamente più semplici rispetto a come si erano messe, e lascio detto di porgere i miei saluti e ringraziamenti anche al festeggiato, che al momento non si trova.
Evitando pensieri acidi e maliziosi sul dove potrebbe trovarsi, mi dirigo al punto del vialetto nel quale ho lasciato la macchina, concludendo che comunque certe cose meglio averle troncate sul nascere.
La auto-ramanzina per essermi lasciata andare a certi pensieri imbecilli la rimando a dopo, quando sarò arrivata a casa.
-Hai dimenticato qualcosa credo- una voce inconfondibile nel buio. Mi volto di scatto.
Michael si fa avanti porgendomi qualcosa. E’ freddo nella voce e nell’espressione.
E’ il fermaglio che Wayne mi ha sfilato prima.
-Si, grazie- lo afferro e mi volto per andarmene, con il cuore che sta per esplodere.
-Non mi pare molto educato il fatto di andarsene senza nemmeno salutare- afferma provocatorio e seccato
-Arrivederci Mr Jackson- affermo tagliente.
Sento che la collera uscirà da me come lava da un vulcano se non la smette.
-Ora che fai, riprendi a darmi del lei? Eppure ho visto che con il mio staff hai bandito ogni formalismo- afferma alludendo al fermaglio.
Sa perfettamente che la detonazione è vicina e sembra quasi che la desideri.
E io lo accontento, è lui il capo, no?
-Senti Mr Michael Jackson, io non so a che gioco stai giocando e nemmeno lo voglio sapere, non so cosa ti dia il diritto di trattare con le persone come se fossero in completa balia dei tuoi voleri. Forse il fatto che le paghi profumatamente, oppure il fatto di aver venduto quattro dischi ti ha dato alla testa e pensi di essere veramente un re con una vera e propria corte al seguito.
Gli altri che te lo permettono, ma con me non funziona.
-Quattro dischi..?? Anche questo no però eh..- ha gli occhi fuori dalle orbite e cerca di interrompermi, ma non gli lascio il tempo
-Devo informarti che la monarchia nella società contemporanea non ha più alcun valore istituzionale, quindi ti consiglierei di continuare con la carriera del cantante, perché è più remunerativa.
E un’altra cosa: quando si parla con le persone ci si toglie gli occhiali, è per quella cosa..com’è che si chiama..ah si :educazione!- ecco l’esplosione che non ho saputo controllare.
Probabilmente ho anche perso il lavoro, ma almeno gli ho detto quello che penso.
Si toglie gli occhiali e li aggancia alla camicia. Sotto le lenti uno sguardo mortificato. Ma non demorde.
-E a te cosa da il diritto di parlarmi così? Ti ho forse offesa in qualche modo?- cerca di rialzarsi
-Si, mi hai offesa in qualche modo-
-Ah si?! Non mi risulta proprio..-
-Per esempio invitandomi alla tua festa per poi farmi sentire una completa cretina inadeguata, che se non fosse stato per Grace e Wayne sarei rimasta lì a sembrare ancora più inadeguata e cretina in mezzo a quel branco di sanguisughe travestite da persone eleganti. Ah! E a proposito di Wayne, complimenti per il coraggio, certe cose potevi anche dirmele tu, senza mandarmele a dire da uno dei tuoi gorilla!- ecco, ho detto proprio tutto ora.
-Che cosa ti ha detto Wayne- ora lo sguardo si è acceso.
-Sono stanca, io vado. Lo sai benissimo cosa mi ha detto..-
-Per favore dimmi cosa ti ha detto Wayne- mi afferra un braccio saldamente per paura che me ne vada
-Per favore lasciami il braccio..M..- faccio per divincolarmi ma lui aumenta la stretta. E’ furioso ma a differenza mia mantiene il controllo perfettamente, almeno, credo.
-Voglio solo sapere cosa ti ha detto, poi ti lascio andare dove vuoi- il tono si addolcisce e gli occhi sono lucidi, imploranti ma travestiti di orgoglio.
-Mi ha detto di starti lontano, che starti vicino comporta solo sofferenza- ammetto con tono grave
-Ha ragione. Ma non gli ho detto io di dirtelo-
-Ma non l’ho voluto io, tutto questo..io sono qui per lavorare..io..- mi trema la voce e la rabbia sta per trasformarsi in un pianto nervoso, ultimo sfogo di tutta la tensione.
Mi tira a sé molto più velocemente di quanto potrebbe essere qualsiasi mia azione successiva. La mano che ha utilizzato per stringermi il braccio ora è passata dietro alla mia schiena e l’altra si insinua sotto alla mandibola, avvicinandomi al suo viso. Accosta la sua guancia alla mia, come aveva fatto ieri sera, e mi sussurra piano nell’orecchio:
-Ti prego non andartene..non andare via- la voce è solo un soffio, ma è graffiato dall’agitazione, lo sento.
E’ accaldato, lo avverto dalla vicinanza dei nostri visi che sono rimasti immobili uno appoggiato all’altro.
-Perdonami Andrea, anche per questo, ma io non riesco più a fingere-
Scosta il volto dal mio ma non si allontana affatto, si posiziona semplicemente di fronte a me, coi nasi che si toccano. Inutile dire che io sono completamente paralizzata.
Indugia un poco mettendo i suoi occhi nei miei. C’è una luce diversa da prima.
La mia immobilità gli da le forze per azzerare la distanza fra le nostre labbra.
Sento i miei occhi chiudersi. La morbidezza vellutata di quelle labbra si fonde con il desiderio che ho di averle, un desiderio lungo una vita.
La stretta dietro alla schiena si intensifica facendo aderire perfettamente i nostri corpi in piedi sul vialetto. La mano che mi teneva il volto passa più indietro e scivola fra i capelli, si apre per sentirli scorrere negli spazi fra le dita. Le labbra rimangono saldamente unite per diversi istanti, mi posano diversi piccoli ed intensi baci che vengono ricambiati, ma non si dischiudono, perché questo è solo un assaggio, un assaggio in grado di farmi fermare il cuore, ma pur sempre un assaggio.
Gli poso entrambe le braccia sulle spalle e le allaccio dietro al collo per permettere all’abbraccio di essere totale ed a me di essere completa.
-Vieni, voglio portarti in un posto dove nessuno ci può vedere, ho bisogno di stare con te- sussurra con una voce bassissima
Posso concedermi solo un lungo respiro a pieni polmoni che mi conferma, a questo punto, che è troppo tardi per uscirne, qualunque cosa sia.
-Pedraaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!- Esordisco così in casa della mia pazientissima amica per raccontarle di tutto ciò che è accaduto stasera.
Ha uno sguardo quasi materno quando mi ascolta. Lei è un’amica con la A maiuscola, sempre disposta a darmi una mano sia pratica che psicologica.
E anche questa volta confido fermamente nel fatto che mi tirerà fuori dai guai.
Si, perché stavolta sono in guai seri: sono stata invitata ad un party a casa di Michael –non riesco più a considerarlo per il celeberrimo artista scala classifiche che è, né per l’impero che possiede, ma solo per la persona gentile che offre passaggi nella notte e che si rapporta a mio figlio come se gli volesse bene davvero- e non ho assolutamente nulla di adeguato o anche solo di dignitoso da poter indossare.
Del resto sono qui da appena un mese e posso garantire che in Africa non sono mai serviti abiti da sera o gioielli. Lì era sufficiente la voglia di lavorare e di mettersi in discussione, ogni giorno.
-Pedra dimmi come faccio, ho 24 ore per trovare qualcosa da mettere. Ci saranno persone ricchissime ed elegantissime, la crème de la crème, ed il vestito più bello che possiedo è questo- Affermo con tono desolato indicando l’abitino che ho usato oggi per andare ad Hollywood.
-Ma cara, domani potremmo andare a cercare qualcosa al negozio che c’è in centro, vedrai che avranno sicuramente qualcosa che fa al caso tuo. Tu sei bella, ti sta bene tutto- Com’è carina.
-No, non posso, ho usato l’anticipo che mi hanno dato per pagare l’affitto di questo mese, non posso spendere altri soldi per qualcosa che fra l’altro indosserò solo una volta!- Sono a terra.
Non posso nemmeno permettermi di chiedere un anticipo a lei, pover’anima, vive da sola con due bimbi piccoli e percepisce un terzo del salario del marito che faceva il pescatore, prima di morire tre anni fa.
Anche lei ora sembra affranta, come se il problema fosse il suo. La dolcezza di questa donna mi commuove.
-Ecco cosa facciamo!- sembra illuminarsi improvvisamente –Domani mattina presto vado al negozio di stoffe indiane giù in fondo alla strada e ne prendo un paio di scampoli, poi ti cucio qualcosa di semplice. Sai, mi è già capitato di cucire, non sono una sarta, ma posso provare..-
Non la lascio finire che subito le corro incontro stringendola forte a me. E’ il mio angelo custode.
-Aspetta però..arrivo subito!- Corro a casa a rovistare fra le mie cose e, come ricordavo, conservo in un baule un telo di canapa intrecciata e colorata a mano dalle donne Masai. E’ intessuto finemente a maglia sottile ed è di un turchese cangiante con degli inserti dorati. E’ stato uno dei regali di addio all’Africa, anche se preferisco pensare che si sia trattato di un arrivederci. Sarà perfetto.
SANTA YNEZ, California. CASA MIA. Aug 29,2003
Ore 21:00
Oggi al lavoro il tempo sembrava non voler passare mai. E’ stata una lenta agonia emotiva che mi sbatteva da una parte all’altra, come se fossi stata la vela di una povera nave in balia della tempesta.
Si alternavano momenti di euforia impaziente, che mi rendevano protagonista di fantasie adolescenziali in cui, stretti in un voluttuoso abbraccio senza fine, io e l’uomo dal sorriso magnetico danzavamo con la musica de ‘il tempo delle mele’ con annesso bacio passionale alla fine, a momenti di totale mancanza di autostima, in cui mettevo in più occasioni addirittura in dubbio il fatto di andarci alla festa.
Una giornata terribile, che per fortuna è finita.
A casa mi porto tanta adrenalina ora che devo prepararmi, e l’unica certezza che mi protegge da paure irrazionali è il pensiero che Michael mi ha invitato a questa festa e ha detto che gli avrebbe fatto piacere se ci fossi andata, punto.
Pedra ha cucito un abito splendido. Provare a descriverlo lo sminuisce perché è fatto per essere guardato, ma ci voglio provare comunque.
Una sottile corda dorata tiene uniti i due scampoli di tessuto che coprono il seno, fasciandolo, e si va ad ancorare dietro al collo, lasciando la porzione superiore della schiena scoperta.
Sul costato il tessuto riprende a fasciare il busto e la parte inferiore della schiena, scende aderente sui fianchi sottolineandone la rotondità, per andare a terminare libero ai piedi. Su entrambi i lati si aprono due immensi spacchi esattamente sulla linea del profilo che rendono agevoli i movimenti e rivelano la porzione laterale delle gambe ad ogni falcata del mio incedere.
Ai polsi numerosi bracciali africani in legno, impreziositi da filetti in bronzo frammisti qua e là al materiale meno nobile. In alto sulla linea della vita un cinturone in cuoio che riprende i sandali intessuti nello stesso elemento. Alle caviglie due cavigliere indiane ed ai lobi ampi anelli turchesi, come l’abito.
Porto i capelli raccolti in un fermaglio che amplifica la loro lunghezza. Un velo leggero di trucco.
Pedra dice che sono una visione.
Io non mi sono mai sentita così elegante in vita mia.
La ringrazio con un interminabile abbraccio umido di lacrime da entrambe le parti, le affido mio figlio che mi guarda andare via con gli occhi spalancati, quindi parto.
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Aug 29, 2003.
Ore 22:30
Mentre la mia vecchia jeep si fa strada fra Lamborghini, Mustang e Rolls Royce poste a formare una cornice di lusso lungo il vialetto, mi torna quel prepotente senso di insicurezza che più volte mi induce a pensare a quanto sarebbe meglio tornarsene a casa.
Alla fine, e non senza fatica, decido di finirla con tutta questa introspezione, che nella vita mi ha portato molto più spesso nella direzione dell’infelicità, e finalmente entro.
Oltre la porta si apre un ampio spazio ellissoidale di un bianco quasi fastidioso agli occhi, pochi mobili essenziali in stile rococò, alle pareti enormi dipinti raffiguranti varie figure mitologiche o scene tratte da antichi poemi fra cui posso riconoscere ‘Apollo al bagno con le ragazze’, una poco sobria fontanella canticchia al centro della sala e ad accentuare il già ben marcato stile neoclassico pacchianeggiante dell’architettura si erigono alcune colonne laterali, intagliate in uno dei tre stili architettonici ellenici, ora non saprei riconoscere quale.
Questo ambiente sostanzialmente freddo e decisamente troppo altisonante, appare ancor meno rassicurante una volta buttato l’occhio agli individui che lo popolano.
Ci saranno circa un centinaio di persone fra cui non riesco a scorgere nemmeno un volto ‘amico’. Mentre mi faccio strada fra paillettes, botox e vestiti firmati mi vengono lanciati sguardi morbosi ed inquisitori, accompagnati quasi sempre da commenti sottovoce nemmeno troppo celati.
Data la situazione direi che l’istinto è quello di darsela a gambe, anche perché il padrone di casa, vero motivo per cui mi trovo in questo museo delle cere, non si è nemmeno degnato di venirmi a salutare o ricevere. Penso però che andarsene ora sarebbe prova di scarso carattere, quindi sfilo dal vassoio argentato che un pinguino sta trasportando coi palmi aperti, un bicchiere di qualcosa, presumo champagne, e lo tracanno in un solo sorso, bisognosa di scaldarmi i visceri paralizzati.
Mentre rivolta all’ampia terrazza che da sulla piscina inizio a pensare che comunque non posso rimanere a lungo in una simile situazione, sento una voce inconfondibile avvicinarsi.
Istantaneamente mi volto ed è lui.
Indossa una camicia bianca di seta coi primi tre bottoni slacciati, nessuna consueta maglietta bianca sotto, ai polsi due coppie di gemelli brillanti, jeans bianchi, stivaletti a punta borchiati in metallo.
I capelli sono sciolti e non seguono nessuna regola, a metà fra il liscio e il mosso, ricordo solo quell’effetto bagnato. E dimentico ogni cosa.
Sembra venire verso di me. Non è solo, con lui ci sono una donna ed un uomo che non ho mai visto.
Non so esattamente come comportarmi, quindi decido per un sorriso a trentacinque denti, il resto verrà da sé. Mentre guardo quella figura celestiale avvicinarsi mi ritorna in mente la figuraccia di qualche giorno prima, in cui ho ridotto da buttare una camicia simile a quella, e penso a quanti altri scenari vorrei per noi, ai discorsi, come quello della sera prima, alle risate, ai confronti diretti o ai silenzi, penso al senso di incompletezza di ora e al senso di appagamento di ieri nell’averlo semplicemente seduto accanto, a quanta paura e tristezza nei suoi occhi, a quanto profondamente è riuscito a leggere nei miei, penso a lui, insomma.
-Buonasera miss Ferrari- esordisce pomposo e formale senza che i suoi occhi mi possano rivelare di più, mentre i due con cui stava parlando non si spostano di un centimetro.
-Buonasera Mr Jackson- rispondo quasi divertita da questo strano gioco.
-Sono lieto che sia passata, spero che abbia una buona serata- risponde freddamente e, congedandomi con un sorriso di circostanza e gli occhi vitrei, si allontana con gli interlocutori di prima, senza per altro presentarmi a chicchessia.
Mi sento una completa cretina fuori luogo.
La delusione mi pervade beffarda come un veleno oleoso, lentamente ma inesorabilmente dentro alle vene. E’ così densa e viscosa questa sensazione da rendermi prigioniera del mio stesso corpo, poiché sono assolutamente paralizzata. A questo pesante fardello bisogna anche aggiungere la rabbia verso di lui per essere stato così meschino, e verso di me, che come una stupida ragazzina illusa ho lasciato che la mia mente venisse condita da false lusinghe rendendomi vulnerabile, ancora una volta.
Non più intenzionata a sopportare la situazione mi avvio alla porta più velocemente possibile, quando sento una mano che mi afferra il polso dove io non ho campo visivo.
-Andrea! Ci sei anche tu? Che bello!- La voce squillante di Grace mi giunge da dietro imponendomi di fermarmi.
-Si..ciao Grace, effettivamente ci sono anch’io..ma ancora per poco, stavo per andare..- rispondo sbrigativa
-No dai non andare così presto, sei la prima faccia amica che vedo in quasi un’ora che sono qui..beviamoci una cosa e spettegoliamo dietro a questi snob..- mi propone complice
-Bè ma io..avrei mal di testa e..- cerco di abbozzare una scusa pietosa mentre Grace mi ha già preso sotto braccio e trascinato lontano dalla mia meta.
-Ci può fare due Malibu?- chiede al barista –Allora,ma guarda che bel vestito..ti dona. Anche tu costretta a sorbirti questa noia micidiale?-
-Si, grazie è il regalo di un’amica.. in realtà non dovevo venire..-
-Oh nemmeno io, lo dico tutti gli anni, ma poi lo faccio per Michael, mi dice sempre che odia stare con questi manichini tutta la sera e che ogni tanto gli piace l’idea di prendere una boccata d’aria..- mi spiega
-Bè, a giudicare da come lo vedo ora non si direbbe proprio che si stia annoiando..- dico con tono sarcastico mentre lo vedo brindare con una versione caricaturale di Marilyn Monroe dall’ampia scollatura.
-Oh, credo lo faccia più per una questione di forma che di sostanza- mi dice col tono di una che la sa lunga.
-Sarà, ma se non amo una cosa in genere non la faccio, soprattutto se è il mio compleanno- alludo.
-Lo so, ma sai Michael è un uomo molto particolare-
-Oh direi piuttosto che appartiene alla comune specie degli stronzi, da cui si salvano ben pochi per non dire nessuno- vorrei dirlo ma fortunatamente mi trattengo.
-Ascolta volevo chiederti una cosa- mi dice -Uno di questi giorni porterò i bambini al mare perché si sono stufati di stare sempre in piscina, ti andrebbe di accompagnarmi? Ci divertiremo..-
-Io però alle sei devo riprendere a lavorare, sai l’orario estivo..- spiego
-Oh certo, saremo sicuramente a casa per quell’ora- mi rassicura
-Posso portare anche mio figlio?-
-Non sapevo che avessi un figlio.., ma certo, faranno amicizia!- sembra entusiasta.
A parte lo spiacevole comportamento del mio datore di lavoro (che, con ogni probabilità avevo idealizzato ingenuamente), la serata sembra scorrere piacevole, la compagnia di Grace e qualche cocktail colorato fanno la loro parte, unitamente ad un insolito Wayne che mi saluta cordialmente e mi chiede addirittura di ballare dopo aver fatto roteare un po’ Grace sulle note di ‘Jail house rock’ di Elvis.
-Non sapevo fossi anche un ballerino oltre all’energumeno di Mr Jackson- avanzo in un passo a due sulle note di ‘only you’ dei Platters e lo prendo un po’ in giro, anche per stemperare la tensione che sembrava essersi creata fra noi il giorno prima.
-Bè bisogna saper fare un po’ di tutto di questi tempi- mi risponde stando al gioco.
-Compreso dilettare gli annoiati?- chiedo velenosa
-Se necessario- risponde sicuro dall’alto del suo metro e novantacinque –Volevo anche approfittarne per chiederti di scusarci se siamo un po’..rudi ogni tanto, non c’è nulla di personale, ma per il nostro lavoro..-
-Nessun problema, lo so- gli faccio capire che è tutto a posto.
-Vorrei darti un consiglio Andrea- l’espressione si fa più seria –Nel tuo interesse, esclusivamente nel tuo interesse, e credimi, io non ci guadagno nulla dicendoti questo: finchè il tuo rapporto con chi sai tu resta lavorativo sarà sempre tutto ok, se vai oltre inizieranno i problemi. Credimi, lo dico perché sei una brava persona, so che magari dopo certi atteggiamenti uno si aspetta che..-
-Ma cosa dici? Non c’è niente che..- lo interrompo quasi infastidita, ma lui mi precede
-Fammi finire. Ho visto come ti ha abbracciata ieri sera. Ma ho visto anche troppa sofferenza in questi anni. Troppa sofferenza intorno a lui. Non farti coinvolgere, ti farai solo del male- Mi guarda glaciale e comprensivo allo stesso tempo, spiacente di avermi dato quel monito che ha sbriciolato ogni lume di sorpresa nei miei occhi. Sono fredda, dentro e fuori. Ricoperta da un’onta inconscia, che mi ha fatto sognare per decine di istanti qualcosa che non ho mai avuto realmente e che, ora so, non mi apparterrà mai.
-Sei una bellissima ragazza Andrea, puoi avere tutti gli uomini che desideri-
-Grazie Wayne, non c’è bisogno di fare questi complimenti, non c’è alcuna pillola che mi devi addolcire- cerco invano di apparire distaccata rispetto all’argomento per non fare la figura della cretina anche con gli altri oltre che con me stessa.
-Questo non l’ho detto per addolcirti alcuna pillola. Sei bella davvero- così dicendo mi sfila il fermaglio a forma di pesce lasciando i lunghi capelli piovere giù, lungo la schiena scoperta per metà e passandosene una ciocca fra le dita per lisciarla. Prima che io possa replicare alcunché aggiunge:
-Ora preparati per il gran finale- mi fa così compiere due rapidissime rotazioni su me stessa, poi mi lascia e mi riprende al limite del pavimento dopo il caschè rituale.
Appena torno in posizione verticale mi accorgo che siamo al centro di un cerchio umano creatosi presumo per osservarci. Parte anche un applauso. Ed in mezzo al trambusto lo vedo in piedi, a pochi metri da me in linea d’aria ma a mille chilometri ormai. Mi fissa senza sosta con uno sguardo che non so decifrare. Poi prende dal taschino della camicia un paio di occhiali scuri e li infila.
Buio.
NELLA TESTA DI MICHAEL
Stasera è stupenda. Quell’abito magnifico non fa che accentuare le forme così armoniose di quel corpo che inizia ad essere parte integrante dei miei pensieri, da un mese a questa parte ormai.
Per tutto il tempo della preparazione della festa non ho fatto che immaginare come sarebbe stato rivederla, poterle parlare e poter ascoltare quei dolci pensieri che le escono così liberi dalla mente.
E anche stasera nell’avvicinarmi ho sentito che la limpidezza di quegli occhi non mi ha deluso, e mi ha detto che era felice di vedermi.
Ma io sono stato orribile. Orribile schiavo del pensiero altrui, che bene o male mi perseguiterà sempre, ma anche di me stesso, così incapace di reagire alle illazioni ed alle imposizioni.
Un cumulo di spazzatura, ecco cosa sono. Alcune persone mi venerano, ma se davvero sapessero.
Io che vado predicando l’amore in ogni cosa sono il primo che non ascolta il cuore, anzi lo vesso sotterrandolo in profonde trincee ogni volta che lui inizia a battere e cerca disperatamente di esprimersi.
Ora la guardo impotente mentre balla con Wayne. Che cosa darei per esserci io lì e stringerla fra le braccia, per sentire il profumo di quei capelli immensi, per scordarmi di tutto, di nuovo.
Invece mi detesta, ne sono sicuro, per come l’ho trattata. Come biasimarla.
Un leggero vento, l’ampio spacco del vestito si apre di più e lascia intravedere il profilo delle sue gambe. Parlano fitto lei e Wayne. Chissà cosa si staranno dicendo. Lui le toglie il fermaglio e le liscia una ciocca.
C’è una certa intimità.
Dio dammi la forza.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Direi che con il ballo estemporaneo e rivelatore che ho appena fatto la serata può davvero concludersi.
Saluto e ringrazio Grace e Wayne che, malgrado tutto, mi hanno reso le cose decisamente più semplici rispetto a come si erano messe, e lascio detto di porgere i miei saluti e ringraziamenti anche al festeggiato, che al momento non si trova.
Evitando pensieri acidi e maliziosi sul dove potrebbe trovarsi, mi dirigo al punto del vialetto nel quale ho lasciato la macchina, concludendo che comunque certe cose meglio averle troncate sul nascere.
La auto-ramanzina per essermi lasciata andare a certi pensieri imbecilli la rimando a dopo, quando sarò arrivata a casa.
-Hai dimenticato qualcosa credo- una voce inconfondibile nel buio. Mi volto di scatto.
Michael si fa avanti porgendomi qualcosa. E’ freddo nella voce e nell’espressione.
E’ il fermaglio che Wayne mi ha sfilato prima.
-Si, grazie- lo afferro e mi volto per andarmene, con il cuore che sta per esplodere.
-Non mi pare molto educato il fatto di andarsene senza nemmeno salutare- afferma provocatorio e seccato
-Arrivederci Mr Jackson- affermo tagliente.
Sento che la collera uscirà da me come lava da un vulcano se non la smette.
-Ora che fai, riprendi a darmi del lei? Eppure ho visto che con il mio staff hai bandito ogni formalismo- afferma alludendo al fermaglio.
Sa perfettamente che la detonazione è vicina e sembra quasi che la desideri.
E io lo accontento, è lui il capo, no?
-Senti Mr Michael Jackson, io non so a che gioco stai giocando e nemmeno lo voglio sapere, non so cosa ti dia il diritto di trattare con le persone come se fossero in completa balia dei tuoi voleri. Forse il fatto che le paghi profumatamente, oppure il fatto di aver venduto quattro dischi ti ha dato alla testa e pensi di essere veramente un re con una vera e propria corte al seguito.
Gli altri che te lo permettono, ma con me non funziona.
-Quattro dischi..?? Anche questo no però eh..- ha gli occhi fuori dalle orbite e cerca di interrompermi, ma non gli lascio il tempo
-Devo informarti che la monarchia nella società contemporanea non ha più alcun valore istituzionale, quindi ti consiglierei di continuare con la carriera del cantante, perché è più remunerativa.
E un’altra cosa: quando si parla con le persone ci si toglie gli occhiali, è per quella cosa..com’è che si chiama..ah si :educazione!- ecco l’esplosione che non ho saputo controllare.
Probabilmente ho anche perso il lavoro, ma almeno gli ho detto quello che penso.
Si toglie gli occhiali e li aggancia alla camicia. Sotto le lenti uno sguardo mortificato. Ma non demorde.
-E a te cosa da il diritto di parlarmi così? Ti ho forse offesa in qualche modo?- cerca di rialzarsi
-Si, mi hai offesa in qualche modo-
-Ah si?! Non mi risulta proprio..-
-Per esempio invitandomi alla tua festa per poi farmi sentire una completa cretina inadeguata, che se non fosse stato per Grace e Wayne sarei rimasta lì a sembrare ancora più inadeguata e cretina in mezzo a quel branco di sanguisughe travestite da persone eleganti. Ah! E a proposito di Wayne, complimenti per il coraggio, certe cose potevi anche dirmele tu, senza mandarmele a dire da uno dei tuoi gorilla!- ecco, ho detto proprio tutto ora.
-Che cosa ti ha detto Wayne- ora lo sguardo si è acceso.
-Sono stanca, io vado. Lo sai benissimo cosa mi ha detto..-
-Per favore dimmi cosa ti ha detto Wayne- mi afferra un braccio saldamente per paura che me ne vada
-Per favore lasciami il braccio..M..- faccio per divincolarmi ma lui aumenta la stretta. E’ furioso ma a differenza mia mantiene il controllo perfettamente, almeno, credo.
-Voglio solo sapere cosa ti ha detto, poi ti lascio andare dove vuoi- il tono si addolcisce e gli occhi sono lucidi, imploranti ma travestiti di orgoglio.
-Mi ha detto di starti lontano, che starti vicino comporta solo sofferenza- ammetto con tono grave
-Ha ragione. Ma non gli ho detto io di dirtelo-
-Ma non l’ho voluto io, tutto questo..io sono qui per lavorare..io..- mi trema la voce e la rabbia sta per trasformarsi in un pianto nervoso, ultimo sfogo di tutta la tensione.
Mi tira a sé molto più velocemente di quanto potrebbe essere qualsiasi mia azione successiva. La mano che ha utilizzato per stringermi il braccio ora è passata dietro alla mia schiena e l’altra si insinua sotto alla mandibola, avvicinandomi al suo viso. Accosta la sua guancia alla mia, come aveva fatto ieri sera, e mi sussurra piano nell’orecchio:
-Ti prego non andartene..non andare via- la voce è solo un soffio, ma è graffiato dall’agitazione, lo sento.
E’ accaldato, lo avverto dalla vicinanza dei nostri visi che sono rimasti immobili uno appoggiato all’altro.
-Perdonami Andrea, anche per questo, ma io non riesco più a fingere-
Scosta il volto dal mio ma non si allontana affatto, si posiziona semplicemente di fronte a me, coi nasi che si toccano. Inutile dire che io sono completamente paralizzata.
Indugia un poco mettendo i suoi occhi nei miei. C’è una luce diversa da prima.
La mia immobilità gli da le forze per azzerare la distanza fra le nostre labbra.
Sento i miei occhi chiudersi. La morbidezza vellutata di quelle labbra si fonde con il desiderio che ho di averle, un desiderio lungo una vita.
La stretta dietro alla schiena si intensifica facendo aderire perfettamente i nostri corpi in piedi sul vialetto. La mano che mi teneva il volto passa più indietro e scivola fra i capelli, si apre per sentirli scorrere negli spazi fra le dita. Le labbra rimangono saldamente unite per diversi istanti, mi posano diversi piccoli ed intensi baci che vengono ricambiati, ma non si dischiudono, perché questo è solo un assaggio, un assaggio in grado di farmi fermare il cuore, ma pur sempre un assaggio.
Gli poso entrambe le braccia sulle spalle e le allaccio dietro al collo per permettere all’abbraccio di essere totale ed a me di essere completa.
-Vieni, voglio portarti in un posto dove nessuno ci può vedere, ho bisogno di stare con te- sussurra con una voce bassissima
Posso concedermi solo un lungo respiro a pieni polmoni che mi conferma, a questo punto, che è troppo tardi per uscirne, qualunque cosa sia.
marina56- Moderator
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Re: Il fantasma che si innamorò di un uomo
CAPITOLO 7-
Metti un piede qui, qui dove c’è la sporgenza, vedi?- la sua voce mi fa strada su un tronco nel buio. A giudicare dalla corteccia spessa ma dai motivi fini direi che si tratta di una grande quercia secolare; sale obliqua nel blu dell’oscurità per poi assottigliarsi in un certo quantitativo di rami che formano un tetro reticolato irradiato nel cielo di questa notte strana.
-Michael, dove sei?- mi accingo a domandare una volta giunta ad un grosso ramo che si allarga di parecchio, consentendomi una stabile posizione seduta. Nessuna risposta. Poi un fruscio fra i rami.
Una calda superficie si poggia sui miei occhi attenti a captare il più piccolo movimento nel buio. E’ la sua mano. Un sottile calore dietro al collo. E’ il suo respiro. Un bacio dietro all’orecchio. Una mano mi cinge la vita e ancora baci lungo la linea del collo fino alla spalla.
Il cuore mi batte in gola. Nella mia temporanea cecità riesco lo stesso a vedere tutti i colori delle sensazioni che sto provando, paura, eccitazione, incredulità, piacere, agonia. Forse è felicità.
-Questo è il mio nascondiglio segreto- sussurra piano, come se avesse paura che le foglie potessero udire, dopo essersi posizionato seduto davanti a me sul largo ramo con un agile movimento.
-Ci vieni spesso?- chiedo sottovoce
-Appena posso. Forse non dovrei dirtelo, ma ti ho osservata a lungo da qui-
-C-come?- Improvvisamente guardando giù mi accorgo di quanto siamo vicini alle gabbie e di quanto la visuale sia perfetta. Ora la strana sensazione che avevo inizia ad avere senso. Io lavoravo e lui mi guardava dall’albero. Mio Dio che imbarazzo!!
Mi guarda come se fosse pronto a ricevere una ramanzina, gli occhi aperti sormontati da sopracciglia ad arco sotto una fronte aggrottata. La stessa espressione di mio figlio quando ne ha combinata una delle sue.
Vorrei dire qualcosa ma mi viene solo da ridere. E rido di gusto a quella confessione così ingenua. Rido di me mentre mi sentivo osservata e mi davo della cretina e rido di lui che se ne stava qui appollaiato come una bertuccia a spiare una sconosciuta.
-Perché ridi?-
-Così- non riesco a fermarmi. E ride anche lui.
Con le gambe incrociate ci osserviamo nella notte con gli occhi come unici fari in un mare di tenebre.
-Sei bellissima stasera, ed io sono stato uno stronzo- l’espressione ed il tono sono sereni –Vorrei..-
-No Michael, non mi devi delle spiegazioni, io..-
-Ho bisogno che mi ascolti- mi interrompe deciso ma gentile –Ho bisogno di spiegarti quello che è successo, mi sento male altrimenti, per favore..-
-Ok- mi arrendo alla sua richiesta
- Non voglio che pensi che a me piaccia giocare con le persone Andrea, so di averti dato determinati segnali l’altra sera, così come so di essermi comportato in maniera opposta oggi. Voglio che tu sappia che non sono mai stato me stesso come ieri. Il viaggio in macchina, i nostri discorsi, i silenzi a cui mi hai abituato..è stato un momento favoloso, al di fuori del tempo e dello spazio che avrei voluto non finisse mai.
Poche volte mi sono sentito così libero. Stasera non ero libero fino al momento in cui ci siamo scontrati.
Non ero io quello Andrea, era quello che gli altri volevano vedere, era quello che hanno sempre voluto da me, non ero io- Il tono è pacato e non nasconde la sua dolcezza disarmante. Le parole di amara rassegnazione escono veloci dalle labbra che poco prima cercavano le mie.
-Michael vorrei chiederti scusa, io non conosco i tuoi problemi e ti ho vomitato addosso tutte quelle cose..non le penso tutte..-
-Bè sui dischi direi che è un fatto oggettivo..- tenta di scherzare, ma io sono seria.
-No Michael, io non ho la più pallida idea di come sia la tua vita, io non ho idea nemmeno di come possa essere la vita di una persona normale..ho passato anni senza quasi parlare con nessuno, rinchiusa in me stessa e nel piccolo mondo nella mia immaginazione, io..- sento che devo spiegarmi
-Lo so. E’ per questo che mi piaci Andrea. Anche se dire ‘mi piaci’ non è appropriato perché implicherebbe che ti ho ‘scelta’. E invece mi sono semplicemente ritrovato con la disarmante sensazione di essere vicino a qualcuno che da me non vuole niente. Se non me. Tu non hai niente a che fare con questo ambiente, ma neanche quasi con questo mondo. Sei un essere strano che comunica in un altro modo, che parla in un altro modo, che guarda, che MI guarda in un altro modo. Quando sono con te non devo dimostrare niente. Non devo essere diverso da quello che sono. Non devo soddisfare le tue aspettative.
Tu mi rendi più simile possibile al me stesso che non esce mai. Quasi nemmeno io lo conosco-
Non so perché ma ho capito, penso di aver compreso il significato di questa confessione disperata. Penso di aver capito che la doppia personalità che quest’uomo si è dovuto costruire nel tempo è il frutto dell’esigenza di autoconservazione e difesa che ognuno di noi ha.
Doversi mostrare diverso per nascondersi.
Dover fingere per scappare, ogni volta.
Fino a quanto è possibile vivere così?
-Con me puoi essere te stesso ogni volta che vuoi-
-Lo so. E’ per questo che ho deciso di smetterla con quella farsa stasera. Per non dare nell’occhio, per non far nascere sospetti e chissà per quali altre implicazioni stavo per ferirti, stavo per rinunciare a me per l’ennesima volta. Poi ti ho vista fra le braccia di Wayne e sono impazzito-
Mi viene da ridere a quest’ultima frase –Addirittura?- lo prendo in giro
-Si, sono impazzito- ride mentre lo dice, poi arrossisce - Ma è stato utile, perché ho capito-
-Capito cosa?- chiedo colta da un’agitazione che parte dallo stomaco e si annoda in gola
Sorride e si morde il labbro inferiore, poi guarda in basso e poi ancora me. Mi sto liquefacendo.
-Che non posso e non voglio resisterti. Che non rinuncerò a te, creatura strana-
Durante il lungo ed intenso gioco di sguardi che segue a questa audace rivelazione la mia mente malata inizia a produrre pensieri che non oso esplicitare in parole. Posso solo dire che le azioni che ne deriverebbero farebbero apparire il ramo su cui sediamo estremamente scomodo.
-Pensavo fossi più timido Mr Jackson- alludo maliziosa ormai completamente inebriata da lui
Ridacchia divertito o imbarazzato, non so, e poi – Anche io lo pensavo- con lo sguardo più sexy del pianeta
Gli sorrido.
Mi sorride di rimando e mi legge nella mente perché si avvicina di nuovo.
Ci incontriamo a metà strada perché non riesco a celare il desiderio di quello che sta per succedere.
E’ una fusione quella che avviene, una fusione di labbra che si cercano, lingue che si inseguono in un tocco prima incerto, poi deciso e consapevole, in una danza lenta e frenetica, un misto fra controllo e abbandono, fra gelo e fuoco, fra terra e cielo, fra tutto e niente. I pensieri faticano a prendere forma e rimangono cristallizzati nel limbo dell’anima mentre la voluttà acceca la lungimiranza e il desiderio regna indomito.
Desiderio di salvarlo e di essere salvata da quelle braccia, desiderio di lui.
Mi aggrappo in un sussulto quasi disperato a quelle spalle mentre due grandi mani mi stringono dietro la schiena e mi accarezzano compiendo maratone immaginarie dal collo ai fianchi, dove applicano sapientemente pressioni maggiori. Poi salgono sul viso mentre la bocca torna al collo e poi alle spalle e poi ancora al viso, dove non lesina umidi baci frenetici ed impazienti, in un via vai dissoluto e disperato al tempo stesso che non lascia spazio al respiro. Lo accarezzo sul viso, scorro sulla seta liscia della camicia per sentire il suo battito, il suo calore, mentre altre mani esplorano la stoffa lavorata del mio vestito, si insinuano nello spacco e si aprono a stella in una lenta agonia che prende il nome di carezza che si sposta lentamente dalle caviglie al punto più alto della coscia, senza osare oltre, come farebbe un ladro professionista che non strappa, non forza e non rompe, ma agisce solo dopo essere entrato in possesso della combinazione.
Parole indecifrabili sussurrate in quei percorsi, mentre le labbra che ritornano a cercarsi fanno da cornice al dolce oblio che si attua al loro interno, sempre più profondo, sempre più deciso.
Non so come sia morire ma credo di esserci molto vicina. La testa mi gira, il cuore mi scoppia, non so nemmeno se sto respirando ancora.
Un abbraccio lungo per riprendere fiato da quella dolce apnea e poi di nuovo da capo, in una lenta e silenziosa rarefazione ai confini della realtà.
Non posso esprimere a parole quello che provo, posso solo assaporare un profumo ed un sapore che non avevo mai sentito prima. I suoi.
-Come ti senti?- Mi sussurra piano nell’orecchio
-Sospesa fra il sonno e la veglia-
Si è posizionato dietro di me sul ramo, mi ha fatta sistemare fra le sue gambe divaricate e con le braccia mi avvolge, allacciando le mani all’altezza del mio ombelico. Cullata da una sdraio così calda e confortevole non posso fare a meno di socchiudere gli occhi e chiedermi se tutto quanto è successo è stato solo il prodotto della mia fantasia. E’ successo altre volte in passato di desiderare così tanto una cosa da farla accadere realmente nella mia immaginazione, potrebbe essere così anche ora.
-Vorrei che rimanessimo sempre così- ancora un alito di voce alla mia destra
-Così come?- rispondo alla domanda che penso di essermi posta da sola
-Sospesi, lontani da tutto, cullati da questa luna e liberi dal tempo- la dolce morsa che ho intorno alla vita si intensifica fino a farmi sentire una emanazione di quel corpo caldo che sento fremere ogni secondo di più.
-Buon Compleanno Michael- dico piano, ancora inebriata da quel profumo che ora si trova anche sulla mia pelle. Mi sfilo dalla moltitudine di intrecci che porto al braccio un filo di cuoio con appesa una piccola tartaruga intagliata nel legno e gliela lego attorno al polso.
Non posso vedere la sua espressione perché gli do le spalle, e ne sono sollevata, data la banale semplicità del regalo che gli ho appena fatto, anche se sento che saprà apprezzarlo a suo modo.
-Grazie..insieme a quello dei miei figli è il più bel regalo che ho ricevuto oggi- La voce gli trema
-E’ africano. Le donne Masai li lavorano e li vendono al mercato il giorno dopo. E’ un portafortuna sai-
-E’ davvero stupendo. Adoro l’artigianato e gli oggetti caratteristici di un luogo, grazie, davvero- sembra apprezzare sinceramente quel piccolo laccio. Con un gesto repentino sposta il viso e mi posa un lungo bacio sul collo, immergendo subito dopo il viso fra i miei capelli e inspirando profondamente.
-Mi parlerai dell’Africa Andrea? Mi parlerai di te un giorno?-
-Si-
-Tornerai qui sul mio albero ancora?-
-Si-
-Resterai a sentire il rumore del silenzio insieme a me quando non ci sarà nulla da dire?-
-Si-
Rimaniamo così, come naufraghi immersi in questo mare a tratti calmo, a tratti tempestoso, che non ci lascia il tempo di pensare ai come e ai perché.
Naufraghi da sempre, ora sappiamo di poter nuotare, di poterci immergere senza rimorso in quest’acqua calda di desiderio irrefrenabile ancora celato, oppure fredda di silenzio rumoroso che non può più essere interrotto.
«Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare»
(Giacomo Leopardi)
Metti un piede qui, qui dove c’è la sporgenza, vedi?- la sua voce mi fa strada su un tronco nel buio. A giudicare dalla corteccia spessa ma dai motivi fini direi che si tratta di una grande quercia secolare; sale obliqua nel blu dell’oscurità per poi assottigliarsi in un certo quantitativo di rami che formano un tetro reticolato irradiato nel cielo di questa notte strana.
-Michael, dove sei?- mi accingo a domandare una volta giunta ad un grosso ramo che si allarga di parecchio, consentendomi una stabile posizione seduta. Nessuna risposta. Poi un fruscio fra i rami.
Una calda superficie si poggia sui miei occhi attenti a captare il più piccolo movimento nel buio. E’ la sua mano. Un sottile calore dietro al collo. E’ il suo respiro. Un bacio dietro all’orecchio. Una mano mi cinge la vita e ancora baci lungo la linea del collo fino alla spalla.
Il cuore mi batte in gola. Nella mia temporanea cecità riesco lo stesso a vedere tutti i colori delle sensazioni che sto provando, paura, eccitazione, incredulità, piacere, agonia. Forse è felicità.
-Questo è il mio nascondiglio segreto- sussurra piano, come se avesse paura che le foglie potessero udire, dopo essersi posizionato seduto davanti a me sul largo ramo con un agile movimento.
-Ci vieni spesso?- chiedo sottovoce
-Appena posso. Forse non dovrei dirtelo, ma ti ho osservata a lungo da qui-
-C-come?- Improvvisamente guardando giù mi accorgo di quanto siamo vicini alle gabbie e di quanto la visuale sia perfetta. Ora la strana sensazione che avevo inizia ad avere senso. Io lavoravo e lui mi guardava dall’albero. Mio Dio che imbarazzo!!
Mi guarda come se fosse pronto a ricevere una ramanzina, gli occhi aperti sormontati da sopracciglia ad arco sotto una fronte aggrottata. La stessa espressione di mio figlio quando ne ha combinata una delle sue.
Vorrei dire qualcosa ma mi viene solo da ridere. E rido di gusto a quella confessione così ingenua. Rido di me mentre mi sentivo osservata e mi davo della cretina e rido di lui che se ne stava qui appollaiato come una bertuccia a spiare una sconosciuta.
-Perché ridi?-
-Così- non riesco a fermarmi. E ride anche lui.
Con le gambe incrociate ci osserviamo nella notte con gli occhi come unici fari in un mare di tenebre.
-Sei bellissima stasera, ed io sono stato uno stronzo- l’espressione ed il tono sono sereni –Vorrei..-
-No Michael, non mi devi delle spiegazioni, io..-
-Ho bisogno che mi ascolti- mi interrompe deciso ma gentile –Ho bisogno di spiegarti quello che è successo, mi sento male altrimenti, per favore..-
-Ok- mi arrendo alla sua richiesta
- Non voglio che pensi che a me piaccia giocare con le persone Andrea, so di averti dato determinati segnali l’altra sera, così come so di essermi comportato in maniera opposta oggi. Voglio che tu sappia che non sono mai stato me stesso come ieri. Il viaggio in macchina, i nostri discorsi, i silenzi a cui mi hai abituato..è stato un momento favoloso, al di fuori del tempo e dello spazio che avrei voluto non finisse mai.
Poche volte mi sono sentito così libero. Stasera non ero libero fino al momento in cui ci siamo scontrati.
Non ero io quello Andrea, era quello che gli altri volevano vedere, era quello che hanno sempre voluto da me, non ero io- Il tono è pacato e non nasconde la sua dolcezza disarmante. Le parole di amara rassegnazione escono veloci dalle labbra che poco prima cercavano le mie.
-Michael vorrei chiederti scusa, io non conosco i tuoi problemi e ti ho vomitato addosso tutte quelle cose..non le penso tutte..-
-Bè sui dischi direi che è un fatto oggettivo..- tenta di scherzare, ma io sono seria.
-No Michael, io non ho la più pallida idea di come sia la tua vita, io non ho idea nemmeno di come possa essere la vita di una persona normale..ho passato anni senza quasi parlare con nessuno, rinchiusa in me stessa e nel piccolo mondo nella mia immaginazione, io..- sento che devo spiegarmi
-Lo so. E’ per questo che mi piaci Andrea. Anche se dire ‘mi piaci’ non è appropriato perché implicherebbe che ti ho ‘scelta’. E invece mi sono semplicemente ritrovato con la disarmante sensazione di essere vicino a qualcuno che da me non vuole niente. Se non me. Tu non hai niente a che fare con questo ambiente, ma neanche quasi con questo mondo. Sei un essere strano che comunica in un altro modo, che parla in un altro modo, che guarda, che MI guarda in un altro modo. Quando sono con te non devo dimostrare niente. Non devo essere diverso da quello che sono. Non devo soddisfare le tue aspettative.
Tu mi rendi più simile possibile al me stesso che non esce mai. Quasi nemmeno io lo conosco-
Non so perché ma ho capito, penso di aver compreso il significato di questa confessione disperata. Penso di aver capito che la doppia personalità che quest’uomo si è dovuto costruire nel tempo è il frutto dell’esigenza di autoconservazione e difesa che ognuno di noi ha.
Doversi mostrare diverso per nascondersi.
Dover fingere per scappare, ogni volta.
Fino a quanto è possibile vivere così?
-Con me puoi essere te stesso ogni volta che vuoi-
-Lo so. E’ per questo che ho deciso di smetterla con quella farsa stasera. Per non dare nell’occhio, per non far nascere sospetti e chissà per quali altre implicazioni stavo per ferirti, stavo per rinunciare a me per l’ennesima volta. Poi ti ho vista fra le braccia di Wayne e sono impazzito-
Mi viene da ridere a quest’ultima frase –Addirittura?- lo prendo in giro
-Si, sono impazzito- ride mentre lo dice, poi arrossisce - Ma è stato utile, perché ho capito-
-Capito cosa?- chiedo colta da un’agitazione che parte dallo stomaco e si annoda in gola
Sorride e si morde il labbro inferiore, poi guarda in basso e poi ancora me. Mi sto liquefacendo.
-Che non posso e non voglio resisterti. Che non rinuncerò a te, creatura strana-
Durante il lungo ed intenso gioco di sguardi che segue a questa audace rivelazione la mia mente malata inizia a produrre pensieri che non oso esplicitare in parole. Posso solo dire che le azioni che ne deriverebbero farebbero apparire il ramo su cui sediamo estremamente scomodo.
-Pensavo fossi più timido Mr Jackson- alludo maliziosa ormai completamente inebriata da lui
Ridacchia divertito o imbarazzato, non so, e poi – Anche io lo pensavo- con lo sguardo più sexy del pianeta
Gli sorrido.
Mi sorride di rimando e mi legge nella mente perché si avvicina di nuovo.
Ci incontriamo a metà strada perché non riesco a celare il desiderio di quello che sta per succedere.
E’ una fusione quella che avviene, una fusione di labbra che si cercano, lingue che si inseguono in un tocco prima incerto, poi deciso e consapevole, in una danza lenta e frenetica, un misto fra controllo e abbandono, fra gelo e fuoco, fra terra e cielo, fra tutto e niente. I pensieri faticano a prendere forma e rimangono cristallizzati nel limbo dell’anima mentre la voluttà acceca la lungimiranza e il desiderio regna indomito.
Desiderio di salvarlo e di essere salvata da quelle braccia, desiderio di lui.
Mi aggrappo in un sussulto quasi disperato a quelle spalle mentre due grandi mani mi stringono dietro la schiena e mi accarezzano compiendo maratone immaginarie dal collo ai fianchi, dove applicano sapientemente pressioni maggiori. Poi salgono sul viso mentre la bocca torna al collo e poi alle spalle e poi ancora al viso, dove non lesina umidi baci frenetici ed impazienti, in un via vai dissoluto e disperato al tempo stesso che non lascia spazio al respiro. Lo accarezzo sul viso, scorro sulla seta liscia della camicia per sentire il suo battito, il suo calore, mentre altre mani esplorano la stoffa lavorata del mio vestito, si insinuano nello spacco e si aprono a stella in una lenta agonia che prende il nome di carezza che si sposta lentamente dalle caviglie al punto più alto della coscia, senza osare oltre, come farebbe un ladro professionista che non strappa, non forza e non rompe, ma agisce solo dopo essere entrato in possesso della combinazione.
Parole indecifrabili sussurrate in quei percorsi, mentre le labbra che ritornano a cercarsi fanno da cornice al dolce oblio che si attua al loro interno, sempre più profondo, sempre più deciso.
Non so come sia morire ma credo di esserci molto vicina. La testa mi gira, il cuore mi scoppia, non so nemmeno se sto respirando ancora.
Un abbraccio lungo per riprendere fiato da quella dolce apnea e poi di nuovo da capo, in una lenta e silenziosa rarefazione ai confini della realtà.
Non posso esprimere a parole quello che provo, posso solo assaporare un profumo ed un sapore che non avevo mai sentito prima. I suoi.
-Come ti senti?- Mi sussurra piano nell’orecchio
-Sospesa fra il sonno e la veglia-
Si è posizionato dietro di me sul ramo, mi ha fatta sistemare fra le sue gambe divaricate e con le braccia mi avvolge, allacciando le mani all’altezza del mio ombelico. Cullata da una sdraio così calda e confortevole non posso fare a meno di socchiudere gli occhi e chiedermi se tutto quanto è successo è stato solo il prodotto della mia fantasia. E’ successo altre volte in passato di desiderare così tanto una cosa da farla accadere realmente nella mia immaginazione, potrebbe essere così anche ora.
-Vorrei che rimanessimo sempre così- ancora un alito di voce alla mia destra
-Così come?- rispondo alla domanda che penso di essermi posta da sola
-Sospesi, lontani da tutto, cullati da questa luna e liberi dal tempo- la dolce morsa che ho intorno alla vita si intensifica fino a farmi sentire una emanazione di quel corpo caldo che sento fremere ogni secondo di più.
-Buon Compleanno Michael- dico piano, ancora inebriata da quel profumo che ora si trova anche sulla mia pelle. Mi sfilo dalla moltitudine di intrecci che porto al braccio un filo di cuoio con appesa una piccola tartaruga intagliata nel legno e gliela lego attorno al polso.
Non posso vedere la sua espressione perché gli do le spalle, e ne sono sollevata, data la banale semplicità del regalo che gli ho appena fatto, anche se sento che saprà apprezzarlo a suo modo.
-Grazie..insieme a quello dei miei figli è il più bel regalo che ho ricevuto oggi- La voce gli trema
-E’ africano. Le donne Masai li lavorano e li vendono al mercato il giorno dopo. E’ un portafortuna sai-
-E’ davvero stupendo. Adoro l’artigianato e gli oggetti caratteristici di un luogo, grazie, davvero- sembra apprezzare sinceramente quel piccolo laccio. Con un gesto repentino sposta il viso e mi posa un lungo bacio sul collo, immergendo subito dopo il viso fra i miei capelli e inspirando profondamente.
-Mi parlerai dell’Africa Andrea? Mi parlerai di te un giorno?-
-Si-
-Tornerai qui sul mio albero ancora?-
-Si-
-Resterai a sentire il rumore del silenzio insieme a me quando non ci sarà nulla da dire?-
-Si-
Rimaniamo così, come naufraghi immersi in questo mare a tratti calmo, a tratti tempestoso, che non ci lascia il tempo di pensare ai come e ai perché.
Naufraghi da sempre, ora sappiamo di poter nuotare, di poterci immergere senza rimorso in quest’acqua calda di desiderio irrefrenabile ancora celato, oppure fredda di silenzio rumoroso che non può più essere interrotto.
«Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare»
(Giacomo Leopardi)
marina56- Moderator
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Re: Il fantasma che si innamorò di un uomo
CAPITOLO 8
MALIBU, California -PARADISE COVE- Sep 19, 2003
Ore 15:00
In una borsa di stoffa colorata ho messo tutto il necessario per un caldo pomeriggio in spiaggia: asciugamani, crema solare, un bel libro ed ovviamente gli immancabili attrezzi da lavoro del mio Saty che, appena messo il piede sulla sabbia, non esita a mettersi all’opera nella costruzione di un’ambiziosissima fortezza con tanto di diga.
Grace arriva una decina di minuti dopo di me accompagnata da due mastodontici ‘turisti’ in camicia di lino che si posizionano sotto ad un ombrellone a pochi metri da noi. Uno di loro abbassa le lenti scure e mi permette di scorgere lo stesso viso severo e nel contempo comprensivo che risponde al nome di Wayne. Mi lancia un’occhiata di traverso ed inarca di poco i margini della bocca credo nell’intento di sorridere.
Ci sono due bimbi muniti di cappello con la visiera bassa sugli occhi che appena ci vedono ci corrono incontro, credo molto interessati al progetto architettonico di mio figlio, ed è incredibile vedere quanto per loro tutto sia semplice e naturale: si liberano dai pochi vestiti e senza troppi convenevoli si mettono subito all’opera seguendo le direttive del capo cantiere di alcuni anni più piccolo. In braccio a Grace c’è un fagotto avvolto da un telo bianco. Credo sia il piccolo Blanket che, avendo un anno al massimo, necessita di qualche attenzione in più prima di mettersi all’opera con gli altri tre.
I due grandi occhi scuri e profondi mi ricordano quelli di suo padre, hanno la stessa luce.
Mi sono persa varie volte in quell’abisso oscuro, per la precisione quasi ogni sera. Ho ancora la percezione della brezza sottile che arrivava puntuale alla sera, quando dopo aver lavorato senza sosta mi arrampicavo su quella quercia e mi lasciavo cullare dalle dolci attenzioni del suo unico abitante che mi attendeva lì, su quel ramo, sotto alla luna, quando c’era.
I ricordi vanno e vengono, dipende dallo stato d’animo e dal grado di attenzione, ma sono le sensazioni a lasciare una traccia indelebile, quasi sempre. Ed io ho ancora il suo profumo addosso, profumo di baci strappati all’oscurità, di carezze e sospiri soffocati in sussurri, di dolci lamenti sfuggiti al piacere che, troppo ingente e copioso, metteva a repentaglio l’autocontrollo, nelle sue varie modalità.
Riesco ancora a sentire il battito di quel cuore in fiamme che faceva sussultare impietoso anche il mio, che, sfiancato e ridotto ad un elemento ormai inutile perché svuotato dal troppo dare, giaceva esausto alla base del petto in un rantolo affannoso e soffocato da qualche periodico ed isolato spasmo. Ho ancora nelle orecchie la sua voce calda, che dopo ogni momento di voluttà rubato agli dei mi sfiorava, e i discorsi, e le confessioni, ed i confronti, e gli infiniti silenzi.
Ma non si può sfuggire a Cronos e a tutti gli altri dei in eterno.
Non si può sfuggire alla realtà. O forse non si riesce ad accettare che anche una cosa bella possa farne parte. E allora meglio fuggire.
Così una sera di dieci giorni fa sull’albero non ho trovato nessuno.
Non ho nemmeno aspettato, perché un’assenza non annunciata o giustificata non lascia mai spazio all’illusione, almeno per me. E poi dopo aver sofferto tanto negli anni mi è rimasta la consapevolezza del fatto che una cosa tanto più è bella, tanto più è breve.
E breve era destinato ad essere qualunque momento che fosse possibile denominare come ‘nostro’. Evidentemente.
Non l’ho più rivisto nemmeno in giro per il Ranch nei giorni successivi, ma devo essere sincera, non l’ho mai cercato, né ho chiesto sue notizie a chicchessia sentendomi inopportuna.
Non ho nemmeno il suo numero. Forse ho sognato.
Vorrei essere davvero così razionale come i pensieri che faccio, e vorrei davvero che la mia fermezza e pace della coscienza fossero reali. Ma non lo sono. Perché mi manca da impazzire.
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-Mamma mamma vieni subito a vedere!- La vocina squillante di Saty mi riporta sul pianeta terra, destandomi dalle congetture infinite che il mio cervello martoriato produce ad intervalli regolari nel tentativo di dare una ragionevole spiegazione alla mia agonia perpetua.
-Avete fatto un ottimo lavoro ragazzi! Grace, vieni a vedere!- Il castello che hanno costruito in queste tre ore è davvero magnifico, ci sono perfino il fossato ed il ponte levatoio, devo dire che mi hanno davvero stupita.
Anche Grace apprezza molto, e per l’occasione si avvicinano anche Wayne e compare che, evidentemente, al contrario di quanto vogliono far credere, sono di indole tutt’altro che rude, ed hanno stretto con i bimbi un rapporto di tenera complicità.
L’insolito quadretto è disturbato da un’onda che ci travolge impetuosamente –si sta alzando la marea forse-
andando fra l’altro a demolire parte delle mura della fortezza di sabbia; a questo punto l’armonia del tramonto viene del tutto eclissata da pianti ed urla di dolore dei tre poveri ingegneri (più un mini-ingegnere che poco ha contribuito in realtà, ma che urla più forte degli altri in un gesto di sana solidarietà) che vedono rovinato il prodotto di tante ore di impegno. Io e Grace ci affrettiamo a rimediare al danno, anche se nulla è più come prima. Dopo una buona mezzora riusciamo a dissuadere le piccole aquile con gelati e promesse di vario tipo, quando, resami conto di essere piena di sabbia incrostata ovunque, decido di sciacquarmi almeno le mani per poi completare l’opera sotto una doccia, una volta arrivata a casa.
Mi dirigo al bagnasciuga facendo varie considerazioni sull’immensità del Pacifico, che non avevo mai visto, ma anche sulla sua freddezza ed imprevedibilità. Immergo le mani nelle acque che vanno via via scurendosi col calare del sole, mentre in lontananza il tramonto irradia un rosso fuoco dalla linea dell’orizzonte fino a qui. Sembra inghiottirmi. O forse è questo senso di tristezza, non lo so.
Una folata di vento violenta ed improvvisa increspa le onde, fa oscillare gli ombrelloni, solleva la sabbia, e scioglie il nodo del pareo che porto annodato sul petto, unica sottile copertura del bikini nero che indosso.
Lo vedo librare nell’aria poco sopra la mia testa, quindi spicco qualche piccolo balzo con agilità opinabile, e quando l’ho quasi raggiunto questo si innalza di più, ed ora, aquilone improvvisato, si dirige verso il mare più alto. Fra le risate generali (Wayne si tiene letteralmente i fianchi) mi avvio in un tuffo di cui non avevo voglia nell’acqua gelida per andare a recuperare il maltolto; ne esco fradicia ma vittoriosa, sollevata perlomeno per aver fatto ridere i bambini (anche quelli alti due metri).
Mi strizzo i capelli dove le onde non possono più raggiungermi, e mentre Grace mi porge un asciugamano asciutto noto qualcosa di veramente inquietante.
Seduto sotto a quello che era stato il nostro ombrellone c’è un individuo che non ho mai visto né fra gli assistenti, né fra le bodyguards. Indossa pantaloni di lino bianchi e larghi, una camicia hawaiana a fiori di pessimo gusto ed occhiali scuri. Il volto non mi è noto, ha una folta barba nera e capelli nascosti da un berretto da baseball, ma la cosa che lo fa apparire inquietante è l’enorme reflex che porta al collo. Con quell’obiettivo potrebbe fare le radiografie al posto delle foto!
Non so da quanto tempo è lì ad osservarci, ma di sicuro devo fare qualcosa, non può restare lì.
Allarmata da quello che potrebbe succedere, soprattutto considerando che i tre piccoli Jackson sono a volto scoperto, mi dirigo con fare poco amichevole verso la sua postazione, superando con un balzo Grace e tutti i presenti.
Prima che chiunque possa dire o fare qualsiasi cosa per fermarmi sono a due metri da lui e con tono concitato inquisisco –Mi scusi, lei chi è? Cosa ci fa qui? Questo è il nostro ombrellone e lei non ha il permesso di sedersi!-
Sento dei passi veloci alle mie spalle –No, Andrea, fermati, non…- Grace sembra agitata e non credo di capire. Intanto lo sconosciuto presunto paparazzo si alza dalla sedia sdraio senza fiatare e mi si para davanti. Una mano mi afferra il braccio da dietro e una voce sottile mi sussurra all’orecchio
-Andrea non urlare, ti prego, è tutto a posto, non è uno sconosciuto..-
Altre voci si aggiungono –Grace prendi i bambini, dobbiamo andare, veloce!- E’ Wayne e sembra piuttosto arrabbiato. Solo ora realizzo.
Le mie intimazioni ad alta voce hanno attirato l’attenzione di alcuni passanti che ora insieme ai miei occhi sbigottiti stanno osservando Mr Jackson travestito da reporter in vacanza che prende frettolosamente in braccio il più piccolo dei suoi figli, e seguito dal suo staff si precipita in un suv nero che parte sgommando.
Devo dire che con le figuracce ho fatto l’en-plein, solo che stavolta ho anche messo in pericolo i bambini.
La colpa però non grava solamente su di me, poiché se mi avessero avvertita delle ‘abitudini’ del capo non mi sarei nemmeno scomposta più di tanto. Se n’è andato anche il sole che non ha potuto asciugare il mio costume ancora umido né i miei capelli.
Nella fretta di andarsene hanno portato con loro Satya, non che non me ne fossi accorta, ma ho preferito non interferire con l’operazione di sgombero richiamandolo a me e incontrando magari il suo disappunto nel doversi separare dalle manine di Prince e Paris con le quali prendeva parte ad una piccola catena.
Non mi sembrava il momento più opportuno per fare la madre possessiva.
La seccatura è che ora dovrò andare a riprenderlo, e sinceramente me lo sarei risparmiato volentieri, data la situazione. Mi infilo il miniabito nero che portavo sopra al costume quando sono arrivata, le infradito dello stesso colore e raccolgo i giochi e le mie cose. Sulla sabbia ci sono vari oggetti che non mi appartengono, mentre nella borsa ne mancano altrettanti che invece mi appartenevano, come ad esempio il mio adorato libro di poesie.
E’ evidente che a Neverland dovranno avvenire una serie di restituzioni.
Spero solo di non incontrarlo.
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LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Sep 19, 2003
Ore 20:00
Devo essere veloce. Non voglio incontrarlo. Non voglio spiegazioni. Non voglio discorsi.
A nulla servirebbero, a nulla.
Ho avuto più avvertimenti, più occasioni per capire che nella mia situazione non c’è spazio per questo genere di cose, ho avuto il tempo per far funzionare il cervello e capire che il motivo che mi ha portata qui è il lauto stipendio che mi consente di garantire a Saty la vita che merita e a me le giuste gratificazioni dopo anni di sacrifici. Non ho ancora ben capito che cosa mi abbia fatto credere di poter seguire l’istinto, il cuore, la passione senza alcun tipo di conseguenze, che cosa mi abbia indotto a pensare che con me sarebbe stato diverso da una semplice distrazione, in fondo me l’ha detto anche lui che sono la sua ‘fuga dalla realtà’. Proprio non l’ho capito e non lo voglio nemmeno sapere ora che sono davanti a questa porta. Non sono arrabbiata se non con me stessa per essere stata così superficiale nei confronti della mia vita. Non lo devo incontrare. Non lo devo più incontrare.
NELLA TESTA DI MICHAEL
Ormai è tempo che mi sono rassegnato all’idea di essere solo.
Così come è tempo che ho lasciato la mia volontà nelle mani degli altri, in modo che potessero prendere decisioni sugli affari al posto mio. Quasi tutte, almeno.
Poi anche sulla mia vita. Perché anche la mia vita è affare altrui, da sempre.
Ho sognato di averla mia un numero illimitato di volte, e per un breve tempo ci sono anche riuscito. Ma lo sappiamo tutti e due, ormai siamo adulti, che non si può vivere nel buio, che l’amore non è qualcosa che si possa relegare al ramo di un albero ad un orario stabilito.
E’ un omicidio e io non voglio perseverare in questa colpa perché è tale, cercare di mettere dei confini a qualcosa che per definizione non ne deve avere.
Nascondermi come un ladro nella mia stessa proprietà.
Si, perché non è stata una parentesi, non è stata un’avventura, non è qualcosa che finisce quando ci separiamo quello che provo, il modo in cui mi fa sentire quella piccola creatura strana dai lineamenti fini, dall’accento straniero, dai capelli di seta.
Non posso permettermi di essere così vulnerabile, lo sono già in tutto il resto, non posso.
Ancora una volta mi sono comportato da egoista lasciandola sola, ciò che non avrei mai voluto. Ma sono solo un ipocrita a pensarlo ora che l’ho fatto.
Oggi non ho resistito e tornato da Los Angeles le ho raggiunte al mare. Mi mancava l’aria.
Era sul bagnasciuga e le è volato via il pareo deliziandomi di quelle forme così rotonde e perfette.
La sogno di notte. Ma anche di giorno. E’ un’ossessione. Dolce come miele caldo.
E’ così buffa in tutto quello che fa. Mi ha scambiato per un paparazzo e mi ha inveito contro per proteggere i miei bambini. Ma quando ma la sono trovata davanti non mi è uscita la voce.
Io sono Michael Jackson, io sono colui che ha ballato, parlato, cantato davanti a milioni e milioni di persone e la voce mi è sempre uscita, è sempre stata la mia forza. Cosa può aver fatto una così piccola creatura strana per farmi mancare il fiato in questo modo. Mi spaventa terribilmente. Cosa mi sta succedendo?
Lo immagino cosa mi sta succedendo. E non voglio. A 45 anni ho un baule pieno di insuccessi nella vita privata. Michael non ci sa fare come Michael Jackson.
E così, in mezzo a tutto il casino che sto attraversando, fra il singolo che non esce, Mottola e la sua meschinità, Barnstein con il fiato sul collo e il contro-documentario in uscita a breve, non ho ancora trovato il modo di dirle che non posso permettermi questo. Non posso permettermi niente.
Non posso concedermi questi sogni. Non posso fuggire dalla realtà.
Ma nello stesso tempo non ce la faccio.
Oggi non dovevo vederla.
Sarebbe stato tutto più facile.
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Una signora dalla carnagione olivastra mi fa entrare ed accomodare nel grande atrio interamente rivestito da pannelli in legno chiaro senza troppe cerimonie.
E’ un ambiente molto differente da quello della festa che, probabilmente, si è svolta in una delle tante dependance che circondano la villa principale.
Sono sicura di trovarmi nella magione principale perché guardandomi intorno lo ritrovo in ogni cosa.
Lui è il soggetto di tutti i quadri stile rinascimentale ad ambiente bucolico, lui appare in numerose gigantografie, nelle foto di famiglia, negli oggetti stravaganti sui mobili, nell’arredamento raffinato ma classico, semplice, lui nel grande pianoforte a coda che si intravede nel grande salone centrale, lui nel caminetto spento.
Rimango persa nelle mie osservazioni fin quando una voce proveniente dalle mie spalle mi fa quasi trasalire.
-Ciao Andrea, vieni, i bimbi sono di qua, stanno guardando i cartoni-
E’ diverso da prima. Si è liberato da quei vestiti eccessivamente variopinti per il suo trend ed indossa una semplice camicia verde scuro con dei pantaloni neri larghi. Immancabili a questo punto i mocassini.
Mi fissa interrogativo, non sa come muoversi ed è in attesa di una mia reazione.
Ovviamente tutti i miei auspici a non incontrarlo sono stati vani ed all’inquietudine che da ciò deriva vanno ad aggiungersi agitazione ed emozione, dato il tempo che non ci vediamo.
Con un cenno del capo annuisco –non riesco a fare di più- mi accingo a seguirlo mentre mi fa strada lungo un corridoio che si apre in una stanza dotata di ogni attrezzo sia possibile immaginare come funzionale alla visione di film o all’ascolto di musica. Su un grande divano bianco a ‘elle’ stanno tutti e quattro i bimbi, imbambolati davanti ai Looney Tunes.
Satya come si può immaginare è il più preso di tutti, tanto che nemmeno si accorge del mio arrivo.
-Te l’avevo detto che avrebbe apprezzato la mia collezione- lo sento abbozzare dall’altra parte dell’immenso stanzone, cercando evidentemente di rompere il ghiaccio con un sorriso dei suoi.
-Già- è la mia risposta telegrafica, corredata da una faccia neutra, abilissima a celare il battito di un cuore che mi sta per esplodere nel petto.
-Puoi venire un attimo?- è la domanda che mai avrei voluto sentire.
-In realtà dovremmo andare, Saty deve cenare ed abbiamo disturbato abbastanza- annaspo senza guardarlo negli occhi.
-I bambini hanno già mangiato tutti- rivela avvicinandosi quel tanto che basta a prendermi delicatamente la mano per condurmi nella cucina adiacente. Nessuno sembra aver fatto caso alla nostra presenza.
-Andrea io..- cerca di iniziare la frase ma ormai satura e decisa a porre fine a questo enorme malinteso lo blocco all’istante.
-No Michael..senti, non credo ci sia molto da dire, non desidero avere motivazioni, spiegazioni, scuse o quant’altro, non ce n’è bisogno, davvero- spero di essere abbastanza lapidaria.
-Per favore, ti chiedo di lasciarmi parlare, non sai ancora cosa voglio dirti..- riprova ma io sono decisa.
-Davvero, ti prego, poniamo fine a questo..non so nemmeno come chiamarlo, so solo che deve finire-
-Perché deve finire?- negli occhi un velo di malinconia.
-Perché io non voglio niente. Non ho nessun ruolo da rivendicare, non c’è nessun motivo per cui dopo due settimane che non ci vediamo devi sentirti in dovere di portarmi nella tua cucina per darmi spiegazioni sulla tua vita. Io so benissimo chi sei. Non mi è mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello che uno come te potesse davvero essere interessato ad una come me. Complice forse la naturale disillusione che le vicissitudini della vita mi hanno portato ad avere nel cuore, non so, ma non ho mai creduto che i nostri due mondi potessero intersecarsi davvero, non ho mai creduto che i momenti che abbiamo passato insieme potessero scendere da quell’albero. Mai. Ho creduto e credo tutt’ora, che tu abbia voluto trascorrere qualche momento di spensieratezza, di fuga dalla realtà, come tu stesso l’hai definita, e che io in quel momento mi trovavo nel posto giusto al momento giusto. Sei un uomo molto attraente e desiderabile, di cose come questa te ne saranno capitate molte altre. Tu hai la tua vita, la tua musica, i tuoi figli. Davvero, credimi, io ti capisco, lo so che non puoi dare più di così e non ti giudico, né te ne faccio una colpa. E’ così e basta- Non so come ci sono riuscita ma l’ho detto davvero.
Mi osserva con occhi stupiti e spenti allo stesso momento. Sono lucidi.
-Hai detto una cosa terribilmente vera ed un’altra altrettanto terribilmente falsa, ma così falsa che mi fa male- mi comunica con un filo di voce e gli occhi che stanno per annegare sotto uno spesso strato umido.
Il peso di un enorme mattone di cemento sullo stomaco non mi consente di proferire parola.
-La cosa vera è che non posso dare più di così- A questo punto una lacrima gli solca impietosa una guancia ed io sento il cuore sbriciolarsi dentro al petto, in una dolorosissima implosione.
Mi avvicino piano e con il dorso della mano afferro quella goccia calda e gli poso una lunga lenta carezza sulla guancia. Quel contatto mi fa trasalire, ancora una volta. Con una mano blocca la mia e la porta alla bocca, dove mi posa piccoli e silenziosi baci sul dorso e sul palmo in uno spasmo incontrollato e ad occhi chiusi. Chiudo gli occhi anch’io e quello che sento in fondo al cuore è dolore puro.
-Ora dobbiamo andare. Ciao Mike e grazie di tutto- Sussurro a mezza voce, sopraffatta dal magone.
Prendo Satya in braccio e sparisco velocemente dietro alla porta, da dove lui mi sta ancora fissando con lo sguardo carico di dolore e tenerezza.
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SANTA YNEZ, California. CASA MIA. Sep 19, 2003
Ore 22:00
Ho appena messo a letto il mio piccolo ometto, dopo avergli fatto un bel bagnetto per ripulirlo un po’ dalla sabbia di oggi. Mi ha raccontato che a Neverland si è divertito tantissimo oggi pomeriggio, dice che Michael (lo chiama così) li ha portati tutti sull’otto volante, poi sulla ruota panoramica e poi ancora sulle molle.
Poi hanno cenato tutti insieme con pollo e patatine fritte davanti alla tele, gli scoppiano gli occhi di gioia mentre lo dice, e mi racconta di quanto gli sia piaciuto giocare con Prince alle costruzioni..
Lo guardo così felice e trattengo a fatica le lacrime, gli accarezzo il capo e non ho il coraggio di dirgli che non potrà più passare giornate come quelle, perché la sua mamma è una grandissima stupida.
Ancora vestita del mio costume nero, con la pelle ancora salata ed i capelli asciugati naturalmente che formano lievi onde ribelli, mi sdraio sul divano ed accendo la tv. Mangio una pesca e poi opterò per qualcos’altro dato che non ho ancora cenato.
Sto per avventurarmi nella visione di un bel filmone strappalacrime che è proprio quello che mi ci vuole in una situazione simile, quando sento suonare alla porta.
Un po’ allarmata mi dirigo allo spioncino per vedere di chi si possa trattare vista l’ora, ma tutto quello che mi viene concesso è un individuo con un impermeabile blu notte totalmente allacciato e con il bavero rialzato a nascondere buona parte della faccia, sormontato da sciarpa e cappello neri.
Lo riconosco dall’occhiale da sole a goccia. Impossibile sbagliare.
Apro immediatamente ancora con la bocca aperta e gli faccio cenno di entrare.
-E’ successo qualcosa Michael? Che ci fai qui a quest’ora?- chiedo preoccupata
Lo osservo mentre si libera da tutti quegli strati di tessuto, finché, rimasto finalmente in camicia, si accinge a parlare, e,dopo aver estratto dalla tasca il mio libricino di poesie che pensavo di aver perso, recita tutto d’un fiato, senza posare lo sguardo al testo.
- I ragazzi che si amano
I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell'abbagliante splendore del loro primo amore
(Jaques Prèvert)-
Mentre mi sto ancora chiedendo se ho le allucinazioni o se è tutto vero mi guarda fisso negli occhi con il viso più serio che gli ho mai visto fare, poi con due dita mi prende il mento e a mezza voce dice ancora
-Non mi hai permesso di dirti quale era la cosa falsa che mi faceva male, prima- sorride mordendosi il labbro inferiore mentre ho l’impressione di non avere più alcun battito cardiaco, poi continua
-La cosa falsa è che sei solo il mio passatempo. Che siamo stati insieme sull’albero perché ti trovavi al momento giusto nel posto giusto. Che l’ho fatto solo per evadere un po’ dalla realtà. Che mi sono capitate tante cose come questa. No, non mi è capitato altre volte di sentire il respiro mancarmi nel petto quando mi allontano da qualcuno, di sentire il cuore battere in gola e lo stomaco rigirarsi alla sua vicinanza. No, questo non mi è mai capitato. Ed ora se vuoi scusarmi sono venuto a prendermi quello che mi appartiene da un po’-
Dice così, poi con una leggera trazione mi avvicina per il mento alle sue labbra, mentre l’altra mano mi passa dietro alla schiena e mi tira con forza verso di sé.
A questo punto il bacio che ci scambiamo è passione pura, non saprei come altro descriverlo. Chiudo gli occhi avvolta dalla sensazione di caldo abbandono che mi sta provocando la sua lingua, che insegue la mia aiutata da una mano che, con una decisione mai vista prima, si è posizionata dietro alla nuca per rendere ancora più profondo l’incastro. Pur con gli occhi chiusi cerco di immaginare le nostre due sagome in piedi nel salotto mentre si fondono come fossero state realizzate appositamente per quello. Il cuore batte forte nel petto, mimando la violenza di una serie infinita di pugnalate non più utili a spargere sangue nelle membra, ma atte a spargere voluttà pura nelle povere vene di entrambi, martoriate dalla sofferenza.
Tutto questo tuttavia non mi basta per dirgli quello che provo, e lo sento, nemmeno a lui.
Colto da un’impellente esigenza di darmi di più mi solleva da terra facendo aderire le mie gambe nude ai suoi fianchi e, tenendomi sospesa a mezz’aria, continua quella spietata danza all’interno delle nostre bocche che potrebbe farmi restare secca da un momento all’altro, quando, colto da pietà o chissà cos’altro, mi lascia la facoltà di respirare staccandosi dolcemente da me e posandomi a terra, per poi dirmi nell’orecchio fra mille baci frenetici
-Non sei un passatempo, tu sei il mio tempo infinito, e io ti voglio -
Completamente satura di emozioni la mente non risponde più ad alcun richiamo, accecata da quelle parole, da quella luce negli occhi, gli prendo la mano delicatamente e lo conduco in camera mia, dove lo libero da tutto quello che indossa, e dove lui fa lo stesso con me, in una danza lenta, atroce ed inesorabile.
Non riesco a descrivere con lucidità le sensazioni che mi da l’intreccio di corpi creatosi istantaneamente sul copriletto, sento il mescolamento dei sensi raggiungere il suo apice, il dolce si mescola al salato, la fame con la sete, il giusto con l’ingiusto. Il desiderio mi invade come una tromba marina e mi trascina proprio come farebbe lei verso il fondo, ed io mi lascio trasportare inerme in questo abisso di baci umidi che si spostano dal collo alle spalle, alle clavicole, ai seni, al ventre, e di nuovo tornano profondi alle labbra, mentre le mani si intrecciano, in disperati sussulti si aggrappano, si toccano, accarezzano, spostano. Lo bacio sul naso e sulla fronte, lo accolgo tra le mie braccia e lo bacio ancora dietro all’orecchio, e ancora sulla spalla e sentono le mie mani quel groviglio nervoso e compatto di muscoli sul petto, e assetate le labbra lo cercano, lo baciano, ancora e ancora e ancora.
Non ho mai provato un’emozione così forte nella mia vita e tutto il mio corpo ne da conferma con fremiti e disperati spasmi, vittima di una danza imposta dal lui, che con gemiti sommessi sopra di me scandisce il ritmo del mio piacere, per un tempo sufficiente a farmene perdere la concezione, fino al punto in cui raggiungiamo l’isola dei giardini approdandovi insieme, in una deflagrazione estatica quasi dolorosa.
La dichiarazione della mia morte arriva dopo poco, quando mi posa un lungo languido caldo bacio sulle labbra, passandomi una mano fra le ciocche umide di sudore e scendendo lungo il profilo di tutto il corpo. Lo accarezzo sul volto madido e gli sposto una ciocca dagli occhi che mi appaiono ancora umidi ed accesi.
Il silenzio della sera è rotto dal canto di alcuni grilli e dai nostri respiri affannati che si rincorrono.
I nostri sguardi persi l’uno nell’altro. Rimango così, non so per quanto tempo, persa nella sua oscurità mentre mi stringe a sé accarezzandomi la schiena lievemente, senza dire una parola.
Schiavi di questa giostra proibita, rimaniamo intrappolati in questo limbo di emozioni finché, sopraffatti da questa forza, sentiamo l’esigenza di fonderci di nuovo.
CAPITOLO 9
NELLA TESTA DI MICHAEL
L’insonnia è un disturbo del sonno caratterizzato dall’impossibilità di addormentarsi e di dormire per un tempo ragionevole durante la notte. Può avere diverse cause e sicuramente altrettante conseguenze, non sono un medico né un’enciclopedia, ma posso dire di sapere certamente di cosa si tratta, perché ne soffro dal ’92. Ogni sera la stessa storia. Sento la stanchezza nei muscoli e nelle ossa, sento la testa pulsare sotto i crampi dell’emicrania che, come un ordigno ad orologeria, esplode irradiandosi dalla nuca alle tempie, spargendosi meticoloso come guidato dai tentacoli di un polpo. Quindi mi corico ed aspetto.
Ma loro non si chiudono e lui non arriva a prendermi.
Dal modo in cui giaccio sdraiato su un fianco e con il capo sorretto da una mano si direbbe che anche stasera sono vittima di questo disagio.
Invece no.
Stasera sono sveglio per scelta. Sono sveglio perché devo guardarla mentre dorme. Devo cogliere ogni minimo particolare di questo corpo levigato da Venere che giace supino accanto al mio.
Devo percepire il calore che emana questa pelle e devo assorbirlo sulla mia. Devo perdermi nella regolarità di questi respiri. L’ho assaggiata, l’ho odorata, mi sono perso in lei fino a percepirne l’essenza nascosta.
Ma ancora non mi basta. Quindi devo stare sveglio per averla ancora mia, finché il tempo lo concede.
Umile suddito di questo dio, non posso far altro che godere di tutto ciò che vorrà concedermi senza riserve, forse con un poco di timore, ma in modo da non avere mai più rimpianti.
Ed è questo che ti voglio promettere mio piccolo amore sconosciuto.
Non rinuncerò più a te.
Ora Michael ha deciso che è il suo turno.
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-Ti prego Mat, parliamone meglio- la mia è più una preghiera che una richiesta.
-Te l’ho detto, non c’è da discutere delle ore, io non sono pronto- il tono è secco e pungente.
-Cosa vuol dire che non sei pronto? Sei pronto a dirmi dolci parole che non senti, sei pronto ad infarcirmi la testa con le tue stronzate, sei pronto a farmi credere che stiamo per trasferirci in quel monolocale insieme per iniziare una nuova vita, la nostra, e a 30 anni non riesci a prenderti le tue responsabilità?- non è voce la mia, è solo un rantolo disperato.
-Io le mie responsabilità me le prendo eccome, ti starò vicino, ti accompagnerò io alla clinica e terrò la tua mano in ogni istante, ma non chiedermi di più, perché io non voglio un figlio, non sono pronto, non è nei miei piani e tu non hai il diritto di farmi sentire in colpa per questo- Gli avvocati parlano sempre bene, non c’è dubbio. Quando l’ho conosciuto era diverso. Siamo cresciuti praticamente insieme, alle superiori stessa scuola, stessa città, stessi amici. Ricordo i pomeriggi sulla panchina ai giardini pubblici a leggere e suonare De Andrè con la chitarra, le sere d’estate seduti sui muretti in mattoni davanti al tramonto disegnato dai tetti delle case, lui mi teneva la mano, io gli appoggiavo il capo sulla spalla ed ero felice.
Eravamo due ragazzi semplici, che si accontentavano di un pezzo di pizza mangiato in piedi fuori dal cinema, di una sigaretta rubata e di un bacio proibito, alla sera.
Mi riaccompagnava a casa e rimanevo per ore su quel divano senza nemmeno togliermi la giacca, scioccata, ubriaca, stregata, impazzita da quell’amore per quel ragazzo alto e dallo sguardo profondo, che con gli anni cambiò.
Poi il vuoto. A quelle parole il vuoto.
Forse quel ventre sempre più gonfio non era nemmeno nei miei di piani, non in quelli più imminenti almeno, ma lo sentivo crescere, e più passavano i giorni meno ero in grado di trovare un ragionevole motivo per interrompere il mio miracolo. Avevo 27 anni, un lavoro, una casa. Perché no?
Perché lui non era pronto.
Non era una motivazione sufficiente per me. Era troppo bello sentire quello che sentivo crescere dentro. Non fui mai più così felice per il resto dei miei giorni. E ringrazio ancora oggi me stessa per non avergli dato retta.
Io e il mio ventre in lievitazione partimmo verso le 5:00 di una mattina di aprile.
Sul tavolo un biglietto in cui gli auguravo ogni bene, ma soprattutto che il rimorso non lo divorasse, eventualmente, un giorno.
Alla base del mio mal de vivre credo ci sia proprio questo senso di abbandono, di rifiuto e di inadeguatezza, penultima eredità di quel ragazzo moro che mi portava sulla moto per i campi, con i capelli al vento che alla fine odoravano di benzina. Non potrò mai dimenticare.
Mentre appena sveglia cerco di elaborare queste reminiscenze di sonno ancora con gli occhi chiusi, ormai consapevole che certi incubi mi seguiranno per sempre, il fatto di essere vestita solo da un leggero lenzuolo mi riporta a quanto accaduto nella realtà.
Mi giro di scatto illudendomi di non essere sola questa volta ma, quasi senza sorpresa negli occhi, constato che nulla è cambiato in realtà, è solo passato più tempo. E come al solito ho solo sognato.
Mi alzo svogliatamente, infilo una camiciona da uomo verde scuro di cui non conosco assolutamente la provenienza e mi dirigo alla cameretta di Saty per svegliarlo e portarlo da Pedra, come farei in una delle tante giornate di lavoro della mia vita.
Arrivata in sala però mi devo ricredere su molte cose.
Seduto sul divano e vestito di una maglietta bianca con lo scollo a v da cui fa capolino una collanina in oro bianco senza ciondoli ed un paio di jeans neri, si trova un altro ragazzo moro e dallo sguardo magnetico, diverso da quello dei miei incubi perché mi sorride e tiene in braccio mio figlio con dolcezza, mentre Tom insegue Jerry nel tubo catodico.
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SANTA YNEZ, California. CASA MIA. Sep 30, 2003
Ore 20:00
-Pronto?-
-Andrea!-
-Ciao Michael. Dimmi.-
-Dove sei finita?-
-A casa..ma è successo qualcosa?-
-Perché tutte le volte che ti cerco deve per forza essere successo qualcosa?!?-
-Non lo so..magari è stato male qualc..- non mi lascia terminare la frase.
-Mi dici cosa ti sta succedendo? Perché non sei venuta al solito posto stasera?- il tono è concitato e rivela una certa inquietudine mista a rabbia.
-Ero..cioè sono molto..stanca e devo fare diverse cose a casa- abbozzo senza convinzione.
-Capisco-
Silenzio. Un minuto. Due minuti. Tre minuti. Quattro minuti.
Cinque minuti in cui ho il tempo di ricostruire mentalmente il corso degli eventi e di vedere chiaramente l’epilogo di tutta questa faccenda, da cui mi vedo uscente con il cuore sanguinante, la mente annebbiata ed il corpo tumefatto dal dolore. L’immagine non mi lascia nemmeno il tempo di respirare.
-Te lo chiedo ancora. Cosa sta succedendo Andrea?- la voce morbida e graffiata allo stesso tempo mi ricorda una sua canzone, non ricordo quale.
Dopo una lunga ed estenuante pausa che sfianca anche me rispondo con voce bassa
-Niente Michael, te l’ho detto, sono solo stanca- Trattenere le lacrime con un interlocutore così attento è una mission impossible, questo mi è chiaro fin da subito, ma ci voglio comunque provare.
Tutto inutile ovviamente.
-Bene. E’ evidente che non vuoi parlarne con me. Lo rispetto, ma avrei preferito una risposta più chiara anziché questa scusa pietosa che, scusa se te lo dico, offende sia la mia che la tua intelligenza- Sembra deluso in qualche modo.
-Michael mi sembra fuori luogo da parte tua un discorso così, quando sei sparito in passato non mi pare tu abbia lasciato molte spiegazioni dietro di te, ora perché dovrei farlo io?-
-Quindi non sei ‘solo stanca’ a quanto vedo- afferma provocatorio.
-No, è vero, e allora?-
-E allora dimmi la verità, dimmi che vuoi stare sola, dimmi che non mi vuoi sentire, che non mi vuoi tra i piedi, ma non prendermi per un idiota!- Una pioggia di spilli roventi nel petto sarebbe meno pungente di queste parole pronunciate a mezza voce, apparentemente pacate ma cariche di risentimento. E di verità.
-Voglio stare sola- esce così, pilotata da una volontà che non credevo di avere.
-Benissimo. Buonanotte-
Rimango con il ricevitore in mano per diversi interminabili minuti ad ascoltare quel suono sordo e sincopato della linea che è stata interrotta, forse nel tentativo di tenere virtualmente in vita quella conversazione disastrosa che ha appena avuto luogo. Dentro di me solo il vuoto.
Non posso sopportare di soffrire ancora, ora ne ho la piena consapevolezza. Quindi non so per quale strano gioco della logica contorta che alberga nel mio cervello ho deciso che se rovinassi tutto io, prima che lo facciano lui o gli altri o la vita stessa, ne soffrirei meno.
Perché quegli scheletri sono ancora troppo reali, perché quegli incubi sono ancora costanti, perché quella insopportabile sensazione di solitudine e di abbandono vive in me alimentandosi delle mie speranze, perché dopo quello che ho passato solo un’ingenua ci crederebbe ancora, si lascerebbe trasportare da lui.
Da quel maledetto sentimento.
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Oct 7, 2003
Le giornate sono tutte dannatamente uguali. Sveglia, colazione, portare Saty da Pedra, ringraziarla, venti minuti di strada per arrivare a Neverland, giro delle gabbie, pulizia, cibo e lavaggio, due coccole agli affezionati, pranzo, aggiornamento registri, casa, solitudine.
Ogni tanto è spontaneo l’istinto a voltarsi verso quell’albero estremamente riconoscibile per la sua mole, l’albero dei ricordi.
Da una settimana sembro aver perso ogni scopo.
Il solo momento positivo della giornata è la sera, quando mio figlio mi racconta della sua giornata. E’ così piccolo eppure sa tante cose più di me.
Mentre faccio questi pensieri lavo in silenzio il recinto di Melville senza prestare molta attenzione a quello che mi circonda nel mondo reale. Una voce alle mie spalle rompe l’incanto e mi strappa violentemente dal mio universo ovattato facendomi anche sobbalzare.
-Andrea sei pronta? Stanno arrivando!- Afferma John, il mio collega, venendo verso di me a passo spedito e con in mano alcuni attrezzi per aiutarmi a pulire il recinto.
-Chi sta arrivando?!?!- sono in preallarme
-Ma come chi? Non ti ricordi?!? Oggi è il giorno delle visite esterne! Michael ed i bambini dell’ospedale stanno arrivando a vedere gli animali! – sembra allarmato anche lui, ma dalla mia dimenticanza.
-Oddio non me ne ricordavo! Sono indietrissimo, non ce la faremo mai a fargli trovare tutto pulito!- sento la mia voce lontana e sommessa, come se fossi fuori dal mio corpo dall’agitazione.
-Facciamo quello che possiamo, non preoccuparti, ormai saranno qui a minuti!!!- cerca di rassicurarmi.
Con gli occhi fuori dalle orbite ed il cuore impazzito per l’ennesima volta, cerco di darmi una pulita anche se è tutto inutile, la canottiera nera di cotone è piena di terra, gli shorts di jeans pure, gli stivaloni di gomma alti fino al ginocchio da neri hanno subito una variazione cromatica al marrone/verde muschio.. insomma un disastro! L’unica cosa che posso fare è tirare indietro un ciuffo ribelle dei miei capelli sciolti sulle spalle con una forcina. Mi sento una schifezza e fra pochi minuti lo rivedrò, dopo più di una settimana di silenzio stampa. Che cosa pretendo in fondo? L’ultima volta l’ho trattato malissimo, l’avrò ferito.
-Ragazzi venite, questo è Melville, il mio elefante indiano- Si avvicina riparato da un ombrello nero che regge con la mano destra. Con la sinistra indica il gigante buono che, sentite le voci, non si fa pregare e si avvicina curioso e speranzoso di ricevere una nocciolina.
Il gruppetto formato da una trentina di piccoli visi e da tre accompagnatrici si allinea al di là del recinto e lancia sguardi curiosi nella nostra direzione, finchè anche il suo di sguardo si posa su di me senza cambiare espressione, ed è lì che mi sento davvero in vetrina.
-Michael, che cosa mangia un elefante? Quanto vive? Quanti anni ha lui?- una pioggia di piccole domande lo invadono, ma lui è più furbo
-Vedete quella bellissima signorina lì?- cerco di far finta di niente, dando per scontato che non si stia riferendo a me dato che nel recinto siamo in quattro, di cui tre sono donne. – sì quella con i capelli lunghi che fa finta di non aver sentito, dovete sapere che è un po’ timida- lo dice abbassando la voce con fare complice, come se stesse confessando loro un segreto di stato. –Ecco, lei è il dottore degli animali e risponderà a tutte le vostre domande!- Se fossimo soli lo picchierei.
Visibilmente imbarazzata mi avvicino alla staccionata sorridendo ed inizio a fornire spiegazioni di vario tipo, cercando di utilizzare un linguaggio il più possibile familiare. Tutti i piccoli avventori sono interessatissimi e rimangono ad ascoltarmi per una buona mezzora, finchè Melville non decide di voler giocare e con la proboscide non pensa bene di annaffiarmi completamente. Tutti ridono divertiti pensando che si sia trattato di uno sketch preparato ed io arrossisco a dismisura.
Oltre che sporca ora sono anche bagnata. Perfetto direi.
Anche lui sta ridendo ed alla sola visione di quel sorriso sento un calore nascermi alla base del ventre e risalire lungo la schiena facendo tappa allo stomaco, per poi andare a morire sulle orecchie, arroventandole. Questa è l’ennesima riprova di quanto sia grave la mia situazione con quell’uomo.
Prima di andarsene con il folto gruppo per continuare il giro mi rivolge un’occhiata severa e carica di altre emozioni che però non voglio decifrare. Lo guardo allontanarsi prima di abbassare gli occhi a terra, già gonfi di lacrime.
Ore 19:00
Non so per quanto tempo sono rimasta qui dentro. Non so nemmeno se sto piangendo o se ho smesso. So solo che non ho voglia di rientrare a casa, non ci troverei nessuno, mio figlio stasera dorme con Anita e Juan, i figli di Pedra, una volta la settimana gli lascio il permesso di dormire con gli amichetti. Ho solo voglia di starmene qua, immersa nel silenzio di questo posto incantato, con il mio amico grande e gentile che non ha mai smesso di starmi accanto, cullandomi con l’immensa proboscide color cobalto.
E’ come se fossi seduta su uno spicchio di luna.
E non so perché né come, ma accarezzando la sua pelle ruvida e fredda mi viene voglia di parlare con lui.
Anche se non può capire le mie parole potrà sentire i sussulti del mio cuore dolente; e questo mi basta mentre gli dico – sai, per quanto cerchi di evitarlo sono piena di lui, in ogni angolo del mio corpo.
Sento la sua voce, il suo calore, la sua sofferenza, la sua energia. Ed ho così paura Melville, ho così paura di quello che stiamo facendo, ho paura che non sia giusto, ho paura di soffrire di nuovo.
Sono sempre stata convinta del fatto che sia possibile amare fino alla pazzia solo una volta nella vita, perché solo una volta sarà possibile sopportare la sofferenza che quell’amore finito causerà.
Tutte le altre volte si amerà, ma in modo differente. Si amerà in modo profondo, si amerà incondizionatamente, si amerà con passione, con rispetto, con forza…ma mai, mai sarà come quella cosa che chiamare amore è riduttivo, perché è di più, è più forte, è dolore.
Ed il cuore non potrà mai più sopportare una tale pesantezza. E’ autoconservazione.
Ed io il cuore così gonfio non ce l’ho mai avuto. Perché lui mi completa, esterna con le parole i miei pensieri più nascosti, comprende con uno sguardo il mio stato d’animo, comunica con il mio silenzio. L’unione delle nostre anime è onnipresente e spaventosa, e per quanto cerchi di sottrarmi all’infinito non riesco a sradicare questa piccola immensità che mi conduce alla pazzia, non riesco a curare questo tumore del mio cuore. Ne morirò credo-
-Ne morirò anch’io allora..- Ovviamente l’elefante non può aver parlato. Quindi mi volto lentamente cercando di liberarmi dalla calda stretta di colui che mi ha ascoltato per tutto il tempo, per inquadrare l’altro interlocutore segreto. Rimango basita e senza la forza necessaria per fare una qualunque azione.
In piedi dietro a Melville c’è lui. Nell’oscurità brilla una camicia chiara e brillano i suoi occhi incollati ai miei.
-..perchè le cose che hai descritto io non le ho mai provate. Fino ad ora. E te l’ho detto, è così, ci sono dentro. Non riesco a concentrarmi su niente Andrea, ho la testa tutta impegnata da te-
-Perché?- non so il motivo della mia domanda, so solo che la mia bocca pronuncia questa parola. Il mio viso solcato da calde lacrime frequenti pensa ad individuarne uno simile per trovare un po’ di conforto, e lo trova, irrimediabilmente uguale, solcato da lacrime opposte, di fronte.
-Lo sai perché- la voce gli trema e non ha il coraggio di avere più coraggio di me.
Senza altre parole inutili, ormai schiavi ed affetti dalla più grave delle malattie ci avviciniamo compiendo un paio di passi ciascuno nella direzione dell’altro. Mi prende le mani e le porta alla bocca dove mi posa delicatamente alcuni baci sui palmi e sui dorsi.
Il violento fremito che mi attraversa mi da il coraggio necessario per prendergli il viso e baciarlo piano, mentre lui allaccia le mani dietro alla mia schiena, intensificando la stretta progressivamente. Lo sento tremare e l’istinto è quello di stringerlo di più, come a voler riscaldare un corpo dal gelo. Ma non è quello il motivo per cui trema, e lo sento dal contatto intenso che stabilisce con il suo corpo contro al mio.
Mentre mi stringe così forte riesco a percepire ogni battito del suo cuore e anche a constatare che è sincrono con i miei, sento una morsa in gola che mi impedisce di inspirare l’aria nei polmoni ed è dolorosa, esattamente come la stavo descrivendo prima a Melville. Dopo il contatto breve ed intenso delle nostre labbra, all’interno delle quali hanno luogo svariate danze che descrivono i percorsi tortuosi delle nostre lingue, sento di dover interrompere quest’iniezione di eroina pura prima che il desiderio diventi insopportabile, insieme alla dipendenza.
-Michael…fermati- cerco di articolare mentre lui non ha intenzione di eseguire le mie preghiere e continua in vorticose carezze lungo i fianchi e la schiena corredate da impietosi baci lungo la linea del collo.
-P..per favore…Michael..ferm..-
-Perché?- La voce è bassa e roca, sembra solo un rantolo nel mio orecchio sinistro
-Perché devo andare a casa, devo farmi una doccia..e poi qui è pericoloso, potrebbero vederci..- dico non senza fatica, pentendomi amaramente per aver interrotto la mia ora d’aria settimanale.
-Resta con me stanotte- dice ancora impegnato a torturarmi i lobi.
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Mi conduce per mano lungo un sentiero che assomiglia a quello che avevamo percorso la notte che siamo fuggiti dalle guardie, anche se al buio tutto può essere. Camminiamo velocemente lungo le vie della notte e stavolta non arriviamo ad alcuno spiazzo illuminato, anzi, è ancora buio pesto ed io ho perso il senso dell’orientamento da un pezzo. Arriviamo ad una costruzione non troppo grande, estrae una chiave dalla tasca, la inserisce nella toppa ed apre. Sull’uscio scatta una lucina gialla che illumina l’ingresso dolcemente. Un piccolo corridoio conduce ad un’unica stanza rettangolare il cui arredamento è costituito da una scrivania su cui è poggiato un portatile nero, una lampada, una sedia, un divano rosso di velluto. Il pavimento è rivestito da parquet chiaro, alle pareti un unico quadro raffigurante un veliero. La finestra socchiusa e i cuscini del divano schiacciati suggeriscono una presenza in quello spazio ben precedente al nostro arrivo. E’ tutto così strano.
-Vieni, accomodati- il tono è caldo e rassicurante, mi fa anche un sorriso limpido dei suoi.
Mi siedo sulla scrivania anche se non posso fare a meno di sentire un pò di imabarazzo.
-Dove siamo?-
-In uno dei miei nascondigli- uno sguardo furbo. Si morde il labbro inferiore.
-Nascondigli?- Una persona con una casa così grande ha bisogno di un nascondiglio esterno?! Non posso fare a meno di trovarlo strano.
-Si, mi piace isolarmi dal resto ogni tanto. Qui ho tutto quello di cui necessito. Mi aiuta a pensare-
-Ci vieni spesso?-
-Sono stato qui quasi ogni sera da quando..da quando abbiamo parlato al telefono l’ultima volta-
-Non abbiamo parlato Mike. Abbiamo litigato-
-E’ stato uno scambio di opinioni- cerca sempre di vedere le cose dal lato buono. Non so se la cosa mi piaccia o se mi faccia innervosire. Forse tutte e due.
-Michael io..- cerco di dare un senso al turbinio di pensieri che mi hanno animata per tutti questi giorni.
-Shh- mi posa delicatamente l’indice sulle labbra.
-Avremo tempo per parlare di questo, amore- sussurra piano mentre mi domando se ho sentito bene. La mia perplessità traspare anche sul volto perché lo vedo sorridere e aggiungere
-Non averne paura, è la cosa più bella che ci sia al mondo- non so davvero come faccia ma legge i miei pensieri meglio di quanto potrei mai fare io.
-Tu non hai paura?- chiedo senza voce
-Si, ne sono rimasto terrorizzato subito, appena l’ho capito. Poi però stasera ti ho sentito dire quelle cose a Melville, e tutto è sembrato così chiaro, così limpido. E’ un mistero da cui non voglio scappare-
Dice così prendendomi i fianchi ed avvicinandosi a me, che lo accolgo delicatamente fra le mie gambe divaricate.
-Ed ora vorrei che sentissi quello che provo per te- annuncia lapidario in un soffio.
Mi bacia, lo bacio. Si tratta di qualcosa di veloce, è solo un preludio, perché si deve concentrare sul collo, sulle spalle, sulle braccia, sulle mani, in una tempesta di piccoli baci regolari, intensi ed equidistanti che funge da battistrada alle mani che percorrono appena dopo gli stessi percorsi.
Il pavimento sotto di noi riceve la compagnia di una canottiera seguita a ruota da una camicia azzurrina a cui si aggiungono una maglietta bianca, una forcina per capelli, un paio di jeans scuri lunghi accompagnati dai loro omologhi più corti. Le mani si incontrano ed esplorano con perizia i punti più nascosti senza che mai avvenga la separazione delle labbra fuse; si insinuano fra i capelli, accarezzano la schiena, i fianchi, ed infine eliminano i pochi strati che impediscono la fusione dei nostri corpi che si incontrano mentre sono ancora seduta sulla scrivania. Lui ora ha il potere e lo usa danzando davanti a me con movimenti decisi e delicati, che divengono poi più veloci e profondi. L'immenso piacere mi fa piegare la testa all'indietro, mentre la sua mano mi attraversa i capelli, di nuovo. Ci sdraiamo sul pavimento, colti da un’esigenza urgente quanto dolorosa di incontrarci e di intrecciarci, perché quello sembra essere il nostro unico scopo, quello per cui siamo stati concepiti, costruiti.
Il ritmo della passione ci tiene uniti in una danza lenta, in cui mi ritrovo in un momento ad essere artefice della sua agonia che si esprime in gemiti e parole soffocate nel respiro, ed in mani che cercano il mio corpo poco più sopra, accarezzandolo con passione e rispetto in ogni suo punto e spostando i capelli che scendono a formare una tenda naturale sui nostri volti; nel momento successivo sono invece vittima della sua volontà di ribaltare la situazione, che si esprime in decise onde sul mio bacino, lente, ritmiche ed inesorabili ogni secondo che passa di più.
Sento solo i cuori battere all’unisono, completamente sincronizzati, pronti ad aumentare la velocità dei battiti non appena sarà necessario, non appena saremo insieme anche nella dimensione parallela a questa.
E ci arriviamo, senza fretta né esitazioni, ci arriviamo mentre lui chiude gli occhi strizzandoli e dicendo il mio nome con le labbra umide e dischiuse e mentre io, accecata dall’ineffabile, non riesco a soffocarmi e mi lascio andare in un sospiro lungo e rumoroso sotto di lui.
Quello che si sente dopo è il lungo tremore generalizzato dei nostri corpi ansimanti, che si chiudono l’uno sull’altro per proteggersi da questa insostenibile pazzia.
Nel lungo momento che segue mi perdo nell’oscurità brillante dei suoi occhi, e mi rendo conto che tutto quello che ho provato prima non sarà mai nemmeno lontanamente paragonabile a quello che sento ora.
Allora lo bacio ancora mentre mi stringe forte su questo pavimento, e firmo definitivamente l’armistizio con i sentimenti a cui per diversi anni non avevo più permesso l’accesso dentro di me. Ora sono liberi di passare e scorrono fluidi come sangue viscoso nel letto di un fiume che arriva alla foce mantenendo intatta tutta la veemenza acquisita nei punti in cui le pareti erano più strette, in un getto potente ed infinito che esplode in tutto il suo vigore nell’atrio, poi nel ventricolo di questo cuore tornato vivo, tornato a battere.
MALIBU, California -PARADISE COVE- Sep 19, 2003
Ore 15:00
In una borsa di stoffa colorata ho messo tutto il necessario per un caldo pomeriggio in spiaggia: asciugamani, crema solare, un bel libro ed ovviamente gli immancabili attrezzi da lavoro del mio Saty che, appena messo il piede sulla sabbia, non esita a mettersi all’opera nella costruzione di un’ambiziosissima fortezza con tanto di diga.
Grace arriva una decina di minuti dopo di me accompagnata da due mastodontici ‘turisti’ in camicia di lino che si posizionano sotto ad un ombrellone a pochi metri da noi. Uno di loro abbassa le lenti scure e mi permette di scorgere lo stesso viso severo e nel contempo comprensivo che risponde al nome di Wayne. Mi lancia un’occhiata di traverso ed inarca di poco i margini della bocca credo nell’intento di sorridere.
Ci sono due bimbi muniti di cappello con la visiera bassa sugli occhi che appena ci vedono ci corrono incontro, credo molto interessati al progetto architettonico di mio figlio, ed è incredibile vedere quanto per loro tutto sia semplice e naturale: si liberano dai pochi vestiti e senza troppi convenevoli si mettono subito all’opera seguendo le direttive del capo cantiere di alcuni anni più piccolo. In braccio a Grace c’è un fagotto avvolto da un telo bianco. Credo sia il piccolo Blanket che, avendo un anno al massimo, necessita di qualche attenzione in più prima di mettersi all’opera con gli altri tre.
I due grandi occhi scuri e profondi mi ricordano quelli di suo padre, hanno la stessa luce.
Mi sono persa varie volte in quell’abisso oscuro, per la precisione quasi ogni sera. Ho ancora la percezione della brezza sottile che arrivava puntuale alla sera, quando dopo aver lavorato senza sosta mi arrampicavo su quella quercia e mi lasciavo cullare dalle dolci attenzioni del suo unico abitante che mi attendeva lì, su quel ramo, sotto alla luna, quando c’era.
I ricordi vanno e vengono, dipende dallo stato d’animo e dal grado di attenzione, ma sono le sensazioni a lasciare una traccia indelebile, quasi sempre. Ed io ho ancora il suo profumo addosso, profumo di baci strappati all’oscurità, di carezze e sospiri soffocati in sussurri, di dolci lamenti sfuggiti al piacere che, troppo ingente e copioso, metteva a repentaglio l’autocontrollo, nelle sue varie modalità.
Riesco ancora a sentire il battito di quel cuore in fiamme che faceva sussultare impietoso anche il mio, che, sfiancato e ridotto ad un elemento ormai inutile perché svuotato dal troppo dare, giaceva esausto alla base del petto in un rantolo affannoso e soffocato da qualche periodico ed isolato spasmo. Ho ancora nelle orecchie la sua voce calda, che dopo ogni momento di voluttà rubato agli dei mi sfiorava, e i discorsi, e le confessioni, ed i confronti, e gli infiniti silenzi.
Ma non si può sfuggire a Cronos e a tutti gli altri dei in eterno.
Non si può sfuggire alla realtà. O forse non si riesce ad accettare che anche una cosa bella possa farne parte. E allora meglio fuggire.
Così una sera di dieci giorni fa sull’albero non ho trovato nessuno.
Non ho nemmeno aspettato, perché un’assenza non annunciata o giustificata non lascia mai spazio all’illusione, almeno per me. E poi dopo aver sofferto tanto negli anni mi è rimasta la consapevolezza del fatto che una cosa tanto più è bella, tanto più è breve.
E breve era destinato ad essere qualunque momento che fosse possibile denominare come ‘nostro’. Evidentemente.
Non l’ho più rivisto nemmeno in giro per il Ranch nei giorni successivi, ma devo essere sincera, non l’ho mai cercato, né ho chiesto sue notizie a chicchessia sentendomi inopportuna.
Non ho nemmeno il suo numero. Forse ho sognato.
Vorrei essere davvero così razionale come i pensieri che faccio, e vorrei davvero che la mia fermezza e pace della coscienza fossero reali. Ma non lo sono. Perché mi manca da impazzire.
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-Mamma mamma vieni subito a vedere!- La vocina squillante di Saty mi riporta sul pianeta terra, destandomi dalle congetture infinite che il mio cervello martoriato produce ad intervalli regolari nel tentativo di dare una ragionevole spiegazione alla mia agonia perpetua.
-Avete fatto un ottimo lavoro ragazzi! Grace, vieni a vedere!- Il castello che hanno costruito in queste tre ore è davvero magnifico, ci sono perfino il fossato ed il ponte levatoio, devo dire che mi hanno davvero stupita.
Anche Grace apprezza molto, e per l’occasione si avvicinano anche Wayne e compare che, evidentemente, al contrario di quanto vogliono far credere, sono di indole tutt’altro che rude, ed hanno stretto con i bimbi un rapporto di tenera complicità.
L’insolito quadretto è disturbato da un’onda che ci travolge impetuosamente –si sta alzando la marea forse-
andando fra l’altro a demolire parte delle mura della fortezza di sabbia; a questo punto l’armonia del tramonto viene del tutto eclissata da pianti ed urla di dolore dei tre poveri ingegneri (più un mini-ingegnere che poco ha contribuito in realtà, ma che urla più forte degli altri in un gesto di sana solidarietà) che vedono rovinato il prodotto di tante ore di impegno. Io e Grace ci affrettiamo a rimediare al danno, anche se nulla è più come prima. Dopo una buona mezzora riusciamo a dissuadere le piccole aquile con gelati e promesse di vario tipo, quando, resami conto di essere piena di sabbia incrostata ovunque, decido di sciacquarmi almeno le mani per poi completare l’opera sotto una doccia, una volta arrivata a casa.
Mi dirigo al bagnasciuga facendo varie considerazioni sull’immensità del Pacifico, che non avevo mai visto, ma anche sulla sua freddezza ed imprevedibilità. Immergo le mani nelle acque che vanno via via scurendosi col calare del sole, mentre in lontananza il tramonto irradia un rosso fuoco dalla linea dell’orizzonte fino a qui. Sembra inghiottirmi. O forse è questo senso di tristezza, non lo so.
Una folata di vento violenta ed improvvisa increspa le onde, fa oscillare gli ombrelloni, solleva la sabbia, e scioglie il nodo del pareo che porto annodato sul petto, unica sottile copertura del bikini nero che indosso.
Lo vedo librare nell’aria poco sopra la mia testa, quindi spicco qualche piccolo balzo con agilità opinabile, e quando l’ho quasi raggiunto questo si innalza di più, ed ora, aquilone improvvisato, si dirige verso il mare più alto. Fra le risate generali (Wayne si tiene letteralmente i fianchi) mi avvio in un tuffo di cui non avevo voglia nell’acqua gelida per andare a recuperare il maltolto; ne esco fradicia ma vittoriosa, sollevata perlomeno per aver fatto ridere i bambini (anche quelli alti due metri).
Mi strizzo i capelli dove le onde non possono più raggiungermi, e mentre Grace mi porge un asciugamano asciutto noto qualcosa di veramente inquietante.
Seduto sotto a quello che era stato il nostro ombrellone c’è un individuo che non ho mai visto né fra gli assistenti, né fra le bodyguards. Indossa pantaloni di lino bianchi e larghi, una camicia hawaiana a fiori di pessimo gusto ed occhiali scuri. Il volto non mi è noto, ha una folta barba nera e capelli nascosti da un berretto da baseball, ma la cosa che lo fa apparire inquietante è l’enorme reflex che porta al collo. Con quell’obiettivo potrebbe fare le radiografie al posto delle foto!
Non so da quanto tempo è lì ad osservarci, ma di sicuro devo fare qualcosa, non può restare lì.
Allarmata da quello che potrebbe succedere, soprattutto considerando che i tre piccoli Jackson sono a volto scoperto, mi dirigo con fare poco amichevole verso la sua postazione, superando con un balzo Grace e tutti i presenti.
Prima che chiunque possa dire o fare qualsiasi cosa per fermarmi sono a due metri da lui e con tono concitato inquisisco –Mi scusi, lei chi è? Cosa ci fa qui? Questo è il nostro ombrellone e lei non ha il permesso di sedersi!-
Sento dei passi veloci alle mie spalle –No, Andrea, fermati, non…- Grace sembra agitata e non credo di capire. Intanto lo sconosciuto presunto paparazzo si alza dalla sedia sdraio senza fiatare e mi si para davanti. Una mano mi afferra il braccio da dietro e una voce sottile mi sussurra all’orecchio
-Andrea non urlare, ti prego, è tutto a posto, non è uno sconosciuto..-
Altre voci si aggiungono –Grace prendi i bambini, dobbiamo andare, veloce!- E’ Wayne e sembra piuttosto arrabbiato. Solo ora realizzo.
Le mie intimazioni ad alta voce hanno attirato l’attenzione di alcuni passanti che ora insieme ai miei occhi sbigottiti stanno osservando Mr Jackson travestito da reporter in vacanza che prende frettolosamente in braccio il più piccolo dei suoi figli, e seguito dal suo staff si precipita in un suv nero che parte sgommando.
Devo dire che con le figuracce ho fatto l’en-plein, solo che stavolta ho anche messo in pericolo i bambini.
La colpa però non grava solamente su di me, poiché se mi avessero avvertita delle ‘abitudini’ del capo non mi sarei nemmeno scomposta più di tanto. Se n’è andato anche il sole che non ha potuto asciugare il mio costume ancora umido né i miei capelli.
Nella fretta di andarsene hanno portato con loro Satya, non che non me ne fossi accorta, ma ho preferito non interferire con l’operazione di sgombero richiamandolo a me e incontrando magari il suo disappunto nel doversi separare dalle manine di Prince e Paris con le quali prendeva parte ad una piccola catena.
Non mi sembrava il momento più opportuno per fare la madre possessiva.
La seccatura è che ora dovrò andare a riprenderlo, e sinceramente me lo sarei risparmiato volentieri, data la situazione. Mi infilo il miniabito nero che portavo sopra al costume quando sono arrivata, le infradito dello stesso colore e raccolgo i giochi e le mie cose. Sulla sabbia ci sono vari oggetti che non mi appartengono, mentre nella borsa ne mancano altrettanti che invece mi appartenevano, come ad esempio il mio adorato libro di poesie.
E’ evidente che a Neverland dovranno avvenire una serie di restituzioni.
Spero solo di non incontrarlo.
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LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Sep 19, 2003
Ore 20:00
Devo essere veloce. Non voglio incontrarlo. Non voglio spiegazioni. Non voglio discorsi.
A nulla servirebbero, a nulla.
Ho avuto più avvertimenti, più occasioni per capire che nella mia situazione non c’è spazio per questo genere di cose, ho avuto il tempo per far funzionare il cervello e capire che il motivo che mi ha portata qui è il lauto stipendio che mi consente di garantire a Saty la vita che merita e a me le giuste gratificazioni dopo anni di sacrifici. Non ho ancora ben capito che cosa mi abbia fatto credere di poter seguire l’istinto, il cuore, la passione senza alcun tipo di conseguenze, che cosa mi abbia indotto a pensare che con me sarebbe stato diverso da una semplice distrazione, in fondo me l’ha detto anche lui che sono la sua ‘fuga dalla realtà’. Proprio non l’ho capito e non lo voglio nemmeno sapere ora che sono davanti a questa porta. Non sono arrabbiata se non con me stessa per essere stata così superficiale nei confronti della mia vita. Non lo devo incontrare. Non lo devo più incontrare.
NELLA TESTA DI MICHAEL
Ormai è tempo che mi sono rassegnato all’idea di essere solo.
Così come è tempo che ho lasciato la mia volontà nelle mani degli altri, in modo che potessero prendere decisioni sugli affari al posto mio. Quasi tutte, almeno.
Poi anche sulla mia vita. Perché anche la mia vita è affare altrui, da sempre.
Ho sognato di averla mia un numero illimitato di volte, e per un breve tempo ci sono anche riuscito. Ma lo sappiamo tutti e due, ormai siamo adulti, che non si può vivere nel buio, che l’amore non è qualcosa che si possa relegare al ramo di un albero ad un orario stabilito.
E’ un omicidio e io non voglio perseverare in questa colpa perché è tale, cercare di mettere dei confini a qualcosa che per definizione non ne deve avere.
Nascondermi come un ladro nella mia stessa proprietà.
Si, perché non è stata una parentesi, non è stata un’avventura, non è qualcosa che finisce quando ci separiamo quello che provo, il modo in cui mi fa sentire quella piccola creatura strana dai lineamenti fini, dall’accento straniero, dai capelli di seta.
Non posso permettermi di essere così vulnerabile, lo sono già in tutto il resto, non posso.
Ancora una volta mi sono comportato da egoista lasciandola sola, ciò che non avrei mai voluto. Ma sono solo un ipocrita a pensarlo ora che l’ho fatto.
Oggi non ho resistito e tornato da Los Angeles le ho raggiunte al mare. Mi mancava l’aria.
Era sul bagnasciuga e le è volato via il pareo deliziandomi di quelle forme così rotonde e perfette.
La sogno di notte. Ma anche di giorno. E’ un’ossessione. Dolce come miele caldo.
E’ così buffa in tutto quello che fa. Mi ha scambiato per un paparazzo e mi ha inveito contro per proteggere i miei bambini. Ma quando ma la sono trovata davanti non mi è uscita la voce.
Io sono Michael Jackson, io sono colui che ha ballato, parlato, cantato davanti a milioni e milioni di persone e la voce mi è sempre uscita, è sempre stata la mia forza. Cosa può aver fatto una così piccola creatura strana per farmi mancare il fiato in questo modo. Mi spaventa terribilmente. Cosa mi sta succedendo?
Lo immagino cosa mi sta succedendo. E non voglio. A 45 anni ho un baule pieno di insuccessi nella vita privata. Michael non ci sa fare come Michael Jackson.
E così, in mezzo a tutto il casino che sto attraversando, fra il singolo che non esce, Mottola e la sua meschinità, Barnstein con il fiato sul collo e il contro-documentario in uscita a breve, non ho ancora trovato il modo di dirle che non posso permettermi questo. Non posso permettermi niente.
Non posso concedermi questi sogni. Non posso fuggire dalla realtà.
Ma nello stesso tempo non ce la faccio.
Oggi non dovevo vederla.
Sarebbe stato tutto più facile.
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Una signora dalla carnagione olivastra mi fa entrare ed accomodare nel grande atrio interamente rivestito da pannelli in legno chiaro senza troppe cerimonie.
E’ un ambiente molto differente da quello della festa che, probabilmente, si è svolta in una delle tante dependance che circondano la villa principale.
Sono sicura di trovarmi nella magione principale perché guardandomi intorno lo ritrovo in ogni cosa.
Lui è il soggetto di tutti i quadri stile rinascimentale ad ambiente bucolico, lui appare in numerose gigantografie, nelle foto di famiglia, negli oggetti stravaganti sui mobili, nell’arredamento raffinato ma classico, semplice, lui nel grande pianoforte a coda che si intravede nel grande salone centrale, lui nel caminetto spento.
Rimango persa nelle mie osservazioni fin quando una voce proveniente dalle mie spalle mi fa quasi trasalire.
-Ciao Andrea, vieni, i bimbi sono di qua, stanno guardando i cartoni-
E’ diverso da prima. Si è liberato da quei vestiti eccessivamente variopinti per il suo trend ed indossa una semplice camicia verde scuro con dei pantaloni neri larghi. Immancabili a questo punto i mocassini.
Mi fissa interrogativo, non sa come muoversi ed è in attesa di una mia reazione.
Ovviamente tutti i miei auspici a non incontrarlo sono stati vani ed all’inquietudine che da ciò deriva vanno ad aggiungersi agitazione ed emozione, dato il tempo che non ci vediamo.
Con un cenno del capo annuisco –non riesco a fare di più- mi accingo a seguirlo mentre mi fa strada lungo un corridoio che si apre in una stanza dotata di ogni attrezzo sia possibile immaginare come funzionale alla visione di film o all’ascolto di musica. Su un grande divano bianco a ‘elle’ stanno tutti e quattro i bimbi, imbambolati davanti ai Looney Tunes.
Satya come si può immaginare è il più preso di tutti, tanto che nemmeno si accorge del mio arrivo.
-Te l’avevo detto che avrebbe apprezzato la mia collezione- lo sento abbozzare dall’altra parte dell’immenso stanzone, cercando evidentemente di rompere il ghiaccio con un sorriso dei suoi.
-Già- è la mia risposta telegrafica, corredata da una faccia neutra, abilissima a celare il battito di un cuore che mi sta per esplodere nel petto.
-Puoi venire un attimo?- è la domanda che mai avrei voluto sentire.
-In realtà dovremmo andare, Saty deve cenare ed abbiamo disturbato abbastanza- annaspo senza guardarlo negli occhi.
-I bambini hanno già mangiato tutti- rivela avvicinandosi quel tanto che basta a prendermi delicatamente la mano per condurmi nella cucina adiacente. Nessuno sembra aver fatto caso alla nostra presenza.
-Andrea io..- cerca di iniziare la frase ma ormai satura e decisa a porre fine a questo enorme malinteso lo blocco all’istante.
-No Michael..senti, non credo ci sia molto da dire, non desidero avere motivazioni, spiegazioni, scuse o quant’altro, non ce n’è bisogno, davvero- spero di essere abbastanza lapidaria.
-Per favore, ti chiedo di lasciarmi parlare, non sai ancora cosa voglio dirti..- riprova ma io sono decisa.
-Davvero, ti prego, poniamo fine a questo..non so nemmeno come chiamarlo, so solo che deve finire-
-Perché deve finire?- negli occhi un velo di malinconia.
-Perché io non voglio niente. Non ho nessun ruolo da rivendicare, non c’è nessun motivo per cui dopo due settimane che non ci vediamo devi sentirti in dovere di portarmi nella tua cucina per darmi spiegazioni sulla tua vita. Io so benissimo chi sei. Non mi è mai passato nemmeno per l’anticamera del cervello che uno come te potesse davvero essere interessato ad una come me. Complice forse la naturale disillusione che le vicissitudini della vita mi hanno portato ad avere nel cuore, non so, ma non ho mai creduto che i nostri due mondi potessero intersecarsi davvero, non ho mai creduto che i momenti che abbiamo passato insieme potessero scendere da quell’albero. Mai. Ho creduto e credo tutt’ora, che tu abbia voluto trascorrere qualche momento di spensieratezza, di fuga dalla realtà, come tu stesso l’hai definita, e che io in quel momento mi trovavo nel posto giusto al momento giusto. Sei un uomo molto attraente e desiderabile, di cose come questa te ne saranno capitate molte altre. Tu hai la tua vita, la tua musica, i tuoi figli. Davvero, credimi, io ti capisco, lo so che non puoi dare più di così e non ti giudico, né te ne faccio una colpa. E’ così e basta- Non so come ci sono riuscita ma l’ho detto davvero.
Mi osserva con occhi stupiti e spenti allo stesso momento. Sono lucidi.
-Hai detto una cosa terribilmente vera ed un’altra altrettanto terribilmente falsa, ma così falsa che mi fa male- mi comunica con un filo di voce e gli occhi che stanno per annegare sotto uno spesso strato umido.
Il peso di un enorme mattone di cemento sullo stomaco non mi consente di proferire parola.
-La cosa vera è che non posso dare più di così- A questo punto una lacrima gli solca impietosa una guancia ed io sento il cuore sbriciolarsi dentro al petto, in una dolorosissima implosione.
Mi avvicino piano e con il dorso della mano afferro quella goccia calda e gli poso una lunga lenta carezza sulla guancia. Quel contatto mi fa trasalire, ancora una volta. Con una mano blocca la mia e la porta alla bocca, dove mi posa piccoli e silenziosi baci sul dorso e sul palmo in uno spasmo incontrollato e ad occhi chiusi. Chiudo gli occhi anch’io e quello che sento in fondo al cuore è dolore puro.
-Ora dobbiamo andare. Ciao Mike e grazie di tutto- Sussurro a mezza voce, sopraffatta dal magone.
Prendo Satya in braccio e sparisco velocemente dietro alla porta, da dove lui mi sta ancora fissando con lo sguardo carico di dolore e tenerezza.
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SANTA YNEZ, California. CASA MIA. Sep 19, 2003
Ore 22:00
Ho appena messo a letto il mio piccolo ometto, dopo avergli fatto un bel bagnetto per ripulirlo un po’ dalla sabbia di oggi. Mi ha raccontato che a Neverland si è divertito tantissimo oggi pomeriggio, dice che Michael (lo chiama così) li ha portati tutti sull’otto volante, poi sulla ruota panoramica e poi ancora sulle molle.
Poi hanno cenato tutti insieme con pollo e patatine fritte davanti alla tele, gli scoppiano gli occhi di gioia mentre lo dice, e mi racconta di quanto gli sia piaciuto giocare con Prince alle costruzioni..
Lo guardo così felice e trattengo a fatica le lacrime, gli accarezzo il capo e non ho il coraggio di dirgli che non potrà più passare giornate come quelle, perché la sua mamma è una grandissima stupida.
Ancora vestita del mio costume nero, con la pelle ancora salata ed i capelli asciugati naturalmente che formano lievi onde ribelli, mi sdraio sul divano ed accendo la tv. Mangio una pesca e poi opterò per qualcos’altro dato che non ho ancora cenato.
Sto per avventurarmi nella visione di un bel filmone strappalacrime che è proprio quello che mi ci vuole in una situazione simile, quando sento suonare alla porta.
Un po’ allarmata mi dirigo allo spioncino per vedere di chi si possa trattare vista l’ora, ma tutto quello che mi viene concesso è un individuo con un impermeabile blu notte totalmente allacciato e con il bavero rialzato a nascondere buona parte della faccia, sormontato da sciarpa e cappello neri.
Lo riconosco dall’occhiale da sole a goccia. Impossibile sbagliare.
Apro immediatamente ancora con la bocca aperta e gli faccio cenno di entrare.
-E’ successo qualcosa Michael? Che ci fai qui a quest’ora?- chiedo preoccupata
Lo osservo mentre si libera da tutti quegli strati di tessuto, finché, rimasto finalmente in camicia, si accinge a parlare, e,dopo aver estratto dalla tasca il mio libricino di poesie che pensavo di aver perso, recita tutto d’un fiato, senza posare lo sguardo al testo.
- I ragazzi che si amano
I ragazzi che si amano si baciano in piedi
Contro le porte della notte
E i passanti che passano li segnano a dito
Ma i ragazzi che si amano
Non ci sono per nessuno
Ed è la loro ombra soltanto
Che trema nella notte
Stimolando la rabbia dei passanti
La loro rabbia il loro disprezzo le risa la loro invidia
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Essi sono altrove molto più lontano della notte
Molto più in alto del giorno
Nell'abbagliante splendore del loro primo amore
(Jaques Prèvert)-
Mentre mi sto ancora chiedendo se ho le allucinazioni o se è tutto vero mi guarda fisso negli occhi con il viso più serio che gli ho mai visto fare, poi con due dita mi prende il mento e a mezza voce dice ancora
-Non mi hai permesso di dirti quale era la cosa falsa che mi faceva male, prima- sorride mordendosi il labbro inferiore mentre ho l’impressione di non avere più alcun battito cardiaco, poi continua
-La cosa falsa è che sei solo il mio passatempo. Che siamo stati insieme sull’albero perché ti trovavi al momento giusto nel posto giusto. Che l’ho fatto solo per evadere un po’ dalla realtà. Che mi sono capitate tante cose come questa. No, non mi è capitato altre volte di sentire il respiro mancarmi nel petto quando mi allontano da qualcuno, di sentire il cuore battere in gola e lo stomaco rigirarsi alla sua vicinanza. No, questo non mi è mai capitato. Ed ora se vuoi scusarmi sono venuto a prendermi quello che mi appartiene da un po’-
Dice così, poi con una leggera trazione mi avvicina per il mento alle sue labbra, mentre l’altra mano mi passa dietro alla schiena e mi tira con forza verso di sé.
A questo punto il bacio che ci scambiamo è passione pura, non saprei come altro descriverlo. Chiudo gli occhi avvolta dalla sensazione di caldo abbandono che mi sta provocando la sua lingua, che insegue la mia aiutata da una mano che, con una decisione mai vista prima, si è posizionata dietro alla nuca per rendere ancora più profondo l’incastro. Pur con gli occhi chiusi cerco di immaginare le nostre due sagome in piedi nel salotto mentre si fondono come fossero state realizzate appositamente per quello. Il cuore batte forte nel petto, mimando la violenza di una serie infinita di pugnalate non più utili a spargere sangue nelle membra, ma atte a spargere voluttà pura nelle povere vene di entrambi, martoriate dalla sofferenza.
Tutto questo tuttavia non mi basta per dirgli quello che provo, e lo sento, nemmeno a lui.
Colto da un’impellente esigenza di darmi di più mi solleva da terra facendo aderire le mie gambe nude ai suoi fianchi e, tenendomi sospesa a mezz’aria, continua quella spietata danza all’interno delle nostre bocche che potrebbe farmi restare secca da un momento all’altro, quando, colto da pietà o chissà cos’altro, mi lascia la facoltà di respirare staccandosi dolcemente da me e posandomi a terra, per poi dirmi nell’orecchio fra mille baci frenetici
-Non sei un passatempo, tu sei il mio tempo infinito, e io ti voglio -
Completamente satura di emozioni la mente non risponde più ad alcun richiamo, accecata da quelle parole, da quella luce negli occhi, gli prendo la mano delicatamente e lo conduco in camera mia, dove lo libero da tutto quello che indossa, e dove lui fa lo stesso con me, in una danza lenta, atroce ed inesorabile.
Non riesco a descrivere con lucidità le sensazioni che mi da l’intreccio di corpi creatosi istantaneamente sul copriletto, sento il mescolamento dei sensi raggiungere il suo apice, il dolce si mescola al salato, la fame con la sete, il giusto con l’ingiusto. Il desiderio mi invade come una tromba marina e mi trascina proprio come farebbe lei verso il fondo, ed io mi lascio trasportare inerme in questo abisso di baci umidi che si spostano dal collo alle spalle, alle clavicole, ai seni, al ventre, e di nuovo tornano profondi alle labbra, mentre le mani si intrecciano, in disperati sussulti si aggrappano, si toccano, accarezzano, spostano. Lo bacio sul naso e sulla fronte, lo accolgo tra le mie braccia e lo bacio ancora dietro all’orecchio, e ancora sulla spalla e sentono le mie mani quel groviglio nervoso e compatto di muscoli sul petto, e assetate le labbra lo cercano, lo baciano, ancora e ancora e ancora.
Non ho mai provato un’emozione così forte nella mia vita e tutto il mio corpo ne da conferma con fremiti e disperati spasmi, vittima di una danza imposta dal lui, che con gemiti sommessi sopra di me scandisce il ritmo del mio piacere, per un tempo sufficiente a farmene perdere la concezione, fino al punto in cui raggiungiamo l’isola dei giardini approdandovi insieme, in una deflagrazione estatica quasi dolorosa.
La dichiarazione della mia morte arriva dopo poco, quando mi posa un lungo languido caldo bacio sulle labbra, passandomi una mano fra le ciocche umide di sudore e scendendo lungo il profilo di tutto il corpo. Lo accarezzo sul volto madido e gli sposto una ciocca dagli occhi che mi appaiono ancora umidi ed accesi.
Il silenzio della sera è rotto dal canto di alcuni grilli e dai nostri respiri affannati che si rincorrono.
I nostri sguardi persi l’uno nell’altro. Rimango così, non so per quanto tempo, persa nella sua oscurità mentre mi stringe a sé accarezzandomi la schiena lievemente, senza dire una parola.
Schiavi di questa giostra proibita, rimaniamo intrappolati in questo limbo di emozioni finché, sopraffatti da questa forza, sentiamo l’esigenza di fonderci di nuovo.
CAPITOLO 9
NELLA TESTA DI MICHAEL
L’insonnia è un disturbo del sonno caratterizzato dall’impossibilità di addormentarsi e di dormire per un tempo ragionevole durante la notte. Può avere diverse cause e sicuramente altrettante conseguenze, non sono un medico né un’enciclopedia, ma posso dire di sapere certamente di cosa si tratta, perché ne soffro dal ’92. Ogni sera la stessa storia. Sento la stanchezza nei muscoli e nelle ossa, sento la testa pulsare sotto i crampi dell’emicrania che, come un ordigno ad orologeria, esplode irradiandosi dalla nuca alle tempie, spargendosi meticoloso come guidato dai tentacoli di un polpo. Quindi mi corico ed aspetto.
Ma loro non si chiudono e lui non arriva a prendermi.
Dal modo in cui giaccio sdraiato su un fianco e con il capo sorretto da una mano si direbbe che anche stasera sono vittima di questo disagio.
Invece no.
Stasera sono sveglio per scelta. Sono sveglio perché devo guardarla mentre dorme. Devo cogliere ogni minimo particolare di questo corpo levigato da Venere che giace supino accanto al mio.
Devo percepire il calore che emana questa pelle e devo assorbirlo sulla mia. Devo perdermi nella regolarità di questi respiri. L’ho assaggiata, l’ho odorata, mi sono perso in lei fino a percepirne l’essenza nascosta.
Ma ancora non mi basta. Quindi devo stare sveglio per averla ancora mia, finché il tempo lo concede.
Umile suddito di questo dio, non posso far altro che godere di tutto ciò che vorrà concedermi senza riserve, forse con un poco di timore, ma in modo da non avere mai più rimpianti.
Ed è questo che ti voglio promettere mio piccolo amore sconosciuto.
Non rinuncerò più a te.
Ora Michael ha deciso che è il suo turno.
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-Ti prego Mat, parliamone meglio- la mia è più una preghiera che una richiesta.
-Te l’ho detto, non c’è da discutere delle ore, io non sono pronto- il tono è secco e pungente.
-Cosa vuol dire che non sei pronto? Sei pronto a dirmi dolci parole che non senti, sei pronto ad infarcirmi la testa con le tue stronzate, sei pronto a farmi credere che stiamo per trasferirci in quel monolocale insieme per iniziare una nuova vita, la nostra, e a 30 anni non riesci a prenderti le tue responsabilità?- non è voce la mia, è solo un rantolo disperato.
-Io le mie responsabilità me le prendo eccome, ti starò vicino, ti accompagnerò io alla clinica e terrò la tua mano in ogni istante, ma non chiedermi di più, perché io non voglio un figlio, non sono pronto, non è nei miei piani e tu non hai il diritto di farmi sentire in colpa per questo- Gli avvocati parlano sempre bene, non c’è dubbio. Quando l’ho conosciuto era diverso. Siamo cresciuti praticamente insieme, alle superiori stessa scuola, stessa città, stessi amici. Ricordo i pomeriggi sulla panchina ai giardini pubblici a leggere e suonare De Andrè con la chitarra, le sere d’estate seduti sui muretti in mattoni davanti al tramonto disegnato dai tetti delle case, lui mi teneva la mano, io gli appoggiavo il capo sulla spalla ed ero felice.
Eravamo due ragazzi semplici, che si accontentavano di un pezzo di pizza mangiato in piedi fuori dal cinema, di una sigaretta rubata e di un bacio proibito, alla sera.
Mi riaccompagnava a casa e rimanevo per ore su quel divano senza nemmeno togliermi la giacca, scioccata, ubriaca, stregata, impazzita da quell’amore per quel ragazzo alto e dallo sguardo profondo, che con gli anni cambiò.
Poi il vuoto. A quelle parole il vuoto.
Forse quel ventre sempre più gonfio non era nemmeno nei miei di piani, non in quelli più imminenti almeno, ma lo sentivo crescere, e più passavano i giorni meno ero in grado di trovare un ragionevole motivo per interrompere il mio miracolo. Avevo 27 anni, un lavoro, una casa. Perché no?
Perché lui non era pronto.
Non era una motivazione sufficiente per me. Era troppo bello sentire quello che sentivo crescere dentro. Non fui mai più così felice per il resto dei miei giorni. E ringrazio ancora oggi me stessa per non avergli dato retta.
Io e il mio ventre in lievitazione partimmo verso le 5:00 di una mattina di aprile.
Sul tavolo un biglietto in cui gli auguravo ogni bene, ma soprattutto che il rimorso non lo divorasse, eventualmente, un giorno.
Alla base del mio mal de vivre credo ci sia proprio questo senso di abbandono, di rifiuto e di inadeguatezza, penultima eredità di quel ragazzo moro che mi portava sulla moto per i campi, con i capelli al vento che alla fine odoravano di benzina. Non potrò mai dimenticare.
Mentre appena sveglia cerco di elaborare queste reminiscenze di sonno ancora con gli occhi chiusi, ormai consapevole che certi incubi mi seguiranno per sempre, il fatto di essere vestita solo da un leggero lenzuolo mi riporta a quanto accaduto nella realtà.
Mi giro di scatto illudendomi di non essere sola questa volta ma, quasi senza sorpresa negli occhi, constato che nulla è cambiato in realtà, è solo passato più tempo. E come al solito ho solo sognato.
Mi alzo svogliatamente, infilo una camiciona da uomo verde scuro di cui non conosco assolutamente la provenienza e mi dirigo alla cameretta di Saty per svegliarlo e portarlo da Pedra, come farei in una delle tante giornate di lavoro della mia vita.
Arrivata in sala però mi devo ricredere su molte cose.
Seduto sul divano e vestito di una maglietta bianca con lo scollo a v da cui fa capolino una collanina in oro bianco senza ciondoli ed un paio di jeans neri, si trova un altro ragazzo moro e dallo sguardo magnetico, diverso da quello dei miei incubi perché mi sorride e tiene in braccio mio figlio con dolcezza, mentre Tom insegue Jerry nel tubo catodico.
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SANTA YNEZ, California. CASA MIA. Sep 30, 2003
Ore 20:00
-Pronto?-
-Andrea!-
-Ciao Michael. Dimmi.-
-Dove sei finita?-
-A casa..ma è successo qualcosa?-
-Perché tutte le volte che ti cerco deve per forza essere successo qualcosa?!?-
-Non lo so..magari è stato male qualc..- non mi lascia terminare la frase.
-Mi dici cosa ti sta succedendo? Perché non sei venuta al solito posto stasera?- il tono è concitato e rivela una certa inquietudine mista a rabbia.
-Ero..cioè sono molto..stanca e devo fare diverse cose a casa- abbozzo senza convinzione.
-Capisco-
Silenzio. Un minuto. Due minuti. Tre minuti. Quattro minuti.
Cinque minuti in cui ho il tempo di ricostruire mentalmente il corso degli eventi e di vedere chiaramente l’epilogo di tutta questa faccenda, da cui mi vedo uscente con il cuore sanguinante, la mente annebbiata ed il corpo tumefatto dal dolore. L’immagine non mi lascia nemmeno il tempo di respirare.
-Te lo chiedo ancora. Cosa sta succedendo Andrea?- la voce morbida e graffiata allo stesso tempo mi ricorda una sua canzone, non ricordo quale.
Dopo una lunga ed estenuante pausa che sfianca anche me rispondo con voce bassa
-Niente Michael, te l’ho detto, sono solo stanca- Trattenere le lacrime con un interlocutore così attento è una mission impossible, questo mi è chiaro fin da subito, ma ci voglio comunque provare.
Tutto inutile ovviamente.
-Bene. E’ evidente che non vuoi parlarne con me. Lo rispetto, ma avrei preferito una risposta più chiara anziché questa scusa pietosa che, scusa se te lo dico, offende sia la mia che la tua intelligenza- Sembra deluso in qualche modo.
-Michael mi sembra fuori luogo da parte tua un discorso così, quando sei sparito in passato non mi pare tu abbia lasciato molte spiegazioni dietro di te, ora perché dovrei farlo io?-
-Quindi non sei ‘solo stanca’ a quanto vedo- afferma provocatorio.
-No, è vero, e allora?-
-E allora dimmi la verità, dimmi che vuoi stare sola, dimmi che non mi vuoi sentire, che non mi vuoi tra i piedi, ma non prendermi per un idiota!- Una pioggia di spilli roventi nel petto sarebbe meno pungente di queste parole pronunciate a mezza voce, apparentemente pacate ma cariche di risentimento. E di verità.
-Voglio stare sola- esce così, pilotata da una volontà che non credevo di avere.
-Benissimo. Buonanotte-
Rimango con il ricevitore in mano per diversi interminabili minuti ad ascoltare quel suono sordo e sincopato della linea che è stata interrotta, forse nel tentativo di tenere virtualmente in vita quella conversazione disastrosa che ha appena avuto luogo. Dentro di me solo il vuoto.
Non posso sopportare di soffrire ancora, ora ne ho la piena consapevolezza. Quindi non so per quale strano gioco della logica contorta che alberga nel mio cervello ho deciso che se rovinassi tutto io, prima che lo facciano lui o gli altri o la vita stessa, ne soffrirei meno.
Perché quegli scheletri sono ancora troppo reali, perché quegli incubi sono ancora costanti, perché quella insopportabile sensazione di solitudine e di abbandono vive in me alimentandosi delle mie speranze, perché dopo quello che ho passato solo un’ingenua ci crederebbe ancora, si lascerebbe trasportare da lui.
Da quel maledetto sentimento.
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Oct 7, 2003
Le giornate sono tutte dannatamente uguali. Sveglia, colazione, portare Saty da Pedra, ringraziarla, venti minuti di strada per arrivare a Neverland, giro delle gabbie, pulizia, cibo e lavaggio, due coccole agli affezionati, pranzo, aggiornamento registri, casa, solitudine.
Ogni tanto è spontaneo l’istinto a voltarsi verso quell’albero estremamente riconoscibile per la sua mole, l’albero dei ricordi.
Da una settimana sembro aver perso ogni scopo.
Il solo momento positivo della giornata è la sera, quando mio figlio mi racconta della sua giornata. E’ così piccolo eppure sa tante cose più di me.
Mentre faccio questi pensieri lavo in silenzio il recinto di Melville senza prestare molta attenzione a quello che mi circonda nel mondo reale. Una voce alle mie spalle rompe l’incanto e mi strappa violentemente dal mio universo ovattato facendomi anche sobbalzare.
-Andrea sei pronta? Stanno arrivando!- Afferma John, il mio collega, venendo verso di me a passo spedito e con in mano alcuni attrezzi per aiutarmi a pulire il recinto.
-Chi sta arrivando?!?!- sono in preallarme
-Ma come chi? Non ti ricordi?!? Oggi è il giorno delle visite esterne! Michael ed i bambini dell’ospedale stanno arrivando a vedere gli animali! – sembra allarmato anche lui, ma dalla mia dimenticanza.
-Oddio non me ne ricordavo! Sono indietrissimo, non ce la faremo mai a fargli trovare tutto pulito!- sento la mia voce lontana e sommessa, come se fossi fuori dal mio corpo dall’agitazione.
-Facciamo quello che possiamo, non preoccuparti, ormai saranno qui a minuti!!!- cerca di rassicurarmi.
Con gli occhi fuori dalle orbite ed il cuore impazzito per l’ennesima volta, cerco di darmi una pulita anche se è tutto inutile, la canottiera nera di cotone è piena di terra, gli shorts di jeans pure, gli stivaloni di gomma alti fino al ginocchio da neri hanno subito una variazione cromatica al marrone/verde muschio.. insomma un disastro! L’unica cosa che posso fare è tirare indietro un ciuffo ribelle dei miei capelli sciolti sulle spalle con una forcina. Mi sento una schifezza e fra pochi minuti lo rivedrò, dopo più di una settimana di silenzio stampa. Che cosa pretendo in fondo? L’ultima volta l’ho trattato malissimo, l’avrò ferito.
-Ragazzi venite, questo è Melville, il mio elefante indiano- Si avvicina riparato da un ombrello nero che regge con la mano destra. Con la sinistra indica il gigante buono che, sentite le voci, non si fa pregare e si avvicina curioso e speranzoso di ricevere una nocciolina.
Il gruppetto formato da una trentina di piccoli visi e da tre accompagnatrici si allinea al di là del recinto e lancia sguardi curiosi nella nostra direzione, finchè anche il suo di sguardo si posa su di me senza cambiare espressione, ed è lì che mi sento davvero in vetrina.
-Michael, che cosa mangia un elefante? Quanto vive? Quanti anni ha lui?- una pioggia di piccole domande lo invadono, ma lui è più furbo
-Vedete quella bellissima signorina lì?- cerco di far finta di niente, dando per scontato che non si stia riferendo a me dato che nel recinto siamo in quattro, di cui tre sono donne. – sì quella con i capelli lunghi che fa finta di non aver sentito, dovete sapere che è un po’ timida- lo dice abbassando la voce con fare complice, come se stesse confessando loro un segreto di stato. –Ecco, lei è il dottore degli animali e risponderà a tutte le vostre domande!- Se fossimo soli lo picchierei.
Visibilmente imbarazzata mi avvicino alla staccionata sorridendo ed inizio a fornire spiegazioni di vario tipo, cercando di utilizzare un linguaggio il più possibile familiare. Tutti i piccoli avventori sono interessatissimi e rimangono ad ascoltarmi per una buona mezzora, finchè Melville non decide di voler giocare e con la proboscide non pensa bene di annaffiarmi completamente. Tutti ridono divertiti pensando che si sia trattato di uno sketch preparato ed io arrossisco a dismisura.
Oltre che sporca ora sono anche bagnata. Perfetto direi.
Anche lui sta ridendo ed alla sola visione di quel sorriso sento un calore nascermi alla base del ventre e risalire lungo la schiena facendo tappa allo stomaco, per poi andare a morire sulle orecchie, arroventandole. Questa è l’ennesima riprova di quanto sia grave la mia situazione con quell’uomo.
Prima di andarsene con il folto gruppo per continuare il giro mi rivolge un’occhiata severa e carica di altre emozioni che però non voglio decifrare. Lo guardo allontanarsi prima di abbassare gli occhi a terra, già gonfi di lacrime.
Ore 19:00
Non so per quanto tempo sono rimasta qui dentro. Non so nemmeno se sto piangendo o se ho smesso. So solo che non ho voglia di rientrare a casa, non ci troverei nessuno, mio figlio stasera dorme con Anita e Juan, i figli di Pedra, una volta la settimana gli lascio il permesso di dormire con gli amichetti. Ho solo voglia di starmene qua, immersa nel silenzio di questo posto incantato, con il mio amico grande e gentile che non ha mai smesso di starmi accanto, cullandomi con l’immensa proboscide color cobalto.
E’ come se fossi seduta su uno spicchio di luna.
E non so perché né come, ma accarezzando la sua pelle ruvida e fredda mi viene voglia di parlare con lui.
Anche se non può capire le mie parole potrà sentire i sussulti del mio cuore dolente; e questo mi basta mentre gli dico – sai, per quanto cerchi di evitarlo sono piena di lui, in ogni angolo del mio corpo.
Sento la sua voce, il suo calore, la sua sofferenza, la sua energia. Ed ho così paura Melville, ho così paura di quello che stiamo facendo, ho paura che non sia giusto, ho paura di soffrire di nuovo.
Sono sempre stata convinta del fatto che sia possibile amare fino alla pazzia solo una volta nella vita, perché solo una volta sarà possibile sopportare la sofferenza che quell’amore finito causerà.
Tutte le altre volte si amerà, ma in modo differente. Si amerà in modo profondo, si amerà incondizionatamente, si amerà con passione, con rispetto, con forza…ma mai, mai sarà come quella cosa che chiamare amore è riduttivo, perché è di più, è più forte, è dolore.
Ed il cuore non potrà mai più sopportare una tale pesantezza. E’ autoconservazione.
Ed io il cuore così gonfio non ce l’ho mai avuto. Perché lui mi completa, esterna con le parole i miei pensieri più nascosti, comprende con uno sguardo il mio stato d’animo, comunica con il mio silenzio. L’unione delle nostre anime è onnipresente e spaventosa, e per quanto cerchi di sottrarmi all’infinito non riesco a sradicare questa piccola immensità che mi conduce alla pazzia, non riesco a curare questo tumore del mio cuore. Ne morirò credo-
-Ne morirò anch’io allora..- Ovviamente l’elefante non può aver parlato. Quindi mi volto lentamente cercando di liberarmi dalla calda stretta di colui che mi ha ascoltato per tutto il tempo, per inquadrare l’altro interlocutore segreto. Rimango basita e senza la forza necessaria per fare una qualunque azione.
In piedi dietro a Melville c’è lui. Nell’oscurità brilla una camicia chiara e brillano i suoi occhi incollati ai miei.
-..perchè le cose che hai descritto io non le ho mai provate. Fino ad ora. E te l’ho detto, è così, ci sono dentro. Non riesco a concentrarmi su niente Andrea, ho la testa tutta impegnata da te-
-Perché?- non so il motivo della mia domanda, so solo che la mia bocca pronuncia questa parola. Il mio viso solcato da calde lacrime frequenti pensa ad individuarne uno simile per trovare un po’ di conforto, e lo trova, irrimediabilmente uguale, solcato da lacrime opposte, di fronte.
-Lo sai perché- la voce gli trema e non ha il coraggio di avere più coraggio di me.
Senza altre parole inutili, ormai schiavi ed affetti dalla più grave delle malattie ci avviciniamo compiendo un paio di passi ciascuno nella direzione dell’altro. Mi prende le mani e le porta alla bocca dove mi posa delicatamente alcuni baci sui palmi e sui dorsi.
Il violento fremito che mi attraversa mi da il coraggio necessario per prendergli il viso e baciarlo piano, mentre lui allaccia le mani dietro alla mia schiena, intensificando la stretta progressivamente. Lo sento tremare e l’istinto è quello di stringerlo di più, come a voler riscaldare un corpo dal gelo. Ma non è quello il motivo per cui trema, e lo sento dal contatto intenso che stabilisce con il suo corpo contro al mio.
Mentre mi stringe così forte riesco a percepire ogni battito del suo cuore e anche a constatare che è sincrono con i miei, sento una morsa in gola che mi impedisce di inspirare l’aria nei polmoni ed è dolorosa, esattamente come la stavo descrivendo prima a Melville. Dopo il contatto breve ed intenso delle nostre labbra, all’interno delle quali hanno luogo svariate danze che descrivono i percorsi tortuosi delle nostre lingue, sento di dover interrompere quest’iniezione di eroina pura prima che il desiderio diventi insopportabile, insieme alla dipendenza.
-Michael…fermati- cerco di articolare mentre lui non ha intenzione di eseguire le mie preghiere e continua in vorticose carezze lungo i fianchi e la schiena corredate da impietosi baci lungo la linea del collo.
-P..per favore…Michael..ferm..-
-Perché?- La voce è bassa e roca, sembra solo un rantolo nel mio orecchio sinistro
-Perché devo andare a casa, devo farmi una doccia..e poi qui è pericoloso, potrebbero vederci..- dico non senza fatica, pentendomi amaramente per aver interrotto la mia ora d’aria settimanale.
-Resta con me stanotte- dice ancora impegnato a torturarmi i lobi.
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Mi conduce per mano lungo un sentiero che assomiglia a quello che avevamo percorso la notte che siamo fuggiti dalle guardie, anche se al buio tutto può essere. Camminiamo velocemente lungo le vie della notte e stavolta non arriviamo ad alcuno spiazzo illuminato, anzi, è ancora buio pesto ed io ho perso il senso dell’orientamento da un pezzo. Arriviamo ad una costruzione non troppo grande, estrae una chiave dalla tasca, la inserisce nella toppa ed apre. Sull’uscio scatta una lucina gialla che illumina l’ingresso dolcemente. Un piccolo corridoio conduce ad un’unica stanza rettangolare il cui arredamento è costituito da una scrivania su cui è poggiato un portatile nero, una lampada, una sedia, un divano rosso di velluto. Il pavimento è rivestito da parquet chiaro, alle pareti un unico quadro raffigurante un veliero. La finestra socchiusa e i cuscini del divano schiacciati suggeriscono una presenza in quello spazio ben precedente al nostro arrivo. E’ tutto così strano.
-Vieni, accomodati- il tono è caldo e rassicurante, mi fa anche un sorriso limpido dei suoi.
Mi siedo sulla scrivania anche se non posso fare a meno di sentire un pò di imabarazzo.
-Dove siamo?-
-In uno dei miei nascondigli- uno sguardo furbo. Si morde il labbro inferiore.
-Nascondigli?- Una persona con una casa così grande ha bisogno di un nascondiglio esterno?! Non posso fare a meno di trovarlo strano.
-Si, mi piace isolarmi dal resto ogni tanto. Qui ho tutto quello di cui necessito. Mi aiuta a pensare-
-Ci vieni spesso?-
-Sono stato qui quasi ogni sera da quando..da quando abbiamo parlato al telefono l’ultima volta-
-Non abbiamo parlato Mike. Abbiamo litigato-
-E’ stato uno scambio di opinioni- cerca sempre di vedere le cose dal lato buono. Non so se la cosa mi piaccia o se mi faccia innervosire. Forse tutte e due.
-Michael io..- cerco di dare un senso al turbinio di pensieri che mi hanno animata per tutti questi giorni.
-Shh- mi posa delicatamente l’indice sulle labbra.
-Avremo tempo per parlare di questo, amore- sussurra piano mentre mi domando se ho sentito bene. La mia perplessità traspare anche sul volto perché lo vedo sorridere e aggiungere
-Non averne paura, è la cosa più bella che ci sia al mondo- non so davvero come faccia ma legge i miei pensieri meglio di quanto potrei mai fare io.
-Tu non hai paura?- chiedo senza voce
-Si, ne sono rimasto terrorizzato subito, appena l’ho capito. Poi però stasera ti ho sentito dire quelle cose a Melville, e tutto è sembrato così chiaro, così limpido. E’ un mistero da cui non voglio scappare-
Dice così prendendomi i fianchi ed avvicinandosi a me, che lo accolgo delicatamente fra le mie gambe divaricate.
-Ed ora vorrei che sentissi quello che provo per te- annuncia lapidario in un soffio.
Mi bacia, lo bacio. Si tratta di qualcosa di veloce, è solo un preludio, perché si deve concentrare sul collo, sulle spalle, sulle braccia, sulle mani, in una tempesta di piccoli baci regolari, intensi ed equidistanti che funge da battistrada alle mani che percorrono appena dopo gli stessi percorsi.
Il pavimento sotto di noi riceve la compagnia di una canottiera seguita a ruota da una camicia azzurrina a cui si aggiungono una maglietta bianca, una forcina per capelli, un paio di jeans scuri lunghi accompagnati dai loro omologhi più corti. Le mani si incontrano ed esplorano con perizia i punti più nascosti senza che mai avvenga la separazione delle labbra fuse; si insinuano fra i capelli, accarezzano la schiena, i fianchi, ed infine eliminano i pochi strati che impediscono la fusione dei nostri corpi che si incontrano mentre sono ancora seduta sulla scrivania. Lui ora ha il potere e lo usa danzando davanti a me con movimenti decisi e delicati, che divengono poi più veloci e profondi. L'immenso piacere mi fa piegare la testa all'indietro, mentre la sua mano mi attraversa i capelli, di nuovo. Ci sdraiamo sul pavimento, colti da un’esigenza urgente quanto dolorosa di incontrarci e di intrecciarci, perché quello sembra essere il nostro unico scopo, quello per cui siamo stati concepiti, costruiti.
Il ritmo della passione ci tiene uniti in una danza lenta, in cui mi ritrovo in un momento ad essere artefice della sua agonia che si esprime in gemiti e parole soffocate nel respiro, ed in mani che cercano il mio corpo poco più sopra, accarezzandolo con passione e rispetto in ogni suo punto e spostando i capelli che scendono a formare una tenda naturale sui nostri volti; nel momento successivo sono invece vittima della sua volontà di ribaltare la situazione, che si esprime in decise onde sul mio bacino, lente, ritmiche ed inesorabili ogni secondo che passa di più.
Sento solo i cuori battere all’unisono, completamente sincronizzati, pronti ad aumentare la velocità dei battiti non appena sarà necessario, non appena saremo insieme anche nella dimensione parallela a questa.
E ci arriviamo, senza fretta né esitazioni, ci arriviamo mentre lui chiude gli occhi strizzandoli e dicendo il mio nome con le labbra umide e dischiuse e mentre io, accecata dall’ineffabile, non riesco a soffocarmi e mi lascio andare in un sospiro lungo e rumoroso sotto di lui.
Quello che si sente dopo è il lungo tremore generalizzato dei nostri corpi ansimanti, che si chiudono l’uno sull’altro per proteggersi da questa insostenibile pazzia.
Nel lungo momento che segue mi perdo nell’oscurità brillante dei suoi occhi, e mi rendo conto che tutto quello che ho provato prima non sarà mai nemmeno lontanamente paragonabile a quello che sento ora.
Allora lo bacio ancora mentre mi stringe forte su questo pavimento, e firmo definitivamente l’armistizio con i sentimenti a cui per diversi anni non avevo più permesso l’accesso dentro di me. Ora sono liberi di passare e scorrono fluidi come sangue viscoso nel letto di un fiume che arriva alla foce mantenendo intatta tutta la veemenza acquisita nei punti in cui le pareti erano più strette, in un getto potente ed infinito che esplode in tutto il suo vigore nell’atrio, poi nel ventricolo di questo cuore tornato vivo, tornato a battere.
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Re: Il fantasma che si innamorò di un uomo
CAPITOLO 10
Cara mamma, ce n’è voluto di tempo ed eccomi qua, finalmente!
Sono giunta in una terra lontana con un bambino piccolo da crescere da sola, pochi vestiti e tante incertezze. Non ti ho chiamata però, volevo farcela con le mie sole forze. Certo non è stato facile, ma sono felice, sono felice per quello che ho.
Ogni sera vado a letto con la mente libera, leggera, perché leggero è il mio animo, scevro da ogni senso di colpa o rimpianto; loro, fedeli compagni di una vita, sembrano aver preso un’altra direzione, sembrano avermi abbandonata ad un bivio.
Non c’è più niente che dobbiamo condividere evidentemente.
Mamma ho conosciuto un uomo.
E’ una delle situazioni più rischiose in cui mi sia mai ritrovata in vita mia. E’ una persona molto importante e per ora non posso proprio dirti di più. Ma credimi se ti dico che non mi crederesti.
Ho fatto tanti discorsi sull’amore, tante congetture, ho detto tante parole sul fatto che non mi sarei mai più innamorata come lo ero stata di Matteo, ho addirittura giurato assurdamente che non mi sarei mai più innamorata proprio.
Ed ora, solo ora, posso dirti la verità. E’ vero. Avevo ragione. Non sono per niente innamorata.
IO AMO. AMO pregi e difetti, AMO forza e debolezza, lo amo nella sua interezza, lo amo nella maniera più piena e consapevole.
Non sono innamorata, non mi batte il cuore quando lo vedo, perché il cuore non appartiene più a questo corpo, è lui a possederlo. Non sono libera di provare nessuna emozione a meno che non sia lui a volerlo. Sono preda e carnefice, innocente e colpevole, pura e contaminata, sono neve, sono fuoco, sono vittima di un peso così grande che talvolta penso di non poterlo nemmeno sostenere.
E’ così doloroso mamma, fa così male questo sentimento.
Sanguino tutta e ancora non ci credo.
Il mio Saty cresce ogni giorno di più. Ormai è un piccolo ometto. Impara tutto.
Com’è difficile però fare la mamma, davvero non immaginavo.
Grazie però mamma, hai fatto così tante cose per me, io non so come hai fatto, solo ora che capisco devo dirtelo: con me sei stata una santa.
Grazie mamma.
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Oct 8, 2003
Ore 4:00am
-Quindi si può amare una volta sola secondo te?- Un dolce e flebile sussurro proviene dalle mie spalle mentre ancora sdraiata sul parquet ho raccolto il mio corpo a uovo, piccolo oggetto splendidamente contenuto fra il petto e le braccia della dolce ossessione che emana calore dietro di me.
-Bè..in un certo modo credo di si- Quando mi pone una domanda così a bruciapelo si aprono sempre delle falle nel mio muro di certezze sui sentimenti, e sento il dubbio insinuarsi come lava calda fra le mie fessure segrete.
-Credo che tu abbia ragione- concede fermamente
-Davvero la pensi così anche tu?- sono quasi sbalordita, di solito abbiamo pareri contrastanti io e lui.
-Si, solo che sono preoccupato-
-Perché?-
-Perché mi domando in quale modo potresti amarmi ora,avendo tu già amato in quel modo. Sarà sicuramente diverso da ieri, e domani, ed in ogni momento successivo ad un altro, come mi amerai? Sarà sempre diverso dall’attimo precedente, e forse data la sua mutevolezza ti stancherà, o stancherà me- afferma accigliato
-Il fatto che sia mutevole non implica che diminuisca, anzi- Cerco di sembrare sicura di quello che dico mentre mi rendo conto della mia codardia nel non volergli concedere di più
-Ma se dovesse diminuire invece? Io sono una persona complicata, imprevedibile, di pessimo carattere, lo sai. Non sarebbe difficile stancarsi-
-Tu sei quello che sei. Non si può comandare quello che si prova, si può solo decidere di accettare o no. Ma lui sarà lì, anche se tu dovessi essere pessimo, lui sarà lì. Ed io posso solo scegliere se viverlo o meno, consapevole del fatto che prima o poi finirà. Perché nulla è per sempre, nulla è incorruttibile, tutto passa, tutto scorre, si trasforma, nulla è imperituro- argomento dall’alto della disillusione che non mi lascerà mai.
-Tu sarai lì per me dopo le mie assenze, dopo i miei sbalzi, dopo le mie mancanze?- mi giro e lo ritrovo a pronunciare questa frase con gli occhi lucidi, di nuovo.
-Io ho scelto di viverlo. Quindi Si -
-Non mi chiedi se farò lo stesso per te?
-No-
-Perché?- l’espressione è seria ed attenta alle mie sfumature.
-Perché non potrai-
Mi osserva mentre mi alzo e mi rivesto velocemente, colta da un lieve imbarazzo entrato in punta di piedi dalla finestra non appena il buon senso mi ha fatto realizzare che è bene rientrare a casa prima di addentrarsi in un campo minato.
-Andrea-
-Si?-
-Non andartene. Sento freddo quando non ci sei-
-Devo-
-Ci vediamo domani?-
-Si-
-Mi amerai ancora come oggi?-
-Forse di più-
-Anche se sono imperfetto?-
-In ogni caso, in ogni circostanza, in ogni sfumatura, ad ogni costo-
-Sei tutto ciò di cui ho bisogno, lo sei sempre stata-
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Oct 10, 2003
Il sole di mezzogiorno brucia a picco sulle calde mattonelle intorno alla piscina surriscaldandole.
Anche l’acqua è tiepida ed il cielo, di un azzurro intenso quasi surreale, non si lascia guardare, prigioniero del riverbero.
Le voci dei bambini risuonano squillanti accompagnate dal perpetuo rumore dell’acqua che viene costantemente scomposta, vittima di vorticose manine che giocano.
Sul bordo della piscina c’è Grace che con un asciugamano rincorre Paris tentando invano di impedirle di buttarsi di nuovo in acqua.
Gli uccellini cinguettano.
Nemmeno un alito di vento.
In me regna la pazzia suscitata dal ricordo dei giorni passati, trascorsi su un’isola chiamata illusione, dove suona una musica dolce e fuggevole chiamata speranza, dove non fa mai freddo ma nemmeno caldo, dove appena finito di lavorare venivo prelevata da mani grandi e calde e trasportata verso varie mete; ora sulla spiaggia in una gita notturna, ora a cena su una terrazza bianca, ora a vedere un tramonto, ora semplicemente sul divano a vedere la tv o a parlare dell’ultimo libro di Saramago, ora sotto una stella dove sentivo il calore del suo corpo affannato ed il tocco deciso di mani esperte che mi conducevano per mano su quell’altura chiamata Everest, da dove era impossibile indurre la mente a pensieri razionali poichè annegata nel piacere. Per discendere dalla cima più alta venivo poi trasportata dai soffi del suo respiro e dal tocco dei suoi baci caldi, lunghi, oleosi, spietati. Si spietati, perché quest’essere ha il potere di annichilire ogni mia volontà, piegandomi come un fiore appena dischiuso ed ancora privo della giusta robustezza nello stelo alla mercè di un vento poderoso e tiepido, che non lascia percepire l’imminenza dell’atroce morte perché piacevole come brezza marina; ma il fiore inesperto e cagionevole perisce sotto di esso. Si sa.
A tali dolci momenti di abbandono si intrecciano ovviamente momenti di oblio, di lontananza, di noncuranza, di indifferenza, di solitudine, di nulla, in un inesorabile caleidoscopio capriccioso, ricco di sfumature e toni, sempre più spesso assetato di luce.
Ed io, pur consapevole della sua pericolosità, mi trovo avviluppata così profondamente e pienamente in questo sentimento bieco e meraviglioso nella sua interezza che, sebbene il paragone con l’antagonista celeste risulti più appropriato ai più, devo dire che più volte mi sono chiesta se avessi a che fare con un parente del diabolico. Se non con il diabolico in persona.
D’altra parte sempre di angelo si tratta.
La situazione mi è talmente sfuggita di mano che ho smesso di pormi delle domande circa la moralità, le origini della mia noncuranza verso le persone che mi circondano che, hanno ovviamente mutato notevolmente atteggiamento nei miei confronti, la mia ingenuità, impulsività degenerata brutalmente in pura incoscienza, sulla mia professionalità, sulla mia maternità.
Penso a questo semi-sdraiata sul bordo dello specchio d’acqua con le gambe distese e le braccia puntate dietro la schiena a formare un appoggio al mio corpo sfiancato. Penso a questo e lo guardo. Lui se ne sta in disparte, riparato da un ombrello bianco e dalle enormi frasche di un albero poco lontano. Indossa una camicia bianca di lino e pantaloni larghi scuri, tiene in braccio il piccolo Blanket e sorseggia il suo succo di arancia come se niente fosse. Come se io non avessi messo la mia vita all’asta per stargli accanto.
Mi sorride e forse ride di me, mentre attanagliata dal caldo torrido cerco sollievo fra gli spruzzi generati dai giochi di Satya e Prince che inumidiscono il costume celeste.
Lo guardo abbassare di poco le lenti scure per gettarmi un’occhiata intensa di cui credo di immaginare il significato. Poi si porta due dita sulle labbra e mi invia un bacio segreto, la cui esistenza è testimoniata solo dall’invisibile canale creatosi fra i nostri occhi.
Sono sua e lo sa.
Maledizione.
Poi uno dei suoi gorilla si avvicina rompendo l’incanto di quel quadro così dannatamente perfetto e raro per bisbigliargli qualcosa all’orecchio. Lo vedo alzarsi, posare il piccolo fra le braccia di Grace ed avviarsi con passo spedito verso l’ingresso.
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LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Nov 13, 2003
Una giornata come tante, una giornata fra tante. Una giornata che non dimenticherò mai.
Parcheggio il carcassone a quattro ruote nello spazio riservato accanto al vialetto.
Scendo.
Ho ancora gli stivali in mano e sono pronta a sfilarmi le scarpe da ginnastica per iniziare il mio lavoro.
In lontananza un grosso furgone con il logo: ‘zoo park LA’ dipinto in qualche modo su una foglia di palma da cocco stampata su una portiera gialla.
Mi avvicino senza capire. Due personaggi mai visti prima indossano un berretto dello stesso colore mentre armeggiano nelle gabbie. Sembrano a loro agio.
Soffia un vento strano, freddo in una giornata calda.
Tutto sembra ostile oggi, anche il rumore dei miei passi decisi sul selciato, ansiosi di scoprire le ragioni di ciò che sta accadendo.
Mi avvicino ad uno degli uomini vestiti da super mario e mi accingo a parlare, ma vengo bloccata da una voce alle mie spalle.
-Miss Ferrari?- un damerino sulla quarantina. Bel vestito. Ben rasato.
-Si?-
-Lei è la signorina Andrea Josè Ferrari?- non sembra intenzionato a perdere tempo
-Mi dica- ora sento che quella sensazione di nausea alla base della gola si sta trasformando in fastidio. E’ la sua voce. O forse il portamento artefatto.
-Le chiedo gentilmente di seguirmi- ora che è vicino spero solo che non cerchi una stretta di mano perché non riuscirei. Ma non sembra interessato. Sembra invece che abbia fretta di concludere un affare.
-Mi scusi, lei chi è? Cosa sta succedendo qui?-
-La prego, mi segua in un luogo dove sarà più appropriato parlare, le verranno fornite le spiegazioni che chiede-
-Guardi, io tra tre minuti inizio il turno, devo lavorare, sa, io lavoro qui- sono al limite della sopportazione e mi scanso istintivamente da quella sagoma oramai troppo vicina.
-Oggi non dovrà lavorare Miss Ferrari, la prego di seguirmi in ufficio, come le ho detto le verranno fornite le motivazioni necessarie, ma qui non possiamo parlare, quindi, per favore- dice così e mi fa cenno di precederlo nella direzione opposta a quella che avevo intrapreso, quella decritta dal vialetto grigio che porta da Melville, quella che da tre mesi a questa parte è la mia routine. Ormai esasperata da quest’uomo con le unghie curate, dalla sua voce e dalle sue richieste, decido di assecondarlo.
Se non altro avrò una spiegazione.
Entriamo in casa.
Sono in soggezione.
Non vedo il proprietario di questi muri da circa tre settimane. Non lo sento al telefono. Non ho alcuna notizia di lui.
Ma ci sono abituata. Ho accettato tempo fa questa faccia della medaglia, mostrandomi anche disinvolta di fronte alle conseguenze. Ma ora, come ogni volta, sono distrutta dalla sua assenza, dalla sua noncuranza, dalla sensazione di essere solo il suo giocattolino.
L’ho salutato in una sera stellata uguale alle altre, una serata normale trascorsa fra le nostre quattro cose, a parlare di progetti, dei sogni. L’ho salutato e non sapevo che non l’avrei rivisto.
Ora mi trovo qui nel suo ingresso e vengo condotta da questo ‘collaboratore’ attraverso interminabili corridoi.
Lui non è qui, lo sento.
La via crucis termina finalmente un una grande stanza rotonda, presumibilmente un soggiorno adattato ad ufficio. Un tavolo rettangolare. Una donna ben vestita seduta solitaria lungo il lato più lungo mi squadra da dietro le lenti multifocali.
-Prego, si accomodi- il tono è gentile e metallico. Sembra un disco registrato. Se non avessi buona memoria non riuscirei a riconoscere in lei, stando alle fattezze attuali, la persona che mi ha assunto a lavorare qui.
Faccio per parlare ma vengo azzittita dal disco che ha nel petto.
-Il suo lavoro qui è stato eccellente e la ringraziamo per aver voluto collaborare con noi. Come spesso accade però nelle grandi aziende, si è reso necessario un taglio del personale, ed essendo lei l’ultima assunta, putroppo, è anche stata selezionata nella lista dei primi a doverci lasciare. Ovviamente riceverà la liquidazione, il pagamento di questa e della prossima mensilità, nonché il rimborso dei danni morali per licenziamento senza preavviso.
Ci rendiamo conto del disagio ma non possiamo fare altrimenti-
Se avessi inghiottito il deserto avrei la gola più libera di come la sento ora.
Azzardo solamente –Mi scusi, ma perché questo ‘taglio’ del personale? E chi sono quei signori, cosa fanno nelle gabbie? Dove stanno portando i miei animali?- le lacrime calde mi solcano la guancia rovente dal nervoso
-Signorina Ferrari le circostanze hanno reso necessario questo, i motivi sono privati, gli animali verranno trasferiti in una struttura competente, non si preoccupi-
-Ma..non potete fare questo, i miei animali…- ormai sono solo rantoli fra i singhiozzi
A questo punto interviene il viscido imbellettato –Signorina Ferrari, perdoni la franchezza, ma quelli non sono i suoi animali. Quegli animali appartengono a Mr Jackson, ed ha disposto lui per il loro trasferimento, così come ha disposto per questo nostro colloquio. Ed ora la prego, si calmi e ci conceda di poter dedicare del tempo anche alle altre persone che devono ricevere delle comunicazioni. Riceverà un’ottima liquidazione, non deve preoccuparsi..-
-Cosa pensi che me ne freghi dei soldi eh? COSA ME NE FREGA??- accecata dalla rabbia non riesco a trattenere la disperazione.
Buio.
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La strada verso casa è un fiume nero un po’ sfocato dai diversi litri di dolore che occupano le mie orbite violacee.
Mi hanno dovuto accompagnare alla macchina sorreggendomi per un braccio. Mi hanno dato dell’acqua mentre piangevo disperata alla vista di Melville su quel grosso camion, infagottato e spaventato. Volevo avvicinarmi per salutarlo ma non è stato possibile. Io correvo per il vialetto ed il camion si allontanava. Avrei solo voluto dirgli di non aver paura, che lo avrei trovato e sarei rimasta con lui. Avrei voluto scusarmi perché oggi non riceverà il bagnetto delle sei. Oggi non giocheremo insieme.
Nessuna coccola per lui. Oggi.
Entro in casa. Butto a terra la borsa.
Mi siedo sul pavimento.
La testa mi scoppia e pesa. Devo sorreggerla con le mani.
Non sono ancora in grado di rielaborare quello che è appena successo.
Non sono in grado di chiamare Pedra e dirle che sono a casa.
Non sono in grado di chiedermi come lui abbia potuto farmi una cosa del genere.
Sul pavimento una busta bianca.
La apro.
Un assegno da centomila dollari.
Un biglietto.
La calligrafia ibrida fra un minuscolo ed uno stampatello irregolare ed ondeggiante in quel mare bianco di cellulosa fine.
CrediMi è meglio così.
Non avrEi mai dovuto incontrarti. VorrEi poter dirE lo stesso di te ma sarebbe irreale dato che chiunque a questo mondo sa cHi sono. Tu mi hai dovuto incoNtrare per forza.
Quello che non sarebbe dovuto succedere lo sappiamo entrambi.
Non so neMMeno se sia giusto dire che è stata tutta colpa mia peRché suonerebbe come un bieco tentativo di alleggerirmi la coscienza assumendomi, almeno sulla carta, tutte le colpe.
Però è vero, e credi a quest’uNica ed ultima cosa, credici e piUttosto non credEre a nessun’altra parola che ti ho detto, ma credi a questo come se fosse l’ulTimo pensiero che ti rivolgo: non è stata colpA tua.
Non posso dimenticare cHi sono. Non posso vivere nel tuo mondo.
Io sono Michael Jackson e non potrò mai essere qualCosa di diverso.
Non credere a Quello che ti ho detto in questi mesi, non credere a niente. E’ stata tutta una bugia.
Perdonami sE puoi.
Accetta il piccolo aiuto cHe ti ho lasciato. Fallo per tuo figlio.
Michael.
Buio.
CAPITOLO 11
NELLA TESTA DI MICHAEL
Non saprei dire che sensazione è questa.
Sto così male che non sento niente.
E’ come una di quelle ferite gravissime in cui dopo una sparatoria, un incidente, un’aggressione, una terribile colluttazione ti sei fatto così male che i recettori del dolore cutaneo non rispondono più.
Come quel giorno, saranno passati trent’anni.
Randy ed io stavamo giocando sul vialetto con le macchinine quando arrivò un enorme pitbull rabbioso che, senza darci il tempo di realizzare cosa stesse succedendo, ci si avventò contro. Ricordo solo che quando alzai lo sguardo riuscii a percepire gli enormi canini a pochi centimetri dal viso ed il caldo ansimare di quell’animale inferocito.
Quando mi ripresi ero sul tetto della berlina di Joe tutto tremante. Davanti a me mio fratello con uno squarcio orribile sulla caviglia. Potevo vederne l’osso. Ma lui non faceva che ripetere che non sentiva nulla. Tutti pensarono che si trovasse in stato di shock, ma io invece gli credo, solo ora comprendo.
La ferita che aveva era così grave che non riusciva a sentire il dolore.
Quella è stata una delle prime volte in cui sono stato codardo, mi sono salvato, sono riuscito a balzare sull’auto senza assicurarmi di essere stato seguito dal mio fratellino.
Come ora.
L’ho lasciata ad agonizzare da qualche parte con il cuore squarciato in due.
Vorrei poter dire che non ho avuto scelta ma forse non è vero.
Il punto è proprio questo. Non so più cosa è e cosa non è.
Non posso coinvolgerla.
Non posso trascinarla verso il fondale che mi attende.
Non posso. Non posso. Non è possibile. Non è….
Sento che sto per soffocare.
……………..
SAN FRANCISCO, California. Ritz Carlton Hotel. Nov 16, 2003
- Michael, dovrebbe visionare ancora una paio di documenti-
- Sono terribilmente stanco Mark, possiamo farlo domani?-
- Non credo ci sarà tempo, domani dovremo incontrare Mr. Backerman per i dettagli del comunicato da rilasciare-
- Perché mi fanno questo?-
- Per quello che rappresenti. Per quello che potrebbero ottenere-
- Io non ci posso ancora credere, io non ce la farò mai a sostenere una cosa del genere-
- Devi, non hai scelta-
- In realtà c’è sempre un’altra scelta-
- Questa volta non conviene. Hai visto i risultati di quello che successe nel ‘93. Non si è rivelata la mossa giusta-
- Io non parlo di quello-
- E di cosa allora?-
Lungo momento di silenzio.
- Vado, sono stanco e pieno di dolori. Ho bisogno di dormire-
- Ci vediamo domani mattina-
Nessuna risposta, solo il tonfo sordo di un battito nel cuore di un fantasma.
SANTA YNEZ, California. CASA MIA. Nov 18, 2003.
-Tesoro ma come è potuta succedere una cosa simile?- mi allunga un bicchiere d’acqua con un po’ di valeriana. Gli occhi umidi e tumefatti non fanno trasparire il vero colore dell’iride.
Sono secchi e quel che è peggio vuoti, come se in tutte le lacrime che hanno versato ci fosse stata l’anima da cui mi sento privata.
I quattro giorni trascorsi da quel maledetto giovedì pesano come montagne su quel che resta del cuore di nuovo spezzato.
- Pedra è tutto orribile. Ho cambiato due volte continente per fuggire al dolore e lui mi ha raggiunta di nuovo. Mi hanno licenziata. Lui è sparito e mi ha lasciato questo. Soldi. Ha risolto con dei soldi. Mi ha fatta trattare come una normale dipendente che deve essere licenziata. Non una telefonata. Non una spiegazione. Niente, quello che sono io, niente- non sono parole, è un continuo biascicare qualcosa che non ha senso il mio.
Il cibo ed il sonno da cui il mio corpo è ormai privo da giorni si fanno notare, e prendono la forma di pesanti occhiaie violacee, di una voce metallica che esce dalla bocca scolorita, di un volto apatico. Privo di tutto. Come un paesaggio invernale nebbioso, senza confini, sfumature, contorni. Umido. Omogeneo. Freddo.
Pedra mi stringe a sé, incapace di dare sollievo a troppa delusione, desiderosa soltanto di prendere qualche secchiata della mia angoscia e portarla al posto mio.
Ore 20:00
Cercando di dare una parvenza di normalità a questo susseguirsi di minuti che compongono il mio tempo vacuo mi accingo a preparare la cena. Lo scenario è calmo e confortevole, tranquillo e quotidiano. Anita Juan e Satya giocano sul pavimento ai piedi di Pedra che sta facendo zapping con il telecomando.
Non mi lascia sola un attimo. Non ho avuto bisogno di chiederglielo, lo fa e basta. E con lei i figli, mio figlio, mia madre dall’Italia, tutti cercano di starmi vicini a loro modo, perfino i mobili, le piastrelle, il soffitto, con il loro scricchiolìo familiare stanno cercando di infondermi la pace, di consolarmi, di risvegliare il mio cervello assonnato e malato.
Sciacquo i pomodori.
Il rumore dell’acqua che sbatte sulla ceramica del lavandino.
Il camioncino in plastica dei piccoli che scorre sul parquet forse rigandolo.
La sigla del tg:
Una voce femminile, il tono è concitato.
-…E passiamo alle ultime notizie di oggi. Il cantante Michael Jackson è stato accusato formalmente di aver abusato di un minore. Lo ha rivelato lo sceriffo della contea di Santa Barbara Jim Anderson nel corso di una conferenza stampa trasmessa in diretta stamane alle 9:00.
«Invitiamo Michael Jackson a costituirsi alle autorità e a consegnare il suo passaporto» ha detto lo stesso Anderson, ed ha poi aggiunto che la cauzione per il rilascio a piede libero di Jackson dopo che si sarà costituito sarà di 3 milioni di dollari. Secondo fonti ufficiali Jacko starebbe per consegnarsi.
«Il mandato di cattura - come annuncia la polizia - è stato emesso per violazione dell'articolo 288 del codice penale californiano, che riguarda molestie pedofile». Si tratta di capi d'accusa plurimi di molestie, ed un verdetto di colpevolezza potrebbe comportare una condanna ad oltre ventotto anni di carcere sommando tutti i capi di imputazione.
La polizia aveva condotto martedì una perquisizione a sorpresa nel faraonico ranch californiano della pop star. Secondo alcune fonti i legali del cantante starebbero negoziando con le autorità i termini della sua consegna. Il cantante è stato visto per l'ultima volta a Las Vegas dove sta girando un video promozionale per il suo nuovo disco.
Secondo il suo avvocato, Jackson sarebbe accusato di molestie sessuali da un ragazzino dodicenne, nell'ambito di un'indagine che va avanti da un paio di mesi.
«Le scandalose accuse contro Michael Jackson sono false. Non ha mai fatto del male a un bambino in nessun modo. Sono accuse infamanti e senza fondamento, e se ne dimostrerà la falsità in un’aula di giustizia». Questa la dichiarazione di Stuart Backerman, portavoce del cantante, che ha poi spiegato come l'accusato stia organizzando il suo ritorno a Santa Barbara per confrontarsi immediatamente con i suoi accusatori.
La perquisizione arriva nel giorno in cui la Epic Records ha messo in vendita «Number Ones», un’antologia di grandi successi che comprende anche il nuovo singolo «One more chance», mentre il prossimo 26 novembre la rete televisiva Cbs trasmetterà uno speciale su Jackson con dei filmati di vecchi concerti. La carriera di «Jacko», ragazzo prodigio fin dai tempi dei Jackson Five, ha iniziato a declinare proprio dal 1993, anno nel quale venne accusato per la prima volta di molestie sessuali nei confronti di un minore: non venne presentata alcuna causa, e si dice che la star, che si era sempre dichiarata innocente, abbia patteggiato un accordo multimilionario.
Continueremo a tenervi aggiornati su questa vicenda nelle prossime ore.
Ora spazio alle notizie di borsa…-
-Oh madre de Dios!- l’esclamazione di Pedra echeggia nel piccolo salottino dove tutto è immobile.
I bambini hanno smesso di giocare e stanno imbambolati verso la televisione. Non hanno capito esattamente il senso di quello che è stato detto, ma ne hanno colta tutta la gravità dai volti delle loro mamme.
Nessun rumore, solo quello dell’acqua che scorre imperterrita creando zampilli microscopici che rimbalzano furiosi fuori dal lavello.
Sul pavimento una pioggia di gocce carminie si inseguono dopo essere fuoriuscite dal dito che mi sono appena tagliata.
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Il piccolo fuoristrada corre veloce sull’asfalto che pochi giorni fa percorrevo piena di folle disperazione e carica di risentimento. Credo di averlo anche odiato per quello che mi ha fatto. Per come mi ha fatto trattare. Sembrava tutto così chiaro, lineare.
La star capricciosa che si è stancata del giochino, e siccome appunto è una star, c’è chi è addetto a sollevarla dall’incombenza di scaricare le persone scomode.
Persone o cose, che importa, qual è la differenza.
Ancora una volta ho dovuto ricredermi.
Perché con lui non è come sembra.
Nulla lo è.
Si è allontanato prima che tutto succedesse.
Per non vedere l’isola che non c’è invasa da sconosciuti e perlustrata da bianchi guanti in lattice.
Per non vedere le persone perdere il lavoro, per non vedere gli animali andare via.
Per non far vedere tutto questo ai suoi piccoli.
Si è allontanato da me prima che potessi anche solo immaginare quello che sarebbe successo.
Per non coinvolgermi.
Per proteggermi.
A modo suo.
Parcheggio fuori dal grande cancello.
Il silenzio di tomba mi avvolge surreale.
Un freddo pungente nelle ossa.
Sono venuta qui ben consapevole del fatto che probabilmente Michael avrà lasciato lo stato o che comunque non sia assolutamente a pochi passi da qui.
Sono qui nella speranza, vana fino ad ora, di incontrare qualcuno che possa anche solo darmi una blanda indicazione, perché io lo devo vedere.
Lo devo raggiungere ovunque sia.
Devo fargli sentire un po’ di calore, deve sentire che ci sono.
Ho visto fin dove può spingersi il senso di solitudine dentro di lui, fin dove può portarlo.
Ho visto tutto e la cosa mi ha terrorizzata.
Devo dirgli che non è solo.
Devo dirgli che ho bisogno di lui.
Devo dirgli che mi manca.
Devo dirgli che lo amo.
E che non lo abbandono.
Mentre penso a tutto questo il vuoto è intorno a me.
Mi appoggio alle sbarre metalliche del cancello cercando di fare capolino all’interno con lo sguardo.
Lacrime di ansia scendono contro la mia volontà.
Quand’ecco che forse mi viene dato quello che cerco.
Un enorme suv si avvicina all’uscita molto lentamente.
Avanza verso di me ed il grande cancello inizia ad aprirsi automaticamente costringendomi a sganciare le mani. Mi sposto cercando con gli occhi di penetrare i vetri scuri durante il breve lasso che il tempo mi concede di sé.
Tutto sembra perduto e proprio quando mi supera del tutto scorgo un volto noto.
-Wayne!- non è un urlo perché la macchina è ancora vicina e non vorrei essere inopportuna.
Non accenna a fermarsi però.
-Waaaaaaaaaayyne!!- mi volto per far arrivare meglio le onde sonore ma è inutile perché prende velocità.
So che è l’unica occasione che ho quindi decido di sfruttarla fino in fondo.
Mi metto a correre lungo la strada ad una sola corsia avvolta dai rami degli aceri, la macchina non potrà prendere troppa velocità in una strada così stretta ed io non ho il tempo di salire sulla mia, che mi renderebbe più efficace l’inseguimento.
Quindi corro, usando quell’ultimo mezzo che mi è rimasto.
Corro e corro per diverse decine di metri con tutta l’energia che ho in corpo, lunghi ed interminabili momenti in cui penso a lui, mi concentro sul suo sorriso per scacciare la fatica, penso di nuovo a noi e a quanto vorrei dirgli che siamo perfetti, che nulla è perduto, che sarò al suo fianco anche se non mi vorrà, corro e chiamo, corro e piango, corro e spero, corro e combatto, corro e amo.
Le forze mi abbandonano e rallento, un acuto dolore mi coglie a sinistra spezzandomi in due, la testa mi gira. Un rantolo indistinto mi avvisa che se non mi fermo lo farà il cuore.
Raccolgo l’ultima energia usando il poco fiato di cui dispongo per contrarre il diaframma e strizzare i polmoni un’ultima volta, emettendo un disperato ed acuto
-WAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAYYYYYYYYYYYNEEE!-
Quindi mi accascio sulle ginocchia tossendo ed attendendo da un momento all’altro che il cuore intero fuoriesca dal petto insieme al respiro affannoso ed irregolare che mi attanaglia.
In gola il sapore del sangue.
Negli occhi le lacrime calde e salate segnano il mio fallimento.
Tremano le mani mentre cerco una soluzione che non c’è.
Mi sbilancio su un fianco e sento l’asfalto fresco sulla pelle.
Buio.
Cara mamma, ce n’è voluto di tempo ed eccomi qua, finalmente!
Sono giunta in una terra lontana con un bambino piccolo da crescere da sola, pochi vestiti e tante incertezze. Non ti ho chiamata però, volevo farcela con le mie sole forze. Certo non è stato facile, ma sono felice, sono felice per quello che ho.
Ogni sera vado a letto con la mente libera, leggera, perché leggero è il mio animo, scevro da ogni senso di colpa o rimpianto; loro, fedeli compagni di una vita, sembrano aver preso un’altra direzione, sembrano avermi abbandonata ad un bivio.
Non c’è più niente che dobbiamo condividere evidentemente.
Mamma ho conosciuto un uomo.
E’ una delle situazioni più rischiose in cui mi sia mai ritrovata in vita mia. E’ una persona molto importante e per ora non posso proprio dirti di più. Ma credimi se ti dico che non mi crederesti.
Ho fatto tanti discorsi sull’amore, tante congetture, ho detto tante parole sul fatto che non mi sarei mai più innamorata come lo ero stata di Matteo, ho addirittura giurato assurdamente che non mi sarei mai più innamorata proprio.
Ed ora, solo ora, posso dirti la verità. E’ vero. Avevo ragione. Non sono per niente innamorata.
IO AMO. AMO pregi e difetti, AMO forza e debolezza, lo amo nella sua interezza, lo amo nella maniera più piena e consapevole.
Non sono innamorata, non mi batte il cuore quando lo vedo, perché il cuore non appartiene più a questo corpo, è lui a possederlo. Non sono libera di provare nessuna emozione a meno che non sia lui a volerlo. Sono preda e carnefice, innocente e colpevole, pura e contaminata, sono neve, sono fuoco, sono vittima di un peso così grande che talvolta penso di non poterlo nemmeno sostenere.
E’ così doloroso mamma, fa così male questo sentimento.
Sanguino tutta e ancora non ci credo.
Il mio Saty cresce ogni giorno di più. Ormai è un piccolo ometto. Impara tutto.
Com’è difficile però fare la mamma, davvero non immaginavo.
Grazie però mamma, hai fatto così tante cose per me, io non so come hai fatto, solo ora che capisco devo dirtelo: con me sei stata una santa.
Grazie mamma.
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Oct 8, 2003
Ore 4:00am
-Quindi si può amare una volta sola secondo te?- Un dolce e flebile sussurro proviene dalle mie spalle mentre ancora sdraiata sul parquet ho raccolto il mio corpo a uovo, piccolo oggetto splendidamente contenuto fra il petto e le braccia della dolce ossessione che emana calore dietro di me.
-Bè..in un certo modo credo di si- Quando mi pone una domanda così a bruciapelo si aprono sempre delle falle nel mio muro di certezze sui sentimenti, e sento il dubbio insinuarsi come lava calda fra le mie fessure segrete.
-Credo che tu abbia ragione- concede fermamente
-Davvero la pensi così anche tu?- sono quasi sbalordita, di solito abbiamo pareri contrastanti io e lui.
-Si, solo che sono preoccupato-
-Perché?-
-Perché mi domando in quale modo potresti amarmi ora,avendo tu già amato in quel modo. Sarà sicuramente diverso da ieri, e domani, ed in ogni momento successivo ad un altro, come mi amerai? Sarà sempre diverso dall’attimo precedente, e forse data la sua mutevolezza ti stancherà, o stancherà me- afferma accigliato
-Il fatto che sia mutevole non implica che diminuisca, anzi- Cerco di sembrare sicura di quello che dico mentre mi rendo conto della mia codardia nel non volergli concedere di più
-Ma se dovesse diminuire invece? Io sono una persona complicata, imprevedibile, di pessimo carattere, lo sai. Non sarebbe difficile stancarsi-
-Tu sei quello che sei. Non si può comandare quello che si prova, si può solo decidere di accettare o no. Ma lui sarà lì, anche se tu dovessi essere pessimo, lui sarà lì. Ed io posso solo scegliere se viverlo o meno, consapevole del fatto che prima o poi finirà. Perché nulla è per sempre, nulla è incorruttibile, tutto passa, tutto scorre, si trasforma, nulla è imperituro- argomento dall’alto della disillusione che non mi lascerà mai.
-Tu sarai lì per me dopo le mie assenze, dopo i miei sbalzi, dopo le mie mancanze?- mi giro e lo ritrovo a pronunciare questa frase con gli occhi lucidi, di nuovo.
-Io ho scelto di viverlo. Quindi Si -
-Non mi chiedi se farò lo stesso per te?
-No-
-Perché?- l’espressione è seria ed attenta alle mie sfumature.
-Perché non potrai-
Mi osserva mentre mi alzo e mi rivesto velocemente, colta da un lieve imbarazzo entrato in punta di piedi dalla finestra non appena il buon senso mi ha fatto realizzare che è bene rientrare a casa prima di addentrarsi in un campo minato.
-Andrea-
-Si?-
-Non andartene. Sento freddo quando non ci sei-
-Devo-
-Ci vediamo domani?-
-Si-
-Mi amerai ancora come oggi?-
-Forse di più-
-Anche se sono imperfetto?-
-In ogni caso, in ogni circostanza, in ogni sfumatura, ad ogni costo-
-Sei tutto ciò di cui ho bisogno, lo sei sempre stata-
LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Oct 10, 2003
Il sole di mezzogiorno brucia a picco sulle calde mattonelle intorno alla piscina surriscaldandole.
Anche l’acqua è tiepida ed il cielo, di un azzurro intenso quasi surreale, non si lascia guardare, prigioniero del riverbero.
Le voci dei bambini risuonano squillanti accompagnate dal perpetuo rumore dell’acqua che viene costantemente scomposta, vittima di vorticose manine che giocano.
Sul bordo della piscina c’è Grace che con un asciugamano rincorre Paris tentando invano di impedirle di buttarsi di nuovo in acqua.
Gli uccellini cinguettano.
Nemmeno un alito di vento.
In me regna la pazzia suscitata dal ricordo dei giorni passati, trascorsi su un’isola chiamata illusione, dove suona una musica dolce e fuggevole chiamata speranza, dove non fa mai freddo ma nemmeno caldo, dove appena finito di lavorare venivo prelevata da mani grandi e calde e trasportata verso varie mete; ora sulla spiaggia in una gita notturna, ora a cena su una terrazza bianca, ora a vedere un tramonto, ora semplicemente sul divano a vedere la tv o a parlare dell’ultimo libro di Saramago, ora sotto una stella dove sentivo il calore del suo corpo affannato ed il tocco deciso di mani esperte che mi conducevano per mano su quell’altura chiamata Everest, da dove era impossibile indurre la mente a pensieri razionali poichè annegata nel piacere. Per discendere dalla cima più alta venivo poi trasportata dai soffi del suo respiro e dal tocco dei suoi baci caldi, lunghi, oleosi, spietati. Si spietati, perché quest’essere ha il potere di annichilire ogni mia volontà, piegandomi come un fiore appena dischiuso ed ancora privo della giusta robustezza nello stelo alla mercè di un vento poderoso e tiepido, che non lascia percepire l’imminenza dell’atroce morte perché piacevole come brezza marina; ma il fiore inesperto e cagionevole perisce sotto di esso. Si sa.
A tali dolci momenti di abbandono si intrecciano ovviamente momenti di oblio, di lontananza, di noncuranza, di indifferenza, di solitudine, di nulla, in un inesorabile caleidoscopio capriccioso, ricco di sfumature e toni, sempre più spesso assetato di luce.
Ed io, pur consapevole della sua pericolosità, mi trovo avviluppata così profondamente e pienamente in questo sentimento bieco e meraviglioso nella sua interezza che, sebbene il paragone con l’antagonista celeste risulti più appropriato ai più, devo dire che più volte mi sono chiesta se avessi a che fare con un parente del diabolico. Se non con il diabolico in persona.
D’altra parte sempre di angelo si tratta.
La situazione mi è talmente sfuggita di mano che ho smesso di pormi delle domande circa la moralità, le origini della mia noncuranza verso le persone che mi circondano che, hanno ovviamente mutato notevolmente atteggiamento nei miei confronti, la mia ingenuità, impulsività degenerata brutalmente in pura incoscienza, sulla mia professionalità, sulla mia maternità.
Penso a questo semi-sdraiata sul bordo dello specchio d’acqua con le gambe distese e le braccia puntate dietro la schiena a formare un appoggio al mio corpo sfiancato. Penso a questo e lo guardo. Lui se ne sta in disparte, riparato da un ombrello bianco e dalle enormi frasche di un albero poco lontano. Indossa una camicia bianca di lino e pantaloni larghi scuri, tiene in braccio il piccolo Blanket e sorseggia il suo succo di arancia come se niente fosse. Come se io non avessi messo la mia vita all’asta per stargli accanto.
Mi sorride e forse ride di me, mentre attanagliata dal caldo torrido cerco sollievo fra gli spruzzi generati dai giochi di Satya e Prince che inumidiscono il costume celeste.
Lo guardo abbassare di poco le lenti scure per gettarmi un’occhiata intensa di cui credo di immaginare il significato. Poi si porta due dita sulle labbra e mi invia un bacio segreto, la cui esistenza è testimoniata solo dall’invisibile canale creatosi fra i nostri occhi.
Sono sua e lo sa.
Maledizione.
Poi uno dei suoi gorilla si avvicina rompendo l’incanto di quel quadro così dannatamente perfetto e raro per bisbigliargli qualcosa all’orecchio. Lo vedo alzarsi, posare il piccolo fra le braccia di Grace ed avviarsi con passo spedito verso l’ingresso.
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LOS OLIVOS, California- NEVERLAND VALLEY RANCH. Nov 13, 2003
Una giornata come tante, una giornata fra tante. Una giornata che non dimenticherò mai.
Parcheggio il carcassone a quattro ruote nello spazio riservato accanto al vialetto.
Scendo.
Ho ancora gli stivali in mano e sono pronta a sfilarmi le scarpe da ginnastica per iniziare il mio lavoro.
In lontananza un grosso furgone con il logo: ‘zoo park LA’ dipinto in qualche modo su una foglia di palma da cocco stampata su una portiera gialla.
Mi avvicino senza capire. Due personaggi mai visti prima indossano un berretto dello stesso colore mentre armeggiano nelle gabbie. Sembrano a loro agio.
Soffia un vento strano, freddo in una giornata calda.
Tutto sembra ostile oggi, anche il rumore dei miei passi decisi sul selciato, ansiosi di scoprire le ragioni di ciò che sta accadendo.
Mi avvicino ad uno degli uomini vestiti da super mario e mi accingo a parlare, ma vengo bloccata da una voce alle mie spalle.
-Miss Ferrari?- un damerino sulla quarantina. Bel vestito. Ben rasato.
-Si?-
-Lei è la signorina Andrea Josè Ferrari?- non sembra intenzionato a perdere tempo
-Mi dica- ora sento che quella sensazione di nausea alla base della gola si sta trasformando in fastidio. E’ la sua voce. O forse il portamento artefatto.
-Le chiedo gentilmente di seguirmi- ora che è vicino spero solo che non cerchi una stretta di mano perché non riuscirei. Ma non sembra interessato. Sembra invece che abbia fretta di concludere un affare.
-Mi scusi, lei chi è? Cosa sta succedendo qui?-
-La prego, mi segua in un luogo dove sarà più appropriato parlare, le verranno fornite le spiegazioni che chiede-
-Guardi, io tra tre minuti inizio il turno, devo lavorare, sa, io lavoro qui- sono al limite della sopportazione e mi scanso istintivamente da quella sagoma oramai troppo vicina.
-Oggi non dovrà lavorare Miss Ferrari, la prego di seguirmi in ufficio, come le ho detto le verranno fornite le motivazioni necessarie, ma qui non possiamo parlare, quindi, per favore- dice così e mi fa cenno di precederlo nella direzione opposta a quella che avevo intrapreso, quella decritta dal vialetto grigio che porta da Melville, quella che da tre mesi a questa parte è la mia routine. Ormai esasperata da quest’uomo con le unghie curate, dalla sua voce e dalle sue richieste, decido di assecondarlo.
Se non altro avrò una spiegazione.
Entriamo in casa.
Sono in soggezione.
Non vedo il proprietario di questi muri da circa tre settimane. Non lo sento al telefono. Non ho alcuna notizia di lui.
Ma ci sono abituata. Ho accettato tempo fa questa faccia della medaglia, mostrandomi anche disinvolta di fronte alle conseguenze. Ma ora, come ogni volta, sono distrutta dalla sua assenza, dalla sua noncuranza, dalla sensazione di essere solo il suo giocattolino.
L’ho salutato in una sera stellata uguale alle altre, una serata normale trascorsa fra le nostre quattro cose, a parlare di progetti, dei sogni. L’ho salutato e non sapevo che non l’avrei rivisto.
Ora mi trovo qui nel suo ingresso e vengo condotta da questo ‘collaboratore’ attraverso interminabili corridoi.
Lui non è qui, lo sento.
La via crucis termina finalmente un una grande stanza rotonda, presumibilmente un soggiorno adattato ad ufficio. Un tavolo rettangolare. Una donna ben vestita seduta solitaria lungo il lato più lungo mi squadra da dietro le lenti multifocali.
-Prego, si accomodi- il tono è gentile e metallico. Sembra un disco registrato. Se non avessi buona memoria non riuscirei a riconoscere in lei, stando alle fattezze attuali, la persona che mi ha assunto a lavorare qui.
Faccio per parlare ma vengo azzittita dal disco che ha nel petto.
-Il suo lavoro qui è stato eccellente e la ringraziamo per aver voluto collaborare con noi. Come spesso accade però nelle grandi aziende, si è reso necessario un taglio del personale, ed essendo lei l’ultima assunta, putroppo, è anche stata selezionata nella lista dei primi a doverci lasciare. Ovviamente riceverà la liquidazione, il pagamento di questa e della prossima mensilità, nonché il rimborso dei danni morali per licenziamento senza preavviso.
Ci rendiamo conto del disagio ma non possiamo fare altrimenti-
Se avessi inghiottito il deserto avrei la gola più libera di come la sento ora.
Azzardo solamente –Mi scusi, ma perché questo ‘taglio’ del personale? E chi sono quei signori, cosa fanno nelle gabbie? Dove stanno portando i miei animali?- le lacrime calde mi solcano la guancia rovente dal nervoso
-Signorina Ferrari le circostanze hanno reso necessario questo, i motivi sono privati, gli animali verranno trasferiti in una struttura competente, non si preoccupi-
-Ma..non potete fare questo, i miei animali…- ormai sono solo rantoli fra i singhiozzi
A questo punto interviene il viscido imbellettato –Signorina Ferrari, perdoni la franchezza, ma quelli non sono i suoi animali. Quegli animali appartengono a Mr Jackson, ed ha disposto lui per il loro trasferimento, così come ha disposto per questo nostro colloquio. Ed ora la prego, si calmi e ci conceda di poter dedicare del tempo anche alle altre persone che devono ricevere delle comunicazioni. Riceverà un’ottima liquidazione, non deve preoccuparsi..-
-Cosa pensi che me ne freghi dei soldi eh? COSA ME NE FREGA??- accecata dalla rabbia non riesco a trattenere la disperazione.
Buio.
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La strada verso casa è un fiume nero un po’ sfocato dai diversi litri di dolore che occupano le mie orbite violacee.
Mi hanno dovuto accompagnare alla macchina sorreggendomi per un braccio. Mi hanno dato dell’acqua mentre piangevo disperata alla vista di Melville su quel grosso camion, infagottato e spaventato. Volevo avvicinarmi per salutarlo ma non è stato possibile. Io correvo per il vialetto ed il camion si allontanava. Avrei solo voluto dirgli di non aver paura, che lo avrei trovato e sarei rimasta con lui. Avrei voluto scusarmi perché oggi non riceverà il bagnetto delle sei. Oggi non giocheremo insieme.
Nessuna coccola per lui. Oggi.
Entro in casa. Butto a terra la borsa.
Mi siedo sul pavimento.
La testa mi scoppia e pesa. Devo sorreggerla con le mani.
Non sono ancora in grado di rielaborare quello che è appena successo.
Non sono in grado di chiamare Pedra e dirle che sono a casa.
Non sono in grado di chiedermi come lui abbia potuto farmi una cosa del genere.
Sul pavimento una busta bianca.
La apro.
Un assegno da centomila dollari.
Un biglietto.
La calligrafia ibrida fra un minuscolo ed uno stampatello irregolare ed ondeggiante in quel mare bianco di cellulosa fine.
CrediMi è meglio così.
Non avrEi mai dovuto incontrarti. VorrEi poter dirE lo stesso di te ma sarebbe irreale dato che chiunque a questo mondo sa cHi sono. Tu mi hai dovuto incoNtrare per forza.
Quello che non sarebbe dovuto succedere lo sappiamo entrambi.
Non so neMMeno se sia giusto dire che è stata tutta colpa mia peRché suonerebbe come un bieco tentativo di alleggerirmi la coscienza assumendomi, almeno sulla carta, tutte le colpe.
Però è vero, e credi a quest’uNica ed ultima cosa, credici e piUttosto non credEre a nessun’altra parola che ti ho detto, ma credi a questo come se fosse l’ulTimo pensiero che ti rivolgo: non è stata colpA tua.
Non posso dimenticare cHi sono. Non posso vivere nel tuo mondo.
Io sono Michael Jackson e non potrò mai essere qualCosa di diverso.
Non credere a Quello che ti ho detto in questi mesi, non credere a niente. E’ stata tutta una bugia.
Perdonami sE puoi.
Accetta il piccolo aiuto cHe ti ho lasciato. Fallo per tuo figlio.
Michael.
Buio.
CAPITOLO 11
NELLA TESTA DI MICHAEL
Non saprei dire che sensazione è questa.
Sto così male che non sento niente.
E’ come una di quelle ferite gravissime in cui dopo una sparatoria, un incidente, un’aggressione, una terribile colluttazione ti sei fatto così male che i recettori del dolore cutaneo non rispondono più.
Come quel giorno, saranno passati trent’anni.
Randy ed io stavamo giocando sul vialetto con le macchinine quando arrivò un enorme pitbull rabbioso che, senza darci il tempo di realizzare cosa stesse succedendo, ci si avventò contro. Ricordo solo che quando alzai lo sguardo riuscii a percepire gli enormi canini a pochi centimetri dal viso ed il caldo ansimare di quell’animale inferocito.
Quando mi ripresi ero sul tetto della berlina di Joe tutto tremante. Davanti a me mio fratello con uno squarcio orribile sulla caviglia. Potevo vederne l’osso. Ma lui non faceva che ripetere che non sentiva nulla. Tutti pensarono che si trovasse in stato di shock, ma io invece gli credo, solo ora comprendo.
La ferita che aveva era così grave che non riusciva a sentire il dolore.
Quella è stata una delle prime volte in cui sono stato codardo, mi sono salvato, sono riuscito a balzare sull’auto senza assicurarmi di essere stato seguito dal mio fratellino.
Come ora.
L’ho lasciata ad agonizzare da qualche parte con il cuore squarciato in due.
Vorrei poter dire che non ho avuto scelta ma forse non è vero.
Il punto è proprio questo. Non so più cosa è e cosa non è.
Non posso coinvolgerla.
Non posso trascinarla verso il fondale che mi attende.
Non posso. Non posso. Non è possibile. Non è….
Sento che sto per soffocare.
……………..
SAN FRANCISCO, California. Ritz Carlton Hotel. Nov 16, 2003
- Michael, dovrebbe visionare ancora una paio di documenti-
- Sono terribilmente stanco Mark, possiamo farlo domani?-
- Non credo ci sarà tempo, domani dovremo incontrare Mr. Backerman per i dettagli del comunicato da rilasciare-
- Perché mi fanno questo?-
- Per quello che rappresenti. Per quello che potrebbero ottenere-
- Io non ci posso ancora credere, io non ce la farò mai a sostenere una cosa del genere-
- Devi, non hai scelta-
- In realtà c’è sempre un’altra scelta-
- Questa volta non conviene. Hai visto i risultati di quello che successe nel ‘93. Non si è rivelata la mossa giusta-
- Io non parlo di quello-
- E di cosa allora?-
Lungo momento di silenzio.
- Vado, sono stanco e pieno di dolori. Ho bisogno di dormire-
- Ci vediamo domani mattina-
Nessuna risposta, solo il tonfo sordo di un battito nel cuore di un fantasma.
SANTA YNEZ, California. CASA MIA. Nov 18, 2003.
-Tesoro ma come è potuta succedere una cosa simile?- mi allunga un bicchiere d’acqua con un po’ di valeriana. Gli occhi umidi e tumefatti non fanno trasparire il vero colore dell’iride.
Sono secchi e quel che è peggio vuoti, come se in tutte le lacrime che hanno versato ci fosse stata l’anima da cui mi sento privata.
I quattro giorni trascorsi da quel maledetto giovedì pesano come montagne su quel che resta del cuore di nuovo spezzato.
- Pedra è tutto orribile. Ho cambiato due volte continente per fuggire al dolore e lui mi ha raggiunta di nuovo. Mi hanno licenziata. Lui è sparito e mi ha lasciato questo. Soldi. Ha risolto con dei soldi. Mi ha fatta trattare come una normale dipendente che deve essere licenziata. Non una telefonata. Non una spiegazione. Niente, quello che sono io, niente- non sono parole, è un continuo biascicare qualcosa che non ha senso il mio.
Il cibo ed il sonno da cui il mio corpo è ormai privo da giorni si fanno notare, e prendono la forma di pesanti occhiaie violacee, di una voce metallica che esce dalla bocca scolorita, di un volto apatico. Privo di tutto. Come un paesaggio invernale nebbioso, senza confini, sfumature, contorni. Umido. Omogeneo. Freddo.
Pedra mi stringe a sé, incapace di dare sollievo a troppa delusione, desiderosa soltanto di prendere qualche secchiata della mia angoscia e portarla al posto mio.
Ore 20:00
Cercando di dare una parvenza di normalità a questo susseguirsi di minuti che compongono il mio tempo vacuo mi accingo a preparare la cena. Lo scenario è calmo e confortevole, tranquillo e quotidiano. Anita Juan e Satya giocano sul pavimento ai piedi di Pedra che sta facendo zapping con il telecomando.
Non mi lascia sola un attimo. Non ho avuto bisogno di chiederglielo, lo fa e basta. E con lei i figli, mio figlio, mia madre dall’Italia, tutti cercano di starmi vicini a loro modo, perfino i mobili, le piastrelle, il soffitto, con il loro scricchiolìo familiare stanno cercando di infondermi la pace, di consolarmi, di risvegliare il mio cervello assonnato e malato.
Sciacquo i pomodori.
Il rumore dell’acqua che sbatte sulla ceramica del lavandino.
Il camioncino in plastica dei piccoli che scorre sul parquet forse rigandolo.
La sigla del tg:
Una voce femminile, il tono è concitato.
-…E passiamo alle ultime notizie di oggi. Il cantante Michael Jackson è stato accusato formalmente di aver abusato di un minore. Lo ha rivelato lo sceriffo della contea di Santa Barbara Jim Anderson nel corso di una conferenza stampa trasmessa in diretta stamane alle 9:00.
«Invitiamo Michael Jackson a costituirsi alle autorità e a consegnare il suo passaporto» ha detto lo stesso Anderson, ed ha poi aggiunto che la cauzione per il rilascio a piede libero di Jackson dopo che si sarà costituito sarà di 3 milioni di dollari. Secondo fonti ufficiali Jacko starebbe per consegnarsi.
«Il mandato di cattura - come annuncia la polizia - è stato emesso per violazione dell'articolo 288 del codice penale californiano, che riguarda molestie pedofile». Si tratta di capi d'accusa plurimi di molestie, ed un verdetto di colpevolezza potrebbe comportare una condanna ad oltre ventotto anni di carcere sommando tutti i capi di imputazione.
La polizia aveva condotto martedì una perquisizione a sorpresa nel faraonico ranch californiano della pop star. Secondo alcune fonti i legali del cantante starebbero negoziando con le autorità i termini della sua consegna. Il cantante è stato visto per l'ultima volta a Las Vegas dove sta girando un video promozionale per il suo nuovo disco.
Secondo il suo avvocato, Jackson sarebbe accusato di molestie sessuali da un ragazzino dodicenne, nell'ambito di un'indagine che va avanti da un paio di mesi.
«Le scandalose accuse contro Michael Jackson sono false. Non ha mai fatto del male a un bambino in nessun modo. Sono accuse infamanti e senza fondamento, e se ne dimostrerà la falsità in un’aula di giustizia». Questa la dichiarazione di Stuart Backerman, portavoce del cantante, che ha poi spiegato come l'accusato stia organizzando il suo ritorno a Santa Barbara per confrontarsi immediatamente con i suoi accusatori.
La perquisizione arriva nel giorno in cui la Epic Records ha messo in vendita «Number Ones», un’antologia di grandi successi che comprende anche il nuovo singolo «One more chance», mentre il prossimo 26 novembre la rete televisiva Cbs trasmetterà uno speciale su Jackson con dei filmati di vecchi concerti. La carriera di «Jacko», ragazzo prodigio fin dai tempi dei Jackson Five, ha iniziato a declinare proprio dal 1993, anno nel quale venne accusato per la prima volta di molestie sessuali nei confronti di un minore: non venne presentata alcuna causa, e si dice che la star, che si era sempre dichiarata innocente, abbia patteggiato un accordo multimilionario.
Continueremo a tenervi aggiornati su questa vicenda nelle prossime ore.
Ora spazio alle notizie di borsa…-
-Oh madre de Dios!- l’esclamazione di Pedra echeggia nel piccolo salottino dove tutto è immobile.
I bambini hanno smesso di giocare e stanno imbambolati verso la televisione. Non hanno capito esattamente il senso di quello che è stato detto, ma ne hanno colta tutta la gravità dai volti delle loro mamme.
Nessun rumore, solo quello dell’acqua che scorre imperterrita creando zampilli microscopici che rimbalzano furiosi fuori dal lavello.
Sul pavimento una pioggia di gocce carminie si inseguono dopo essere fuoriuscite dal dito che mi sono appena tagliata.
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Il piccolo fuoristrada corre veloce sull’asfalto che pochi giorni fa percorrevo piena di folle disperazione e carica di risentimento. Credo di averlo anche odiato per quello che mi ha fatto. Per come mi ha fatto trattare. Sembrava tutto così chiaro, lineare.
La star capricciosa che si è stancata del giochino, e siccome appunto è una star, c’è chi è addetto a sollevarla dall’incombenza di scaricare le persone scomode.
Persone o cose, che importa, qual è la differenza.
Ancora una volta ho dovuto ricredermi.
Perché con lui non è come sembra.
Nulla lo è.
Si è allontanato prima che tutto succedesse.
Per non vedere l’isola che non c’è invasa da sconosciuti e perlustrata da bianchi guanti in lattice.
Per non vedere le persone perdere il lavoro, per non vedere gli animali andare via.
Per non far vedere tutto questo ai suoi piccoli.
Si è allontanato da me prima che potessi anche solo immaginare quello che sarebbe successo.
Per non coinvolgermi.
Per proteggermi.
A modo suo.
Parcheggio fuori dal grande cancello.
Il silenzio di tomba mi avvolge surreale.
Un freddo pungente nelle ossa.
Sono venuta qui ben consapevole del fatto che probabilmente Michael avrà lasciato lo stato o che comunque non sia assolutamente a pochi passi da qui.
Sono qui nella speranza, vana fino ad ora, di incontrare qualcuno che possa anche solo darmi una blanda indicazione, perché io lo devo vedere.
Lo devo raggiungere ovunque sia.
Devo fargli sentire un po’ di calore, deve sentire che ci sono.
Ho visto fin dove può spingersi il senso di solitudine dentro di lui, fin dove può portarlo.
Ho visto tutto e la cosa mi ha terrorizzata.
Devo dirgli che non è solo.
Devo dirgli che ho bisogno di lui.
Devo dirgli che mi manca.
Devo dirgli che lo amo.
E che non lo abbandono.
Mentre penso a tutto questo il vuoto è intorno a me.
Mi appoggio alle sbarre metalliche del cancello cercando di fare capolino all’interno con lo sguardo.
Lacrime di ansia scendono contro la mia volontà.
Quand’ecco che forse mi viene dato quello che cerco.
Un enorme suv si avvicina all’uscita molto lentamente.
Avanza verso di me ed il grande cancello inizia ad aprirsi automaticamente costringendomi a sganciare le mani. Mi sposto cercando con gli occhi di penetrare i vetri scuri durante il breve lasso che il tempo mi concede di sé.
Tutto sembra perduto e proprio quando mi supera del tutto scorgo un volto noto.
-Wayne!- non è un urlo perché la macchina è ancora vicina e non vorrei essere inopportuna.
Non accenna a fermarsi però.
-Waaaaaaaaaayyne!!- mi volto per far arrivare meglio le onde sonore ma è inutile perché prende velocità.
So che è l’unica occasione che ho quindi decido di sfruttarla fino in fondo.
Mi metto a correre lungo la strada ad una sola corsia avvolta dai rami degli aceri, la macchina non potrà prendere troppa velocità in una strada così stretta ed io non ho il tempo di salire sulla mia, che mi renderebbe più efficace l’inseguimento.
Quindi corro, usando quell’ultimo mezzo che mi è rimasto.
Corro e corro per diverse decine di metri con tutta l’energia che ho in corpo, lunghi ed interminabili momenti in cui penso a lui, mi concentro sul suo sorriso per scacciare la fatica, penso di nuovo a noi e a quanto vorrei dirgli che siamo perfetti, che nulla è perduto, che sarò al suo fianco anche se non mi vorrà, corro e chiamo, corro e piango, corro e spero, corro e combatto, corro e amo.
Le forze mi abbandonano e rallento, un acuto dolore mi coglie a sinistra spezzandomi in due, la testa mi gira. Un rantolo indistinto mi avvisa che se non mi fermo lo farà il cuore.
Raccolgo l’ultima energia usando il poco fiato di cui dispongo per contrarre il diaframma e strizzare i polmoni un’ultima volta, emettendo un disperato ed acuto
-WAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAYYYYYYYYYYYNEEE!-
Quindi mi accascio sulle ginocchia tossendo ed attendendo da un momento all’altro che il cuore intero fuoriesca dal petto insieme al respiro affannoso ed irregolare che mi attanaglia.
In gola il sapore del sangue.
Negli occhi le lacrime calde e salate segnano il mio fallimento.
Tremano le mani mentre cerco una soluzione che non c’è.
Mi sbilancio su un fianco e sento l’asfalto fresco sulla pelle.
Buio.
marina56- Moderator
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Re: Il fantasma che si innamorò di un uomo
seconda parte
-Andrea!-
Un prato verde.
Il sole in lontananza.
Sto correndo insieme al mio cane nero. Il piccolo Charlie.
Il mio primo cagnolino di bambina morto troppo presto e per mano di chissà chi.
Corriamo felici nella lunga distesa erbosa senza badare a niente.
-Andrea!-
Il vento sottile mi carezza la pelle.
Sono piccola anch’io.
Sono una bambina.
-ANDREA!-
Una voce mi desta dal dolce pensiero in quel luogo ameno, così lontano.
-ANDREA SVEGLIATI.. John, alzale le gambe..dai sbrigati!-
-Ma cos…-
-Andrea! Santo Dio, ma sei impazzita?!?-
Non riesco a vedere bene da dove provenga quella voce familiare, non riesco a mettere a fuoco la nova realtà in cui sono stata catapultata.
-W-Wayne…sei tu?-
-E chi se no? Il mio nome lo avranno sentito fino a Los Angeles per come hai urlato!- vorrebbe sembrare arrabbiato, ma l’espressione è bonaria e contratta dalla preoccupazione.
-Wayne..scusami..io non sapevo come fare, io..- cerco di articolare mentre mi aiuta a sollevarmi da terra
-Ma come ti salta in mente di correre dietro ad una macchina in movimento?! Come diavolo hai pensato che potessi sentirti? Ti rendi conto che mentre eri svenuta a terra una macchina stava per investirti?!?-
Ormai in piedi mi rendo conto della situazione. A pochi metri un individuo mi guarda in cagnesco, è pallido in viso e la sua vettura è in una posizione troppo irregolare rispetto al senso di marcia. Sulla strada segni neri di una profonda e lunga frenata. Sta parlando con l’armadio che era sul suv insieme a Wayne.
Ma tutto ciò non mi interessa minimamente.
-Wayne, ti prego..lui dov’è?-
-Andrea, io non..-
-NO! Ho bisogno che mi dici come posso fare Wayne, io non ho un recapito, non so niente, ho sentito la notizia alla tv..ti prego..- il cuore mi è imploso, dico tutto con la voce strozzata da un pianto che non rientra nei miei normali atteggiamenti. Ora però nulla è normale. Io non sono più io, ho messo da parte ogni cosa, anche l’orgoglio, perché sto letteralmente supplicando.
-Senti, ascoltami bene. Prima di tutto devi calmarti, non puoi agire in questo modo. Michael non vorrebbe vederti perdere il controllo così-
-Non mi interessa niente di quello che vorrebbe o non vorrebbe Michael, io DEVO andare da lui non…-
-Lasciami parlare. Nella posizione in cui mi trovo non sono assolutamente autorizzato a fornire informazioni a chicchessia. Ma- abbassando la voce per non farsi sentire dal collega evidentemente –Posso però far arrivare il tuo messaggio a chi sai tu, a quel punto sarà lui a chiamarti, eventualmente-
Poi, accorgendosi di un mio nuovo contrattacco aggiunge:
-Qui non si sta parlando di te Andrea. Qui le cose sono complicate. Si sta parlando del mio lavoro e della vita di un uomo. Se sono state prese determinate decisioni è stato anche per proteggerti, quindi l’ultima cosa che devi fare ora è mandare tutto all’aria!- il tono è più concitato e gli occhi vivi mi fanno comprendere il significato di quelle dure parole. Nel bene o nel male cerca di aiutarmi, di aiutare lui e di arginare questo fiume in piena.
-Hai pienamente ragione. Scusami per questa trovata. E’ che è successo tutto troppo in fretta, quando ho sentito la notizia alla tv ho creduto di impazzire al solo pensiero di essere totalmente impotente come sono ora- ammetto distrutta.
-Lo so, è difficile. So anche come sono andate le cose, il licenziamento e tutto. E mi dispiace. Io però ti avevo avvertita tempo fa..-
-Lo so, ma a certe cose non si comanda-
-Lo so. E proprio perché lo so farò quello che ti ho detto. Però niente cazzate da ora in poi. Qui fuori è pieno di pescecani che non vedono l’ora di scattare qualche foto interessante. Pensa a lui, pensa al danno ulteriore che arrecheresti. Per favore vai a casa e aspetta. Devi solo aspettare, non ti chiedo di più-
-Ogni momento, ogni minuto è uno strazio. Dimmi almeno se sta bene-
-No. Non sta bene-
Una lama in gola mi squarcia il cuore e mi priva della voce.
-Ok. Grazie Wayne- lo abbraccio colta da una profonda gratitudine. Lui, omone scuro e temibile, è spaesato a quello slancio di affetto a cui non è assolutamente abituato e rimane per un po’ interdetto con le braccia aperte. Poi le richiude avvolgendomi completamente per alcuni istanti.
-Ora vai- mi intima con uno sguardo severo che non gli riesce.
-Ciao Wayne-
Mi volto e mi avvio verso la macchina.
SANTA YNEZ, California. CASA MIA. Nov 20, 2003
Ore 20:00
-Pronto?-
Silenzio.
-Pronto?-
Silenzio.
-Ma chi parla?!-
La linea non è disturbata quindi non può essere qualcuno che non mi sente.
-Pronto?!-
Niente. Solo un respiro appena percettibile al di là del filo.
-Complimenti, bel modo di passare il tempo!- riappendo il ricevitore seccata.
Nel frattempo la sigla del tg.
La solita voce squillante femminile.
Mi avvento sul telecomando per alzare il volume al massimo.
E’ un gesto inutile perché non riesco a decifrare le parole che vengono dette con chiarezza.
La sensazione di smarrimento e vuoto che provo all’immagine che si presenta cattura tutte la mia attenzione.
Un uomo dai capelli corvini sciolti e lisci sulle spalle cammina verso l’ingresso di un edificio in cima ad una scalinata. Non viene inquadrato il volto, è accompagnato da due agenti ai suoi lati che lo conducono per i gomiti. La ripresa è realizzata alle sue spalle da una posizione più alta. Forse da un elicottero.
Indossa occhiali scuri lo vedo dalla stanghetta ottonata degli occhiali scuri che l’inquadratura del profilo concede.
Le mani sono legate dietro alla schiena.
Dal polso destro fa capolino un laccio di cuoio al quale rimane ancorata una piccola tartaruga, appena fuori dall’orlo della giacca scura che indossa.
Buio.
Ore 4:00
Il vivace trillo del telefono in salotto mi fa sobbalzare.
Non perché stessi dormendo, non è più possibile questa azione per me da più di una settimana ormai, ero sdraiata sul letto a fissare il vuoto. Come sempre.
Ma il telefono che squilla alle quattro di mattina non è mai un buon presagio.
Mi affretto sulla cornetta prima che si svegli l’intero vicinato.
-Pronto?-
Silenzio.
-PRONTO!?- l’ira per l’ennesimo scherzo telefonico della giornata non si fa attendere.
Ancora silenzio.
-MA SI PUO’ SAPERE CHE RAZZA DI CRETINO SI DIVERTE COSI’?! SPERO TANTO CHE TU SIA UN BAMBINO O QUALCOSA DEL GENERE PERCHE’ SE COSI’ NON FOSSE AVRESTI BISOGNO DI UNA TERAPIA SERIAAAAAA!!!- sbotto esausta.
(oddio dì qualcosa per l’amor del cielo)
-Allora questa è l’ultima volta che lo dico: pronto?- intimo in un ultimo sussulto
(Ok devo dire qualcosa assolutamente…….ma..ma..cosa dico..non mi esce la voce..)
Respiro regolare dall’altra parte del filo. Rimango in attesa che questo cretino decida cosa fare. Se si trattasse di un maniaco avrebbe già iniziato con versi e schifezze varie. Aspetto solo che cominci.
(Parla ancora piccola..parlami ancora..)
Un respiro più forte, più profondo. Qualcuno sta esitando. Mi viene un lampo.
-M-Michael..sei tu?- ora la mia voce è solo un sussurro. Il cuore batte ovunque tranne che al suo posto.
(Ha reso tutto più facile, devo solo rispondere…ora dico qualc..)
-Michael, per favore, sei tu?-
(si sono io piccola, sono io, ma non riesco a parlare. Mi hanno strappato anche la voce)
-Ok, a costo di sembrare una pazza farò finta che sei tu. Se non sei tu sei un cretino che telefona alla gente alle quattro del mattino e ti disprezzo, ma sei comunque ancora in linea quindi farò finta che ti vada di ascoltarmi- dichiaro con voce calma, quasi felice di avere un interlocutore.
(Dio che bello sentire la tua voce, non sai quanto mi è mancata. Quante cose non sai. Quante cose non riesco a dirti)
-Mi piacerebbe sentire la tua voce Michael, è quasi un mese che non ti sento. Forse non ti va di parlare però-
(Non riesco)
-Allora parlerò io-
(Parla ti prego, raccontami. Sei la mia unica medicina stanotte)
-Sono molto arrabbiata con te. Per avermi tagliata fuori dalla tua vita in questo modo, per come sono andate le cose. Sai, non ho mai avuto grandi pretese con te, ne abbiamo già parlato, le nostre vite sono così diverse, così lontane. Mi piace pensare che ci siamo incontrati ad un crocevia, ogni tanto.
Ma quello che è successo..io non credevo ne saresti stato capace. Forse sei stato costretto Mike..voglio pensare che sia stato così-
(Voglio proteggerti. Nel tritacarne ci devo entrare solo io. Non posso permettere che altri paghino al posto mio)
-Ti ho visto al notiziario sai. Non puoi capire che male mi abbia fatto vederti così, con le mani legate. Ho sentito qualcosa che si è rotto dentro di me, tipo il cuore..-
(Dio che sofferenza…non so se ce la faccio)
-Ma non posso nemmeno lontanamente pensare di immaginare come ti senti tu. I tuoi piccoli come stanno? Li avrai messi al sicuro da tutto questo..-
(Dormono. Sono terrorizzato da quello che potrebbero sentire dalla tv. Ho paura che ne risentano. Sono praticamente segregati. Mi manca il respiro al pensiero)
-La verità Michael è che quello che mi hai scritto nel biglietto non lo pensi. Non sono tue parole. O almeno, non le hai concepite con la mente lucida. Chissà quali schifezze stai prendendo. Non credere che io non sappia. La verità è che per quanto tu dica o faccia, il mio posto non è qui. Il mio posto è accanto a te. Voglio incoraggiarti, ascoltarti, voglio farti addormentare, cullarti, voglio vivere nella tua vita e rinunciare alla mia. Non sono pazza, io non ho scelta. Perché da quando te ne sei andato io non riesco più a vivere.
Non vivo sapendo che una parte di me, la mia metà, il mio complementare per raggiungere l’interezza, l’altra me, tu, sei là fuori a soffrire. Lo sento tutto, irrimediabilmente su di me-
Un rantolo affannoso all’altro capo del filo mi rivela una difficoltà a respirare tipica solo del pianto.
Ora la certezza matematica che sia veramente lui mi fa cercare un appiglio per rimanere in piedi.
(Parla ancora amore mio, lo sai che sono io)
-Michael appena prenderai coraggio e deciderai di volermi al tuo fianco io sarò qui. Al 458 di Venice Road, Santa Ynez. Lo sai vero? Ma non c’è fretta, quando sarai pronto io lo sarò-
(Ma questa creatura non è umana. Da dove provieni?)
-Lo sai, la prima volta che ti ho visto tu non sapevi che ero lì-
(Nemmeno tu lo sapevi piccola, da dietro quei vetri scuri eri così chiara, così bella, tutta illuminata dal vento)
-Avevi quel body dorato..Dio con quella giacca luccicante..come stavi bene, e ragazzi, che carisma! Era il sette luglio millenovecentonovantadue, ero poco più che una ragazzina-
(Sei così giovane, così giovane tu, amore mio)
-Si, sono stata una tua fan e sono sempre impazzita per te..- Mi lascio sfuggire una risatina –E stavo sotto al palco quella sera. Pensavo che fosse il giorno più bello della mia vita. Invece poi ce ne sono stati due anche migliori anni dopo-
(Dimmeli)
-Ma non te li dico, altrimenti poi perdo quel velo di mistero che mi avvolge e che magari mi rende ancora interessante ai tuoi occhi-
Un respiro più sincopato annuncia una risatina trattenuta da qualche parte oltre il telefono. L’ho fatto sorridere. Sono riuscita nel mio intento.
E continuo così, a parlare fino al mattino, da sola all’apparenza ma con lui, in profondità, come non ho mai fatto. Racconto dell’Italia, delle superiori, di mio padre, dell’uva, a questo telefono muto.
Racconto e gli faccio vivere una vita, la mia, attraverso i miei occhi.
In una conversazione di cenere, fragile e leggera, impercettibile al tatto, ma reale, presente.
Così, fino al mattino.
Fino a quando, esausta crollo sul divano con il ricevitore ancora posato all’orecchio, mentre lui, rassicurato dalla regolarità del respiro che solo Ipno, il padre di Morfeo può concedere, emette in un sussurro –Ora riposati, dormi piccola- con la voce vera, debole ma vera.
Voce che io, ormai, non posso più sentire.
-Andrea!-
Un prato verde.
Il sole in lontananza.
Sto correndo insieme al mio cane nero. Il piccolo Charlie.
Il mio primo cagnolino di bambina morto troppo presto e per mano di chissà chi.
Corriamo felici nella lunga distesa erbosa senza badare a niente.
-Andrea!-
Il vento sottile mi carezza la pelle.
Sono piccola anch’io.
Sono una bambina.
-ANDREA!-
Una voce mi desta dal dolce pensiero in quel luogo ameno, così lontano.
-ANDREA SVEGLIATI.. John, alzale le gambe..dai sbrigati!-
-Ma cos…-
-Andrea! Santo Dio, ma sei impazzita?!?-
Non riesco a vedere bene da dove provenga quella voce familiare, non riesco a mettere a fuoco la nova realtà in cui sono stata catapultata.
-W-Wayne…sei tu?-
-E chi se no? Il mio nome lo avranno sentito fino a Los Angeles per come hai urlato!- vorrebbe sembrare arrabbiato, ma l’espressione è bonaria e contratta dalla preoccupazione.
-Wayne..scusami..io non sapevo come fare, io..- cerco di articolare mentre mi aiuta a sollevarmi da terra
-Ma come ti salta in mente di correre dietro ad una macchina in movimento?! Come diavolo hai pensato che potessi sentirti? Ti rendi conto che mentre eri svenuta a terra una macchina stava per investirti?!?-
Ormai in piedi mi rendo conto della situazione. A pochi metri un individuo mi guarda in cagnesco, è pallido in viso e la sua vettura è in una posizione troppo irregolare rispetto al senso di marcia. Sulla strada segni neri di una profonda e lunga frenata. Sta parlando con l’armadio che era sul suv insieme a Wayne.
Ma tutto ciò non mi interessa minimamente.
-Wayne, ti prego..lui dov’è?-
-Andrea, io non..-
-NO! Ho bisogno che mi dici come posso fare Wayne, io non ho un recapito, non so niente, ho sentito la notizia alla tv..ti prego..- il cuore mi è imploso, dico tutto con la voce strozzata da un pianto che non rientra nei miei normali atteggiamenti. Ora però nulla è normale. Io non sono più io, ho messo da parte ogni cosa, anche l’orgoglio, perché sto letteralmente supplicando.
-Senti, ascoltami bene. Prima di tutto devi calmarti, non puoi agire in questo modo. Michael non vorrebbe vederti perdere il controllo così-
-Non mi interessa niente di quello che vorrebbe o non vorrebbe Michael, io DEVO andare da lui non…-
-Lasciami parlare. Nella posizione in cui mi trovo non sono assolutamente autorizzato a fornire informazioni a chicchessia. Ma- abbassando la voce per non farsi sentire dal collega evidentemente –Posso però far arrivare il tuo messaggio a chi sai tu, a quel punto sarà lui a chiamarti, eventualmente-
Poi, accorgendosi di un mio nuovo contrattacco aggiunge:
-Qui non si sta parlando di te Andrea. Qui le cose sono complicate. Si sta parlando del mio lavoro e della vita di un uomo. Se sono state prese determinate decisioni è stato anche per proteggerti, quindi l’ultima cosa che devi fare ora è mandare tutto all’aria!- il tono è più concitato e gli occhi vivi mi fanno comprendere il significato di quelle dure parole. Nel bene o nel male cerca di aiutarmi, di aiutare lui e di arginare questo fiume in piena.
-Hai pienamente ragione. Scusami per questa trovata. E’ che è successo tutto troppo in fretta, quando ho sentito la notizia alla tv ho creduto di impazzire al solo pensiero di essere totalmente impotente come sono ora- ammetto distrutta.
-Lo so, è difficile. So anche come sono andate le cose, il licenziamento e tutto. E mi dispiace. Io però ti avevo avvertita tempo fa..-
-Lo so, ma a certe cose non si comanda-
-Lo so. E proprio perché lo so farò quello che ti ho detto. Però niente cazzate da ora in poi. Qui fuori è pieno di pescecani che non vedono l’ora di scattare qualche foto interessante. Pensa a lui, pensa al danno ulteriore che arrecheresti. Per favore vai a casa e aspetta. Devi solo aspettare, non ti chiedo di più-
-Ogni momento, ogni minuto è uno strazio. Dimmi almeno se sta bene-
-No. Non sta bene-
Una lama in gola mi squarcia il cuore e mi priva della voce.
-Ok. Grazie Wayne- lo abbraccio colta da una profonda gratitudine. Lui, omone scuro e temibile, è spaesato a quello slancio di affetto a cui non è assolutamente abituato e rimane per un po’ interdetto con le braccia aperte. Poi le richiude avvolgendomi completamente per alcuni istanti.
-Ora vai- mi intima con uno sguardo severo che non gli riesce.
-Ciao Wayne-
Mi volto e mi avvio verso la macchina.
SANTA YNEZ, California. CASA MIA. Nov 20, 2003
Ore 20:00
-Pronto?-
Silenzio.
-Pronto?-
Silenzio.
-Ma chi parla?!-
La linea non è disturbata quindi non può essere qualcuno che non mi sente.
-Pronto?!-
Niente. Solo un respiro appena percettibile al di là del filo.
-Complimenti, bel modo di passare il tempo!- riappendo il ricevitore seccata.
Nel frattempo la sigla del tg.
La solita voce squillante femminile.
Mi avvento sul telecomando per alzare il volume al massimo.
E’ un gesto inutile perché non riesco a decifrare le parole che vengono dette con chiarezza.
La sensazione di smarrimento e vuoto che provo all’immagine che si presenta cattura tutte la mia attenzione.
Un uomo dai capelli corvini sciolti e lisci sulle spalle cammina verso l’ingresso di un edificio in cima ad una scalinata. Non viene inquadrato il volto, è accompagnato da due agenti ai suoi lati che lo conducono per i gomiti. La ripresa è realizzata alle sue spalle da una posizione più alta. Forse da un elicottero.
Indossa occhiali scuri lo vedo dalla stanghetta ottonata degli occhiali scuri che l’inquadratura del profilo concede.
Le mani sono legate dietro alla schiena.
Dal polso destro fa capolino un laccio di cuoio al quale rimane ancorata una piccola tartaruga, appena fuori dall’orlo della giacca scura che indossa.
Buio.
Ore 4:00
Il vivace trillo del telefono in salotto mi fa sobbalzare.
Non perché stessi dormendo, non è più possibile questa azione per me da più di una settimana ormai, ero sdraiata sul letto a fissare il vuoto. Come sempre.
Ma il telefono che squilla alle quattro di mattina non è mai un buon presagio.
Mi affretto sulla cornetta prima che si svegli l’intero vicinato.
-Pronto?-
Silenzio.
-PRONTO!?- l’ira per l’ennesimo scherzo telefonico della giornata non si fa attendere.
Ancora silenzio.
-MA SI PUO’ SAPERE CHE RAZZA DI CRETINO SI DIVERTE COSI’?! SPERO TANTO CHE TU SIA UN BAMBINO O QUALCOSA DEL GENERE PERCHE’ SE COSI’ NON FOSSE AVRESTI BISOGNO DI UNA TERAPIA SERIAAAAAA!!!- sbotto esausta.
(oddio dì qualcosa per l’amor del cielo)
-Allora questa è l’ultima volta che lo dico: pronto?- intimo in un ultimo sussulto
(Ok devo dire qualcosa assolutamente…….ma..ma..cosa dico..non mi esce la voce..)
Respiro regolare dall’altra parte del filo. Rimango in attesa che questo cretino decida cosa fare. Se si trattasse di un maniaco avrebbe già iniziato con versi e schifezze varie. Aspetto solo che cominci.
(Parla ancora piccola..parlami ancora..)
Un respiro più forte, più profondo. Qualcuno sta esitando. Mi viene un lampo.
-M-Michael..sei tu?- ora la mia voce è solo un sussurro. Il cuore batte ovunque tranne che al suo posto.
(Ha reso tutto più facile, devo solo rispondere…ora dico qualc..)
-Michael, per favore, sei tu?-
(si sono io piccola, sono io, ma non riesco a parlare. Mi hanno strappato anche la voce)
-Ok, a costo di sembrare una pazza farò finta che sei tu. Se non sei tu sei un cretino che telefona alla gente alle quattro del mattino e ti disprezzo, ma sei comunque ancora in linea quindi farò finta che ti vada di ascoltarmi- dichiaro con voce calma, quasi felice di avere un interlocutore.
(Dio che bello sentire la tua voce, non sai quanto mi è mancata. Quante cose non sai. Quante cose non riesco a dirti)
-Mi piacerebbe sentire la tua voce Michael, è quasi un mese che non ti sento. Forse non ti va di parlare però-
(Non riesco)
-Allora parlerò io-
(Parla ti prego, raccontami. Sei la mia unica medicina stanotte)
-Sono molto arrabbiata con te. Per avermi tagliata fuori dalla tua vita in questo modo, per come sono andate le cose. Sai, non ho mai avuto grandi pretese con te, ne abbiamo già parlato, le nostre vite sono così diverse, così lontane. Mi piace pensare che ci siamo incontrati ad un crocevia, ogni tanto.
Ma quello che è successo..io non credevo ne saresti stato capace. Forse sei stato costretto Mike..voglio pensare che sia stato così-
(Voglio proteggerti. Nel tritacarne ci devo entrare solo io. Non posso permettere che altri paghino al posto mio)
-Ti ho visto al notiziario sai. Non puoi capire che male mi abbia fatto vederti così, con le mani legate. Ho sentito qualcosa che si è rotto dentro di me, tipo il cuore..-
(Dio che sofferenza…non so se ce la faccio)
-Ma non posso nemmeno lontanamente pensare di immaginare come ti senti tu. I tuoi piccoli come stanno? Li avrai messi al sicuro da tutto questo..-
(Dormono. Sono terrorizzato da quello che potrebbero sentire dalla tv. Ho paura che ne risentano. Sono praticamente segregati. Mi manca il respiro al pensiero)
-La verità Michael è che quello che mi hai scritto nel biglietto non lo pensi. Non sono tue parole. O almeno, non le hai concepite con la mente lucida. Chissà quali schifezze stai prendendo. Non credere che io non sappia. La verità è che per quanto tu dica o faccia, il mio posto non è qui. Il mio posto è accanto a te. Voglio incoraggiarti, ascoltarti, voglio farti addormentare, cullarti, voglio vivere nella tua vita e rinunciare alla mia. Non sono pazza, io non ho scelta. Perché da quando te ne sei andato io non riesco più a vivere.
Non vivo sapendo che una parte di me, la mia metà, il mio complementare per raggiungere l’interezza, l’altra me, tu, sei là fuori a soffrire. Lo sento tutto, irrimediabilmente su di me-
Un rantolo affannoso all’altro capo del filo mi rivela una difficoltà a respirare tipica solo del pianto.
Ora la certezza matematica che sia veramente lui mi fa cercare un appiglio per rimanere in piedi.
(Parla ancora amore mio, lo sai che sono io)
-Michael appena prenderai coraggio e deciderai di volermi al tuo fianco io sarò qui. Al 458 di Venice Road, Santa Ynez. Lo sai vero? Ma non c’è fretta, quando sarai pronto io lo sarò-
(Ma questa creatura non è umana. Da dove provieni?)
-Lo sai, la prima volta che ti ho visto tu non sapevi che ero lì-
(Nemmeno tu lo sapevi piccola, da dietro quei vetri scuri eri così chiara, così bella, tutta illuminata dal vento)
-Avevi quel body dorato..Dio con quella giacca luccicante..come stavi bene, e ragazzi, che carisma! Era il sette luglio millenovecentonovantadue, ero poco più che una ragazzina-
(Sei così giovane, così giovane tu, amore mio)
-Si, sono stata una tua fan e sono sempre impazzita per te..- Mi lascio sfuggire una risatina –E stavo sotto al palco quella sera. Pensavo che fosse il giorno più bello della mia vita. Invece poi ce ne sono stati due anche migliori anni dopo-
(Dimmeli)
-Ma non te li dico, altrimenti poi perdo quel velo di mistero che mi avvolge e che magari mi rende ancora interessante ai tuoi occhi-
Un respiro più sincopato annuncia una risatina trattenuta da qualche parte oltre il telefono. L’ho fatto sorridere. Sono riuscita nel mio intento.
E continuo così, a parlare fino al mattino, da sola all’apparenza ma con lui, in profondità, come non ho mai fatto. Racconto dell’Italia, delle superiori, di mio padre, dell’uva, a questo telefono muto.
Racconto e gli faccio vivere una vita, la mia, attraverso i miei occhi.
In una conversazione di cenere, fragile e leggera, impercettibile al tatto, ma reale, presente.
Così, fino al mattino.
Fino a quando, esausta crollo sul divano con il ricevitore ancora posato all’orecchio, mentre lui, rassicurato dalla regolarità del respiro che solo Ipno, il padre di Morfeo può concedere, emette in un sussurro –Ora riposati, dormi piccola- con la voce vera, debole ma vera.
Voce che io, ormai, non posso più sentire.
marina56- Moderator
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Re: Il fantasma che si innamorò di un uomo
CAPITOLO 12
Mi sveglio con la cornetta imprigionata nell’incavo fra orecchio e collo.
Mi è sembrato di sentirlo parlare alla fine. Ma è stato solo un sogno, ne sono sicura, e questo suono sordo e vacuo della linea interrotta me ne da la conferma.
E’ un tiepido mattino di novembre.
Il sole è più pallido del solito.
Su di lui una leggera foschia che intorpidisce la potenza dei raggi.
SAN FRANCISCO, California. Ritz Carlton Hotel. Nov 30, 2003
-Michael..posso?-
-Vieni, entra-
-Che ne dici di scendere a mangiare qualcosa?-
-Non ho fame-
-Lo immagino, ma devi sforzarti. Ormai sono tre giorni che non tocchi cibo-
-Frank non riesco. Ho la mente totalmente annebbiata. Non riesco a pensare, non riesco a parlare, non riesco a dormire, sono il nulla ormai-
-Michael non credo che questo atteggiamento possa migliorare le cose. E’ dura, non posso nemmeno immaginare, ma se ti lasci andare proprio adesso gliela darai vinta. E non deve succedere. Siamo tutti qui per te, per favore..-
-Frank ti prego basta con queste stronzate. Siete tutti qui per me!? Ma che ne sapete voi? Che ne sapete. E’ la mia vita. La mia faccia. Il mio nome. Totalmente insudiciati. Mi faranno a pezzi, mi vogliono distruggere, è tutta una manovra non lo capisci?! Come faccio a mantenere la lucidità in questo gioco subdolo. E’ l’inferno. Mi vogliono morto- si porta le mani sulle tempie e le massaggia debolmente mentre la voce calante annuncia una lacrima già sulla rampa di lancio del bulbo oculare.
-Se continui così mi sa che li anticipi sui tempi..-
Una voce femminile dietro alla porta.
-Michael, scusami..sei sveglio?!-
-Dimmi, tanto qui dentro ormai è una processione..- la voce fredda e scocciata
-No, scusa non volevo certo disturbarti, è che i bambini sono svegli da due ore e chiedono di te, cosa devo dirgli? Tra poco è ora di pranzo, se magari scendes..-
-Mio Dio, mio Dio Grace, ma da quanto fai questo lavoro?! Non sai come tenere buoni tre bambini? Non riesci a farli stare tranquilli un paio d’ore senza che ci sia io?
Ma che diavolo avete tutti oggi?!-
-No, che cosa hai tu Mike- una voce cristallina fa capolino da dietro la porta.
Tra tutti i volti dall’espressione attonita quello di Michael è il più evidente.
Buio.
NELLA TESTA DI MICHAEL
Andrea.
Non posso credere che sei qui.
Ma come ci sei arrivata.
Amore mio.
Chi ti ha detto dove mi trovavo.
Wayne.
Stupido pazzo.
NELLA MIA TESTA
Forse non dovevo intromettermi così. Non dovevo piombare qui all’improvviso.
E’ stato tutto troppo veloce. Stamattina mi hanno suonato la porta. Ho aperto ancora in pigiama.
L’ho fatto entrare.
L’imponenza del suo aspetto stonava brutalmente con l’espressione che aveva in volto.
Davanti ad un caffè che non voleva accettare mi ha detto che la situazione era grave.
Mi ha chiesto di sbrigarmi a prepararmi.
Mi ha chiesto di partire con lui per San Francisco.
Mi ha detto che Michael stava male, che stava per toccare il fondo.
Non ho potuto sottrarmi all’istinto.
Vestita di un misero paio di jeans e di una camicetta bianca ho preparato il borsone di Saty che, ancora infagottato dalla copertina, ho lasciato a Pedra senza nemmeno chiedermi se fosse giusto mollare mio figlio ogni volta per andare incontro all’ignoto. Come una stupida ragazzina.
Siamo saliti su un suv, poi su un jet, poi ancora su un altro suv.
Per tutto il viaggio il silenzio è stato l’unico compagno dei miei pensieri, ha condotto l’immaginazione ad un Michael sull’orlo di un precipizio, seduto su un fondale dall’inestimabile profondità.
Potrei soffocare insieme a lui.
Potrei annegare anch’io nel suo dolore.
Potrei soccombere sotto i fendenti dei suoi mostri.
Prima di entrare in camera un solo avvertimento:
-Andrea non lo riconoscerai, cerca di assecondarlo per quello che puoi. Non è il Michael a cui sei abituata-
Non è il Michael a cui sono abituata.
E quello che mi appare è molto peggio di quanto avevo solo immaginato.
-E adesso tu che ci fai qui?- in un volto privo di espressione questa è la domanda retorica che esce da quelle labbra pallide, che non riescono a celare una punta di collera crescente.
-Anche tu mi sei mancato, si si sto bene, grazie!- non lo asseconderò, contrariamente alle raccomandazioni fattemi pochi istanti fa.
-CHE CAZZO CI FAI QUI HO DETTO!- credo di non averlo mai visto così. Fa quasi paura. Gli occhi stanchi contornati dall’eyeliner sono spalancati e rivelano un rossore sui contorni. Un’ombra scura li sovrasta, e sembra circondarlo completamente. I due lembi di una camicia rossa di cotone stropicciata sono tenuti uniti da un solo bottone alla base del petto, per il resto svolazzano indomati al di fuori di un paio di pantaloni neri con la riga davanti.
I capelli mossi e privi di direzione fanno da oscura cornice ad un volto che definire pallido è riduttivo. Solo la barba di un paio di giorni fornisce un contrasto a quella distesa scavata ed albina che si ritrova al posto delle guance. E’ in piedi e sta avanzando verso di me di fronte ad un Frank incapace di formulare parola ed a Grace che mi guarda con occhi imploranti.
Ma non mi lascio impressionare, conscia del fatto che se per un momento facessi il suo gioco ne rimarrei imprigionata per sempre.
-Niente, passavo per caso..sai, io amo vagare per San Francisco alle 11 del mattino!- con questo mio tono tranquillo e disinvolto, completamente incurante di quello che potrei aver innescato, spero non pensi di potermi trattare come ha fatto con gli altri due.
-Ti rendi conto che questa è la mia suite? Ma chi diavolo ti ha detto di piombare qui..ma..- cerca inutilmente di non gridare come ha fatto prima, ma la collera e l’agitazione lo tradiscono.
-Che tattica banale la tua. Se non hai capito non funziona proprio. Spiacente-
Avanza verso di me fissandomi negli occhi.
Sembra che voglia divorarli e divorare anche me in quell’abisso nero dei suoi.
Arrivato ad un centimetro da me cambia rapidamente traiettoria urtandomi con la spalla. Si precipita come una furia in corridoio urlando.
-WAYYYYYYYYNE! DOV’E’..DOV’E’?!-
Vociare indistinto.
Rumore di passi.
-Dimmi Michael- la voce della consapevolezza si affaccia con timida reverenzialità dall’omone che è.
-L’hai fatta venire tu?- la voce della consapevolezza si affaccia con arroganza sotto forma di un sibilo sottile e pacato dal fantasma dell’uomo che amo.
-Si-
-Posso sapere chi te lo ha ordinato?-
-Nessuno, è stata una mia decisione-
-E dimmi. Io ti pago per prendere decisioni al posto mio?-
-No-
-Però tu hai pensato di poter disporre dei miei mezzi a tuo piacimento, vero?-
-No-
-Certo che si, altrimenti non avresti fatto questa bella cazzata-
-Io sono pagato per salvaguardare la tua sicurezza Michael. Ma sono quasi diciotto anni che lavoro per te e siamo diventati amici. Quindi è plausibile che io abbia preso una decisione per il tuo bene..-
-Per il mio bene? Oh adesso le guardie del corpo si trasformano in psicoterapeuti, non lo sapevo. Ehi ragazzi –rivolgendosi alle due persone incravattate in piedi in corridoio- Ma dov’è che avete studiato per saper fare così tante cose?!-
La situazione è quasi insostenibile mentre guardo quest’uomo gesticolare e biascicare parole cariche di sfida e rancore, in un atteggiamento che non esprime minimamente il suo reale animo.
Di Michael non è rimasto niente, ora è Michael Jackson la star viziata e prepotente, è saccente, arrogante e disgustoso. Perfino il tono della sua voce, normalmente somigliante ad un sussurro delle fate ora è sgradevole.
Sento la testa girare per l’intenso odore di acqua ossigenata che aleggia denso nella stanza.
-Bene, comunque non ho bisogno di uno psicoterapeuta, ma di gente professionale e discreta su cui poter contare in questo momento. E con il tuo comportamento hai dimostrato di non rientrare in questa categoria di persone. Sei licenziato Wayne-
Il brivido gelato che mi attraversa a queste parole è amplificato da quello che attraversa tutti i presenti. Siamo intrappolati in una rete di tensione da cui non riesco a districarmi.
Al silenzio tombale si accompagna lo sguardo deluso di un uomo alto e possente che fa scorrere gli occhi su di me, poi su Frank, Grace e Michael per ultimo. Non saprei dire se sia carico di rimprovero né se tale rimprovero sia indirizzato a qualcuno in particolare. So solo che vederlo girarsi ed uscire chiudendo piano la porta mi provoca una cascata dagli occhi che non riesco a controllare.
A questo punto Frank interviene
-Michael, ma che fai? Ti rendi conto? Non puoi..-
-Frank, segui il mio consiglio. Taci. TACETE TUTTI! NON VOGLIO PIU’ SENTIRE UNA PAROLA! QUESTA E’ LA MIA VITA, DECIDO IO COME VIVERLA, NON HO BISOGNO DI VOI!-
-Grace chiama il dottor Smith per favore- la sussurrata rassegnazione di uno dei più cari amici di Mike mi fa comprendere che siamo di fronte ad una situazione che non sono in grado di gestire.
-Dottore, dottore mi aiuti lei, queste persone vogliono prendersi la mia vita, vogliono rubarmi l’anima, è una cospirazione, si tratta di una cospirazione, io lo so..-
Queste le ultime parole che gli sento pronunciare prima di uscire da quella stanza con il volto rigato da mille ruscelli salati ed il cuore in tanti piccoli pezzi.
Buio.
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Interminabili ed angosciosi i minuti che scorrono, ora che mi trovo a Mission Bay, sulla baia di San Francisco. Le otarie adagiate sulle enormi banchine in cemento prendono il sole assonnate, disturbate solo dai gabbiani che volano impazziti alla ricerca di cibo nelle loro vicinanze.
Il sole è ancora più pallido di quello che mi ha risvegliato stamane a Los Angeles e la temperatura è più pungente.
L’esigenza di fare due passi per liberare i polmoni da quell’aria densa di dolore e di esalazioni dalle note alcoliche dei disinfettanti mi ha guidato fino a qui.
Ho percorso circa due miglia a piedi fra le strade di questa città magica, salite e discese, salite e discese, salite e discese. Mentre camminavo pensavo che gli abitanti del luogo sono incredibilmente avvantaggiati perché ogni volta hanno sotto gli occhi la verità della vita sottoforma di viali, vie, strade. Tutte in salita e contemporaneamente in discesa, dipende da dove devi andare, da come le guardi, da cosa sei interessato a fare. Loro saranno sicuramente più saggi di tutti gli altri.
Ma forse sto solo delirando.
Un suono proveniente dalla borsa mi desta da pensieri senza senso.
-Pronto?-
Silenzio.
-Pronto?!-
Silenzio.
-Direi che potresti anche finirla, ora il giochetto del telefono non è romantico e stona terribilmente con la situazione che hai creato. Non trovi?-
Silenzio.
-Bè Mr Michael Jackson direi che adesso prendo un bel pullman e vado all’aeroporto, prendo il primo volo per Los Angeles ed entro stasera sono a Santa Ynez. Perché ho un figlio di cui occuparmi ed invece di farlo sono qui a perdere tempo con un cretino viziato e lunatico che non ha rispetto per nessuno. Chiudo. Arrivederci-
Mi accingo a premere il tasto rosso sul display quando sento sbiascicare
-No..-
-Cosa no?-
-Non andare..- la voce è bassa, quasi impercettibile.
-Perché? Vuoi forse mandarmi Wayne adesso? Ah no, è vero, che peccato l’hai trattato come uno straccio e l’hai cacciato, adesso chi manderai a prendermi? Chi manderai a controllare che il tuo volere sia esaudito?-
-Non manderò nessuno. Vorrei che tu tornassi qui per poterti parlare, anche se sei arrabbiata. Ti prego..-
-Sai qual è il punto Michael? Il punto è che non mi interessa più quello che hai da dirmi. Magari così la prossima volta impari a trattare le persone con maggior rispetto. Perché non sei il centro dell’universo, anche se ti risulta difficile capirlo. E adesso ti saluto-
Lo schiaffo che merita.
Entra, esce, rientra e riesce dalla mia vita come gli pare e piace.
Telefona all’ora che vuole.
Sparisce, si imbottisce di schifezze, lo vai ad aiutare e ti sputa in faccia, elimina tutti quelli che non lo assecondano come se fosse un dio, poi richiama per l’armistizio che deve avvenire secondo i suoi modi ed i suoi tempi. E tutti pronti ad eseguire.
Eh no ora basta!
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Seduta sulla panchina alla fermata dell’autobus mi gusto la mia Camel Light. Compagna di una vita, l’avevo abbandonata appena avevo saputo di essere incinta. Ed ora, dopo quasi quattro anni, ecco che non ho resistito al suo richiamo. Ma non ne diventerò schiava stavolta, lo sono già di qualcun altro.
Di nuovo la borsa che vibra e suona come una pazza.
Di nuovo la calma apparente che la sigaretta aveva faticosamente creato viene spazzata via.
-Pronto?-
-Andrea, sono Frank-
-Dimmi Frank-
-Dove sei?-
-Alla fermata dell’autobus-
-Per andare dove?!-
-All’aeroporto-
-Posso raggiungerti?-
-Frank, davvero, ho già espresso la mia opinione al diretto interessato, non c’è bisogno di..-
-E’ importante. Sono già per strada, dimmi la via che vengo a prenderti-
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-E così saresti l’incaricato a rammendare i casini del capo-
Salgo su un grosso suv dai vetri oscurati che parte sgommando. Tutto si può dire di Frank tranne che non ci sappia fare al volante. Ed io, da bravo maschiaccio quale sono, amo le auto e la velocità, e di conseguenza la guida di questo ragazzo sui trenta.
-Non c’è bisogno di essere così sarcastica, io non c’entro niente-
-Lo so, hai ragione, scusa-
-C’è una cosa che fondamentalmente devi capire Andrea-
-Sono tutta orecchi-
-Quando prende quella roba non è più lui. Non è lui quello che hai visto prima-
-Non mi interessa, non avrebbe dovuto prenderla allora! Ma hai visto come ha umiliato il povero Wayne?! Dico ma sono la sola ad essere rimasta basita?! Non posso crederci!!-
-Andrea, Wayne non se n’è nemmeno andato perché sa che quando Michael è così può dire qualunque cosa, poi si riprende e si scusa. Sono anni, ormai siamo abituati-
-Cioè tu mi stai dicendo che sono anni che un tuo amico abusa dei farmaci, va fuori di testa e tratta chiunque come gli pare, e tu ti ci sei abituato??-
-Tu credi che le cose siano sempre così semplici e chiare, così..o bianche o nere. Invece molte volte è più complicato, è difficile, quando entra nei periodi così diventa ingestibile, non ascolta nessuno, è irascibile. Io non lo lascio solo un attimo, sono sempre lì con lui. Non posso prenderlo di petto come fai tu, mi allontanerebbe all’istante. Tu sei l’unica che riesce a dirgli le cose come stanno, sei l’unica a cui lo permette-
-Forse perché me ne frego di quello che può pensare e non mi perdo nelle riverenze di cui avete bisogno voi tutti. Sembra che dobbiate per forza avere la sua approvazione. Ma è una pazzia, è assurdo-
-Senti pensala come vuoi. L’unica cosa che so è che Michael ha bisogno di te, molto più di quanto tu possa immaginare. Che non è una persona semplice te ne sei accorta tempo fa, quindi non venire qui a fare la scandalizzata. Piuttosto vedi di parlarci per favore, che questa giornata è iniziata già in modo pessimo-
Mi guarda con occhi stanchi. Ha le occhiaie Frank.
Credo che sia sincero nell’offrire il suo aiuto a Michael. Fa del suo meglio.
E non mi va di rendergli il tutto ancora più difficile.
Quindi mi avvio su per la larga scalinata ricoperta dalla moquette rossa ancorata al suolo da fini listarelle in ottone lucidissimo. L’hotel è quasi vuoto data la stagione. Per fortuna.
In cima ad essa si diparte un lungo corridoio in fondo al quale si staglia una porta in legno bianco. Ai lati due uomini in nero. Men in black. Trattengo il lieve sorriso che mi compare sul volto al pensiero idiota che ho appena fatto. E’ tutta colpa del nervosismo che mi chiude la gola in una morsa.
Un lieve tocco sulla spalla. Wayne da dietro mi sussurra
-Va tutto bene..- come a volermi incoraggiare. Lo guardo stupita e vorrei di nuovo rifugiarmi fra quelle spalle mastodontiche piuttosto che aprire quella porta e mettere definitivamente da parte tutto il mio orgoglio.
Lui lo capisce e bussa al posto mio, per scansare ogni possibilità di ripensamento, poi si dilegua nell’ampio corridoio.
Un lungo momento per riprendere fiato.
Non si tratta dello sforzo dopo le scale, ho il fiatone ed il cuore mi pulsa in gola perché so che ora dovrò attendere un suo cenno per poi aprire la porta.
Ed il cenno non arriva.
Nessun “avanti”, nessuna porta che si apre accogliendomi all’interno.
Rimango lì, in piedi con i miei dubbi, con le mie paure. Immense paure.
Nessun segnale, nessun rumore.
Desiderosa di porre fine a questo strazio decido di entrare anche senza che mi venga accordato un permesso.
Spingo incerta sulla maniglia e la porta si apre timidamente senza fare alcun rumore.
Lui non può rispondere a nessuno ora.
Sdraiato sul letto ha un’espressione serafica. I lineamenti ora sono distesi, il respiro regolare, le mani aperte sul lenzuolo.
Mi avvicino e mi siedo sul bordo del letto.
In una frazione di secondo tutta la rabbia, l’orgoglio ed il risentimento si polverizzano di fronte a Peter Pan brutalmente sradicato dalla sua favola e gettato nella spazzatura.
Come un oggetto vecchio e rotto.
Ma ancora così bello.
Così bello che il solo guardarlo non è sufficiente.
Con un leggero tocco della mano scorro sulla fronte, scendo sulla guancia ruvida dalla barba, indugio sulle labbra calde e morbide. Quante volte mi ci sono persa, con l’immaginazione e poi nella realtà.
Pazza di tristezza e nostalgia mi abbasso avvicinandomi pericolosamente a quel baratro di burro.
E non riesco a far altro che posare le mie su quella distesa di vaniglia a ripercorrere il cammino invisibile che le dita avevano tracciato poco fa.
E capisco che potrei perdonargli qualunque cosa in fondo.
E capisco di avere un bisogno disperato di dargli ciò di cui ha bisogno.
Perché lui è ciò di cui ho bisogno, così com’è, così grande e con i suoi vizi, con la debolezza e con le ombre che lo accompagneranno per tutta la vita.
Perché nessuno ha mai toccato la mia anima con una tale profonda dolcezza.
Nulla a questo mondo sarà mai più importante di mio figlio. E di lui.
Resterò qui, vicino a questo cuore martoriato dal tempo, finché potrò.
-Ora riposati amore mio, sarò qui al risveglio-
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-Sembra un fuoco che brucia nel mio cuore
Ogni singolo momento che passiamo lontani
Ho bisogno di te intorno per ogni giorno che inizio
Non ti ho mai lasciata sola..-
-mmmmh..-
Una voce lontana e indistinta. Devo essermi addormentata. Non ricordo in questo momento.
E continua là da dove era venuta.
-C’è qualcosa di te, che fisso nei tuoi occhi
E ogni cosa che cerco sembro trovare
Tutto questo tempo lontani mi sta uccidendo dentro
Ho bisogno del tuo amore nella mia vita..-
-Michael…- esce da sola questa parola, non so come.
Non riesco a mettere a fuoco la circostanza che mi ha portata a sdraiarmi nel letto in cui mi trovo distesa, appoggiata ad una superficie calda. Appoggiata al suo respiro. Qui, sul suo petto.
-Voglio passare il tempo finchè finisce
Voglio cederti di nuovo
Come facemmo quando ci incontrammo la prima volta
Voglio cadere di nuovo con te..-
Ma cosa sta dicendo.
Voglio ascoltare.
-Ciao piccola..-
L’inconfondibile calore suadente di questa voce mi provoca un brivido potente.
-M-Michael ma..perché stavo dormendo..io ero, cioè sono entrata e..-
Cerco di sollevarmi ravviandomi un ciuffo ribelle sulla fonte che fino a pochissimo tempo fa era posata su di lui. Vorrei aggiungere altre parole, vorrei dare una forma a questo farneticare che esce dalla mia bocca, ma riesco solo a sbadigliare.
Un sorriso accecante appena sotto di me.
Il tempo si ferma ed in questo spazio relativo esiste solo una dimensione. La nostra.
-Eri stanca si vede, e ti sei appisolata. Aprire gli occhi e trovarti qui è stato il miglior ritorno dagli inferi degli ultimi dieci anni- afferma con sguardo vivido ed un tono divertito mal celato.
Incrocia le mani dietro la nuca e sospira beato.
Improvvisamente mi sovviene tutto.
Il motivo per cui siamo in una camera d’albergo a San Francisco, il motivo per cui stava dormendo prima, gli ‘inferi’ come li chiama lui, ed il motivo della mia immensa stanchezza.
La mia espressione non lascia scampo ad equivoci, ho bisogno di parlargli, di chiarire, di ribadire, di discutere, e nulla mi fermerà, nemmeno il fatto di essere qui con lui ora, dopo un mese di blackout totale, nemmeno il fatto che non vorrei far altro che ascoltare la sua voce e perdermi nel suo profumo.
E’ un’esigenza quasi vitale la mia.
Ma non cederò finché non mi verrà concessa una conversazione come Dio comanda.
-Non mi sembra proprio il caso di far dell’ironia su questa situazione- Mi alzo sottraendomi definitivamente alla magia proveniente da quegli occhi.
-Non faccio dell’ironia, in questo caso è la verità..svegliandomi dalla catalessi in cui mi trovavo, il vederti appoggiata a me mi ha dato una sensazione di pace, mista a protezione..di amore,ecco-
Si solleva anche lui dal letto mettendosi seduto con la schiena poggiata alla testata.
-E’ incredibile-
-Cosa?-
-Il modo che hai di ignorare le cose. O forse lo fai apposta.-
-Ma in che senso scusa?-
-Si, lo fai apposta. Ti comporti come se niente fosse, ora ti risvegli fresco come una rosa sussurrando paroline mielose senza minimamente pensare a quello che è successo qui dentro stamattina. A come hai trattato Wayne e tutti quanti, me compresa-
Si fa scuro in volto ora e si alza in piedi senza staccare lo sguardo da terra.
Mi rivolge un’occhiata piena di risentimento.
L’ho colpito nel segno.
-Stamattina non ero esattamente me stesso, mi pare non ci sia bisogno di spiegarti perché-
Mi rivela con voce quasi impercettibile.
Incredibile la padronanza che ha del suo diaframma. Ma non mi frega.
-Non mi sembra una cosa per la quale tu ti debba sentire giustificato a fare tutto il cavolo che ti pare, anche se ti chiami Michael Jackson-
-Non sopporto quando mi chiami così-
-E’ il tuo nome-
-Non mi piace il modo in cui lo dici. Con quella pomposità, come se fosse una mongolfiera anziché un nome!-
-Non posso farci niente-
-Ma non mi piace. Gradirei che non mi chiamassi più con quel nome-
-Ed io gradirei che la smettessi di fare la superstar viziata e ricca e che facessi uscire Michael. Lui inizia a mancarmi sul serio-
-Non posso. Non puoi venire a dirmi quello che devo fare. Nessuno sa davvero come mi sento, nessuno. Sono più solo che mai, la fuga da tutto, la fuga è tutto quello che mi resta. Ora ho mal di testa. Per favore fammi riposare, per favore parleremo in un altro momento-
Dice così e con una teatralità quasi ridicola si porta una mano alla fronte come a volersi misurare la temperatura, poi si avvicina alla finestra e fissa immobile un punto indefinito.
-E’ questo il tuo modo di affrontare la vita?-
-MA QUALE VITA. DIMMI, QUALE VITA?! NON TI RENDI CONTO CHE SONO FINITO?! HAI CAPITO O NO QUELLO CHE E’ SUCCESSO?! MI VOGLIONO MORTO, E’ QUESTO CHE VOGLIONO! PERCHE’ NON LO CAPISCI?! PERCHE’ NESSUNO LO CAPISCE…PERCHE’..-
Le ultime sillabe sono strozzate dal singhiozzo. Appoggia la fronte al vetro che istantaneamente si appanna. Subito un boato dalla strada. Mi avvicino cercando di percorrere quei metri interminabili che ci separano nel minor tempo possibile. Quando finalmente lo raggiungo le mie piccole braccia lo avvolgono attorno al torace allacciandosi sull’addome. I singhiozzi si fanno sempre più forti. Poso la guancia su quella spalla che si contrae e decontrae ad intervalli sempre più brevi.
Affondo il viso fra i capelli che profumano di miele e con una mano chiudo la tenda.
In strada si sta scatenando il delirio.
L’hanno visto affacciarsi.
-Lo vedi, vogliono fotografarmi, sono tutti qui per carpire informazioni, vogliono immortalare il momento, vogliono vedere il volto sfigurato del terribile Wacko Jacko, quel…quel pedofil..-
Il pianto convulso ora gli impedisce di terminare la frase.
Si volta e mi cinge i fianchi in un abbraccio disperato.
Il viso rigato da mille lacrime ora è immerso fra i miei di capelli. Le sento scorrere e rigarmi il collo in fluttuanti percorsi fino alle clavicole.
Non riesco a sopportare di sentirlo soffrire. Sento un dolore allo sterno che mi impedisce di compiere respiri profondi.
-Non ti lascio Mike. Sono qui-
-Invece dovresti allontanarti il più possibile, non voglio portarti in fondo, non voglio che tu..-
-Schhh..non dire idiozie. Non potrei mai..-
-Ti prego, stammi lontana, scappa più lontano che puoi..io non posso darti nulla. Io non sono nulla..-
-Guardami-
Gli prendo il viso fra le mani costringendolo a incrociare i suoi abissi circondati di lacrime ai miei.
-Tu sei tutto invece. Per i tuoi figli. E per me. E io non ti lascerò andare in fondo da solo. Se davvero devi sprofondare io verrò con te. Ovunque dovrai andare, qualunque cosa dovrai sopportare io la sopporterò con te. Perché solo così peserà di meno. Mettitelo in testa la prossima volta prima di escludermi, come fai sempre-
Anche lui ora mi prende il viso fra le mani.
Non dice niente, gli occhi parlano per lui.
Sono ben aperti e svelano un riflesso più chiaro.
Le lacrime continuano a scendere copiose ma sorride e sembra tutto più bello, soleggiato e meno grave.
Dopo un’esitazione indefinita mi accarezza le gote con i pollici e mi avvicina alle sue labbra umide e calde.
Bacio riconoscente.
Bacio bollente.
Bacio emozionato.
Bacio salato.
Bacio di amore ricambiato.
Luce.
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SANTA YNEZ, California. CASA MIA Nov 23, 2003
-Ancora non riesco a capacitarmi..-
-Di cosa?!-
-Del fatto che mi hai convinto a venire via da San Francisco…per tornare qui..-
-Scusa che cosa c’è di strano? Era molto più innaturale stare in una camera d’albergo e costringere i tuoi figli a trascorrere le giornate reclusi..no?-
-Si, è vero..solo che non riesco..non riesco proprio a tornare a casa..-
-Perché, qui non sei a casa?-
-Si, io intendevo Neverland però..-
-E chi ti costringe a farlo? Non ci saranno gli spazi e le comodità di Neverland però c’è spazio per tutti e questo è l’importante-
Cerco di glissare il discorso cercando di farlo soffermare il meno possibile sul motivo del non ritorno a Neverland, ma inevitabilmente gli occhi cambiano luminosità e divengono opachi. Inoppugnabili.
Tutto questo mi riporta la mente al passato. A quella sera d’inverno in cui io e mamma tornammo a casa ed erano entrati i ladri. Non ricordo nulla con precisione. Solo due cose: le impronte nere sul muro del bagno vicino alla finestra e quella sgradevole sensazione di essere stati violati.
Nel vedere i miei giocattoli sparsi fuori dalla cesta ed i vestiti di mamma a terra, ammucchiati come legna da ardere fuori dall’armadio, ricordo bene quella sensazione di vuoto, di non appartenenza alla mia casa.
Alla lontana posso pensare a come deve sentirsi lui ora.
Provo ad immaginare il disordine lasciato dai poliziotti, gli oggetti sparsi, magari rotti, figuriamoci, con la fissazione di Michael per le combinazioni ed i lucchetti..quelli avranno avuto pane per i loro denti, non si saranno certo fatti dei problemi a forzare e spaccare.
Provo ad immaginare ma so che la realtà come sempre sarà molto peggio.
Il giorno che vorrà tornarci dovrò esserci anch’io.
Gli ho promesso che non dovrà sopportare più nulla da solo. E così sarà.
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-Daddy…daddy vieniiiiiiiiiiii-
La voce di Paris echeggia dal fazzolettino di terra nel retro della mia abitazione.
Non è grande e bello come il parco a cui sono abituati, ma sembrano apprezzare lo stesso il dondolo a fiori blu, i vari cavallini, le macchinine in plastica su cui montare e dondolarsi e la piccola altalena di Saty.
Sono tutti lì, persi nelle loro storie inventate, in cui dapprima Paris è la maestra e gli altri gli alunni, poi Satya si trasforma in un valoroso capitano di ventura e gli altri in combattenti al suo cospetto…
Passano così le prime ore di questa mattina di inizio inverno, in cui il freddo non sembra intenzionato ad arrivare, permettendo a tutti un abbigliamento semi primaverile, in attesa che i raggi del sole più caldi facciano capolino nell’ora di punta consentendo a tutti perfino la manica corta.
Wayne ed altri due enormi ragazzi si occupano della griglia, Grace dondola Blanket sull’altalena, Karen e suo marito si riposano seduti sui grandi piastrelloni di marmo.
Ho voluto che ci fossero un po’ tutte le persone più intimamente legate a Michael in questo momento così difficile per lui, ho voluto invitarli tutti qui, nella mia umile dimora, in modo che possa realmente sentire il calore e l’affetto di cui ha tanto bisogno tutti concentrati in queste poche stanze, in questo pochi metri.
Basta con le asettiche stanze di albergo, con i ristoranti lussuosi, con i pomeriggi a fissare il vuoto oltre al vetro, con i disinfettanti, con le iniezioni, con le flebo, con i flash, con il silenzio assordante della solitudine.
Basta davvero.
Mentre sono in cucina a lavare le varie verdure da mettere poi sulla griglia suonano alla porta.
E’ Frank con un enorme pacco in mano.
Forse è una torta.
Mi affaccio dall’enorme vetrata che da sul piccolo giardino e vedo Pedra rincorrere i suoi diavoletti che a loro volta rincorrono Michael che, con il mio cappello di carnevale da strega, rincorre Saty cercando di terrorizzarlo.
La sua risata pulita e cristallina si erge sopra tutti i suoni rimbombandomi nel cuore.
Tutti ridono.
E’ una bella giornata, dopo tanto freddo, è una bella giornata.
Una volta seduti a tavola tutti iniziamo a mangiare avventandoci sul piattone centrale ricolmo di delizie calde di brace, ma lui sembra osservare il quadro piuttosto che prendervi parte.
Incuriosita mi volto a guardarlo, conscia del fatto che presto farà qualcosa. Inizio a conoscerlo credo.
Dopo avermi rivolto uno dei sorrisi più luminosi e debilitanti al tempo stesso, si schiarisce la voce cercando di attirare l’attenzione su di sé.
-Vorrei ringraziarvi tutti per essere qui oggi. Per me è molto importante. Come sapete il periodo non è dei migliori e sento che arriveranno momenti ancora più difficili. A questo proposito volevo cogliere l’occasione per scusarmi con tutti per i miei modi e per i miei atteggiamenti, perdonatemi tutto, vi prego. Scusate e grazie, Grace, per esserci, per loro –indicando i figli-; Wayne, perdonami amico; Frank, non ti dico mai grazie per quello che fai; Karen, già sai, senza bisogno di parole; Pedra sei un angelo raro, grazie anche per tutto quello che fai per permettere ad Andrea di inseguirmi nelle mie pazzie; e tu – guardandomi intensamente negli occhi-..per esprimere il tutto non basterebbe una via lattea di parole, ma se non ci fossi tutto sarebbe diverso e uguale a prima..-
Dice così, lasciandoci nel silenzio della commozione e nella consapevolezza della sua immensità.
Quanto è immenso Michael.
Quello che viene dopo riguarda solo una pioggia di sorrisi, di pacche sulla spalla e di “ma che dici?” e “grazie di che? Guarda che lo faccio per lo stipendio!!” seguiti da tante tante risate sonore.
Musica per le mie orecchie.
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Ore 22:00
Appena finito di lavare gli ultimi piatti mi soffermo ad apprezzare il silenzio.
La festa è stata lunga e bella, Wayne è stato l’ultimo ad andare dopo essersi assicurato che tutto fosse a posto; sono riuscita a convincerlo a tornare a casa e farsi una dormita dissuadendolo dall’intento iniziale di dormire in macchina per avere tutto “sotto controllo”, come dice sempre lui.
Non credo che la sua sia semplice professionalità, la classificherei piuttosto una dedizione profonda, una cosa che solo un amico ha verso un altro.
E Mike lo sa bene.
Pedra dorme sul divano letto abbracciata a Saty e ai suoi due piccini, non ho avuto il cuore di svegliarli dopo “toy story”; Paris, Prince e Blanket invece dormono nella cameretta di Saty, dove c’è un lettino a castello ed una culla che Michael ha fatto prelevare da Neverland. Grace è andata a casa, anche lei aveva diverse ore di sonno da recuperare.
Tutti dormono, tutto tace.
Sono questi i momenti migliori per una bella sigaretta sotto le stelle.
Decisa a concedermi questi cinque minuti di capriccio, giusto per coronare la splendida giornata appena trascorsa, mi avvio al portichetto che fa da anticamera al piccolo giardino.
La stellata è magnifica e sovrasta tutto quanto intorno aderendo perfettamente al paesaggio, come farebbe una cupola posata su una piattaforma rotonda.
Un tiro, due, aspiro ed espiro, relax, abbandono, pace dopo la guerra.
Improvvisamente una mano decisa arriva da un punto dietro di me e si sposta scorrendo attorno alla linea della vita fermandosi sull’addome. Un’altra mano fa lo stesso, dall’altro lato.
Un intenso calore dietro alla schiena annuncia una presenza familiare confermata subito dopo dall’inconfondibile profumo di fiori selvatici e di sandalo.
Poso istintivamente il capo sulla spalla che so di trovare appena dietro di me, ed è così.
-Quando la finirai con questa roba? Lo dico sempre anche a Frank..ma che ci trovate io non lo so..-
Il tono è fermo ma falsamente inquisitorio. Adoro quando cerca di farmi una ramanzina.
-Ognuno ha i suoi veleni- Ribatto sicura e sarcastica, tanto per mettere in chiaro le cose.
Di tutta risposta mi stringe più forte ed inizia a farmi il solletico con il naso nell’incavo fra orecchio e collo.
Rido e lancio via quel bastoncino infuocato che tenevo fra le dita, divenuto così insignificante ora.
Di nuovo appoggio il capo sulla spalla e succede.
Mi bacia, lo bacio.
Da subito l’espressione del dolore, della mancanza, dell’ansia e dell’angoscia di quel mese abbondante passato lontani si fanno sentire e si traducono nella passione e nella voluttà più pulite e pure che io abbia mai provato.
Sento le mani calde e sicure attraversare dal basso il sottile scampolo del mio vestitino bianco di lino, insinuarsi sapienti e posare morbide carezze in tutti i punti, senza trascurare niente.
Mi volto verso di lui per gustare tutto questo ed agire a mia volta su quella camicia azzurra a costine con le maniche arrotolate, che gli da un qualcosa di vissuto ed informale che mi fa letteralmente impazzire.
Lo abbraccio forte, più forte che posso, ancora incredula del fatto che lui sia veramente qui con me.
Mi stringe, forte, fortissimo, da farmi mancare addirittura il respiro.
-Dio quanto mi sei mancata, ho creduto di impazzire..ho creduto di morire..-
-Anche tu Mike, anche tu..-
Non riusciamo a parlare, questo è ben chiaro ad entrambi, quindi decidiamo di non provarci nemmeno.
Mi lascio trascinare da quei baci potenti e nervosi attraverso il corridoio, senza paura di essere scoperti, senza paura di fare rumore.
Con passi decisi e senza mai staccare le labbra dalle mie mi conduce gentilmente in camera, dove mi sfila le spalline sottili del vestito lasciandolo cadere ai piedi.
Mi guarda con espressione estasiata mentre gli slaccio la camicia e lo libero di tutto baciandogli il collo e percorrendo una linea immaginaria attraverso le clavicole, i pettorali, l’addome, l’ombelico.
Un ultimo sguardo annebbiato da parte sua mi concede il lasciapassare per una meta segreta e poco distante che appena viene raggiunta gli fa inclinare il capo indietro e mormorare parole senza un senso apparente. Nell’aria della piccola stanza sospiri strozzati in rantoli poco distinti scandiscono la passione che gli voglio regalare, fino a quando mi afferra i fianchi con una richiesta degli occhi quasi disperata e mi fa sedere su letto.
Inginocchiato davanti a me ora mi sfila tutto quanto mi è rimasto addosso con una lentezza che mi mozza il fiato. Con perizia ed un contegno di cui nessun uomo fino ad ora era mai stato capace, accarezza i nuovo ogni centimetro che incontra, riservando una particolare attenzione alle piccole e rotonde colline che tanto adora di me, sulle quali descrive complessi motivi circolari con le dita e poi con la lingua stessa.
Risale verso il collo ed è lì, nel punto di non ritorno, sull’orlo del baratro, sulla vetta dell’universo che mai avevo immaginato esistere prima d’ora, che pronuncia sulle mie labbra, guardandomi negli occhi a pochissimi millimetri di distanza
-Non credo più in molte cose ormai, ma di una sono sicuro… ti amo piccola..-
Non ho la forza di rispondere, se fossi in piedi starei per svenire, se stessi guidando rischierei di schiantarmi, se stessi respirando rischierei l’iperventilazione, se stessi vivendo rischierei di morire; invece sono sdraiata nuda sotto il suo corpo caldo e tutto quello che riesco a fare è accoglierlo dentro di me come se fosse la prima volta, e lasciare che tutto abbia inizio, inesorabilmente.
Per tutta la notte respiri affannati, rantoli nel buio, mani che accarezzano, labbra che baciano, due cuori che si uniscono in uno, capelli nei capelli e fronti imperlate di gocce salate che scendono anche sulle guance, lacrime di gioia, lacrime di dolore verso la vita, calore, poi freddo, piacere, poi riposo, e di nuovo da capo su questa giostra che non pare volersi fermare
-Resta sempre con me..se no non ce la faccio..-
-Te l’ho promesso..-
-Io non ce la faccio, non posso più vivere senza di te, non posso..-
La sua voce calda che chiede e vuole tutto da me, mentre afferra i fianchi e li stringe avvolgendomi a lui sempre di più, sempre più forte
-Michael…oh Mi..-
Il senso di piacere mi invade talmente forte e vibrante da rendermi incapace di qualsiasi cosa.
Nessuna paura se non quella di perderlo.
La mente vuota.
Il corpo stremato.
Un’unica consapevolezza.
Non voglio niente di più.
Mi sveglio con la cornetta imprigionata nell’incavo fra orecchio e collo.
Mi è sembrato di sentirlo parlare alla fine. Ma è stato solo un sogno, ne sono sicura, e questo suono sordo e vacuo della linea interrotta me ne da la conferma.
E’ un tiepido mattino di novembre.
Il sole è più pallido del solito.
Su di lui una leggera foschia che intorpidisce la potenza dei raggi.
SAN FRANCISCO, California. Ritz Carlton Hotel. Nov 30, 2003
-Michael..posso?-
-Vieni, entra-
-Che ne dici di scendere a mangiare qualcosa?-
-Non ho fame-
-Lo immagino, ma devi sforzarti. Ormai sono tre giorni che non tocchi cibo-
-Frank non riesco. Ho la mente totalmente annebbiata. Non riesco a pensare, non riesco a parlare, non riesco a dormire, sono il nulla ormai-
-Michael non credo che questo atteggiamento possa migliorare le cose. E’ dura, non posso nemmeno immaginare, ma se ti lasci andare proprio adesso gliela darai vinta. E non deve succedere. Siamo tutti qui per te, per favore..-
-Frank ti prego basta con queste stronzate. Siete tutti qui per me!? Ma che ne sapete voi? Che ne sapete. E’ la mia vita. La mia faccia. Il mio nome. Totalmente insudiciati. Mi faranno a pezzi, mi vogliono distruggere, è tutta una manovra non lo capisci?! Come faccio a mantenere la lucidità in questo gioco subdolo. E’ l’inferno. Mi vogliono morto- si porta le mani sulle tempie e le massaggia debolmente mentre la voce calante annuncia una lacrima già sulla rampa di lancio del bulbo oculare.
-Se continui così mi sa che li anticipi sui tempi..-
Una voce femminile dietro alla porta.
-Michael, scusami..sei sveglio?!-
-Dimmi, tanto qui dentro ormai è una processione..- la voce fredda e scocciata
-No, scusa non volevo certo disturbarti, è che i bambini sono svegli da due ore e chiedono di te, cosa devo dirgli? Tra poco è ora di pranzo, se magari scendes..-
-Mio Dio, mio Dio Grace, ma da quanto fai questo lavoro?! Non sai come tenere buoni tre bambini? Non riesci a farli stare tranquilli un paio d’ore senza che ci sia io?
Ma che diavolo avete tutti oggi?!-
-No, che cosa hai tu Mike- una voce cristallina fa capolino da dietro la porta.
Tra tutti i volti dall’espressione attonita quello di Michael è il più evidente.
Buio.
NELLA TESTA DI MICHAEL
Andrea.
Non posso credere che sei qui.
Ma come ci sei arrivata.
Amore mio.
Chi ti ha detto dove mi trovavo.
Wayne.
Stupido pazzo.
NELLA MIA TESTA
Forse non dovevo intromettermi così. Non dovevo piombare qui all’improvviso.
E’ stato tutto troppo veloce. Stamattina mi hanno suonato la porta. Ho aperto ancora in pigiama.
L’ho fatto entrare.
L’imponenza del suo aspetto stonava brutalmente con l’espressione che aveva in volto.
Davanti ad un caffè che non voleva accettare mi ha detto che la situazione era grave.
Mi ha chiesto di sbrigarmi a prepararmi.
Mi ha chiesto di partire con lui per San Francisco.
Mi ha detto che Michael stava male, che stava per toccare il fondo.
Non ho potuto sottrarmi all’istinto.
Vestita di un misero paio di jeans e di una camicetta bianca ho preparato il borsone di Saty che, ancora infagottato dalla copertina, ho lasciato a Pedra senza nemmeno chiedermi se fosse giusto mollare mio figlio ogni volta per andare incontro all’ignoto. Come una stupida ragazzina.
Siamo saliti su un suv, poi su un jet, poi ancora su un altro suv.
Per tutto il viaggio il silenzio è stato l’unico compagno dei miei pensieri, ha condotto l’immaginazione ad un Michael sull’orlo di un precipizio, seduto su un fondale dall’inestimabile profondità.
Potrei soffocare insieme a lui.
Potrei annegare anch’io nel suo dolore.
Potrei soccombere sotto i fendenti dei suoi mostri.
Prima di entrare in camera un solo avvertimento:
-Andrea non lo riconoscerai, cerca di assecondarlo per quello che puoi. Non è il Michael a cui sei abituata-
Non è il Michael a cui sono abituata.
E quello che mi appare è molto peggio di quanto avevo solo immaginato.
-E adesso tu che ci fai qui?- in un volto privo di espressione questa è la domanda retorica che esce da quelle labbra pallide, che non riescono a celare una punta di collera crescente.
-Anche tu mi sei mancato, si si sto bene, grazie!- non lo asseconderò, contrariamente alle raccomandazioni fattemi pochi istanti fa.
-CHE CAZZO CI FAI QUI HO DETTO!- credo di non averlo mai visto così. Fa quasi paura. Gli occhi stanchi contornati dall’eyeliner sono spalancati e rivelano un rossore sui contorni. Un’ombra scura li sovrasta, e sembra circondarlo completamente. I due lembi di una camicia rossa di cotone stropicciata sono tenuti uniti da un solo bottone alla base del petto, per il resto svolazzano indomati al di fuori di un paio di pantaloni neri con la riga davanti.
I capelli mossi e privi di direzione fanno da oscura cornice ad un volto che definire pallido è riduttivo. Solo la barba di un paio di giorni fornisce un contrasto a quella distesa scavata ed albina che si ritrova al posto delle guance. E’ in piedi e sta avanzando verso di me di fronte ad un Frank incapace di formulare parola ed a Grace che mi guarda con occhi imploranti.
Ma non mi lascio impressionare, conscia del fatto che se per un momento facessi il suo gioco ne rimarrei imprigionata per sempre.
-Niente, passavo per caso..sai, io amo vagare per San Francisco alle 11 del mattino!- con questo mio tono tranquillo e disinvolto, completamente incurante di quello che potrei aver innescato, spero non pensi di potermi trattare come ha fatto con gli altri due.
-Ti rendi conto che questa è la mia suite? Ma chi diavolo ti ha detto di piombare qui..ma..- cerca inutilmente di non gridare come ha fatto prima, ma la collera e l’agitazione lo tradiscono.
-Che tattica banale la tua. Se non hai capito non funziona proprio. Spiacente-
Avanza verso di me fissandomi negli occhi.
Sembra che voglia divorarli e divorare anche me in quell’abisso nero dei suoi.
Arrivato ad un centimetro da me cambia rapidamente traiettoria urtandomi con la spalla. Si precipita come una furia in corridoio urlando.
-WAYYYYYYYYNE! DOV’E’..DOV’E’?!-
Vociare indistinto.
Rumore di passi.
-Dimmi Michael- la voce della consapevolezza si affaccia con timida reverenzialità dall’omone che è.
-L’hai fatta venire tu?- la voce della consapevolezza si affaccia con arroganza sotto forma di un sibilo sottile e pacato dal fantasma dell’uomo che amo.
-Si-
-Posso sapere chi te lo ha ordinato?-
-Nessuno, è stata una mia decisione-
-E dimmi. Io ti pago per prendere decisioni al posto mio?-
-No-
-Però tu hai pensato di poter disporre dei miei mezzi a tuo piacimento, vero?-
-No-
-Certo che si, altrimenti non avresti fatto questa bella cazzata-
-Io sono pagato per salvaguardare la tua sicurezza Michael. Ma sono quasi diciotto anni che lavoro per te e siamo diventati amici. Quindi è plausibile che io abbia preso una decisione per il tuo bene..-
-Per il mio bene? Oh adesso le guardie del corpo si trasformano in psicoterapeuti, non lo sapevo. Ehi ragazzi –rivolgendosi alle due persone incravattate in piedi in corridoio- Ma dov’è che avete studiato per saper fare così tante cose?!-
La situazione è quasi insostenibile mentre guardo quest’uomo gesticolare e biascicare parole cariche di sfida e rancore, in un atteggiamento che non esprime minimamente il suo reale animo.
Di Michael non è rimasto niente, ora è Michael Jackson la star viziata e prepotente, è saccente, arrogante e disgustoso. Perfino il tono della sua voce, normalmente somigliante ad un sussurro delle fate ora è sgradevole.
Sento la testa girare per l’intenso odore di acqua ossigenata che aleggia denso nella stanza.
-Bene, comunque non ho bisogno di uno psicoterapeuta, ma di gente professionale e discreta su cui poter contare in questo momento. E con il tuo comportamento hai dimostrato di non rientrare in questa categoria di persone. Sei licenziato Wayne-
Il brivido gelato che mi attraversa a queste parole è amplificato da quello che attraversa tutti i presenti. Siamo intrappolati in una rete di tensione da cui non riesco a districarmi.
Al silenzio tombale si accompagna lo sguardo deluso di un uomo alto e possente che fa scorrere gli occhi su di me, poi su Frank, Grace e Michael per ultimo. Non saprei dire se sia carico di rimprovero né se tale rimprovero sia indirizzato a qualcuno in particolare. So solo che vederlo girarsi ed uscire chiudendo piano la porta mi provoca una cascata dagli occhi che non riesco a controllare.
A questo punto Frank interviene
-Michael, ma che fai? Ti rendi conto? Non puoi..-
-Frank, segui il mio consiglio. Taci. TACETE TUTTI! NON VOGLIO PIU’ SENTIRE UNA PAROLA! QUESTA E’ LA MIA VITA, DECIDO IO COME VIVERLA, NON HO BISOGNO DI VOI!-
-Grace chiama il dottor Smith per favore- la sussurrata rassegnazione di uno dei più cari amici di Mike mi fa comprendere che siamo di fronte ad una situazione che non sono in grado di gestire.
-Dottore, dottore mi aiuti lei, queste persone vogliono prendersi la mia vita, vogliono rubarmi l’anima, è una cospirazione, si tratta di una cospirazione, io lo so..-
Queste le ultime parole che gli sento pronunciare prima di uscire da quella stanza con il volto rigato da mille ruscelli salati ed il cuore in tanti piccoli pezzi.
Buio.
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Interminabili ed angosciosi i minuti che scorrono, ora che mi trovo a Mission Bay, sulla baia di San Francisco. Le otarie adagiate sulle enormi banchine in cemento prendono il sole assonnate, disturbate solo dai gabbiani che volano impazziti alla ricerca di cibo nelle loro vicinanze.
Il sole è ancora più pallido di quello che mi ha risvegliato stamane a Los Angeles e la temperatura è più pungente.
L’esigenza di fare due passi per liberare i polmoni da quell’aria densa di dolore e di esalazioni dalle note alcoliche dei disinfettanti mi ha guidato fino a qui.
Ho percorso circa due miglia a piedi fra le strade di questa città magica, salite e discese, salite e discese, salite e discese. Mentre camminavo pensavo che gli abitanti del luogo sono incredibilmente avvantaggiati perché ogni volta hanno sotto gli occhi la verità della vita sottoforma di viali, vie, strade. Tutte in salita e contemporaneamente in discesa, dipende da dove devi andare, da come le guardi, da cosa sei interessato a fare. Loro saranno sicuramente più saggi di tutti gli altri.
Ma forse sto solo delirando.
Un suono proveniente dalla borsa mi desta da pensieri senza senso.
-Pronto?-
Silenzio.
-Pronto?!-
Silenzio.
-Direi che potresti anche finirla, ora il giochetto del telefono non è romantico e stona terribilmente con la situazione che hai creato. Non trovi?-
Silenzio.
-Bè Mr Michael Jackson direi che adesso prendo un bel pullman e vado all’aeroporto, prendo il primo volo per Los Angeles ed entro stasera sono a Santa Ynez. Perché ho un figlio di cui occuparmi ed invece di farlo sono qui a perdere tempo con un cretino viziato e lunatico che non ha rispetto per nessuno. Chiudo. Arrivederci-
Mi accingo a premere il tasto rosso sul display quando sento sbiascicare
-No..-
-Cosa no?-
-Non andare..- la voce è bassa, quasi impercettibile.
-Perché? Vuoi forse mandarmi Wayne adesso? Ah no, è vero, che peccato l’hai trattato come uno straccio e l’hai cacciato, adesso chi manderai a prendermi? Chi manderai a controllare che il tuo volere sia esaudito?-
-Non manderò nessuno. Vorrei che tu tornassi qui per poterti parlare, anche se sei arrabbiata. Ti prego..-
-Sai qual è il punto Michael? Il punto è che non mi interessa più quello che hai da dirmi. Magari così la prossima volta impari a trattare le persone con maggior rispetto. Perché non sei il centro dell’universo, anche se ti risulta difficile capirlo. E adesso ti saluto-
Lo schiaffo che merita.
Entra, esce, rientra e riesce dalla mia vita come gli pare e piace.
Telefona all’ora che vuole.
Sparisce, si imbottisce di schifezze, lo vai ad aiutare e ti sputa in faccia, elimina tutti quelli che non lo assecondano come se fosse un dio, poi richiama per l’armistizio che deve avvenire secondo i suoi modi ed i suoi tempi. E tutti pronti ad eseguire.
Eh no ora basta!
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Seduta sulla panchina alla fermata dell’autobus mi gusto la mia Camel Light. Compagna di una vita, l’avevo abbandonata appena avevo saputo di essere incinta. Ed ora, dopo quasi quattro anni, ecco che non ho resistito al suo richiamo. Ma non ne diventerò schiava stavolta, lo sono già di qualcun altro.
Di nuovo la borsa che vibra e suona come una pazza.
Di nuovo la calma apparente che la sigaretta aveva faticosamente creato viene spazzata via.
-Pronto?-
-Andrea, sono Frank-
-Dimmi Frank-
-Dove sei?-
-Alla fermata dell’autobus-
-Per andare dove?!-
-All’aeroporto-
-Posso raggiungerti?-
-Frank, davvero, ho già espresso la mia opinione al diretto interessato, non c’è bisogno di..-
-E’ importante. Sono già per strada, dimmi la via che vengo a prenderti-
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-E così saresti l’incaricato a rammendare i casini del capo-
Salgo su un grosso suv dai vetri oscurati che parte sgommando. Tutto si può dire di Frank tranne che non ci sappia fare al volante. Ed io, da bravo maschiaccio quale sono, amo le auto e la velocità, e di conseguenza la guida di questo ragazzo sui trenta.
-Non c’è bisogno di essere così sarcastica, io non c’entro niente-
-Lo so, hai ragione, scusa-
-C’è una cosa che fondamentalmente devi capire Andrea-
-Sono tutta orecchi-
-Quando prende quella roba non è più lui. Non è lui quello che hai visto prima-
-Non mi interessa, non avrebbe dovuto prenderla allora! Ma hai visto come ha umiliato il povero Wayne?! Dico ma sono la sola ad essere rimasta basita?! Non posso crederci!!-
-Andrea, Wayne non se n’è nemmeno andato perché sa che quando Michael è così può dire qualunque cosa, poi si riprende e si scusa. Sono anni, ormai siamo abituati-
-Cioè tu mi stai dicendo che sono anni che un tuo amico abusa dei farmaci, va fuori di testa e tratta chiunque come gli pare, e tu ti ci sei abituato??-
-Tu credi che le cose siano sempre così semplici e chiare, così..o bianche o nere. Invece molte volte è più complicato, è difficile, quando entra nei periodi così diventa ingestibile, non ascolta nessuno, è irascibile. Io non lo lascio solo un attimo, sono sempre lì con lui. Non posso prenderlo di petto come fai tu, mi allontanerebbe all’istante. Tu sei l’unica che riesce a dirgli le cose come stanno, sei l’unica a cui lo permette-
-Forse perché me ne frego di quello che può pensare e non mi perdo nelle riverenze di cui avete bisogno voi tutti. Sembra che dobbiate per forza avere la sua approvazione. Ma è una pazzia, è assurdo-
-Senti pensala come vuoi. L’unica cosa che so è che Michael ha bisogno di te, molto più di quanto tu possa immaginare. Che non è una persona semplice te ne sei accorta tempo fa, quindi non venire qui a fare la scandalizzata. Piuttosto vedi di parlarci per favore, che questa giornata è iniziata già in modo pessimo-
Mi guarda con occhi stanchi. Ha le occhiaie Frank.
Credo che sia sincero nell’offrire il suo aiuto a Michael. Fa del suo meglio.
E non mi va di rendergli il tutto ancora più difficile.
Quindi mi avvio su per la larga scalinata ricoperta dalla moquette rossa ancorata al suolo da fini listarelle in ottone lucidissimo. L’hotel è quasi vuoto data la stagione. Per fortuna.
In cima ad essa si diparte un lungo corridoio in fondo al quale si staglia una porta in legno bianco. Ai lati due uomini in nero. Men in black. Trattengo il lieve sorriso che mi compare sul volto al pensiero idiota che ho appena fatto. E’ tutta colpa del nervosismo che mi chiude la gola in una morsa.
Un lieve tocco sulla spalla. Wayne da dietro mi sussurra
-Va tutto bene..- come a volermi incoraggiare. Lo guardo stupita e vorrei di nuovo rifugiarmi fra quelle spalle mastodontiche piuttosto che aprire quella porta e mettere definitivamente da parte tutto il mio orgoglio.
Lui lo capisce e bussa al posto mio, per scansare ogni possibilità di ripensamento, poi si dilegua nell’ampio corridoio.
Un lungo momento per riprendere fiato.
Non si tratta dello sforzo dopo le scale, ho il fiatone ed il cuore mi pulsa in gola perché so che ora dovrò attendere un suo cenno per poi aprire la porta.
Ed il cenno non arriva.
Nessun “avanti”, nessuna porta che si apre accogliendomi all’interno.
Rimango lì, in piedi con i miei dubbi, con le mie paure. Immense paure.
Nessun segnale, nessun rumore.
Desiderosa di porre fine a questo strazio decido di entrare anche senza che mi venga accordato un permesso.
Spingo incerta sulla maniglia e la porta si apre timidamente senza fare alcun rumore.
Lui non può rispondere a nessuno ora.
Sdraiato sul letto ha un’espressione serafica. I lineamenti ora sono distesi, il respiro regolare, le mani aperte sul lenzuolo.
Mi avvicino e mi siedo sul bordo del letto.
In una frazione di secondo tutta la rabbia, l’orgoglio ed il risentimento si polverizzano di fronte a Peter Pan brutalmente sradicato dalla sua favola e gettato nella spazzatura.
Come un oggetto vecchio e rotto.
Ma ancora così bello.
Così bello che il solo guardarlo non è sufficiente.
Con un leggero tocco della mano scorro sulla fronte, scendo sulla guancia ruvida dalla barba, indugio sulle labbra calde e morbide. Quante volte mi ci sono persa, con l’immaginazione e poi nella realtà.
Pazza di tristezza e nostalgia mi abbasso avvicinandomi pericolosamente a quel baratro di burro.
E non riesco a far altro che posare le mie su quella distesa di vaniglia a ripercorrere il cammino invisibile che le dita avevano tracciato poco fa.
E capisco che potrei perdonargli qualunque cosa in fondo.
E capisco di avere un bisogno disperato di dargli ciò di cui ha bisogno.
Perché lui è ciò di cui ho bisogno, così com’è, così grande e con i suoi vizi, con la debolezza e con le ombre che lo accompagneranno per tutta la vita.
Perché nessuno ha mai toccato la mia anima con una tale profonda dolcezza.
Nulla a questo mondo sarà mai più importante di mio figlio. E di lui.
Resterò qui, vicino a questo cuore martoriato dal tempo, finché potrò.
-Ora riposati amore mio, sarò qui al risveglio-
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-Sembra un fuoco che brucia nel mio cuore
Ogni singolo momento che passiamo lontani
Ho bisogno di te intorno per ogni giorno che inizio
Non ti ho mai lasciata sola..-
-mmmmh..-
Una voce lontana e indistinta. Devo essermi addormentata. Non ricordo in questo momento.
E continua là da dove era venuta.
-C’è qualcosa di te, che fisso nei tuoi occhi
E ogni cosa che cerco sembro trovare
Tutto questo tempo lontani mi sta uccidendo dentro
Ho bisogno del tuo amore nella mia vita..-
-Michael…- esce da sola questa parola, non so come.
Non riesco a mettere a fuoco la circostanza che mi ha portata a sdraiarmi nel letto in cui mi trovo distesa, appoggiata ad una superficie calda. Appoggiata al suo respiro. Qui, sul suo petto.
-Voglio passare il tempo finchè finisce
Voglio cederti di nuovo
Come facemmo quando ci incontrammo la prima volta
Voglio cadere di nuovo con te..-
Ma cosa sta dicendo.
Voglio ascoltare.
-Ciao piccola..-
L’inconfondibile calore suadente di questa voce mi provoca un brivido potente.
-M-Michael ma..perché stavo dormendo..io ero, cioè sono entrata e..-
Cerco di sollevarmi ravviandomi un ciuffo ribelle sulla fonte che fino a pochissimo tempo fa era posata su di lui. Vorrei aggiungere altre parole, vorrei dare una forma a questo farneticare che esce dalla mia bocca, ma riesco solo a sbadigliare.
Un sorriso accecante appena sotto di me.
Il tempo si ferma ed in questo spazio relativo esiste solo una dimensione. La nostra.
-Eri stanca si vede, e ti sei appisolata. Aprire gli occhi e trovarti qui è stato il miglior ritorno dagli inferi degli ultimi dieci anni- afferma con sguardo vivido ed un tono divertito mal celato.
Incrocia le mani dietro la nuca e sospira beato.
Improvvisamente mi sovviene tutto.
Il motivo per cui siamo in una camera d’albergo a San Francisco, il motivo per cui stava dormendo prima, gli ‘inferi’ come li chiama lui, ed il motivo della mia immensa stanchezza.
La mia espressione non lascia scampo ad equivoci, ho bisogno di parlargli, di chiarire, di ribadire, di discutere, e nulla mi fermerà, nemmeno il fatto di essere qui con lui ora, dopo un mese di blackout totale, nemmeno il fatto che non vorrei far altro che ascoltare la sua voce e perdermi nel suo profumo.
E’ un’esigenza quasi vitale la mia.
Ma non cederò finché non mi verrà concessa una conversazione come Dio comanda.
-Non mi sembra proprio il caso di far dell’ironia su questa situazione- Mi alzo sottraendomi definitivamente alla magia proveniente da quegli occhi.
-Non faccio dell’ironia, in questo caso è la verità..svegliandomi dalla catalessi in cui mi trovavo, il vederti appoggiata a me mi ha dato una sensazione di pace, mista a protezione..di amore,ecco-
Si solleva anche lui dal letto mettendosi seduto con la schiena poggiata alla testata.
-E’ incredibile-
-Cosa?-
-Il modo che hai di ignorare le cose. O forse lo fai apposta.-
-Ma in che senso scusa?-
-Si, lo fai apposta. Ti comporti come se niente fosse, ora ti risvegli fresco come una rosa sussurrando paroline mielose senza minimamente pensare a quello che è successo qui dentro stamattina. A come hai trattato Wayne e tutti quanti, me compresa-
Si fa scuro in volto ora e si alza in piedi senza staccare lo sguardo da terra.
Mi rivolge un’occhiata piena di risentimento.
L’ho colpito nel segno.
-Stamattina non ero esattamente me stesso, mi pare non ci sia bisogno di spiegarti perché-
Mi rivela con voce quasi impercettibile.
Incredibile la padronanza che ha del suo diaframma. Ma non mi frega.
-Non mi sembra una cosa per la quale tu ti debba sentire giustificato a fare tutto il cavolo che ti pare, anche se ti chiami Michael Jackson-
-Non sopporto quando mi chiami così-
-E’ il tuo nome-
-Non mi piace il modo in cui lo dici. Con quella pomposità, come se fosse una mongolfiera anziché un nome!-
-Non posso farci niente-
-Ma non mi piace. Gradirei che non mi chiamassi più con quel nome-
-Ed io gradirei che la smettessi di fare la superstar viziata e ricca e che facessi uscire Michael. Lui inizia a mancarmi sul serio-
-Non posso. Non puoi venire a dirmi quello che devo fare. Nessuno sa davvero come mi sento, nessuno. Sono più solo che mai, la fuga da tutto, la fuga è tutto quello che mi resta. Ora ho mal di testa. Per favore fammi riposare, per favore parleremo in un altro momento-
Dice così e con una teatralità quasi ridicola si porta una mano alla fronte come a volersi misurare la temperatura, poi si avvicina alla finestra e fissa immobile un punto indefinito.
-E’ questo il tuo modo di affrontare la vita?-
-MA QUALE VITA. DIMMI, QUALE VITA?! NON TI RENDI CONTO CHE SONO FINITO?! HAI CAPITO O NO QUELLO CHE E’ SUCCESSO?! MI VOGLIONO MORTO, E’ QUESTO CHE VOGLIONO! PERCHE’ NON LO CAPISCI?! PERCHE’ NESSUNO LO CAPISCE…PERCHE’..-
Le ultime sillabe sono strozzate dal singhiozzo. Appoggia la fronte al vetro che istantaneamente si appanna. Subito un boato dalla strada. Mi avvicino cercando di percorrere quei metri interminabili che ci separano nel minor tempo possibile. Quando finalmente lo raggiungo le mie piccole braccia lo avvolgono attorno al torace allacciandosi sull’addome. I singhiozzi si fanno sempre più forti. Poso la guancia su quella spalla che si contrae e decontrae ad intervalli sempre più brevi.
Affondo il viso fra i capelli che profumano di miele e con una mano chiudo la tenda.
In strada si sta scatenando il delirio.
L’hanno visto affacciarsi.
-Lo vedi, vogliono fotografarmi, sono tutti qui per carpire informazioni, vogliono immortalare il momento, vogliono vedere il volto sfigurato del terribile Wacko Jacko, quel…quel pedofil..-
Il pianto convulso ora gli impedisce di terminare la frase.
Si volta e mi cinge i fianchi in un abbraccio disperato.
Il viso rigato da mille lacrime ora è immerso fra i miei di capelli. Le sento scorrere e rigarmi il collo in fluttuanti percorsi fino alle clavicole.
Non riesco a sopportare di sentirlo soffrire. Sento un dolore allo sterno che mi impedisce di compiere respiri profondi.
-Non ti lascio Mike. Sono qui-
-Invece dovresti allontanarti il più possibile, non voglio portarti in fondo, non voglio che tu..-
-Schhh..non dire idiozie. Non potrei mai..-
-Ti prego, stammi lontana, scappa più lontano che puoi..io non posso darti nulla. Io non sono nulla..-
-Guardami-
Gli prendo il viso fra le mani costringendolo a incrociare i suoi abissi circondati di lacrime ai miei.
-Tu sei tutto invece. Per i tuoi figli. E per me. E io non ti lascerò andare in fondo da solo. Se davvero devi sprofondare io verrò con te. Ovunque dovrai andare, qualunque cosa dovrai sopportare io la sopporterò con te. Perché solo così peserà di meno. Mettitelo in testa la prossima volta prima di escludermi, come fai sempre-
Anche lui ora mi prende il viso fra le mani.
Non dice niente, gli occhi parlano per lui.
Sono ben aperti e svelano un riflesso più chiaro.
Le lacrime continuano a scendere copiose ma sorride e sembra tutto più bello, soleggiato e meno grave.
Dopo un’esitazione indefinita mi accarezza le gote con i pollici e mi avvicina alle sue labbra umide e calde.
Bacio riconoscente.
Bacio bollente.
Bacio emozionato.
Bacio salato.
Bacio di amore ricambiato.
Luce.
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SANTA YNEZ, California. CASA MIA Nov 23, 2003
-Ancora non riesco a capacitarmi..-
-Di cosa?!-
-Del fatto che mi hai convinto a venire via da San Francisco…per tornare qui..-
-Scusa che cosa c’è di strano? Era molto più innaturale stare in una camera d’albergo e costringere i tuoi figli a trascorrere le giornate reclusi..no?-
-Si, è vero..solo che non riesco..non riesco proprio a tornare a casa..-
-Perché, qui non sei a casa?-
-Si, io intendevo Neverland però..-
-E chi ti costringe a farlo? Non ci saranno gli spazi e le comodità di Neverland però c’è spazio per tutti e questo è l’importante-
Cerco di glissare il discorso cercando di farlo soffermare il meno possibile sul motivo del non ritorno a Neverland, ma inevitabilmente gli occhi cambiano luminosità e divengono opachi. Inoppugnabili.
Tutto questo mi riporta la mente al passato. A quella sera d’inverno in cui io e mamma tornammo a casa ed erano entrati i ladri. Non ricordo nulla con precisione. Solo due cose: le impronte nere sul muro del bagno vicino alla finestra e quella sgradevole sensazione di essere stati violati.
Nel vedere i miei giocattoli sparsi fuori dalla cesta ed i vestiti di mamma a terra, ammucchiati come legna da ardere fuori dall’armadio, ricordo bene quella sensazione di vuoto, di non appartenenza alla mia casa.
Alla lontana posso pensare a come deve sentirsi lui ora.
Provo ad immaginare il disordine lasciato dai poliziotti, gli oggetti sparsi, magari rotti, figuriamoci, con la fissazione di Michael per le combinazioni ed i lucchetti..quelli avranno avuto pane per i loro denti, non si saranno certo fatti dei problemi a forzare e spaccare.
Provo ad immaginare ma so che la realtà come sempre sarà molto peggio.
Il giorno che vorrà tornarci dovrò esserci anch’io.
Gli ho promesso che non dovrà sopportare più nulla da solo. E così sarà.
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-Daddy…daddy vieniiiiiiiiiiii-
La voce di Paris echeggia dal fazzolettino di terra nel retro della mia abitazione.
Non è grande e bello come il parco a cui sono abituati, ma sembrano apprezzare lo stesso il dondolo a fiori blu, i vari cavallini, le macchinine in plastica su cui montare e dondolarsi e la piccola altalena di Saty.
Sono tutti lì, persi nelle loro storie inventate, in cui dapprima Paris è la maestra e gli altri gli alunni, poi Satya si trasforma in un valoroso capitano di ventura e gli altri in combattenti al suo cospetto…
Passano così le prime ore di questa mattina di inizio inverno, in cui il freddo non sembra intenzionato ad arrivare, permettendo a tutti un abbigliamento semi primaverile, in attesa che i raggi del sole più caldi facciano capolino nell’ora di punta consentendo a tutti perfino la manica corta.
Wayne ed altri due enormi ragazzi si occupano della griglia, Grace dondola Blanket sull’altalena, Karen e suo marito si riposano seduti sui grandi piastrelloni di marmo.
Ho voluto che ci fossero un po’ tutte le persone più intimamente legate a Michael in questo momento così difficile per lui, ho voluto invitarli tutti qui, nella mia umile dimora, in modo che possa realmente sentire il calore e l’affetto di cui ha tanto bisogno tutti concentrati in queste poche stanze, in questo pochi metri.
Basta con le asettiche stanze di albergo, con i ristoranti lussuosi, con i pomeriggi a fissare il vuoto oltre al vetro, con i disinfettanti, con le iniezioni, con le flebo, con i flash, con il silenzio assordante della solitudine.
Basta davvero.
Mentre sono in cucina a lavare le varie verdure da mettere poi sulla griglia suonano alla porta.
E’ Frank con un enorme pacco in mano.
Forse è una torta.
Mi affaccio dall’enorme vetrata che da sul piccolo giardino e vedo Pedra rincorrere i suoi diavoletti che a loro volta rincorrono Michael che, con il mio cappello di carnevale da strega, rincorre Saty cercando di terrorizzarlo.
La sua risata pulita e cristallina si erge sopra tutti i suoni rimbombandomi nel cuore.
Tutti ridono.
E’ una bella giornata, dopo tanto freddo, è una bella giornata.
Una volta seduti a tavola tutti iniziamo a mangiare avventandoci sul piattone centrale ricolmo di delizie calde di brace, ma lui sembra osservare il quadro piuttosto che prendervi parte.
Incuriosita mi volto a guardarlo, conscia del fatto che presto farà qualcosa. Inizio a conoscerlo credo.
Dopo avermi rivolto uno dei sorrisi più luminosi e debilitanti al tempo stesso, si schiarisce la voce cercando di attirare l’attenzione su di sé.
-Vorrei ringraziarvi tutti per essere qui oggi. Per me è molto importante. Come sapete il periodo non è dei migliori e sento che arriveranno momenti ancora più difficili. A questo proposito volevo cogliere l’occasione per scusarmi con tutti per i miei modi e per i miei atteggiamenti, perdonatemi tutto, vi prego. Scusate e grazie, Grace, per esserci, per loro –indicando i figli-; Wayne, perdonami amico; Frank, non ti dico mai grazie per quello che fai; Karen, già sai, senza bisogno di parole; Pedra sei un angelo raro, grazie anche per tutto quello che fai per permettere ad Andrea di inseguirmi nelle mie pazzie; e tu – guardandomi intensamente negli occhi-..per esprimere il tutto non basterebbe una via lattea di parole, ma se non ci fossi tutto sarebbe diverso e uguale a prima..-
Dice così, lasciandoci nel silenzio della commozione e nella consapevolezza della sua immensità.
Quanto è immenso Michael.
Quello che viene dopo riguarda solo una pioggia di sorrisi, di pacche sulla spalla e di “ma che dici?” e “grazie di che? Guarda che lo faccio per lo stipendio!!” seguiti da tante tante risate sonore.
Musica per le mie orecchie.
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Ore 22:00
Appena finito di lavare gli ultimi piatti mi soffermo ad apprezzare il silenzio.
La festa è stata lunga e bella, Wayne è stato l’ultimo ad andare dopo essersi assicurato che tutto fosse a posto; sono riuscita a convincerlo a tornare a casa e farsi una dormita dissuadendolo dall’intento iniziale di dormire in macchina per avere tutto “sotto controllo”, come dice sempre lui.
Non credo che la sua sia semplice professionalità, la classificherei piuttosto una dedizione profonda, una cosa che solo un amico ha verso un altro.
E Mike lo sa bene.
Pedra dorme sul divano letto abbracciata a Saty e ai suoi due piccini, non ho avuto il cuore di svegliarli dopo “toy story”; Paris, Prince e Blanket invece dormono nella cameretta di Saty, dove c’è un lettino a castello ed una culla che Michael ha fatto prelevare da Neverland. Grace è andata a casa, anche lei aveva diverse ore di sonno da recuperare.
Tutti dormono, tutto tace.
Sono questi i momenti migliori per una bella sigaretta sotto le stelle.
Decisa a concedermi questi cinque minuti di capriccio, giusto per coronare la splendida giornata appena trascorsa, mi avvio al portichetto che fa da anticamera al piccolo giardino.
La stellata è magnifica e sovrasta tutto quanto intorno aderendo perfettamente al paesaggio, come farebbe una cupola posata su una piattaforma rotonda.
Un tiro, due, aspiro ed espiro, relax, abbandono, pace dopo la guerra.
Improvvisamente una mano decisa arriva da un punto dietro di me e si sposta scorrendo attorno alla linea della vita fermandosi sull’addome. Un’altra mano fa lo stesso, dall’altro lato.
Un intenso calore dietro alla schiena annuncia una presenza familiare confermata subito dopo dall’inconfondibile profumo di fiori selvatici e di sandalo.
Poso istintivamente il capo sulla spalla che so di trovare appena dietro di me, ed è così.
-Quando la finirai con questa roba? Lo dico sempre anche a Frank..ma che ci trovate io non lo so..-
Il tono è fermo ma falsamente inquisitorio. Adoro quando cerca di farmi una ramanzina.
-Ognuno ha i suoi veleni- Ribatto sicura e sarcastica, tanto per mettere in chiaro le cose.
Di tutta risposta mi stringe più forte ed inizia a farmi il solletico con il naso nell’incavo fra orecchio e collo.
Rido e lancio via quel bastoncino infuocato che tenevo fra le dita, divenuto così insignificante ora.
Di nuovo appoggio il capo sulla spalla e succede.
Mi bacia, lo bacio.
Da subito l’espressione del dolore, della mancanza, dell’ansia e dell’angoscia di quel mese abbondante passato lontani si fanno sentire e si traducono nella passione e nella voluttà più pulite e pure che io abbia mai provato.
Sento le mani calde e sicure attraversare dal basso il sottile scampolo del mio vestitino bianco di lino, insinuarsi sapienti e posare morbide carezze in tutti i punti, senza trascurare niente.
Mi volto verso di lui per gustare tutto questo ed agire a mia volta su quella camicia azzurra a costine con le maniche arrotolate, che gli da un qualcosa di vissuto ed informale che mi fa letteralmente impazzire.
Lo abbraccio forte, più forte che posso, ancora incredula del fatto che lui sia veramente qui con me.
Mi stringe, forte, fortissimo, da farmi mancare addirittura il respiro.
-Dio quanto mi sei mancata, ho creduto di impazzire..ho creduto di morire..-
-Anche tu Mike, anche tu..-
Non riusciamo a parlare, questo è ben chiaro ad entrambi, quindi decidiamo di non provarci nemmeno.
Mi lascio trascinare da quei baci potenti e nervosi attraverso il corridoio, senza paura di essere scoperti, senza paura di fare rumore.
Con passi decisi e senza mai staccare le labbra dalle mie mi conduce gentilmente in camera, dove mi sfila le spalline sottili del vestito lasciandolo cadere ai piedi.
Mi guarda con espressione estasiata mentre gli slaccio la camicia e lo libero di tutto baciandogli il collo e percorrendo una linea immaginaria attraverso le clavicole, i pettorali, l’addome, l’ombelico.
Un ultimo sguardo annebbiato da parte sua mi concede il lasciapassare per una meta segreta e poco distante che appena viene raggiunta gli fa inclinare il capo indietro e mormorare parole senza un senso apparente. Nell’aria della piccola stanza sospiri strozzati in rantoli poco distinti scandiscono la passione che gli voglio regalare, fino a quando mi afferra i fianchi con una richiesta degli occhi quasi disperata e mi fa sedere su letto.
Inginocchiato davanti a me ora mi sfila tutto quanto mi è rimasto addosso con una lentezza che mi mozza il fiato. Con perizia ed un contegno di cui nessun uomo fino ad ora era mai stato capace, accarezza i nuovo ogni centimetro che incontra, riservando una particolare attenzione alle piccole e rotonde colline che tanto adora di me, sulle quali descrive complessi motivi circolari con le dita e poi con la lingua stessa.
Risale verso il collo ed è lì, nel punto di non ritorno, sull’orlo del baratro, sulla vetta dell’universo che mai avevo immaginato esistere prima d’ora, che pronuncia sulle mie labbra, guardandomi negli occhi a pochissimi millimetri di distanza
-Non credo più in molte cose ormai, ma di una sono sicuro… ti amo piccola..-
Non ho la forza di rispondere, se fossi in piedi starei per svenire, se stessi guidando rischierei di schiantarmi, se stessi respirando rischierei l’iperventilazione, se stessi vivendo rischierei di morire; invece sono sdraiata nuda sotto il suo corpo caldo e tutto quello che riesco a fare è accoglierlo dentro di me come se fosse la prima volta, e lasciare che tutto abbia inizio, inesorabilmente.
Per tutta la notte respiri affannati, rantoli nel buio, mani che accarezzano, labbra che baciano, due cuori che si uniscono in uno, capelli nei capelli e fronti imperlate di gocce salate che scendono anche sulle guance, lacrime di gioia, lacrime di dolore verso la vita, calore, poi freddo, piacere, poi riposo, e di nuovo da capo su questa giostra che non pare volersi fermare
-Resta sempre con me..se no non ce la faccio..-
-Te l’ho promesso..-
-Io non ce la faccio, non posso più vivere senza di te, non posso..-
La sua voce calda che chiede e vuole tutto da me, mentre afferra i fianchi e li stringe avvolgendomi a lui sempre di più, sempre più forte
-Michael…oh Mi..-
Il senso di piacere mi invade talmente forte e vibrante da rendermi incapace di qualsiasi cosa.
Nessuna paura se non quella di perderlo.
La mente vuota.
Il corpo stremato.
Un’unica consapevolezza.
Non voglio niente di più.
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Re: Il fantasma che si innamorò di un uomo
CAPITOLO 13
FUORI DAL TEMPO E DALLO SPAZIO
A: -Di cosa hai bisogno?-
M: -Di tutto e di niente-
A: -Che cosa ti auguri per domani?-
M: -Di arrivare a sera-
A: - Che cosa vorresti dire ai tuoi figli?-
M: -Di rimanere sempre loro stessi lungo il cammino -
A: -Che cosa sono io per te?-
M: -Una persona-
A: -Deludente-
M: -Sei ogni cosa che valga la pena di ricordare-
A: -E tu cosa sei per me?-
M: -Devi dirlo tu-
A: -Fammi la domanda, non è un’intervista a senso unico-
M: -Cosa sono io per te?-
A: -Sei quasi tutto-
M: -Quel “quasi” mi fa sentire incompleto-
A: -Siamo incompleti finché non ci fondiamo con qualcuno che ci completi-
M: -Quindi io non sono quel qualcuno che ti completa?-
A: -Si, lo sei-
M: -Allora non capisco quel “quasi”-
A: -Non siamo fusi quindi non sono completa-
M: -Ahahahahahah…non è possibile..-
A: -Che c’è da ridere scusami?!-
M: -Io pensavo che parlassi della fusione dei cuori..o delle menti..-
A: -Va bé non si vive di sola aria eh..-
M: -Hai ragione..hai quasi sempre ragione piccola fata-
A: -Michael-
M: -Dimmi amore-
A: -Perché quando senti freddo vai in un mondo che non esiste?-
M: -Per non sentire il freddo. Fa male, tanto male-
A: -Io non so che tipo di male sia il tuo, però conosco il male. So che il male fa male ed è difficile da sopportare. Ma se scappi non passa. Se scappi lui si nasconde e quando pensi di averlo seminato ed esci allo scoperto lui arriva di nuovo e ti prende. Succede quasi sempre così-
M: -Perdonami..scusami ti prego-
A: -Per cosa?-
M: -Per tutto quello che ti ho fatto passare.. il lavoro, i mesi lontani, San Francisco… Io non sono adatto..io non posso dare molto, lo sai, sono instabile ed anche …. crudele quando voglio-
A: -Continui a dire che non puoi dare nulla ma mi stai dando tutto-
M: -Tutto?-
A: -Tutto quello che puoi-
M: -Vedi, non è così che dovrebbe essere-
A: -Perché no?-
M: -Perché un uomo dovrebbe dedicare ogni suo respiro al suo amore, ogni momento, anche quando è lontano, dovrebbe proteggerlo l’amore, custodirlo come un fiore di vetro, come una perla di ghiaccio, dovrebbe combattere fino allo stremo per mantenerlo imperturbabile e sacro, per difenderlo dai raggi del sole e del tempo. Io non posso fare tutto questo, anche se lo vorrei con tutto me stesso-
A: -Sei un perfezionista e quindi sempre insoddisfatto. Ci sono senza dubbio degli errori che potrebbero essere evitati .. ma col senno del poi è sempre molto facile parlare .. dobbiamo vivere il presente, così com’è, apprezzarne ogni singola sfumatura nel bene e nel male, anche se può sembrarci ingiusto. Abbiamo fatto degli errori l’uno nei confronti dell’altro perché siamo umani. E l’uomo che hai descritto è senza dubbio meraviglioso, ma non esiste. Esistiamo noi però-
M: -Io voglio essere quell’uomo. Per te e per i miei piccoli-
A: -Potrai essere tutto quello che vuoi-
M: -Mi aspetterai ogni volta che andrò lontano?-
-Si-
-Mi comprenderai ogni volta che andrò nel buio?-
-Si-
-Mi sorreggerai ogni volta che vacillerò nel vento della debolezza?-
-Si-
-Mi perdonerai ogni volta che ti farò male?-
-Si-
-Mi amerai ogni volta che il tempo mi renderà arido?-
A: -Sempre-
M: -Non è possibile-
A: -Lo è-
M: -Io farò lo stesso per te e con te, ogni volta che potrò, ogni volta-
A: -Non devi promettermi nulla Mike-
M: -Ma voglio farlo. Voglio essere migliore di così, voglio essere di più di così-
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Non saprei esattamente da dove iniziare per descrivere questo amore.
Forse dovrei continuare come ho fatto fino ad ora e forse riuscirei nel mio intento.
Forse potrei partire da lui, dal mio lui. Michael.
Ma l’ho già fatto, e l’immagine che ne sono riuscita a tratteggiare rispecchia solo in parte la sua essenza, il suo mondo, la sua vita, le persone che lo circondano.
Ci sono stati momenti meravigliosi che in questi anni si sono alternati a momenti terribili e difficili con incredibile e ciclica regolarità.
Ci sono parole che non ho mai sentito pronunciare, ci sono colori e sapori, ci sono momenti ed emozioni che risultano ineffabili persino al pensiero, talmente magici e preziosi che nemmeno il magazzino dei ricordi sembra un posto sufficientemente sicuro per custodirli.
Come quella volta a Catalina.
I bambini stavano giocando sull’immenso spiaggione al crepuscolo mentre io e Michael ci lasciavamo accarezzare dalle onde sul bagnasciuga. Gli ultimi raggi ormai totalmente innocui per la sua pelle fragile riscaldavano appena l’aria. Qualche gabbiano in lontananza.
-Mamma, mamma!- Mio figlio correva verso di me. Di quel cucciolo pieno di riccioli che aveva guardato il mondo con occhi spaesati rimaneva solo l’espressione sognante, ma non era più così piccolo da potermi restare fra le braccia per ore senza affaticarmi. Era cresciuto incredibilmente ed ora, reduce da una battaglia acquatica all’ultimo sangue con i suoi inseparabili compagni di avventura, Prince e Paris, correva e correva per raggiungermi.
In braccio sorreggevo il piccolo Blanket che aveva ormai compiuto i tre anni.
-Saty non correre come un pazzo, se inciampi cadi e ti fai malissimo, è pieno di sassi cavolo!!- Cercavo di ammonirlo senza risultato.
Michael, resosi conto della mia ansia, aveva iniziato a correre verso di lui per accorciare la distanza che li separava, facendo diminuire la velocità di quei piccoli piedini sui ciotoli rosati che rifrangevano la luce trasversale.
Lo raggiunse e lo afferrò, lo fece volteggiare in aria, lo rimise a terra per iniziare un inseguimento in cui Mike era la preda. Si lasciò catturare dopo poco, si rotolarono, risero, si fecero il solletico. Il termine della battaglia vide Saty a cavalcioni su quell’improbabile bottino fatto di riccioli corvini appena accennati che cadevano sulle spalle ricoperte da una semplicissima t-shirt bianca.
Aveva dei jeans chiari mi pare di ricordare, ed era scalzo.
Avevo fatto una certa fatica a convincerlo che al mare di solito si sta a piedi nudi.
Lui voleva tenere le calze invece, dicendo di avere dei piedi orribili.
In realtà sono semplicemente molto lunghi. Ma sono ben delineati, affusolati.
Gli ho dovuto mostrare i miei, piccoli e cicciotti con le unghie quadrate.
-Che ne pensi di questi obrobri? Direi che dopo averli visti nel dettaglio non hai più il diritto di lamentarti eh!-
E rideva, rideva di fronte ad un’improbabile figura seduta accanto a lui con le gambe sollevate a ventaglio che esibiva non senza vergogna quei piccoli piedi deformati da tanti anni di danza quando era solo una bambina. Rideva e li accarezzava
-Mi piacciono lo stesso, sono così buffi…-
-Togliti le calze e facciamoci una corsa fino al mare, sarà bellissimo- gli dicevo –Sarà liberatorio, corriamo e lasciamoci travolgere da quelle onde sul bagnasciuga. Non privarti di questo Mike, la vita è troppo breve per lasciarsi scappare le sue piccole gioie!! Muoviti!- Ed avevo iniziato a correre.
Dopo alcuni secondi lo avevo visto a qualche metro da me sfilarsi i calzini bianchi e compiere questa piccola follia, abbattendo uno dei suoi tanti muri.
Mi rincorse e rise, mi afferrò e mi sollevò.
E’ così forte e così magro allo stesso tempo che uno stenta a crederci.
Un’onda lo raggiunse bagnandolo fino alle caviglie. Un urletto di sorpresa mi riportò a qualcuna delle sue canzoni, dove non manca mai l’ “awwwwwwww” finale.
-E’ vero, è bellissimo..perchè non lo volevo fare? E’ da quando ero bambino che non faccio una cosa del genere..che stupido..-
-Si, considerando che hai quarantasette anni..direi che sei proprio scemo!-
Non gli diedi il tempo di ribattere che subito lo spruzzai impietosa del fatto che fosse vestito, a differenza mia che indossavo solo un paio di shorts con la parte superiore di un bikini verde acqua.
Rise e mi schizzò a sua volta.
Rise e mi afferrò per la vita
-E lei quanti anni ha signorina, visto che mi prende tanto in giro?-
-Trentadue-
-Non è più una ragazzina allora, mi sembra-
-Qualunque cosa lei voglia dire caro il mio Matusalemme, sarò sempre più giovane di lei!-
-Sarai sempre più giovane di me, sei così piccola….-
Lo disse abbassando di diversi toni la voce.
Si avvicinò con un sorriso che celava a malapena le intenzioni poco innocenti, rivelate immediatamente da quelle grandi mani che mi scorrevano sui fianchi come vento che accarezza una duna; la attraversa senza mai scomporre i granelli di sabbia che la costituiscono.
E continuò
-….ma un ragazzo della tua età forse non riuscirebbe a farti sentire questo- Mi aveva comunicato con quella voce bassa e calda che riusciva a produrre solo in certi momenti. E mi aveva baciata.
Mi baciò con quel suo tocco inconfondibile, con quella delicatezza e violenza allo stesso tempo, che solo l’esperienza dei suoi anni gli conferisce, con quella voluttà fra le labbra che placava quella sete di amore che avevo.
Questa sete di lui.
Ed aveva ragione, un qualsiasi altro uomo non sarebbe mai stato in grado di farmi sentire quello che stavo sentendo.
Nessuno, nemmeno nel mio remoto passato.
Mai.
Ma questo è solo un ricordo nel ricordo, talmente complesso da riesumare da non sapere esattamente nemmeno il tempo verbale da utilizzare per narrarlo.
Un trapassato prossimo o un passato remoto, o anche un imperfetto non sapranno mai rendere giustizia a ciò che fu.
Accontentiamoci così allora.
-Michael-
-Dimmi Saty- Lo sollevò dalla posizione in cui si trovava, a cavalcioni su di lui, e lo mise a sedere sui sassolini mentre li raggiungevo con il piccolo Blanket.
-Tu sei il papà di Prince e Paris no?-
-Si-
Rispose accigliando lo sguardo in un’espressione un po’ sorpresa a causa dell’insolita domanda
-Io invece non ce l’ho un papà lo sai?-
-Oh..bè, in realtà anche tu ce l’hai un papà, piccino..-
Rispose e mi guardò in cerca di approvazione e di aiuto.
Aiuto che non fui in grado di offrirgli dato che ero stata colta di sorpresa come se avessi ricevuto una secchiata di acqua gelida in piena faccia.
Non gli avevo mai parlato di suo padre ritenendo che fosse troppo piccolo per capire.
Ma sbagliavo evidentemente.
-Ma non ho mai conosciuto il mio papà-
-Questo perché lui è in Italia, molto lontano da qui..-
-Ma io voglio che sei tu il mio papà. Tu vuoi bene alla mia mamma e io voglio che sei il mio papà-
E’ come se il tempo si fosse fermato cristallizzandoci tutti in una dimensione parallela e surreale.
Non sapevo se ridere o piangere di fronte ad un momento del genere. Non riuscivo nemmeno a pensare a qualcosa di opportuno da dire. Tutto è diventato più chiaro quando quell’uomo meraviglioso accolse Satya fra le sue braccia stringendolo forte, per poi rivolgermi uno sguardo emozionato.
-Ci sarò ogni volta che vorrai, ogni volta, esattamente come per Prince, Paris e Blanket. Nessuna differenza. Che ne dici?-
-Si-
Una lacrima gli solcò il volto mentre due braccine gli si allacciarono dietro al collo.
Credo che fosse felice.
E non dimenticherò mai la delicatezza e la maestria con le quali esaudì quella piccola richiesta di protezione senza essere invadente, senza esprimere giudizi, senza volersi arrogare diritti o assumere ruoli indebitamente.
Michael con mio figlio andò oltre i nomi e le definizioni, oltre i legami di parentela e le costrizioni, e per lui ci fu davvero sempre come aveva promesso.
Fu un padre meraviglioso anche per lui.
Voleva essere migliore e ci stava riuscendo ogni giorno di più.
Molti dei miei ricordi più felici sono così finiti nel dimenticatoio, al sicuro da occhi e pensieri indiscreti, al sicuro perfino da noi, creature mortali e perturbate dal tempo, troppo fragili per poterli sostenere, per poter ricordare di averla provata anche solo per un minuto, per un istante, per un infinito frammento.
La felicità.
Come quella sera davanti al fuoco.
Il groviglio irregolare e fremente che i nostri corpi costituivano strisciava e rotolava sul grande tappeto di lana bianco, come se fosse stato dotato di vita propria. Ricordo con precisione ogni sospiro affannato, ogni carezza, ogni lacrima e gemito soffocato in un bacio, per non fare rumore.
Era selvaggio e nervoso, come un animale tenuto in una gabbia senza cibo né acqua per giorni, forse mesi. Era un assetato in cerca della sua idratazione, era un prigioniero che aspettava il giorno dell’esecuzione, con lucida rassegnazione, ma che rimaneva così saldamente aggrappato alla vita.
Ricordo che quella come molte altre volte fu un’ascesa al paradiso, fatta di fatica, di sofferenza, di attesa.
Ricordo quelle grandi mani avvolte attorno alla parte in cui i fianchi diventano più carnosi, stringendoli con forza e senza pietà, mettermi seduta sopra di lui appoggiato alla parete e spingermi, e spremermi contro il suo corpo bollente, e baciarmi come per mangiarmi, per carpire con avidità forse anche la mia di linfa vitale.
Era un mese che non lo vedevo, di nuovo.
Si era dovuto allontanare a causa degli innumerevoli impegni, a causa del via vai in aula.
Era stanco ed era andato nel buio ancora mille volte.
Schiavo del suo dolore sembrava vivere esistenze parallele in cui una volta lontano da noi, da me e dai suoi figli, si trasformava in un automa vittima degli altri e di sé stesso.
Il fenomeno che dal palco era stato gettato nella vergogna, e che alla sera, incapace di trovare una via di uscita dalla sua mente geniale e contorta cercava conforto fra le braccia di un sonno artificiale, indotto da molecole nocive e pesanti, che cancellano la volontà.
Come molte altre volte era tornato, con l’animo a pezzi, fra le mie braccia.
Come molte altre volte ero lì ad aspettarlo senza essere sicura della bontà di quello strano meccanismo che abbiamo preferito chiamare amore, per non indagare troppo.
Illuminato dalla luce del camino e con la fronte imperlata di sudore che la passione di poco prima gli aveva causato, mi teneva fra le braccia, ripassando il contorno del mio viso con l’indice, come a volerne delineare più chiaramente i confini con una china immaginaria.
-Sei perfetta-
-Nessuno è perfetto-
-Il tuo viso è perfetto, e quello che mi dai è perfetto-
-Michael io..-
-Schh….-
-Ma se nemmeno sai quello che voglio dirti!-
-Si che lo so-
-Allora dillo tu!-
-Non devo prendere quelle cose, mi fanno male e creano dipendenza..non è la soluzione, è solo una scappatoia..una debolezza..bla bla-
-Perché mi fai questo?-
-Perché io sono così-
-Ma non capisci che così…-
-Lo capisco, ma non posso farne a meno. Io sono così, se non lo sopporti lo capisco-
-Avevi detto che volevi essere migliore-
-Possiamo cambiare discorso?-
-Se c’è altro di cui vuoi parlare..-
-Come stanno i piccoli? Non li ho ancora visti, quando sono rientrato erano già a letto-
-Stanno bene, Los Angeles gli piace. Ieri sono venuti a trovarmi con Grace al lavoro. Siamo andati a fare una passeggiata con Melville. Dovresti venire anche tu un giorno di questi-
-Ti trovi bene al centro? Il proprietario è una mia vecchia conoscenza e mi sembra un tipo attento agli animali. Sai è raro con tutti i mercenari che ci sono in giro-
-Si, sembra un tipo a posto. E poi mi piace il posto perché l’obiettivo principale è quello di riabilitarli per poi rimetterli in libertà, quando è possibile-
-Ho preso da lui Bubbles nell’84 sai?-
-Lo so-
Si sdraiò supino sul tappeto con le mani intrecciate dietro alla nuca.
E guardando il soffitto se ne uscì così
-Vorrei un figlio nostro. Sarebbe magnifico-
-Stai scherzando?-
-No-
-Ma Michael, ma..come sarebbe magnifico?! Ma se..-
-Lo so, lo so, non farmi la predica ora. Lo so che non è possibile, che non è il momento, che non ci sono mai e che sono un pazzo di cui non ti fidi. Ho solo detto che sarebbe bello-
-Andrea?.. Che fai ora, non rispondi più? Dormi forse?-
-No-
-E allora che fai?-
-Ti amo-
E tornano allora a distanza di tempo, tornano e fanno un dolore lancinante ed insopportabile.
Tornano per ricordare che siamo stati felici, una volta.
Tornano spesso nel momento più difficile, nell’ora più buia e fredda, per ricordare il tepore di quell’amore.
Quell’amore che non è finito, ma che si è dovuto allontanare da me.
Forse per sempre.
Ricordo quella mattina di febbraio come se fosse ieri.
25 febbraio 2005.
Dopo svariati giorni e telefonate senza risposta mi ero recata ad Encino sull’orlo della disperazione.
Volevo avvertirlo.
Dovevo partire per l’Italia, mia madre era stata male e dovevo tornare a casa per un po’.
Aveva lasciato i suoi figli e Grace nella tenuta di Beverly Hills insieme a tutto lo staff e nessuno sapeva dove si trovasse, nemmeno Wayne. Non avevamo la minima idea di chi fosse quello strano gruppo di persone che si trascinava dietro da un po’, accantonando sempre di più i suoi collaboratori storici di una vita.
Non senza fatica ruscii a farmi aprire dalle guardie dell’immensa residenza dei suoi genitori che nulla aveva da invidiare a Neverland per estensione.
Feci anche la conoscenza della signora Katherine Scruse Jackson, una donna dall’aria stanca e gentile, che mi accolse come se conoscesse alla perfezione la natura del rapporto che mi legava a suo figlio. Mi disse che Michael le aveva parlato di me al telefono e che si sarebbero visti il giorno seguente in aula.
Ma nemmeno lei, sua madre, aveva la più pallida idea di dove si trovasse.
Michael era solito presentarsi alle udienze accompagnato dalla famiglia.
Apparivano tutti così uniti, con i fratelli e le sorelle schierate a testuggine attorno a lui, in piedi per miracolo, nascosto da lenti di ogni tipo e colore, per non far vedere tutto il vuoto che si era impossessato di lui. Ma era vera tutta quella solidarietà? Penso sempre che se fosse stata vera non avrebbe mai avuto bisogno di parlare con dei manichini.
Ma anche lui avrà fatto i suoi errori e sarà responsabile di tante incrinature nei rapporti.
Non è l’angelo senza colpa e senza macchia che molti amano dipingere.
Ma non è nemmeno il diavolo pervertito da crocifiggere ad uso e piacimento dell’opinione pubblica.
E’ un essere umano. Con forze e debolezze.
E la sua debolezza emerse chiaramente ai miei occhi molto più violentemente di altre volte alcune ore più tardi, quando lo rintracciarono nel solito hotel di San Francisco, dove stava avendo degli “incontri” –come amava definirli lui- con dei “collaboratori”.
La nostra ultima conversazione fu telefonica, senza fronzoli né razionalità.
Fu una lite violentissima in cui cercai di esprimergli la mia preoccupazione, in cui cercai di fargli notare che erano due giorni che lo stavamo cercando, che non poteva comportarsi così e che, soprattutto, sarei dovuta partire per l’Italia.
-Ma si, brava, vattene anche tu, vattene pure, tanto non fate altro che giudicarmi tutti quanti, tornatene a casa, ma si-
-Tu hai le manie di persecuzione, tutti ti giudicano, tutti ti odiano, non sei il centro dell’universo eh! Sei però un presuntuoso ed un irresponsabile, hai lasciato i bambini senza nemmeno dire loro quando torni, Blanket continua a piangere e Grace non sa cosa dirgli! Ma che persona sei?? E adesso scommetto che sarai lì con quella gente di merda di cui ti circondi, con quegli strozzini ricattatori dalle mille promesse e ti stai facendo abbindolare perché sei fatto come una biscia! VERO?!?-
-NON TI PERMETTERE!-
-Mi permetto eccome invece e ti dico di più: c’è una novità rispetto alle altre volte Michael. Stavolta al tuo ritorno io non ci sarò. E non ci sarò perché devo tornare in Italia dove mia madre è in fin di vita in un letto di ospedale. Non per vendicarmi assurdamente di qualcosa come invece penserai. Vedi, di fronte a questo non pretendo la tua comprensione, ma almeno la decenza di non aprire la bocca giusto per darle aria-
-Se non fossi entrata nella mia vita sarebbe tutto molto più facile ora. E comunque non ho bisogno di prendere lezioni da te su come mi dovrei comportare con i miei figli, visto che non sei nemmeno stata capace di spiegare al tuo chi è suo padre-
Colpita e affondata.
Non mi interessò che l’avesse detto solo guidato dalla rabbia o da chissà che.
Ciò che contava era che l’avesse detto solo per ferirmi.
Ed io non mi tirai indietro dal restituirgli il favore.
-Sai, hai ragione. Forse sono una pessima madre ma forse una cosa l’ho pensata giusta. Stavo pensando a quello che mi hai detto tempo fa. Che vorresti un figlio nostro. Pensavo che sarebbe piaciuto anche a me. Ma poi mi sono resa conto che per quanto pessimo sia stato il padre di Satya, il padre che questo ipotetico bambino si ritroverebbe sarebbe un mostro e una persona orribile. Saresti tu.
E visto che la mia presenza nella tua vita si è rivelata così disastrosa non cercarmi mai più-
Gli dissi così prima di interrompere la conversazione.
Forse esagerai, anzi sicuramente. Ma mi inferocì sentire quella voce supponente e stridula che mi diceva che madre avrei dovuto essere. Che ne sapeva lui.
All’aeroporto ricevetti un paio di telefonate a cui non risposi.
Non mi chiesi nemmeno chi potesse essere.
Non mi interessava.
Non volevo più saperne di niente e di nessuno.
Volevo solo tornare a casa mia con mio figlio.
Nell’mp3 una canzone nostalgica.
Sembrava il discorso di una madre alla figlia, ancora bambina.
E nell’ascoltarla mi venne spontaneo passare una mano sul ventre, come a voler trasmettere un po’ di calore alla creatura che mi stava crescendo dentro, che sapevo, sarebbe stata sicuramente femmina.
This is just an ordinary day
Wipe the insecurities away
I can see that the darkness will erode
Looking out the corner of my eye
I can see that the sunshine will explode
Far across the desert in the sky
Beautiful girl
Won't you be my inspiration?
Beautiful girl
Don't you throw your love around
What in the world, what in the world
Could ever come between us?
Beautiful girl, beautiful girl
I'll never let you down
Won't let you down
This is the beginning of your day
Life is more intricate than it seems
Always be yourself along the way
Living through the spirit of your dreams
Beautiful girl
Won't you be my inspiration?
Beautiful girl
Don't you throw your love around
What in the world, what in the world
Could ever come between us?
Beautiful girl, beautiful girl
I'll never let you down
Won't let you down
Down, down...
Ordinary day
Dolores O’Riordan
Questo è solo un giorno ordinario
Strofino via le insicurezze
Posso vedere che l’oscurità corroderà
Facendo attenzione all’angolo del mio occhio
Posso vedere la luce del sole che esploderà
Lontana, attraverso il deserto nel cielo
Bella ragazza
Non sarai la mia ispirazione?
Bella ragazza
Non gettare il tuo amore
che cosa al mondo, cosa al mondo
Potrebbe mai mettersi tra noi?
Bella ragazza, bella ragazza
Non ti deluderò mai
Non ti deluderò
Questo è l’inizio del tuo giorno
La vita è più complicata di quello che sembra
sii sempre te stessa lungo il cammino
Vivendo fino in fondo lo spirito dei tuoi sogni
Bella ragazza
Non sarai la mia ispirazione?
Bella ragazza
Non estendi il tuo amore
Cosa al mondo, cosa al mondo
Potrebbe mai mettersi tra noi?
Bella ragazza, bella ragazza
Non ti deluderò mai
Non ti deluderò
FUORI DAL TEMPO E DALLO SPAZIO
A: -Di cosa hai bisogno?-
M: -Di tutto e di niente-
A: -Che cosa ti auguri per domani?-
M: -Di arrivare a sera-
A: - Che cosa vorresti dire ai tuoi figli?-
M: -Di rimanere sempre loro stessi lungo il cammino -
A: -Che cosa sono io per te?-
M: -Una persona-
A: -Deludente-
M: -Sei ogni cosa che valga la pena di ricordare-
A: -E tu cosa sei per me?-
M: -Devi dirlo tu-
A: -Fammi la domanda, non è un’intervista a senso unico-
M: -Cosa sono io per te?-
A: -Sei quasi tutto-
M: -Quel “quasi” mi fa sentire incompleto-
A: -Siamo incompleti finché non ci fondiamo con qualcuno che ci completi-
M: -Quindi io non sono quel qualcuno che ti completa?-
A: -Si, lo sei-
M: -Allora non capisco quel “quasi”-
A: -Non siamo fusi quindi non sono completa-
M: -Ahahahahahah…non è possibile..-
A: -Che c’è da ridere scusami?!-
M: -Io pensavo che parlassi della fusione dei cuori..o delle menti..-
A: -Va bé non si vive di sola aria eh..-
M: -Hai ragione..hai quasi sempre ragione piccola fata-
A: -Michael-
M: -Dimmi amore-
A: -Perché quando senti freddo vai in un mondo che non esiste?-
M: -Per non sentire il freddo. Fa male, tanto male-
A: -Io non so che tipo di male sia il tuo, però conosco il male. So che il male fa male ed è difficile da sopportare. Ma se scappi non passa. Se scappi lui si nasconde e quando pensi di averlo seminato ed esci allo scoperto lui arriva di nuovo e ti prende. Succede quasi sempre così-
M: -Perdonami..scusami ti prego-
A: -Per cosa?-
M: -Per tutto quello che ti ho fatto passare.. il lavoro, i mesi lontani, San Francisco… Io non sono adatto..io non posso dare molto, lo sai, sono instabile ed anche …. crudele quando voglio-
A: -Continui a dire che non puoi dare nulla ma mi stai dando tutto-
M: -Tutto?-
A: -Tutto quello che puoi-
M: -Vedi, non è così che dovrebbe essere-
A: -Perché no?-
M: -Perché un uomo dovrebbe dedicare ogni suo respiro al suo amore, ogni momento, anche quando è lontano, dovrebbe proteggerlo l’amore, custodirlo come un fiore di vetro, come una perla di ghiaccio, dovrebbe combattere fino allo stremo per mantenerlo imperturbabile e sacro, per difenderlo dai raggi del sole e del tempo. Io non posso fare tutto questo, anche se lo vorrei con tutto me stesso-
A: -Sei un perfezionista e quindi sempre insoddisfatto. Ci sono senza dubbio degli errori che potrebbero essere evitati .. ma col senno del poi è sempre molto facile parlare .. dobbiamo vivere il presente, così com’è, apprezzarne ogni singola sfumatura nel bene e nel male, anche se può sembrarci ingiusto. Abbiamo fatto degli errori l’uno nei confronti dell’altro perché siamo umani. E l’uomo che hai descritto è senza dubbio meraviglioso, ma non esiste. Esistiamo noi però-
M: -Io voglio essere quell’uomo. Per te e per i miei piccoli-
A: -Potrai essere tutto quello che vuoi-
M: -Mi aspetterai ogni volta che andrò lontano?-
-Si-
-Mi comprenderai ogni volta che andrò nel buio?-
-Si-
-Mi sorreggerai ogni volta che vacillerò nel vento della debolezza?-
-Si-
-Mi perdonerai ogni volta che ti farò male?-
-Si-
-Mi amerai ogni volta che il tempo mi renderà arido?-
A: -Sempre-
M: -Non è possibile-
A: -Lo è-
M: -Io farò lo stesso per te e con te, ogni volta che potrò, ogni volta-
A: -Non devi promettermi nulla Mike-
M: -Ma voglio farlo. Voglio essere migliore di così, voglio essere di più di così-
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Non saprei esattamente da dove iniziare per descrivere questo amore.
Forse dovrei continuare come ho fatto fino ad ora e forse riuscirei nel mio intento.
Forse potrei partire da lui, dal mio lui. Michael.
Ma l’ho già fatto, e l’immagine che ne sono riuscita a tratteggiare rispecchia solo in parte la sua essenza, il suo mondo, la sua vita, le persone che lo circondano.
Ci sono stati momenti meravigliosi che in questi anni si sono alternati a momenti terribili e difficili con incredibile e ciclica regolarità.
Ci sono parole che non ho mai sentito pronunciare, ci sono colori e sapori, ci sono momenti ed emozioni che risultano ineffabili persino al pensiero, talmente magici e preziosi che nemmeno il magazzino dei ricordi sembra un posto sufficientemente sicuro per custodirli.
Come quella volta a Catalina.
I bambini stavano giocando sull’immenso spiaggione al crepuscolo mentre io e Michael ci lasciavamo accarezzare dalle onde sul bagnasciuga. Gli ultimi raggi ormai totalmente innocui per la sua pelle fragile riscaldavano appena l’aria. Qualche gabbiano in lontananza.
-Mamma, mamma!- Mio figlio correva verso di me. Di quel cucciolo pieno di riccioli che aveva guardato il mondo con occhi spaesati rimaneva solo l’espressione sognante, ma non era più così piccolo da potermi restare fra le braccia per ore senza affaticarmi. Era cresciuto incredibilmente ed ora, reduce da una battaglia acquatica all’ultimo sangue con i suoi inseparabili compagni di avventura, Prince e Paris, correva e correva per raggiungermi.
In braccio sorreggevo il piccolo Blanket che aveva ormai compiuto i tre anni.
-Saty non correre come un pazzo, se inciampi cadi e ti fai malissimo, è pieno di sassi cavolo!!- Cercavo di ammonirlo senza risultato.
Michael, resosi conto della mia ansia, aveva iniziato a correre verso di lui per accorciare la distanza che li separava, facendo diminuire la velocità di quei piccoli piedini sui ciotoli rosati che rifrangevano la luce trasversale.
Lo raggiunse e lo afferrò, lo fece volteggiare in aria, lo rimise a terra per iniziare un inseguimento in cui Mike era la preda. Si lasciò catturare dopo poco, si rotolarono, risero, si fecero il solletico. Il termine della battaglia vide Saty a cavalcioni su quell’improbabile bottino fatto di riccioli corvini appena accennati che cadevano sulle spalle ricoperte da una semplicissima t-shirt bianca.
Aveva dei jeans chiari mi pare di ricordare, ed era scalzo.
Avevo fatto una certa fatica a convincerlo che al mare di solito si sta a piedi nudi.
Lui voleva tenere le calze invece, dicendo di avere dei piedi orribili.
In realtà sono semplicemente molto lunghi. Ma sono ben delineati, affusolati.
Gli ho dovuto mostrare i miei, piccoli e cicciotti con le unghie quadrate.
-Che ne pensi di questi obrobri? Direi che dopo averli visti nel dettaglio non hai più il diritto di lamentarti eh!-
E rideva, rideva di fronte ad un’improbabile figura seduta accanto a lui con le gambe sollevate a ventaglio che esibiva non senza vergogna quei piccoli piedi deformati da tanti anni di danza quando era solo una bambina. Rideva e li accarezzava
-Mi piacciono lo stesso, sono così buffi…-
-Togliti le calze e facciamoci una corsa fino al mare, sarà bellissimo- gli dicevo –Sarà liberatorio, corriamo e lasciamoci travolgere da quelle onde sul bagnasciuga. Non privarti di questo Mike, la vita è troppo breve per lasciarsi scappare le sue piccole gioie!! Muoviti!- Ed avevo iniziato a correre.
Dopo alcuni secondi lo avevo visto a qualche metro da me sfilarsi i calzini bianchi e compiere questa piccola follia, abbattendo uno dei suoi tanti muri.
Mi rincorse e rise, mi afferrò e mi sollevò.
E’ così forte e così magro allo stesso tempo che uno stenta a crederci.
Un’onda lo raggiunse bagnandolo fino alle caviglie. Un urletto di sorpresa mi riportò a qualcuna delle sue canzoni, dove non manca mai l’ “awwwwwwww” finale.
-E’ vero, è bellissimo..perchè non lo volevo fare? E’ da quando ero bambino che non faccio una cosa del genere..che stupido..-
-Si, considerando che hai quarantasette anni..direi che sei proprio scemo!-
Non gli diedi il tempo di ribattere che subito lo spruzzai impietosa del fatto che fosse vestito, a differenza mia che indossavo solo un paio di shorts con la parte superiore di un bikini verde acqua.
Rise e mi schizzò a sua volta.
Rise e mi afferrò per la vita
-E lei quanti anni ha signorina, visto che mi prende tanto in giro?-
-Trentadue-
-Non è più una ragazzina allora, mi sembra-
-Qualunque cosa lei voglia dire caro il mio Matusalemme, sarò sempre più giovane di lei!-
-Sarai sempre più giovane di me, sei così piccola….-
Lo disse abbassando di diversi toni la voce.
Si avvicinò con un sorriso che celava a malapena le intenzioni poco innocenti, rivelate immediatamente da quelle grandi mani che mi scorrevano sui fianchi come vento che accarezza una duna; la attraversa senza mai scomporre i granelli di sabbia che la costituiscono.
E continuò
-….ma un ragazzo della tua età forse non riuscirebbe a farti sentire questo- Mi aveva comunicato con quella voce bassa e calda che riusciva a produrre solo in certi momenti. E mi aveva baciata.
Mi baciò con quel suo tocco inconfondibile, con quella delicatezza e violenza allo stesso tempo, che solo l’esperienza dei suoi anni gli conferisce, con quella voluttà fra le labbra che placava quella sete di amore che avevo.
Questa sete di lui.
Ed aveva ragione, un qualsiasi altro uomo non sarebbe mai stato in grado di farmi sentire quello che stavo sentendo.
Nessuno, nemmeno nel mio remoto passato.
Mai.
Ma questo è solo un ricordo nel ricordo, talmente complesso da riesumare da non sapere esattamente nemmeno il tempo verbale da utilizzare per narrarlo.
Un trapassato prossimo o un passato remoto, o anche un imperfetto non sapranno mai rendere giustizia a ciò che fu.
Accontentiamoci così allora.
-Michael-
-Dimmi Saty- Lo sollevò dalla posizione in cui si trovava, a cavalcioni su di lui, e lo mise a sedere sui sassolini mentre li raggiungevo con il piccolo Blanket.
-Tu sei il papà di Prince e Paris no?-
-Si-
Rispose accigliando lo sguardo in un’espressione un po’ sorpresa a causa dell’insolita domanda
-Io invece non ce l’ho un papà lo sai?-
-Oh..bè, in realtà anche tu ce l’hai un papà, piccino..-
Rispose e mi guardò in cerca di approvazione e di aiuto.
Aiuto che non fui in grado di offrirgli dato che ero stata colta di sorpresa come se avessi ricevuto una secchiata di acqua gelida in piena faccia.
Non gli avevo mai parlato di suo padre ritenendo che fosse troppo piccolo per capire.
Ma sbagliavo evidentemente.
-Ma non ho mai conosciuto il mio papà-
-Questo perché lui è in Italia, molto lontano da qui..-
-Ma io voglio che sei tu il mio papà. Tu vuoi bene alla mia mamma e io voglio che sei il mio papà-
E’ come se il tempo si fosse fermato cristallizzandoci tutti in una dimensione parallela e surreale.
Non sapevo se ridere o piangere di fronte ad un momento del genere. Non riuscivo nemmeno a pensare a qualcosa di opportuno da dire. Tutto è diventato più chiaro quando quell’uomo meraviglioso accolse Satya fra le sue braccia stringendolo forte, per poi rivolgermi uno sguardo emozionato.
-Ci sarò ogni volta che vorrai, ogni volta, esattamente come per Prince, Paris e Blanket. Nessuna differenza. Che ne dici?-
-Si-
Una lacrima gli solcò il volto mentre due braccine gli si allacciarono dietro al collo.
Credo che fosse felice.
E non dimenticherò mai la delicatezza e la maestria con le quali esaudì quella piccola richiesta di protezione senza essere invadente, senza esprimere giudizi, senza volersi arrogare diritti o assumere ruoli indebitamente.
Michael con mio figlio andò oltre i nomi e le definizioni, oltre i legami di parentela e le costrizioni, e per lui ci fu davvero sempre come aveva promesso.
Fu un padre meraviglioso anche per lui.
Voleva essere migliore e ci stava riuscendo ogni giorno di più.
Molti dei miei ricordi più felici sono così finiti nel dimenticatoio, al sicuro da occhi e pensieri indiscreti, al sicuro perfino da noi, creature mortali e perturbate dal tempo, troppo fragili per poterli sostenere, per poter ricordare di averla provata anche solo per un minuto, per un istante, per un infinito frammento.
La felicità.
Come quella sera davanti al fuoco.
Il groviglio irregolare e fremente che i nostri corpi costituivano strisciava e rotolava sul grande tappeto di lana bianco, come se fosse stato dotato di vita propria. Ricordo con precisione ogni sospiro affannato, ogni carezza, ogni lacrima e gemito soffocato in un bacio, per non fare rumore.
Era selvaggio e nervoso, come un animale tenuto in una gabbia senza cibo né acqua per giorni, forse mesi. Era un assetato in cerca della sua idratazione, era un prigioniero che aspettava il giorno dell’esecuzione, con lucida rassegnazione, ma che rimaneva così saldamente aggrappato alla vita.
Ricordo che quella come molte altre volte fu un’ascesa al paradiso, fatta di fatica, di sofferenza, di attesa.
Ricordo quelle grandi mani avvolte attorno alla parte in cui i fianchi diventano più carnosi, stringendoli con forza e senza pietà, mettermi seduta sopra di lui appoggiato alla parete e spingermi, e spremermi contro il suo corpo bollente, e baciarmi come per mangiarmi, per carpire con avidità forse anche la mia di linfa vitale.
Era un mese che non lo vedevo, di nuovo.
Si era dovuto allontanare a causa degli innumerevoli impegni, a causa del via vai in aula.
Era stanco ed era andato nel buio ancora mille volte.
Schiavo del suo dolore sembrava vivere esistenze parallele in cui una volta lontano da noi, da me e dai suoi figli, si trasformava in un automa vittima degli altri e di sé stesso.
Il fenomeno che dal palco era stato gettato nella vergogna, e che alla sera, incapace di trovare una via di uscita dalla sua mente geniale e contorta cercava conforto fra le braccia di un sonno artificiale, indotto da molecole nocive e pesanti, che cancellano la volontà.
Come molte altre volte era tornato, con l’animo a pezzi, fra le mie braccia.
Come molte altre volte ero lì ad aspettarlo senza essere sicura della bontà di quello strano meccanismo che abbiamo preferito chiamare amore, per non indagare troppo.
Illuminato dalla luce del camino e con la fronte imperlata di sudore che la passione di poco prima gli aveva causato, mi teneva fra le braccia, ripassando il contorno del mio viso con l’indice, come a volerne delineare più chiaramente i confini con una china immaginaria.
-Sei perfetta-
-Nessuno è perfetto-
-Il tuo viso è perfetto, e quello che mi dai è perfetto-
-Michael io..-
-Schh….-
-Ma se nemmeno sai quello che voglio dirti!-
-Si che lo so-
-Allora dillo tu!-
-Non devo prendere quelle cose, mi fanno male e creano dipendenza..non è la soluzione, è solo una scappatoia..una debolezza..bla bla-
-Perché mi fai questo?-
-Perché io sono così-
-Ma non capisci che così…-
-Lo capisco, ma non posso farne a meno. Io sono così, se non lo sopporti lo capisco-
-Avevi detto che volevi essere migliore-
-Possiamo cambiare discorso?-
-Se c’è altro di cui vuoi parlare..-
-Come stanno i piccoli? Non li ho ancora visti, quando sono rientrato erano già a letto-
-Stanno bene, Los Angeles gli piace. Ieri sono venuti a trovarmi con Grace al lavoro. Siamo andati a fare una passeggiata con Melville. Dovresti venire anche tu un giorno di questi-
-Ti trovi bene al centro? Il proprietario è una mia vecchia conoscenza e mi sembra un tipo attento agli animali. Sai è raro con tutti i mercenari che ci sono in giro-
-Si, sembra un tipo a posto. E poi mi piace il posto perché l’obiettivo principale è quello di riabilitarli per poi rimetterli in libertà, quando è possibile-
-Ho preso da lui Bubbles nell’84 sai?-
-Lo so-
Si sdraiò supino sul tappeto con le mani intrecciate dietro alla nuca.
E guardando il soffitto se ne uscì così
-Vorrei un figlio nostro. Sarebbe magnifico-
-Stai scherzando?-
-No-
-Ma Michael, ma..come sarebbe magnifico?! Ma se..-
-Lo so, lo so, non farmi la predica ora. Lo so che non è possibile, che non è il momento, che non ci sono mai e che sono un pazzo di cui non ti fidi. Ho solo detto che sarebbe bello-
-Andrea?.. Che fai ora, non rispondi più? Dormi forse?-
-No-
-E allora che fai?-
-Ti amo-
E tornano allora a distanza di tempo, tornano e fanno un dolore lancinante ed insopportabile.
Tornano per ricordare che siamo stati felici, una volta.
Tornano spesso nel momento più difficile, nell’ora più buia e fredda, per ricordare il tepore di quell’amore.
Quell’amore che non è finito, ma che si è dovuto allontanare da me.
Forse per sempre.
Ricordo quella mattina di febbraio come se fosse ieri.
25 febbraio 2005.
Dopo svariati giorni e telefonate senza risposta mi ero recata ad Encino sull’orlo della disperazione.
Volevo avvertirlo.
Dovevo partire per l’Italia, mia madre era stata male e dovevo tornare a casa per un po’.
Aveva lasciato i suoi figli e Grace nella tenuta di Beverly Hills insieme a tutto lo staff e nessuno sapeva dove si trovasse, nemmeno Wayne. Non avevamo la minima idea di chi fosse quello strano gruppo di persone che si trascinava dietro da un po’, accantonando sempre di più i suoi collaboratori storici di una vita.
Non senza fatica ruscii a farmi aprire dalle guardie dell’immensa residenza dei suoi genitori che nulla aveva da invidiare a Neverland per estensione.
Feci anche la conoscenza della signora Katherine Scruse Jackson, una donna dall’aria stanca e gentile, che mi accolse come se conoscesse alla perfezione la natura del rapporto che mi legava a suo figlio. Mi disse che Michael le aveva parlato di me al telefono e che si sarebbero visti il giorno seguente in aula.
Ma nemmeno lei, sua madre, aveva la più pallida idea di dove si trovasse.
Michael era solito presentarsi alle udienze accompagnato dalla famiglia.
Apparivano tutti così uniti, con i fratelli e le sorelle schierate a testuggine attorno a lui, in piedi per miracolo, nascosto da lenti di ogni tipo e colore, per non far vedere tutto il vuoto che si era impossessato di lui. Ma era vera tutta quella solidarietà? Penso sempre che se fosse stata vera non avrebbe mai avuto bisogno di parlare con dei manichini.
Ma anche lui avrà fatto i suoi errori e sarà responsabile di tante incrinature nei rapporti.
Non è l’angelo senza colpa e senza macchia che molti amano dipingere.
Ma non è nemmeno il diavolo pervertito da crocifiggere ad uso e piacimento dell’opinione pubblica.
E’ un essere umano. Con forze e debolezze.
E la sua debolezza emerse chiaramente ai miei occhi molto più violentemente di altre volte alcune ore più tardi, quando lo rintracciarono nel solito hotel di San Francisco, dove stava avendo degli “incontri” –come amava definirli lui- con dei “collaboratori”.
La nostra ultima conversazione fu telefonica, senza fronzoli né razionalità.
Fu una lite violentissima in cui cercai di esprimergli la mia preoccupazione, in cui cercai di fargli notare che erano due giorni che lo stavamo cercando, che non poteva comportarsi così e che, soprattutto, sarei dovuta partire per l’Italia.
-Ma si, brava, vattene anche tu, vattene pure, tanto non fate altro che giudicarmi tutti quanti, tornatene a casa, ma si-
-Tu hai le manie di persecuzione, tutti ti giudicano, tutti ti odiano, non sei il centro dell’universo eh! Sei però un presuntuoso ed un irresponsabile, hai lasciato i bambini senza nemmeno dire loro quando torni, Blanket continua a piangere e Grace non sa cosa dirgli! Ma che persona sei?? E adesso scommetto che sarai lì con quella gente di merda di cui ti circondi, con quegli strozzini ricattatori dalle mille promesse e ti stai facendo abbindolare perché sei fatto come una biscia! VERO?!?-
-NON TI PERMETTERE!-
-Mi permetto eccome invece e ti dico di più: c’è una novità rispetto alle altre volte Michael. Stavolta al tuo ritorno io non ci sarò. E non ci sarò perché devo tornare in Italia dove mia madre è in fin di vita in un letto di ospedale. Non per vendicarmi assurdamente di qualcosa come invece penserai. Vedi, di fronte a questo non pretendo la tua comprensione, ma almeno la decenza di non aprire la bocca giusto per darle aria-
-Se non fossi entrata nella mia vita sarebbe tutto molto più facile ora. E comunque non ho bisogno di prendere lezioni da te su come mi dovrei comportare con i miei figli, visto che non sei nemmeno stata capace di spiegare al tuo chi è suo padre-
Colpita e affondata.
Non mi interessò che l’avesse detto solo guidato dalla rabbia o da chissà che.
Ciò che contava era che l’avesse detto solo per ferirmi.
Ed io non mi tirai indietro dal restituirgli il favore.
-Sai, hai ragione. Forse sono una pessima madre ma forse una cosa l’ho pensata giusta. Stavo pensando a quello che mi hai detto tempo fa. Che vorresti un figlio nostro. Pensavo che sarebbe piaciuto anche a me. Ma poi mi sono resa conto che per quanto pessimo sia stato il padre di Satya, il padre che questo ipotetico bambino si ritroverebbe sarebbe un mostro e una persona orribile. Saresti tu.
E visto che la mia presenza nella tua vita si è rivelata così disastrosa non cercarmi mai più-
Gli dissi così prima di interrompere la conversazione.
Forse esagerai, anzi sicuramente. Ma mi inferocì sentire quella voce supponente e stridula che mi diceva che madre avrei dovuto essere. Che ne sapeva lui.
All’aeroporto ricevetti un paio di telefonate a cui non risposi.
Non mi chiesi nemmeno chi potesse essere.
Non mi interessava.
Non volevo più saperne di niente e di nessuno.
Volevo solo tornare a casa mia con mio figlio.
Nell’mp3 una canzone nostalgica.
Sembrava il discorso di una madre alla figlia, ancora bambina.
E nell’ascoltarla mi venne spontaneo passare una mano sul ventre, come a voler trasmettere un po’ di calore alla creatura che mi stava crescendo dentro, che sapevo, sarebbe stata sicuramente femmina.
This is just an ordinary day
Wipe the insecurities away
I can see that the darkness will erode
Looking out the corner of my eye
I can see that the sunshine will explode
Far across the desert in the sky
Beautiful girl
Won't you be my inspiration?
Beautiful girl
Don't you throw your love around
What in the world, what in the world
Could ever come between us?
Beautiful girl, beautiful girl
I'll never let you down
Won't let you down
This is the beginning of your day
Life is more intricate than it seems
Always be yourself along the way
Living through the spirit of your dreams
Beautiful girl
Won't you be my inspiration?
Beautiful girl
Don't you throw your love around
What in the world, what in the world
Could ever come between us?
Beautiful girl, beautiful girl
I'll never let you down
Won't let you down
Down, down...
Ordinary day
Dolores O’Riordan
Questo è solo un giorno ordinario
Strofino via le insicurezze
Posso vedere che l’oscurità corroderà
Facendo attenzione all’angolo del mio occhio
Posso vedere la luce del sole che esploderà
Lontana, attraverso il deserto nel cielo
Bella ragazza
Non sarai la mia ispirazione?
Bella ragazza
Non gettare il tuo amore
che cosa al mondo, cosa al mondo
Potrebbe mai mettersi tra noi?
Bella ragazza, bella ragazza
Non ti deluderò mai
Non ti deluderò
Questo è l’inizio del tuo giorno
La vita è più complicata di quello che sembra
sii sempre te stessa lungo il cammino
Vivendo fino in fondo lo spirito dei tuoi sogni
Bella ragazza
Non sarai la mia ispirazione?
Bella ragazza
Non estendi il tuo amore
Cosa al mondo, cosa al mondo
Potrebbe mai mettersi tra noi?
Bella ragazza, bella ragazza
Non ti deluderò mai
Non ti deluderò
marina56- Moderator
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Re: Il fantasma che si innamorò di un uomo
CAPITOLO 14
10:06 p.m. June 13, 2005- SANTA MARIA, California
18:06 p.m. June 13, 2005- MILANO, Italy
NOT GUILTY - "Michael Jackson è stato giudicato non colpevole di tutti e 10 i capi d'accusa a suo carico che lo hanno coinvolto in un processo per molestie sessuali su minori. Così si è conclusa la saga legale durata 2 anni per una delle pop star più conosciute al mondo."
Seguo tutto in streaming sulla CNN.
Dopo centocinque giorni, duemilacinquecentoventi ore, centocinquantunmiladuecento minuti e quarantasei secondi rivedo il suo viso attraverso lo schermo della tv della sala.
Non so descrivere l’emozione che mi evoca.
Mi sono categoricamente impedita di accendere la tv in questi mesi, mi sono liberata di ogni cosa che potesse anche lontanamente portare il mio pensiero a lui.
Almeno, mi sono illusa di poterlo fare.
Perché la realtà è stata un’altra.
Perché qualcosa di lui è in me, impresso nei tessuti della mia carne come un marchio a fuoco.
La vedo e la sento ogni giorno, ogni minuto, cresce piano piano dentro di me.
La sensazione di vuoto totale che mi accompagna si alterna a quella di soffocamento.
Mi sento intrappolata sotto la superficie di acque gelide, con una forza oscura che mi trattiene in esse anche se cerco di liberarmi con tutte le mie forze perché sto per soffocare .
Ma non è una morte rapida la mia, è lenta, soffoco ogni giorno, sempre di più.
Ho provato a salire in superficie, ho provato ad uscirne, ma ogni tentativo è stato vano.
Ho provato con tutte le mie forze a pensare che non c’era né ci sarà mai un’altra soluzione plausibile per noi. So che è così. Ma il dolore fisico che mi attanaglia la base del petto occludendomi il respiro rende le mie notti insonni ancora più oleose e lente, inesorabili e spietate.
Non conosco il riposo, né la pace.
C’è solo cenere.
Poche le cose positive accadute in questi quattro mesi, ho raccontato tutto a mia madre che ancora stenta a crederci e non fa che ripetermi a giorni alterni che sono impazzita, e che devo riprendermi perché il bambino sente tutto, quindi anche tutto il dolore che sto provando.
Quante preoccupazioni.
Al mio ritorno in Italia ho messo da parte l’orgoglio facendo tesoro delle ultime parole che Michael mi aveva rivolto che, seppur condite da rabbia e risentimento, erano lì, e nascondevano un’amara verità: non ero riuscita a dire a mio figlio chi fosse suo padre.
Forse le circostanze, o la stessa opinione comune in merito ai fatti del passato potrebbero in qualche modo giustificare quel mio atteggiamento. Ma ho privato Satya di un sacrosanto diritto: la verità.
Conscia che se non avessi immediatamente preso provvedimenti avrei causato inutili rimpianti e senso di inadeguatezza in quel povero innocente, mi decisi a chiamare Matteo.
Un matrimonio, un divorzio, diverse relazioni fallimentari, una carriera all’apice ed un attico in centro da un milione e mezzo di euro hanno fatto di lui in cinque anni ciò che è ora: un uomo solo.
Un uomo che si è detto deciso a rimediare agli errori del passato, che non si perdonerà mai per aver guardato suo figlio negli occhi per la prima volta dopo cinque anni e mezzo dalla sua nascita, che nel rivedermi si è commosso, che ha ascoltato in silenzio la mia motivazione per quel ventre gonfio, lo stesso con cui mi aveva visto andare via.
Un uomo che mi ha abbracciato e domandandomi perdono mi ha chiesto di lasciarlo fare, di permettergli di prendersi cura di me, almeno questa volta.
Un uomo che evoca in me un senso di tiepida tenerezza, che riporta a galla la ragazza che ero, con la testa fra le nuvole e qualche sogno, nascosto da qualche parte nel cassetto.
Ma il mio cuore è rimasto in quelle mani grandi un po’ nodose dalle unghie scure, in quei polsi pieni di corde e lacci di vari colori, in quelle fossette ai lati delle labbra, in quelle sopracciglia a V rovesciata, in quella barba appena accennata, in quell’abisso a forma di anima.
Se l’è tenuto, e prima di partire mi sono dimenticata di andare a riprendermelo.
Ora non posso donarlo a nessun altro.
Ma ho rinunciato a tutto. Ho rinunciato a quell’immenso amore, a me stessa, alle regole, alla logica.
I sentimenti ed i ricordi sono periti come fiori sotto la grandine, e per essere sicura che fossero davvero morti ci ho buttato anche dell’acido.
Tutto è perduto e le cicatrici di questo disastro resteranno indelebili su di me, nascoste e visibili allo stesso tempo, marcate ed opache, profonde, delineate, come a ricordarmi della mia leggerezza, della mia stupidità, come monito per il futuro, per il presente, per sempre.
Mai riuscirò a spiegare a qualcuno quello che provo, mai.
Ho calpestato ogni cosa, nulla rimane ormai.
NOT GUILTY
Titolo e trafiletto del Times di lunedì 14 giugno 2005.
Jermaine Jackson stringe orgoglioso il quotidiano e lo sventola come a volere che tutte, ma proprio tutte le particelle che compongono la materia vengano a contatto con il foglio di cellulosa. Jermaine si sa, ha sempre amato fotografie e dichiarazioni, e come membro di maggior spicco della Jackson family ci tiene a sottolineare che come famiglia rimarranno tutti uniti e stretti attorno a Michael, e che, nonostante tutto, supereranno anche questa.
Una vera dichiarazione all'americana, come si conviene.
Ma lui esce dall'aula di tribunale senza mostrare emozioni. Non esulta, non sorride.
E' tranquillo, sembra intorpidito. Saluta debolmente i fans che sono stati fatti sistemare dietro ad alcune transenne a debita distanza. Lui non c'è.
Forse è troppo deluso e non gli frega più di niente.
Dovrebbe essere sollevato, ma è troppo lacerato. Stanco. Si è arreso.
Due occhi profondi ed immensi che un tempo erano anche stati capaci di sognare.
Occhi che si sono forse appesantiti al ritmo delle stagioni e non solo, occhi nascosti, per la maggior parte del tempo.
I capelli corvini che sono stati costretti ad essere lisci, anche se poi alla fine un'onda verso la fine si è ricreata, sovversiva fra gli obbedienti.
Il viso scavato. Un portamento elegante, quasi regale con quel completo nero.
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MILANO, Italy. june 15, 2005
Le immagini scorrono veloci e frammentarie al notiziario delle 20 mentre un perspicace quanto inopportuno giornalista fa notare quanto quell'uomo dal viso teso e dalle membra smagrite non assomigli più al fenomeno vestito di rosso che ballava insieme agli zombie.
Seguo tutto questo dal mio salottino sollevata e amareggiata nel contempo.
Non ho potuto stargli vicina in questi mesi.
Non ho voluto affondare insieme a lui perché ero responsabile di altre due vite oltre alla mia.
Se non avessi retto sarebbe stata la fine.
Ma non devo giustificarmi.
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MILANO, Italy- June 25, 2005
Cammino per le strade di questa città e non riesco a concentrarmi su quello che vedo.
I colori sono il bianco ed il nero.
La piccola mano di mio figlio è stretta nella mia e i grandi occhi ruotano per analizzare il paesaggio nuovo. La vocina mi giunge lontana e cerca di leggere ad alta voce le scritte sui muri e le insegne luminose dei negozi, cercando di abituare la mente a questa lingua diversa, in cui tutto si pronuncia esattamente come è scritto.
Mi fa qualche domanda in inglese ma cerco di costringerlo a parlare in italiano, a tradurre i pensieri e le parole in un altro codice.
Vorrei che parlasse la sua lingua di origine, dopo tutto questo è l’unico luogo in cui mi sento davvero a casa.
Ma forse non è quello che vorrebbe lui.
Cammino e rivedo i luoghi della mia vita, ma non riesco a riconoscermi ora in quella figura che riesumo dal mio passato. Nulla è più come prima.
E succede ora.
Mentre imbambolata davanti alla vetrina di Feltrinelli sto considerando di accettare l’invito a cena di Matteo per questa sera, un boato potentissimo ed assordante mi fa fermare il cuore.
E’ un rumore metallico e sordo che inonda tutta l’aria respirabile con le sue onde prepotenti e spesse, tanto che, in un primo momento penso ad una bomba.
Istintivamente prendo in braccio mio figlio cercando rifugio nel primo portone che mi capita.
Anche i passanti, gli automobilisti, gli abitanti, gli acquirenti, i lavoranti, insomma tutte le persone che occupano l’immenso ambiente descritto da Corso Buenos Aires sembrano atterriti come e più di me.
Tutti si portano le mani alle orecchie e alle tempie, alcuni nascondono addirittura la testa fra i gomiti in un disperato tentativo di proteggere i propri timpani.
Ma invano.
Perché l’assordante tortura non sembra voler volgere a termine.
Non può essere una bomba, non c’è nessuna esplosione e soprattutto il rumore non sembra estinguersi.
Stordita da questo strazio alzo lo sguardo verso il cielo in cerca di risposte mentre Satya si stringe forte al mio collo atterrito dalla violenza acustica.
E quello che vedo è poco rassicurante.
Un aereo di dimensioni considerevoli si avvicina.
Tutti gli aerei hanno dimensioni considerevoli. E allora perché questo è diverso? Cosa c’è di strano?
Aguzzo lo sguardo e capisco.
Ci rendiamo conto delle dimensioni di un aereo quando questo è fermo.
Ne ho visti molti mentre aspettavo nelle sale attesa dei vari aeroporti.
Fermi, in manovra, in rollaggio, in decollo.
Ma questo aereo sta volando.
Ed il fatto che sembri così grosso è da imputarsi ai soli cinquanta metri che lo separano dalle nostre teste.
Da ciò trovano spiegazione sia l’assordante rumore dei motori così vicini, che il massiccio spostamento d’aria che mi solleva capelli e vestito.
Sono già proiettata a pensare al peggio, quindi stringendo mio figlio più forte che posso mi porto nel punto più interno del porticato che mi ha dato rifugio.
Chiudo gli occhi strizzandoli ed inizio a pensare alla mia vita convinta di doverle dare addio fra poco.
Ma il rumore decresce fino a scomparire allontanandosi insieme all’aereo. Mi volto a guardarlo.
Si apre un portello.
Mille stelle argentate si librano nell’aria.
Piovono su di noi.
Di nuovo un rumore assordante. Un altro aereo. Stessa scena.
Mille stelle dorate piovono su di noi.
Ancora un altro.
Mille stelle argentate piovono su di noi.
Un altro.
Mille stelle dorate.
Mille stelle argentate.
Mille stelle dorate.
Mille stelle argentate.
Dorate.
Argentate.
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Cerco di riappropriarmi delle mie gambe ed abbandono la posizione che avevo assunto per proteggere la parte più sensibile del mio corpo, dove dorme la mia bambina, e Saty che mi guarda confuso.
-Cosa è successo mamma?-
-Non lo so amore-
Compio qualche passo senza una meta precisa e mi accorgo che tutto intorno a me è immobile.
Le macchine sono ferme in mezzo alla strada, i pedoni hanno la mia stessa espressione smarrita.
Qualcuno si strofina gli occhi incredulo.
Sirene in lontananza.
Ogni superficie tastabile è letteralmente ricoperta da stelline dorate ed argentate.
Questa pioggia lucente uscita dagli aerei ricopre l’intera carreggiata, i marciapiedi, le vetture.
Sono sulle nostre teste e si mescolano ai fili sottili di cheratina che costituiscono i capelli abbinandosi con armonia a qualsiasi tonalità cromatica.
Mi chiedo se sto sognando o se ho un’allucinazione.
E mentre cerco di scrollare queste festose gocce di luce dalla testolina di mio figlio la vedo.
Prendo in mano una stella argentata.
Sul retro una scritta.
I belong to you.
Il cuore in gola come solo in poche altre circostanze aveva battuto.
Perdo quasi il respiro.
Non so perché.
Prendo in mano una stella dorata.
Sul retro una scritta.
You belong to me.
Non so spiegare esattamente perché mi sento svenire, non ne ho motivo.
Non mi devo sentire così, sono troppo agitata e mi sento anche un po’ stupida.
Oggi Milano è d’oro e d’argento.
Come la Roma dei Matia Bazar.
Ma piove il cielo sulla città
Tu con il cuore nel fango
L'oro e l'argento, le sale da te
Paese che non ha più campanelli. (Matia Bazar- Vacanze romane)
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
Buonasera a tutti dal tg1. Apriamo questa sera il nostro giornale con la notizia di un fatto insolito accaduto questo pomeriggio a Milano. Erano le quattro e un quarto circa, quando su gran parte della città hanno sorvolato a bassissima quota una decina di aerei Canader che, secondo le dichiarazioni di alcuni testimoni, hanno rilasciato una vera e propria pioggia di cartoncini variopinti che hanno interamente rivestito il manto stradale causando notevoli disagi alla viabilità.
Le autorità stanno cercando di reperire i responsabili di quella che ha tutta l’aria, dicono, di essere una trovata pubblicitaria….
I Canader sono velivoli normalmente impiegati dai pompieri e dalla guardia forestale nelle operazioni di spegnimento degli incendi, ma questa volta al posto dell’acqua gli aerei hanno rilasciato cartoncini a forma di stella a ricoprire la città….
Ma sentiamo il nostro inviato che si trova sul posto con alcuni testimoni oculari……
Guardo la tv e ascolto il servizio senza capire quasi.
Mia madre sulla poltrona mi fissa attonita.
Non so perché.
Cerco di fare finta di niente ma non riesco a sottrarmi a quello sguardo.
Mi volto e ci fissiamo per un lungo momento mentre so quello a cui sta pensando.
Il solo pensiero mi fa incendiare le guance ed il cuore ma cerco di allontanarlo e di sopprimerlo con altri pensieri più razionali.
Mentre ci sto riuscendo il trillo del mio cellulare.
Un messaggio.
Un lungo momento di esitazione.
Guardo di nuovo mamma che stavolta si è anche portata una mano a coprire la bocca.
Non credo di averla mai vista così stupita.
1 nuovo messaggio.
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Numero sconosciuto.
Io ti appartengo
E
Tu appartieni a me.
Dimmi dove sei.
Buio.
10:06 p.m. June 13, 2005- SANTA MARIA, California
18:06 p.m. June 13, 2005- MILANO, Italy
NOT GUILTY - "Michael Jackson è stato giudicato non colpevole di tutti e 10 i capi d'accusa a suo carico che lo hanno coinvolto in un processo per molestie sessuali su minori. Così si è conclusa la saga legale durata 2 anni per una delle pop star più conosciute al mondo."
Seguo tutto in streaming sulla CNN.
Dopo centocinque giorni, duemilacinquecentoventi ore, centocinquantunmiladuecento minuti e quarantasei secondi rivedo il suo viso attraverso lo schermo della tv della sala.
Non so descrivere l’emozione che mi evoca.
Mi sono categoricamente impedita di accendere la tv in questi mesi, mi sono liberata di ogni cosa che potesse anche lontanamente portare il mio pensiero a lui.
Almeno, mi sono illusa di poterlo fare.
Perché la realtà è stata un’altra.
Perché qualcosa di lui è in me, impresso nei tessuti della mia carne come un marchio a fuoco.
La vedo e la sento ogni giorno, ogni minuto, cresce piano piano dentro di me.
La sensazione di vuoto totale che mi accompagna si alterna a quella di soffocamento.
Mi sento intrappolata sotto la superficie di acque gelide, con una forza oscura che mi trattiene in esse anche se cerco di liberarmi con tutte le mie forze perché sto per soffocare .
Ma non è una morte rapida la mia, è lenta, soffoco ogni giorno, sempre di più.
Ho provato a salire in superficie, ho provato ad uscirne, ma ogni tentativo è stato vano.
Ho provato con tutte le mie forze a pensare che non c’era né ci sarà mai un’altra soluzione plausibile per noi. So che è così. Ma il dolore fisico che mi attanaglia la base del petto occludendomi il respiro rende le mie notti insonni ancora più oleose e lente, inesorabili e spietate.
Non conosco il riposo, né la pace.
C’è solo cenere.
Poche le cose positive accadute in questi quattro mesi, ho raccontato tutto a mia madre che ancora stenta a crederci e non fa che ripetermi a giorni alterni che sono impazzita, e che devo riprendermi perché il bambino sente tutto, quindi anche tutto il dolore che sto provando.
Quante preoccupazioni.
Al mio ritorno in Italia ho messo da parte l’orgoglio facendo tesoro delle ultime parole che Michael mi aveva rivolto che, seppur condite da rabbia e risentimento, erano lì, e nascondevano un’amara verità: non ero riuscita a dire a mio figlio chi fosse suo padre.
Forse le circostanze, o la stessa opinione comune in merito ai fatti del passato potrebbero in qualche modo giustificare quel mio atteggiamento. Ma ho privato Satya di un sacrosanto diritto: la verità.
Conscia che se non avessi immediatamente preso provvedimenti avrei causato inutili rimpianti e senso di inadeguatezza in quel povero innocente, mi decisi a chiamare Matteo.
Un matrimonio, un divorzio, diverse relazioni fallimentari, una carriera all’apice ed un attico in centro da un milione e mezzo di euro hanno fatto di lui in cinque anni ciò che è ora: un uomo solo.
Un uomo che si è detto deciso a rimediare agli errori del passato, che non si perdonerà mai per aver guardato suo figlio negli occhi per la prima volta dopo cinque anni e mezzo dalla sua nascita, che nel rivedermi si è commosso, che ha ascoltato in silenzio la mia motivazione per quel ventre gonfio, lo stesso con cui mi aveva visto andare via.
Un uomo che mi ha abbracciato e domandandomi perdono mi ha chiesto di lasciarlo fare, di permettergli di prendersi cura di me, almeno questa volta.
Un uomo che evoca in me un senso di tiepida tenerezza, che riporta a galla la ragazza che ero, con la testa fra le nuvole e qualche sogno, nascosto da qualche parte nel cassetto.
Ma il mio cuore è rimasto in quelle mani grandi un po’ nodose dalle unghie scure, in quei polsi pieni di corde e lacci di vari colori, in quelle fossette ai lati delle labbra, in quelle sopracciglia a V rovesciata, in quella barba appena accennata, in quell’abisso a forma di anima.
Se l’è tenuto, e prima di partire mi sono dimenticata di andare a riprendermelo.
Ora non posso donarlo a nessun altro.
Ma ho rinunciato a tutto. Ho rinunciato a quell’immenso amore, a me stessa, alle regole, alla logica.
I sentimenti ed i ricordi sono periti come fiori sotto la grandine, e per essere sicura che fossero davvero morti ci ho buttato anche dell’acido.
Tutto è perduto e le cicatrici di questo disastro resteranno indelebili su di me, nascoste e visibili allo stesso tempo, marcate ed opache, profonde, delineate, come a ricordarmi della mia leggerezza, della mia stupidità, come monito per il futuro, per il presente, per sempre.
Mai riuscirò a spiegare a qualcuno quello che provo, mai.
Ho calpestato ogni cosa, nulla rimane ormai.
NOT GUILTY
Titolo e trafiletto del Times di lunedì 14 giugno 2005.
Jermaine Jackson stringe orgoglioso il quotidiano e lo sventola come a volere che tutte, ma proprio tutte le particelle che compongono la materia vengano a contatto con il foglio di cellulosa. Jermaine si sa, ha sempre amato fotografie e dichiarazioni, e come membro di maggior spicco della Jackson family ci tiene a sottolineare che come famiglia rimarranno tutti uniti e stretti attorno a Michael, e che, nonostante tutto, supereranno anche questa.
Una vera dichiarazione all'americana, come si conviene.
Ma lui esce dall'aula di tribunale senza mostrare emozioni. Non esulta, non sorride.
E' tranquillo, sembra intorpidito. Saluta debolmente i fans che sono stati fatti sistemare dietro ad alcune transenne a debita distanza. Lui non c'è.
Forse è troppo deluso e non gli frega più di niente.
Dovrebbe essere sollevato, ma è troppo lacerato. Stanco. Si è arreso.
Due occhi profondi ed immensi che un tempo erano anche stati capaci di sognare.
Occhi che si sono forse appesantiti al ritmo delle stagioni e non solo, occhi nascosti, per la maggior parte del tempo.
I capelli corvini che sono stati costretti ad essere lisci, anche se poi alla fine un'onda verso la fine si è ricreata, sovversiva fra gli obbedienti.
Il viso scavato. Un portamento elegante, quasi regale con quel completo nero.
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MILANO, Italy. june 15, 2005
Le immagini scorrono veloci e frammentarie al notiziario delle 20 mentre un perspicace quanto inopportuno giornalista fa notare quanto quell'uomo dal viso teso e dalle membra smagrite non assomigli più al fenomeno vestito di rosso che ballava insieme agli zombie.
Seguo tutto questo dal mio salottino sollevata e amareggiata nel contempo.
Non ho potuto stargli vicina in questi mesi.
Non ho voluto affondare insieme a lui perché ero responsabile di altre due vite oltre alla mia.
Se non avessi retto sarebbe stata la fine.
Ma non devo giustificarmi.
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MILANO, Italy- June 25, 2005
Cammino per le strade di questa città e non riesco a concentrarmi su quello che vedo.
I colori sono il bianco ed il nero.
La piccola mano di mio figlio è stretta nella mia e i grandi occhi ruotano per analizzare il paesaggio nuovo. La vocina mi giunge lontana e cerca di leggere ad alta voce le scritte sui muri e le insegne luminose dei negozi, cercando di abituare la mente a questa lingua diversa, in cui tutto si pronuncia esattamente come è scritto.
Mi fa qualche domanda in inglese ma cerco di costringerlo a parlare in italiano, a tradurre i pensieri e le parole in un altro codice.
Vorrei che parlasse la sua lingua di origine, dopo tutto questo è l’unico luogo in cui mi sento davvero a casa.
Ma forse non è quello che vorrebbe lui.
Cammino e rivedo i luoghi della mia vita, ma non riesco a riconoscermi ora in quella figura che riesumo dal mio passato. Nulla è più come prima.
E succede ora.
Mentre imbambolata davanti alla vetrina di Feltrinelli sto considerando di accettare l’invito a cena di Matteo per questa sera, un boato potentissimo ed assordante mi fa fermare il cuore.
E’ un rumore metallico e sordo che inonda tutta l’aria respirabile con le sue onde prepotenti e spesse, tanto che, in un primo momento penso ad una bomba.
Istintivamente prendo in braccio mio figlio cercando rifugio nel primo portone che mi capita.
Anche i passanti, gli automobilisti, gli abitanti, gli acquirenti, i lavoranti, insomma tutte le persone che occupano l’immenso ambiente descritto da Corso Buenos Aires sembrano atterriti come e più di me.
Tutti si portano le mani alle orecchie e alle tempie, alcuni nascondono addirittura la testa fra i gomiti in un disperato tentativo di proteggere i propri timpani.
Ma invano.
Perché l’assordante tortura non sembra voler volgere a termine.
Non può essere una bomba, non c’è nessuna esplosione e soprattutto il rumore non sembra estinguersi.
Stordita da questo strazio alzo lo sguardo verso il cielo in cerca di risposte mentre Satya si stringe forte al mio collo atterrito dalla violenza acustica.
E quello che vedo è poco rassicurante.
Un aereo di dimensioni considerevoli si avvicina.
Tutti gli aerei hanno dimensioni considerevoli. E allora perché questo è diverso? Cosa c’è di strano?
Aguzzo lo sguardo e capisco.
Ci rendiamo conto delle dimensioni di un aereo quando questo è fermo.
Ne ho visti molti mentre aspettavo nelle sale attesa dei vari aeroporti.
Fermi, in manovra, in rollaggio, in decollo.
Ma questo aereo sta volando.
Ed il fatto che sembri così grosso è da imputarsi ai soli cinquanta metri che lo separano dalle nostre teste.
Da ciò trovano spiegazione sia l’assordante rumore dei motori così vicini, che il massiccio spostamento d’aria che mi solleva capelli e vestito.
Sono già proiettata a pensare al peggio, quindi stringendo mio figlio più forte che posso mi porto nel punto più interno del porticato che mi ha dato rifugio.
Chiudo gli occhi strizzandoli ed inizio a pensare alla mia vita convinta di doverle dare addio fra poco.
Ma il rumore decresce fino a scomparire allontanandosi insieme all’aereo. Mi volto a guardarlo.
Si apre un portello.
Mille stelle argentate si librano nell’aria.
Piovono su di noi.
Di nuovo un rumore assordante. Un altro aereo. Stessa scena.
Mille stelle dorate piovono su di noi.
Ancora un altro.
Mille stelle argentate piovono su di noi.
Un altro.
Mille stelle dorate.
Mille stelle argentate.
Mille stelle dorate.
Mille stelle argentate.
Dorate.
Argentate.
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Cerco di riappropriarmi delle mie gambe ed abbandono la posizione che avevo assunto per proteggere la parte più sensibile del mio corpo, dove dorme la mia bambina, e Saty che mi guarda confuso.
-Cosa è successo mamma?-
-Non lo so amore-
Compio qualche passo senza una meta precisa e mi accorgo che tutto intorno a me è immobile.
Le macchine sono ferme in mezzo alla strada, i pedoni hanno la mia stessa espressione smarrita.
Qualcuno si strofina gli occhi incredulo.
Sirene in lontananza.
Ogni superficie tastabile è letteralmente ricoperta da stelline dorate ed argentate.
Questa pioggia lucente uscita dagli aerei ricopre l’intera carreggiata, i marciapiedi, le vetture.
Sono sulle nostre teste e si mescolano ai fili sottili di cheratina che costituiscono i capelli abbinandosi con armonia a qualsiasi tonalità cromatica.
Mi chiedo se sto sognando o se ho un’allucinazione.
E mentre cerco di scrollare queste festose gocce di luce dalla testolina di mio figlio la vedo.
Prendo in mano una stella argentata.
Sul retro una scritta.
I belong to you.
Il cuore in gola come solo in poche altre circostanze aveva battuto.
Perdo quasi il respiro.
Non so perché.
Prendo in mano una stella dorata.
Sul retro una scritta.
You belong to me.
Non so spiegare esattamente perché mi sento svenire, non ne ho motivo.
Non mi devo sentire così, sono troppo agitata e mi sento anche un po’ stupida.
Oggi Milano è d’oro e d’argento.
Come la Roma dei Matia Bazar.
Ma piove il cielo sulla città
Tu con il cuore nel fango
L'oro e l'argento, le sale da te
Paese che non ha più campanelli. (Matia Bazar- Vacanze romane)
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Buonasera a tutti dal tg1. Apriamo questa sera il nostro giornale con la notizia di un fatto insolito accaduto questo pomeriggio a Milano. Erano le quattro e un quarto circa, quando su gran parte della città hanno sorvolato a bassissima quota una decina di aerei Canader che, secondo le dichiarazioni di alcuni testimoni, hanno rilasciato una vera e propria pioggia di cartoncini variopinti che hanno interamente rivestito il manto stradale causando notevoli disagi alla viabilità.
Le autorità stanno cercando di reperire i responsabili di quella che ha tutta l’aria, dicono, di essere una trovata pubblicitaria….
I Canader sono velivoli normalmente impiegati dai pompieri e dalla guardia forestale nelle operazioni di spegnimento degli incendi, ma questa volta al posto dell’acqua gli aerei hanno rilasciato cartoncini a forma di stella a ricoprire la città….
Ma sentiamo il nostro inviato che si trova sul posto con alcuni testimoni oculari……
Guardo la tv e ascolto il servizio senza capire quasi.
Mia madre sulla poltrona mi fissa attonita.
Non so perché.
Cerco di fare finta di niente ma non riesco a sottrarmi a quello sguardo.
Mi volto e ci fissiamo per un lungo momento mentre so quello a cui sta pensando.
Il solo pensiero mi fa incendiare le guance ed il cuore ma cerco di allontanarlo e di sopprimerlo con altri pensieri più razionali.
Mentre ci sto riuscendo il trillo del mio cellulare.
Un messaggio.
Un lungo momento di esitazione.
Guardo di nuovo mamma che stavolta si è anche portata una mano a coprire la bocca.
Non credo di averla mai vista così stupita.
1 nuovo messaggio.
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Numero sconosciuto.
Io ti appartengo
E
Tu appartieni a me.
Dimmi dove sei.
Buio.
marina56- Moderator
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