Don't call my name
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Don't call my name
CAPITOLO PRIMO
1992
-n-non riesco a fare i-il carlino..
-ma quale carlino… si dice “gradino”!
-Michael… mi devi a..
-si, questo lo vedo, ci impiegheremo tutta la notte a salire queste maledette scale altrimenti! Dammi la mano.
La sostenne facendole scivolare il braccio dietro alla schiena ed ancorando la mano aperta all’altra estremità del fianco. Guidandola lungo la scalinata granitica per forma e colore che li innalzava sull’immenso parco illuminato dalla luna, non potè fare a meno di voltarsi per ammirare un istante la sua immensa proprietà.
–a domani, disse fra sé e l’entità semi-astratta che si era immaginato.
-Michael..
-dimmi
-come spieghi ad un cieco cosa sono i colori?
-ma..che domanda è?..
-dimmelo
-non lo so Nat, che domanda mi fai ora..
-sei arrabbiato?
-no
-quando dici no vuol dire si
-pensiamo ad entrare in casa Natalie, ti prego, sono distrutto
Una farfalla meccanica sovrastava l’aiuola che incorniciava l’orologio bianco; i numeri romani, le lancette lunghe, segnavano il tempo lente e gravi, come quelle di una cattedrale.
Il fresco della sera portava un odore di gelsomino così intenso che penetrava i mattoni ed il vetro, fin dentro all’abitazione. Il legno profumava di legno ed i fiori sul tavolo della sala sembravano appena recisi, meravigliosi in un ultimo sussulto di vita.
Il canto del cigno.
-riesci a stare in piedi un attimo? Chiudo la porta..
Le sfilò il braccio da dietro la schiena e lei perse l’unico riferimento per rimanere ancorata al terreno e con esso l’equilibrio. Chiuse la porta e quando si girò la vide obbedire alla gravità con una velocità quasi innaturale, e fare un bel tuffo sul parquet reso ancora più scuro dall’assenza di illuminazione.
Un sussulto, un brivido sgradevole lungo la schiena. Paura.
-Natalie! Ti sei fatta male? Mioddio..
Si chinò su di lei e fece per sollevarla.
-no, Michael, non muovermi, i-io non sto bene, non riesco a muovermi..
-dio mio..che è successo? Dove hai sbattuto??
L’allarme nella voce non faceva che da pallida cornice al pallore sul volto tirato, teso.
-Natalie, reggiti a me, ora ti aiuto..
Pensava al peggio, forse aveva sbattuto la testa, forse doveva chiamare immediatamente in 911, dopo tutto aveva anche bevuto. Un momento di esitazione, sentì il diaframma alzarsi ed abbassarsi con ritmo sincopato, erano singhiozzi forse?
No, stava semplicemente ridendo, divincolandosi dalla sua presa.
-Michael.. è troooppo bello, devi venire anche tu! Devi seguirmi in questo mare di… frassino.. ahah..
Rideva e rideva agitando le gambe. Per le scarpe non c’era più speranza, erano andate perse alla festa. Non aveva bevuto molto, ma non reggeva. Lui lo sapeva e le aveva raccomandato più volte di bere solo aranciata –fai come me- le aveva detto, -non ci sono effetti collaterali e ci si diverte di più! –ma che noia che sei, sembri mio nonno quando fai il bravo ragazzo! Gli aveva risposto.
Ora la guardava cercando il più possibile di apparire arrabbiato, e lo era in fondo, perché sebbene non amasse particolarmente quel genere di serate mondane, aveva dovuto lasciare senza preavviso l’immenso giardino della villa di Brooke, la sua Brooke. Aveva riunito gli amici più cari, voleva una festa a sorpresa, voleva un cigno intagliato nel ghiaccio, voleva i fuochi d’artificio in occasione del suo compleanno. Aveva organizzato tutto per lui. Michael. Il suo re.
–un giorno speciale per festeggiare una persona speciale- gli aveva detto con occhi lucidi e labbra rosse, profumate del suo preferito, Moët et Chandon riserva, un aroma ed un sapore che non avevano tardato a diventare più nitidi nel bacio viscoso che di lì ad un soffio lo aveva inondato, con la stessa veemenza del Nilo in piena sulle pianure aride dell’Africa. E lì le sue labbra avevano trovato il giusto salubre ristoro dopo tanta siccità.
-Nat ma che fai? Ti rendi conto che mi hai fatto prendere un accidente?! Credevo ti fossi fatta male!
-non è colpa mia, non è colpa mia, non è colpa mia se sei un creduloneee..
Sembrava una cantilena, spezzata soltanto dalle risate di lei, che non riusciva assolutamente a trattenersi. Lo guardava sdraiata sul pavimento, e da quella prospettiva era ancora più ridicolo: se ne stava in piedi davanti a lei stizzito, con le mani sui fianchi, l’espressione severa, la camicia blu notte ormai aperta e completamente fuoriuscita dai pantaloni scuri che lasciava scoperta una maglietta bianca con lo scollo a v.
I riccioli indomati e liberi gli cadevano sulle spalle, le labbra semidischiuse lasciavano uscire qualche ansito di fatica per averla dovuta trasportare quasi di peso lungo quella scalinata che non finiva mai. Sulla fronte qualche perla incolore ed una ruga di espressione che gli usciva solo quando era fortemente infastidito. O in collera, anche se lei quel sentimento non lo aveva mai visto sul volto di Michael. Fino a quel momento.
Bellissimo.
-ora andiamo di sopra, non vorrai dormire qui sul pavimento
Sospirò con rassegnazione e tono secco e piatto
-mmmmmm può darsi, perché no..dai vieni vicino a me..
Cercò di afferrargli una caviglia ma lui fu più veloce, ed in un balzo fu fuori dalla sua portata.
-su forza, poche storie..
-che palle che sei.. perché non andiamo a farci una passeggiata nel parco.. daiiiiiiiiii
-nelle tue condizioni? Non credo proprio.. la miglior cosa che possiamo fare ora è andare a letto, anche perché prevedo che per arrivarci ci impiegheremo altri dieci minuti..
-che palle di uomo! Non si può mai fare niente, niente bere, niente fumare, niente divertirsi.. hai 34 anni e ne dimostri 80!
-e tu chi saresti per dirmi queste cose? Una ragazzina viziata che non ha la minima idea di cosa voglia dire lavorare! Io lavoro da mattina a sera, ecco perché non ho tempo per divertirmi.
-ora non iniziare con la menata dell’infanzia perché la so a memoria eh..
-farò finta di non aver sentito, in fondo non hai il controllo di te stessa in questo momento e..
-Michael
-si?
-ora la testa mi gira più forte di prima, credo di dover vomitare
-si certo, come prima, guarda che non mi freghi
-stavolta è vero, ti prego, aiutami
Vinto da quell’espressione sofferente e contratta si chinò di nuovo verso il basso ad aiutarla, in qualche modo, a sollevarsi dal pavimento scuro che incorniciava quella figura snella, perfettamente avvolta dall’abitino bianco corto che metteva in rilievo ogni piccola curva del corpo liscio e tonico dalla pelle caffelatte.
Un istante di esitazione, poi colse il momento opportuno per attirarlo a sé, per allacciare le gambe attorno ai suoi polpacci e, una volta percepita l’assenza di bilanciamento del peso, afferrarlo per le spalle, facendolo letteralmente planare su di sé.
-Natalie! Ma..ma che fai! Ahio!
L’espressione indignata alla vista di lei che non riusciva a respirare dal ridere, si contorceva come un serpente arpionato da una fiocina, incapace di darsi pace, di articolare verbo o di fare qualunque altra azione.
-due volte, non ci posso credere Mike, ti sei fatto fregare due volte consecutivamente da una mocciosa… da non credere...
Quelle parole risuonarono fastidiose come lame calde nei padiglioni. Era insopportabile in effetti, che uno come lui si fosse fatto fregare in agilità da qualcun altro, per di più da quella insolente, che stasera non aveva fatto che infastidirlo in maniera così..
Non terminò il pensiero che le fu addosso.
-ah si? Ora lo vedremo se mi sono fatto fregare, lo vedremo!
Disse così e le immobilizzò entrambe le braccia sopra alla testa trattenendole per i polsi, mentre con l’altra mano iniziò a prodigarsi in una delle cose che a suo giudizio gli riuscivano meglio: il solletico. Natalie urlava e rideva come un’ossessa e lui non accennava a smettere, non ci pensava proprio, anzi, ad ogni lamento ulteriore lui rincarava la dose, in una lenta tortura fatta di mute suppliche negli occhi appannati dal ridere.
-ora basta, mi sono vendicato abbastanza per stasera
Mollò la presa e si mise a sedere sul pavimento, felice di essersi sfogato, almeno così.
-hai ragione, hai proprio vinto, con il solletico non ti batte nessuno… tranne meeeeeeeeeeeeeeee
E, lanciato l’ultimo tonante urlo di battaglia, gli si scagliò alle spalle come un puma a caccia di una preda dopo giorni di digiuno, con la stessa forza.
-è sleale, è sleale, non..
Cercava di liberarsi di quel peso che gli impediva di muoversi, a cavalcioni su di lui, che non poteva trovare appigli in una posizione diversa da quella supina, completamente sottomesso da quella piccola dea vestita di bianco che rispondeva al solletico subìto poco prima con la stessa incredibile perizia e decisione del suo aggressore.
-basta, per favore, Nat..
-domanda perdono ed ammetti la mia supremazia assoluta
-mai, maaaai
-e allora..
-ok, basta, ti prego, mi fa male la schiena, ti prego Natalie
-supplica la mia pietà se vuoi salva la vita
-pietà. Ora basta però, ti prego
-ok, per stavolta ti libero
Sollevò lo sguardo e si rese conto che avevano percorso quasi tutta l’area del salone rotolandosi e giocando negli ultimi dieci minuti, tanto da trovarsi all’imbocco delle scale anziché all’ingresso.
Ma non fu l’unica cosa di cui si rese conto. Era ancora sopra di lui, a cavalcioni, il vestito sollevato sulle cosce lucide e tornite, una spallina abbassata, ansiti di fatica e tentativi di ripristinare un ritmo sinusale accettabile, i capelli prima ordinati e raccolti in una coda alta ora piovevano liberi oltre le spalle, come fili di petrolio appena cristallizzati, ricoprendo anche parte delle braccia sul lato destro, mentre il petto si alzava e si abbassava seguendo un ritmo imposto. Imbarazzo, ecco cos’era. Imbarazzo. Non era mai successo, non l’aveva mai guardata così, lei era solo una ragazzina e l’aveva vista crescere e… tutto ciò non stava costituendo un grosso problema tuttavia, finchè non vide la sua mano eludere ogni tentativo di controllo da parte del cervello e andarsi a posare sulla linea della vita, fasciata dal raso del vestito, ormai tutto stropicciato. Natalie non potè non notare la finezza inaspettata di quel gesto, così impercettibile e profondo nel contempo. Un istante in cui gli occhi penetrarono gli uni negli altri in un incontro elettrostatico e denso.
-ora basta, alziamoci dai
Con un movimento delicato la fece scendere. Si voltò a guardarla. Gli occhi nei suoi, con un’intensità quasi pretenziosa nelle iridi, inquisizione, o innocente curiosità forse, tanto bastò per provocargli un fremito generalizzato per la paura che avesse potuto captare anche solo una parte dei suoi pensieri.
-ora potrai dire di esserti divertito almeno un po’ stasera, e non certo per merito tuo!
Fu come se gli fosse andata in soccorso, spezzando quel momento di imbarazzo per quello sprazzo di violenta intimità, imbarazzo che si leggeva furente nei suoi occhi volti al pavimento, imbarazzo che invece era totalmente assente in quelli di lei, più scuri della notte e puliti come il cielo sopra le nuvole.
-mi sarei divertito lo stesso se non avessi dovuto abbandonare la festa per il mio compleanno per colpa di Qualcuno…
-io non ho costretto proprio nessuno, se tu che sei voluto venire via!
-si certo, volevo evitare che dessi spettacolo!
-mi stavo solo divertendo Mike, e dovresti farlo anche tu ogni tanto, invece di startene sempre impalato con la tua Brooke, sembrate due mummie! Tutankamon e Nefertari direttamente dal 4000 a.c.!
-Brooke è una donna di classe, e non ha bisogno di strafare, né di mettersi in evidenza, lei è, è..
-una noia?
-no Natalie, lei è perfetta così
Preferì mettere fine a quello strano battibecco con il tono più astioso e l’espressione più piccata di cui fosse capace. Nemmeno lui sapeva perché, e senza dubbio si era reso conto di quell’esagerazione nei modi, che stonava fortemente con quel momento di pace e spensieratezza fuori programma. E, cosa ancora più evidente, stonava con gli enormi occhi di lei, che nonostante tutto lo guardavano ancora sorridenti, poiché per nulla al mondo gli avrebbe dato un assaggio di quello che in realtà provava. Per nulla al mondo.
Lo guardò imbronciata, poi gli sguardi si incastrarono per un piccolo istante in cui il tempo si fermò. Voleva essere arrabbiato, doveva esserlo, per tutto, per come erano andate le cose quella sera, per se stesso e per i pensieri fuori da ogni ragionevole logica di poco prima e…
E, inaspettatamente, la fila dei suoi denti perfetti fece capolino dalle labbra ambrate, in un guizzo a tradimento del suo stesso corpo che non sapeva resistere a quegli immensi occhi scuri di bambina, così innocenti e disincantati allo stesso tempo. Così veri.
Aveva dovuto salutare i presenti di malavoglia ed in gran fretta perché quella piccola peste completamente alticcia aveva iniziato a dare lo spettacolo più imbarazzante (e divertente) che avesse visto: in piedi al centro di un’aiuola colma di tulipani si era improvvisata la Cindy Lauper degli anni 90 in un’improbabile “girls just wanna have fun” cantata di petto e –secondo le sue stime- con tutto il fiato che aveva in corpo.
Tutti sorridevano guardandola, alcuni si univano all’improbabile cornice abbozzando qualche maldestro passo di danza, altri cantando a loro volta in preda ai fumi dell’alcool. Era solo una bella ragazza che si divertiva, -che c’è di male?- gli aveva chiesto lei con il solo movimento delle labbra mentre lui la fulminava con lo sguardo, da lontano, con una Brooke inviperita a braccetto.
–dovevi proprio portare quella ragazzina anche stasera? Non sa controllarsi non vedi? Di questo passo rovinerà la festa!
–piccola, calmati, si sta solo divertendo un po’ dai….- aveva cercato di sdrammatizzare lui.
–OHHHHHH GIRLS JUST WANNA HAVE FUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUN!!
Scatenata e libera come forse non aveva mai visto qualcuno.
–ok, ora è meglio che andiamo, il concerto mono-canzone per stasera è terminato- le si era avvicinato e l’aveva attirata sé con una leggera trazione del braccio e, fra le proteste del “pubblico”, l’aveva condotta verso la limo parcheggiata vicino al cancello ovest dell’immensa abitazione della sua ragazza delusa.
-ogni tanto è bello perdere il controllo, sai? Senza pensieri. La libertà è un bene prezioso, e tu che hai avuto il privilegio di averla gratis la butti così.
Cercò di darsi un tono e soprattutto di farsi scivolare addosso quell’apprezzamento a Brooke, forse fin troppo zelante.
-l’unico privilegio che ho è quello di andarmene a dormire fra poco evitando di ascoltare i tuoi deliri notturni. Vieni.
La aiutò per l’ennesima volta a sollevarsi quella sera, e l’accompagnò nella sua camera. La fece sdraiare sulle morbide lenzuola di lino, accompagnandone la testa con la mano fino al cuscino, in un gesto amorevole e paterno; lei non protestò stavolta, ma si lasciò cullare da quelle note di sandalo che emanava il collo di lui, lievemente umido per lo sforzo appena compiuto.
Si sedette accanto a lei, sul bordo del letto e con un dito le tracciò il profilo del volto, in un impercettibile cammino senza inizio e senza forma. Natalie ora non poteva più percepire la sua finezza, ormai prigioniera di un dolce Morfeo che l’aveva portata molto lontana da lì.
Tutto era assurdo con Natalie, lei era assurda e di conseguenza tutto quello che poteva anche solo lontanamente riguardarla, compresa quell’amicizia che avevano, così difficile da classificare, da definire.
Si grattò il capo pensieroso e si diresse verso la porta in mogano, l’avrebbe accompagnata piano verso lo stipite, facendo attenzione a non fare rumore, per non svegliarla.
-non me lo vuoi proprio dire?
Lo fece sussultare, disintegrando definitivamente la convinzione rassicurante che stesse dormendo. Si voltò nel buio e la vide immobile nel letto, con un solo occhio aperto ed il viso da bambina. Lo guardava cercando di sconfiggere quel fastidioso senso di stanchezza che la stava avvolgendo, solo una risposta, voleva solo una risposta e non ci avrebbe mai rinunciato.
-che cosa non voglio dirti?
-come si fa a spiegare ad un cieco cos’è un colore.
-non si può spiegare che cos’è il colore, lo si può solo percepire
Si riavvicinò lentamente a quel letto a baldacchino cercando di comprendere il motivo di certe domande. Natalie era davvero la diciassettenne più strana che avesse conosciuto.
-quindi un cieco non saprà mai di che colore è l’erba, o il tramonto, o un girasole?
Il viso oscurato da un alone di tristezza fece rabbuiare anche lui, anche per l’amara verità che le aveva dovuto confessare. Pensò a quanto brutto dovesse essere il non poter vedere il modo in cui la luce riflette sulle tante cose che compongono la realtà, pensò al buio totale ed alla tristezza che da ciò potesse derivare.
-no, un cieco dalla nascita non saprà mai cos’è un colore Natalie, ma nemmeno ne soffrirà, poiché non avrà mai visto altro che un’ombra oscura.
Come si fa a desiderare qualcosa di cui si ignora l’esistenza?
-non si può
-esatto, non si può. Ora dormi che è tardissimo
-Michael
-si?
-grazie..
-di cosa?
-grazie e basta, non rompere con le tue solite domande riflessive!
-ma veramente se tu che… ok, lasciamo stare..
Si diresse alla porta nuovamente, scuotendo il capo e senza riuscire a ricacciare in gola un’espressione di profonda frustrazione, per come si era fatto aggirare ancora una volta da quell’insolente, invadente, sfacciata ragaz..
-e scusa se ti ho rovinato la festa
Si voltò a guardarla per la terza volta nella penombra, letteralmente allibito per come quelle poche parole lo avessero totalmente destabilizzato, di nuovo. Non riusciva a formulare un pensiero, una considerazione, non arrivava alla fine che, inaspettatamente ed improvvisamente arrivava lei a spazzare via tutto.
-no.. era una noia in fin dei conti..
Non riusciva ad essere arrabbiato, non ci riusciva. E non riusciva a credere di aver pronunciato quelle sillabe per davvero, ma la sua bocca lo aveva fatto, senza minimamente attraversare la dogana di cosa è bene soltanto pensare. Se Brooke lo avesse sentito parlare così non gli avrebbe rivolto la parola per mesi, di sicuro. Cercò di sentirsi in colpa per questo ma la sua bocca le sorrise, e la sua mente pensò a quanto fosse irrimediabilmente piccola, in fondo.
Si era addormentata per davvero, ora, lo capì dal respiro rallentato, dato che nel buio della stanza ben poco si poteva vedere. –domani devo dirglielo, domani mattina appena si sveglia glielo dico, ora dorme, non la sveglio. Non sapeva se stava cercando una scusa per non dirglielo o se stesse semplicemente temporeggiando, non lo sapeva e non lo voleva sapere. Un altro sospiro di frustrazione lo fece voltare e dirigersi all’uscita, finalmente.
Uscì dalla stanza buttandosi insieme alla porta quella giornata alle spalle.
1975
Le onde dell’oceano si infrangevano sulla scogliera e gli uccelli del mattino avevano già iniziato il loro canto, il vento soffiava piano creando un delicato connubio dei due suoni, uniti a formare l’immagine della ciudadela de San Juan, nel suo ritratto più affascinante, di mattina presto.
Il vociare indistinto degli abitanti già sulla buona strada verso le loro occupazioni si sollevava nel mentre dalla zona abitata; piedi nudi in movimento, zampe di capra, di asino, ruote di legno marcito trainanti carri debordanti di spezie, di grano, di juta, di acqua, solcavano l’acciotolato malmesso a ridosso del marciapiede, scricchiolando come i noccioli delle olive al frantoio.
La moltitudine delle persone e la vitalità cittadina sembravano concentrate nella ciudadela antica comunque, circondata e confinante più ad est con i quartieri dormitorio di Calle San Augustin, e con gli alberghi di extra lusso che sembravano costituire realtà parallele, protette da alte palizzate in bambù e palme da cocco.
Il Fortino di San Cristobal, a picco sull’oceano, offriva la vista più nitida dell’intero complesso; dalla torretta centrale si poteva vedere il mercato del pesce in Plazoleta San Juan, che costituiva una minuta penisola affacciata sulla baia antistante. Qui i gabbiani sembravano letteralmente impazziti, li si vedeva sfrecciare da un punto all’altro, talvolta in picchiata, nella speranza di racimolare qualcosa dalle cassette in legno grezzo buttate a terra, e non era raro scorgere la collisione con qualche passante, che cadeva a terra imprecando.
Si potevano cogliere gli imponenti palazzi signorili di un bianco accecante in Calle Fortaleza, e si poteva notare l’immancabile contrasto con le pareti delle povere case colorate di cui erano famosi soltanto i tetti dai mille diversi colori, ritratti dai fotografi di National geographic, famosi ed inconsapevoli in un muto accordo consumistico. Ma i raggi del sole filtravano timidi dall’intersecarsi di quelle costruzioni argillose, tanto, troppo vicine, che non potevano sopportare le intemperie, che non proteggevano ma custodivano, che avevano pareti bucherellate dal tempo.
Tuttavia, se da una parte un tale insieme poliedrico di realtà lasciava sgomenti, dall’altra sembrava essere messo lì a ricordare il brulicare della vita di un sottobosco segreto, nascosto dalle foglie cadute dai rami degli alberi bagnati di rugiada, in un sodalizio di contrasti sacro e profano, ma nella sua interezza, vivo.
Quella mattina si poteva udire il rumore delle gocce di condensa che si riversavano in una pozza d’acqua stagnante, statica al centro della stradina in terra battuta, priva di scoli o di condutture di qualunque tipo. Odore di terra, di grano essiccato al sole e di sterco, tutto mescolato insieme in un connubio campestre, in grado di riportare alla mente scene d’altri tempi, di altri anni, ma sempre appartenenti al presente.
Tutto deve cambiare perché nulla cambi.
Tomasi di Lampedusa aveva avuto un guizzo di genio senza immaginare quanto vere avrebbero potuto essere le sue parole applicate a questa terra secca, che sembrava non subire cambiamenti con il passare degli anni, immutevole e vergine, terra americana solo sulla cartina, terra di storie disperate, terra di luce e di ombra, terra povera come altre terre, terra di mezzo: Porto Rico.
-mamaaaaaaaaa, mamaaaaaa
Da una finestra che sembrava ritagliata su di una parete azzurro acceso in Calle Pelayo, proveniva un richiamo che sembrava un lamento corredato da un acceso allarme nella voce sottile.
-mama, mamaaaa dove sei?!
-qui, sono qui! Chi è che mi chiama?!
-paulina
-que pasa rosa mia? Perché urli così?
-mama, ho sentito piangere giù dalla scala, ho provato a scendere ma non vedo!
-piangere?! Io non ho sentito nulla!
-mama c’è qualcosa che sta piangendo giù dalla scala ti dico!
-e io non lo sento! Ed ho le orecchie ben più pulite delle tue credo, eh! Mi pequeña, sarà un gatto che..
-ma mama, sono sicura..
-ora mama deve lavorare, vai a giocare con gli altri. Carolina! Francisco! Venite aquì, andate a giocare con Paulina, andate!
Un vestito leggero dai toni caldi e cangianti avvolgeva quella donna giunonica dalla carnagione eburnea, liscia e calda come una pietra calcarea. I lunghi capelli corvini erano avvolti da un velo intrecciato su se stesso a formare un turbante di un arancione così acceso che sembrava illuminare la stanza senza l’ausilio della nostra stella.
Grossi pendenti bronzei ai lobi, occhi profondi e caviglie gonfie erano il risultato di quarant’anni di pulizie alla casa del padrone, all’angolo tra Calle San Francisco e Plaza Colòn, nel quartiere residenziale della città.
Mama non era il suo vero nome, ma l’appellativo familiare ed affettuoso che le avevano dato i suoi bambini, gli ospiti de “El Nido De Los Pettirrojos”, una casa piccola e piena di buchi come le altre, che faceva da riparo ai meno fortunati, a coloro che non sapevano dove andare, ai senza famiglia, ai senza niente in mezzo al niente.
Non aveva figli Mama, aveva sedici pettirossi da sfamare e da accudire come suoi, come se quella notte del ’64 non avesse perso la possibilità di averne a causa di un vecchio ubriaco, che insieme alle sue sventure aveva annegato nell’ultimo goccio di Tequila anche i sogni e le possibilità di quella donna dal sorriso grande e dagli occhi a mandorla.
Era a questo che pensava, mentre assorta fissava il mare dalla finestra della piccola sala, in attesa dell’orario per andare a lavorare.
C’erano molte, moltissime cose da fare a casa del padrone e ce n’erano altrettante che avrebbe dovuto sistemare al rifugio; era esausta ma non vinta da quella realtà che le era sembrata davvero troppo crudele a volte.
Molti erano stati trovati per la strada. Li avevano portati lì in attesa che venissero a riprenderli, ma gli anni passavano e loro crescevano fra quelle mura segnate dal tempo, crescevano insieme e venivano aiutati dai più grandi che aiutavano Mama, unico riferimento quando la consapevolezza che non sarebbe più arrivato nessuno a reclamare un piccolo mulatto si faceva strada, ed infieriva il suo colpo senza pietà. Altri i genitori li avevano conosciuti, e forse era anche peggio, perché il ricordo pesava di più dell’inconsapevolezza, alle volte.
Come si può desiderare qualcosa di cui si ignora l’esistenza?
Cosa facesse più o meno male Mama non lo sapeva, ma non lo reputava importante comunque, perché voleva e doveva pensare a loro, perché era la loro unica certezza, questo solo le interessava.
Pensava anche a questo Mama mentre ormai l’orario era arrivato, e si apprestava ad uscire, con un cesto di canapa sottobraccio per passare al mercato lungo il tragitto, per fare scorte di radici, e di vento se c’era.
-mamaaaaaaaaaaaaaa, mamaaaaaaaaaaaaa
Ancora più squillante e nitida la voce di Paulina echeggiava dall’altro lato della casa, facendo persino destare un paio di cani che avevano preso ad abbaiare come forsennati.
-paulina! Que pasa santo cielo! Perché urli così?
-mama, corri a vedere! Mamaaaaaaaaaaa
-ma cosa…
1992
-n-non riesco a fare i-il carlino..
-ma quale carlino… si dice “gradino”!
-Michael… mi devi a..
-si, questo lo vedo, ci impiegheremo tutta la notte a salire queste maledette scale altrimenti! Dammi la mano.
La sostenne facendole scivolare il braccio dietro alla schiena ed ancorando la mano aperta all’altra estremità del fianco. Guidandola lungo la scalinata granitica per forma e colore che li innalzava sull’immenso parco illuminato dalla luna, non potè fare a meno di voltarsi per ammirare un istante la sua immensa proprietà.
–a domani, disse fra sé e l’entità semi-astratta che si era immaginato.
-Michael..
-dimmi
-come spieghi ad un cieco cosa sono i colori?
-ma..che domanda è?..
-dimmelo
-non lo so Nat, che domanda mi fai ora..
-sei arrabbiato?
-no
-quando dici no vuol dire si
-pensiamo ad entrare in casa Natalie, ti prego, sono distrutto
Una farfalla meccanica sovrastava l’aiuola che incorniciava l’orologio bianco; i numeri romani, le lancette lunghe, segnavano il tempo lente e gravi, come quelle di una cattedrale.
Il fresco della sera portava un odore di gelsomino così intenso che penetrava i mattoni ed il vetro, fin dentro all’abitazione. Il legno profumava di legno ed i fiori sul tavolo della sala sembravano appena recisi, meravigliosi in un ultimo sussulto di vita.
Il canto del cigno.
-riesci a stare in piedi un attimo? Chiudo la porta..
Le sfilò il braccio da dietro la schiena e lei perse l’unico riferimento per rimanere ancorata al terreno e con esso l’equilibrio. Chiuse la porta e quando si girò la vide obbedire alla gravità con una velocità quasi innaturale, e fare un bel tuffo sul parquet reso ancora più scuro dall’assenza di illuminazione.
Un sussulto, un brivido sgradevole lungo la schiena. Paura.
-Natalie! Ti sei fatta male? Mioddio..
Si chinò su di lei e fece per sollevarla.
-no, Michael, non muovermi, i-io non sto bene, non riesco a muovermi..
-dio mio..che è successo? Dove hai sbattuto??
L’allarme nella voce non faceva che da pallida cornice al pallore sul volto tirato, teso.
-Natalie, reggiti a me, ora ti aiuto..
Pensava al peggio, forse aveva sbattuto la testa, forse doveva chiamare immediatamente in 911, dopo tutto aveva anche bevuto. Un momento di esitazione, sentì il diaframma alzarsi ed abbassarsi con ritmo sincopato, erano singhiozzi forse?
No, stava semplicemente ridendo, divincolandosi dalla sua presa.
-Michael.. è troooppo bello, devi venire anche tu! Devi seguirmi in questo mare di… frassino.. ahah..
Rideva e rideva agitando le gambe. Per le scarpe non c’era più speranza, erano andate perse alla festa. Non aveva bevuto molto, ma non reggeva. Lui lo sapeva e le aveva raccomandato più volte di bere solo aranciata –fai come me- le aveva detto, -non ci sono effetti collaterali e ci si diverte di più! –ma che noia che sei, sembri mio nonno quando fai il bravo ragazzo! Gli aveva risposto.
Ora la guardava cercando il più possibile di apparire arrabbiato, e lo era in fondo, perché sebbene non amasse particolarmente quel genere di serate mondane, aveva dovuto lasciare senza preavviso l’immenso giardino della villa di Brooke, la sua Brooke. Aveva riunito gli amici più cari, voleva una festa a sorpresa, voleva un cigno intagliato nel ghiaccio, voleva i fuochi d’artificio in occasione del suo compleanno. Aveva organizzato tutto per lui. Michael. Il suo re.
–un giorno speciale per festeggiare una persona speciale- gli aveva detto con occhi lucidi e labbra rosse, profumate del suo preferito, Moët et Chandon riserva, un aroma ed un sapore che non avevano tardato a diventare più nitidi nel bacio viscoso che di lì ad un soffio lo aveva inondato, con la stessa veemenza del Nilo in piena sulle pianure aride dell’Africa. E lì le sue labbra avevano trovato il giusto salubre ristoro dopo tanta siccità.
-Nat ma che fai? Ti rendi conto che mi hai fatto prendere un accidente?! Credevo ti fossi fatta male!
-non è colpa mia, non è colpa mia, non è colpa mia se sei un creduloneee..
Sembrava una cantilena, spezzata soltanto dalle risate di lei, che non riusciva assolutamente a trattenersi. Lo guardava sdraiata sul pavimento, e da quella prospettiva era ancora più ridicolo: se ne stava in piedi davanti a lei stizzito, con le mani sui fianchi, l’espressione severa, la camicia blu notte ormai aperta e completamente fuoriuscita dai pantaloni scuri che lasciava scoperta una maglietta bianca con lo scollo a v.
I riccioli indomati e liberi gli cadevano sulle spalle, le labbra semidischiuse lasciavano uscire qualche ansito di fatica per averla dovuta trasportare quasi di peso lungo quella scalinata che non finiva mai. Sulla fronte qualche perla incolore ed una ruga di espressione che gli usciva solo quando era fortemente infastidito. O in collera, anche se lei quel sentimento non lo aveva mai visto sul volto di Michael. Fino a quel momento.
Bellissimo.
-ora andiamo di sopra, non vorrai dormire qui sul pavimento
Sospirò con rassegnazione e tono secco e piatto
-mmmmmm può darsi, perché no..dai vieni vicino a me..
Cercò di afferrargli una caviglia ma lui fu più veloce, ed in un balzo fu fuori dalla sua portata.
-su forza, poche storie..
-che palle che sei.. perché non andiamo a farci una passeggiata nel parco.. daiiiiiiiiii
-nelle tue condizioni? Non credo proprio.. la miglior cosa che possiamo fare ora è andare a letto, anche perché prevedo che per arrivarci ci impiegheremo altri dieci minuti..
-che palle di uomo! Non si può mai fare niente, niente bere, niente fumare, niente divertirsi.. hai 34 anni e ne dimostri 80!
-e tu chi saresti per dirmi queste cose? Una ragazzina viziata che non ha la minima idea di cosa voglia dire lavorare! Io lavoro da mattina a sera, ecco perché non ho tempo per divertirmi.
-ora non iniziare con la menata dell’infanzia perché la so a memoria eh..
-farò finta di non aver sentito, in fondo non hai il controllo di te stessa in questo momento e..
-Michael
-si?
-ora la testa mi gira più forte di prima, credo di dover vomitare
-si certo, come prima, guarda che non mi freghi
-stavolta è vero, ti prego, aiutami
Vinto da quell’espressione sofferente e contratta si chinò di nuovo verso il basso ad aiutarla, in qualche modo, a sollevarsi dal pavimento scuro che incorniciava quella figura snella, perfettamente avvolta dall’abitino bianco corto che metteva in rilievo ogni piccola curva del corpo liscio e tonico dalla pelle caffelatte.
Un istante di esitazione, poi colse il momento opportuno per attirarlo a sé, per allacciare le gambe attorno ai suoi polpacci e, una volta percepita l’assenza di bilanciamento del peso, afferrarlo per le spalle, facendolo letteralmente planare su di sé.
-Natalie! Ma..ma che fai! Ahio!
L’espressione indignata alla vista di lei che non riusciva a respirare dal ridere, si contorceva come un serpente arpionato da una fiocina, incapace di darsi pace, di articolare verbo o di fare qualunque altra azione.
-due volte, non ci posso credere Mike, ti sei fatto fregare due volte consecutivamente da una mocciosa… da non credere...
Quelle parole risuonarono fastidiose come lame calde nei padiglioni. Era insopportabile in effetti, che uno come lui si fosse fatto fregare in agilità da qualcun altro, per di più da quella insolente, che stasera non aveva fatto che infastidirlo in maniera così..
Non terminò il pensiero che le fu addosso.
-ah si? Ora lo vedremo se mi sono fatto fregare, lo vedremo!
Disse così e le immobilizzò entrambe le braccia sopra alla testa trattenendole per i polsi, mentre con l’altra mano iniziò a prodigarsi in una delle cose che a suo giudizio gli riuscivano meglio: il solletico. Natalie urlava e rideva come un’ossessa e lui non accennava a smettere, non ci pensava proprio, anzi, ad ogni lamento ulteriore lui rincarava la dose, in una lenta tortura fatta di mute suppliche negli occhi appannati dal ridere.
-ora basta, mi sono vendicato abbastanza per stasera
Mollò la presa e si mise a sedere sul pavimento, felice di essersi sfogato, almeno così.
-hai ragione, hai proprio vinto, con il solletico non ti batte nessuno… tranne meeeeeeeeeeeeeeee
E, lanciato l’ultimo tonante urlo di battaglia, gli si scagliò alle spalle come un puma a caccia di una preda dopo giorni di digiuno, con la stessa forza.
-è sleale, è sleale, non..
Cercava di liberarsi di quel peso che gli impediva di muoversi, a cavalcioni su di lui, che non poteva trovare appigli in una posizione diversa da quella supina, completamente sottomesso da quella piccola dea vestita di bianco che rispondeva al solletico subìto poco prima con la stessa incredibile perizia e decisione del suo aggressore.
-basta, per favore, Nat..
-domanda perdono ed ammetti la mia supremazia assoluta
-mai, maaaai
-e allora..
-ok, basta, ti prego, mi fa male la schiena, ti prego Natalie
-supplica la mia pietà se vuoi salva la vita
-pietà. Ora basta però, ti prego
-ok, per stavolta ti libero
Sollevò lo sguardo e si rese conto che avevano percorso quasi tutta l’area del salone rotolandosi e giocando negli ultimi dieci minuti, tanto da trovarsi all’imbocco delle scale anziché all’ingresso.
Ma non fu l’unica cosa di cui si rese conto. Era ancora sopra di lui, a cavalcioni, il vestito sollevato sulle cosce lucide e tornite, una spallina abbassata, ansiti di fatica e tentativi di ripristinare un ritmo sinusale accettabile, i capelli prima ordinati e raccolti in una coda alta ora piovevano liberi oltre le spalle, come fili di petrolio appena cristallizzati, ricoprendo anche parte delle braccia sul lato destro, mentre il petto si alzava e si abbassava seguendo un ritmo imposto. Imbarazzo, ecco cos’era. Imbarazzo. Non era mai successo, non l’aveva mai guardata così, lei era solo una ragazzina e l’aveva vista crescere e… tutto ciò non stava costituendo un grosso problema tuttavia, finchè non vide la sua mano eludere ogni tentativo di controllo da parte del cervello e andarsi a posare sulla linea della vita, fasciata dal raso del vestito, ormai tutto stropicciato. Natalie non potè non notare la finezza inaspettata di quel gesto, così impercettibile e profondo nel contempo. Un istante in cui gli occhi penetrarono gli uni negli altri in un incontro elettrostatico e denso.
-ora basta, alziamoci dai
Con un movimento delicato la fece scendere. Si voltò a guardarla. Gli occhi nei suoi, con un’intensità quasi pretenziosa nelle iridi, inquisizione, o innocente curiosità forse, tanto bastò per provocargli un fremito generalizzato per la paura che avesse potuto captare anche solo una parte dei suoi pensieri.
-ora potrai dire di esserti divertito almeno un po’ stasera, e non certo per merito tuo!
Fu come se gli fosse andata in soccorso, spezzando quel momento di imbarazzo per quello sprazzo di violenta intimità, imbarazzo che si leggeva furente nei suoi occhi volti al pavimento, imbarazzo che invece era totalmente assente in quelli di lei, più scuri della notte e puliti come il cielo sopra le nuvole.
-mi sarei divertito lo stesso se non avessi dovuto abbandonare la festa per il mio compleanno per colpa di Qualcuno…
-io non ho costretto proprio nessuno, se tu che sei voluto venire via!
-si certo, volevo evitare che dessi spettacolo!
-mi stavo solo divertendo Mike, e dovresti farlo anche tu ogni tanto, invece di startene sempre impalato con la tua Brooke, sembrate due mummie! Tutankamon e Nefertari direttamente dal 4000 a.c.!
-Brooke è una donna di classe, e non ha bisogno di strafare, né di mettersi in evidenza, lei è, è..
-una noia?
-no Natalie, lei è perfetta così
Preferì mettere fine a quello strano battibecco con il tono più astioso e l’espressione più piccata di cui fosse capace. Nemmeno lui sapeva perché, e senza dubbio si era reso conto di quell’esagerazione nei modi, che stonava fortemente con quel momento di pace e spensieratezza fuori programma. E, cosa ancora più evidente, stonava con gli enormi occhi di lei, che nonostante tutto lo guardavano ancora sorridenti, poiché per nulla al mondo gli avrebbe dato un assaggio di quello che in realtà provava. Per nulla al mondo.
Lo guardò imbronciata, poi gli sguardi si incastrarono per un piccolo istante in cui il tempo si fermò. Voleva essere arrabbiato, doveva esserlo, per tutto, per come erano andate le cose quella sera, per se stesso e per i pensieri fuori da ogni ragionevole logica di poco prima e…
E, inaspettatamente, la fila dei suoi denti perfetti fece capolino dalle labbra ambrate, in un guizzo a tradimento del suo stesso corpo che non sapeva resistere a quegli immensi occhi scuri di bambina, così innocenti e disincantati allo stesso tempo. Così veri.
Aveva dovuto salutare i presenti di malavoglia ed in gran fretta perché quella piccola peste completamente alticcia aveva iniziato a dare lo spettacolo più imbarazzante (e divertente) che avesse visto: in piedi al centro di un’aiuola colma di tulipani si era improvvisata la Cindy Lauper degli anni 90 in un’improbabile “girls just wanna have fun” cantata di petto e –secondo le sue stime- con tutto il fiato che aveva in corpo.
Tutti sorridevano guardandola, alcuni si univano all’improbabile cornice abbozzando qualche maldestro passo di danza, altri cantando a loro volta in preda ai fumi dell’alcool. Era solo una bella ragazza che si divertiva, -che c’è di male?- gli aveva chiesto lei con il solo movimento delle labbra mentre lui la fulminava con lo sguardo, da lontano, con una Brooke inviperita a braccetto.
–dovevi proprio portare quella ragazzina anche stasera? Non sa controllarsi non vedi? Di questo passo rovinerà la festa!
–piccola, calmati, si sta solo divertendo un po’ dai….- aveva cercato di sdrammatizzare lui.
–OHHHHHH GIRLS JUST WANNA HAVE FUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUN!!
Scatenata e libera come forse non aveva mai visto qualcuno.
–ok, ora è meglio che andiamo, il concerto mono-canzone per stasera è terminato- le si era avvicinato e l’aveva attirata sé con una leggera trazione del braccio e, fra le proteste del “pubblico”, l’aveva condotta verso la limo parcheggiata vicino al cancello ovest dell’immensa abitazione della sua ragazza delusa.
-ogni tanto è bello perdere il controllo, sai? Senza pensieri. La libertà è un bene prezioso, e tu che hai avuto il privilegio di averla gratis la butti così.
Cercò di darsi un tono e soprattutto di farsi scivolare addosso quell’apprezzamento a Brooke, forse fin troppo zelante.
-l’unico privilegio che ho è quello di andarmene a dormire fra poco evitando di ascoltare i tuoi deliri notturni. Vieni.
La aiutò per l’ennesima volta a sollevarsi quella sera, e l’accompagnò nella sua camera. La fece sdraiare sulle morbide lenzuola di lino, accompagnandone la testa con la mano fino al cuscino, in un gesto amorevole e paterno; lei non protestò stavolta, ma si lasciò cullare da quelle note di sandalo che emanava il collo di lui, lievemente umido per lo sforzo appena compiuto.
Si sedette accanto a lei, sul bordo del letto e con un dito le tracciò il profilo del volto, in un impercettibile cammino senza inizio e senza forma. Natalie ora non poteva più percepire la sua finezza, ormai prigioniera di un dolce Morfeo che l’aveva portata molto lontana da lì.
Tutto era assurdo con Natalie, lei era assurda e di conseguenza tutto quello che poteva anche solo lontanamente riguardarla, compresa quell’amicizia che avevano, così difficile da classificare, da definire.
Si grattò il capo pensieroso e si diresse verso la porta in mogano, l’avrebbe accompagnata piano verso lo stipite, facendo attenzione a non fare rumore, per non svegliarla.
-non me lo vuoi proprio dire?
Lo fece sussultare, disintegrando definitivamente la convinzione rassicurante che stesse dormendo. Si voltò nel buio e la vide immobile nel letto, con un solo occhio aperto ed il viso da bambina. Lo guardava cercando di sconfiggere quel fastidioso senso di stanchezza che la stava avvolgendo, solo una risposta, voleva solo una risposta e non ci avrebbe mai rinunciato.
-che cosa non voglio dirti?
-come si fa a spiegare ad un cieco cos’è un colore.
-non si può spiegare che cos’è il colore, lo si può solo percepire
Si riavvicinò lentamente a quel letto a baldacchino cercando di comprendere il motivo di certe domande. Natalie era davvero la diciassettenne più strana che avesse conosciuto.
-quindi un cieco non saprà mai di che colore è l’erba, o il tramonto, o un girasole?
Il viso oscurato da un alone di tristezza fece rabbuiare anche lui, anche per l’amara verità che le aveva dovuto confessare. Pensò a quanto brutto dovesse essere il non poter vedere il modo in cui la luce riflette sulle tante cose che compongono la realtà, pensò al buio totale ed alla tristezza che da ciò potesse derivare.
-no, un cieco dalla nascita non saprà mai cos’è un colore Natalie, ma nemmeno ne soffrirà, poiché non avrà mai visto altro che un’ombra oscura.
Come si fa a desiderare qualcosa di cui si ignora l’esistenza?
-non si può
-esatto, non si può. Ora dormi che è tardissimo
-Michael
-si?
-grazie..
-di cosa?
-grazie e basta, non rompere con le tue solite domande riflessive!
-ma veramente se tu che… ok, lasciamo stare..
Si diresse alla porta nuovamente, scuotendo il capo e senza riuscire a ricacciare in gola un’espressione di profonda frustrazione, per come si era fatto aggirare ancora una volta da quell’insolente, invadente, sfacciata ragaz..
-e scusa se ti ho rovinato la festa
Si voltò a guardarla per la terza volta nella penombra, letteralmente allibito per come quelle poche parole lo avessero totalmente destabilizzato, di nuovo. Non riusciva a formulare un pensiero, una considerazione, non arrivava alla fine che, inaspettatamente ed improvvisamente arrivava lei a spazzare via tutto.
-no.. era una noia in fin dei conti..
Non riusciva ad essere arrabbiato, non ci riusciva. E non riusciva a credere di aver pronunciato quelle sillabe per davvero, ma la sua bocca lo aveva fatto, senza minimamente attraversare la dogana di cosa è bene soltanto pensare. Se Brooke lo avesse sentito parlare così non gli avrebbe rivolto la parola per mesi, di sicuro. Cercò di sentirsi in colpa per questo ma la sua bocca le sorrise, e la sua mente pensò a quanto fosse irrimediabilmente piccola, in fondo.
Si era addormentata per davvero, ora, lo capì dal respiro rallentato, dato che nel buio della stanza ben poco si poteva vedere. –domani devo dirglielo, domani mattina appena si sveglia glielo dico, ora dorme, non la sveglio. Non sapeva se stava cercando una scusa per non dirglielo o se stesse semplicemente temporeggiando, non lo sapeva e non lo voleva sapere. Un altro sospiro di frustrazione lo fece voltare e dirigersi all’uscita, finalmente.
Uscì dalla stanza buttandosi insieme alla porta quella giornata alle spalle.
1975
Le onde dell’oceano si infrangevano sulla scogliera e gli uccelli del mattino avevano già iniziato il loro canto, il vento soffiava piano creando un delicato connubio dei due suoni, uniti a formare l’immagine della ciudadela de San Juan, nel suo ritratto più affascinante, di mattina presto.
Il vociare indistinto degli abitanti già sulla buona strada verso le loro occupazioni si sollevava nel mentre dalla zona abitata; piedi nudi in movimento, zampe di capra, di asino, ruote di legno marcito trainanti carri debordanti di spezie, di grano, di juta, di acqua, solcavano l’acciotolato malmesso a ridosso del marciapiede, scricchiolando come i noccioli delle olive al frantoio.
La moltitudine delle persone e la vitalità cittadina sembravano concentrate nella ciudadela antica comunque, circondata e confinante più ad est con i quartieri dormitorio di Calle San Augustin, e con gli alberghi di extra lusso che sembravano costituire realtà parallele, protette da alte palizzate in bambù e palme da cocco.
Il Fortino di San Cristobal, a picco sull’oceano, offriva la vista più nitida dell’intero complesso; dalla torretta centrale si poteva vedere il mercato del pesce in Plazoleta San Juan, che costituiva una minuta penisola affacciata sulla baia antistante. Qui i gabbiani sembravano letteralmente impazziti, li si vedeva sfrecciare da un punto all’altro, talvolta in picchiata, nella speranza di racimolare qualcosa dalle cassette in legno grezzo buttate a terra, e non era raro scorgere la collisione con qualche passante, che cadeva a terra imprecando.
Si potevano cogliere gli imponenti palazzi signorili di un bianco accecante in Calle Fortaleza, e si poteva notare l’immancabile contrasto con le pareti delle povere case colorate di cui erano famosi soltanto i tetti dai mille diversi colori, ritratti dai fotografi di National geographic, famosi ed inconsapevoli in un muto accordo consumistico. Ma i raggi del sole filtravano timidi dall’intersecarsi di quelle costruzioni argillose, tanto, troppo vicine, che non potevano sopportare le intemperie, che non proteggevano ma custodivano, che avevano pareti bucherellate dal tempo.
Tuttavia, se da una parte un tale insieme poliedrico di realtà lasciava sgomenti, dall’altra sembrava essere messo lì a ricordare il brulicare della vita di un sottobosco segreto, nascosto dalle foglie cadute dai rami degli alberi bagnati di rugiada, in un sodalizio di contrasti sacro e profano, ma nella sua interezza, vivo.
Quella mattina si poteva udire il rumore delle gocce di condensa che si riversavano in una pozza d’acqua stagnante, statica al centro della stradina in terra battuta, priva di scoli o di condutture di qualunque tipo. Odore di terra, di grano essiccato al sole e di sterco, tutto mescolato insieme in un connubio campestre, in grado di riportare alla mente scene d’altri tempi, di altri anni, ma sempre appartenenti al presente.
Tutto deve cambiare perché nulla cambi.
Tomasi di Lampedusa aveva avuto un guizzo di genio senza immaginare quanto vere avrebbero potuto essere le sue parole applicate a questa terra secca, che sembrava non subire cambiamenti con il passare degli anni, immutevole e vergine, terra americana solo sulla cartina, terra di storie disperate, terra di luce e di ombra, terra povera come altre terre, terra di mezzo: Porto Rico.
-mamaaaaaaaaa, mamaaaaaa
Da una finestra che sembrava ritagliata su di una parete azzurro acceso in Calle Pelayo, proveniva un richiamo che sembrava un lamento corredato da un acceso allarme nella voce sottile.
-mama, mamaaaa dove sei?!
-qui, sono qui! Chi è che mi chiama?!
-paulina
-que pasa rosa mia? Perché urli così?
-mama, ho sentito piangere giù dalla scala, ho provato a scendere ma non vedo!
-piangere?! Io non ho sentito nulla!
-mama c’è qualcosa che sta piangendo giù dalla scala ti dico!
-e io non lo sento! Ed ho le orecchie ben più pulite delle tue credo, eh! Mi pequeña, sarà un gatto che..
-ma mama, sono sicura..
-ora mama deve lavorare, vai a giocare con gli altri. Carolina! Francisco! Venite aquì, andate a giocare con Paulina, andate!
Un vestito leggero dai toni caldi e cangianti avvolgeva quella donna giunonica dalla carnagione eburnea, liscia e calda come una pietra calcarea. I lunghi capelli corvini erano avvolti da un velo intrecciato su se stesso a formare un turbante di un arancione così acceso che sembrava illuminare la stanza senza l’ausilio della nostra stella.
Grossi pendenti bronzei ai lobi, occhi profondi e caviglie gonfie erano il risultato di quarant’anni di pulizie alla casa del padrone, all’angolo tra Calle San Francisco e Plaza Colòn, nel quartiere residenziale della città.
Mama non era il suo vero nome, ma l’appellativo familiare ed affettuoso che le avevano dato i suoi bambini, gli ospiti de “El Nido De Los Pettirrojos”, una casa piccola e piena di buchi come le altre, che faceva da riparo ai meno fortunati, a coloro che non sapevano dove andare, ai senza famiglia, ai senza niente in mezzo al niente.
Non aveva figli Mama, aveva sedici pettirossi da sfamare e da accudire come suoi, come se quella notte del ’64 non avesse perso la possibilità di averne a causa di un vecchio ubriaco, che insieme alle sue sventure aveva annegato nell’ultimo goccio di Tequila anche i sogni e le possibilità di quella donna dal sorriso grande e dagli occhi a mandorla.
Era a questo che pensava, mentre assorta fissava il mare dalla finestra della piccola sala, in attesa dell’orario per andare a lavorare.
C’erano molte, moltissime cose da fare a casa del padrone e ce n’erano altrettante che avrebbe dovuto sistemare al rifugio; era esausta ma non vinta da quella realtà che le era sembrata davvero troppo crudele a volte.
Molti erano stati trovati per la strada. Li avevano portati lì in attesa che venissero a riprenderli, ma gli anni passavano e loro crescevano fra quelle mura segnate dal tempo, crescevano insieme e venivano aiutati dai più grandi che aiutavano Mama, unico riferimento quando la consapevolezza che non sarebbe più arrivato nessuno a reclamare un piccolo mulatto si faceva strada, ed infieriva il suo colpo senza pietà. Altri i genitori li avevano conosciuti, e forse era anche peggio, perché il ricordo pesava di più dell’inconsapevolezza, alle volte.
Come si può desiderare qualcosa di cui si ignora l’esistenza?
Cosa facesse più o meno male Mama non lo sapeva, ma non lo reputava importante comunque, perché voleva e doveva pensare a loro, perché era la loro unica certezza, questo solo le interessava.
Pensava anche a questo Mama mentre ormai l’orario era arrivato, e si apprestava ad uscire, con un cesto di canapa sottobraccio per passare al mercato lungo il tragitto, per fare scorte di radici, e di vento se c’era.
-mamaaaaaaaaaaaaaa, mamaaaaaaaaaaaaa
Ancora più squillante e nitida la voce di Paulina echeggiava dall’altro lato della casa, facendo persino destare un paio di cani che avevano preso ad abbaiare come forsennati.
-paulina! Que pasa santo cielo! Perché urli così?
-mama, corri a vedere! Mamaaaaaaaaaaa
-ma cosa…
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CAPITOLO 2
1975
Era un cestino molto simile a quello che aveva deciso di portare con sé per andare al mercato. Solo che all’interno non c’erano frutti, radici o vento. All’interno c’era una cosa viva, lo si poteva sentire perché respirava, nel buio di quel sottoscala alla periferia estrema della ciudadela di San Juan, nell’isola di Puerto Rico, all’estremo sud dell’ultima costa americana. La Florida.
Ebbene, all’interno di tale agglomerato ai margini, era pur possibile essere ancora più reietti ed esclusi, era possibile essere ulteriormente scartati, era possibile trovarsi in un cestino di vimini, in un sottoscala di Calle Pelayo.
Tuttavia un tale ritrovamento non destò lo stupore che ci si potrebbe aspettare, nemmeno la metà del nostro almeno, perché Mama era una donna del mondo, del suo mondo, e sapeva benissimo a cosa andava incontro ogni mattina quando si svegliava, quando si preparava per il nuovo giorno. Era come un tacito patto fra lei e il destino –lei ci credeva molto nel destino- non lo aveva e non lo avrebbe mai sfidato, per nulla al mondo; avrebbe accettato ogni incombenza, ogni fardello, avrebbe imparato da ogni errore, si sarebbe rialzata senza lamentarsi dei lividi.
In cambio lui le avrebbe regalato la certezza di vincere contro il male oscuro di quella solitudine contenuta nella foschia umida che avvolgeva ogni mattino del suo cuore.
Lui, signore indomato e beffardo, destino, fato, comunque lo si voglia chiamare, ogni tanto sapeva essere riconoscente ai devoti, e li graziava di un semplice gesto, concedendo una briciola che sarebbe dovuta bastare per un’intera vita, ma così saporita e totalizzante per coloro che non avevano in bocca alcun sapore.
Così era. Ogni pettirosso smarrito, non desiderato, dimenticato arrivava a lei. Solo di questo voleva gioire Mama, che arrivassero alla sua casa, che potesse accoglierli, che potesse essere la loro Mama, e che quella costruzione pericolante potesse essere il loro nido.
-Paulina, rosa mia, corri a chiamare Glauco di sopra, vai!
-hai visto mama, non mi credevi tu!
-ora corri bonita, corri su!
La sollevò da quel cestino che, seppur di dimensioni contenute, era troppo ampio per un esserino così piccolo. La sollevò da quel punto scuro e la portò alla luce. Era piccola, molto piccola, era una bambina, e Mama non ebbe bisogno di conferme, quegli abissi più neri del colore che riveste il nostro universo erano di una bambina.
1992
Il sole che filtrava dalle vetrate smerigliate creando fasci geometrici a decorare la monotonia del parquet scuro si posò anche sul letto, creando una piacevole interferenza con il buio del dormiveglia. Nel tepore creato dalle coperte leggere si riusciva a sognare anche da appena svegli, in un tentativo di prolungare quel dolce riposo appena svanito, pensando al nuovo giorno, alle cose da fare, nell’attesa della risoluzione necessaria per uscire dal bozzolo e passare all’azione.
Appoggiata al guanciale la chioma corvina schivava di poco il fascio luminoso, e pareva ancora spenta, cornice di una mente ancora quiescente, che invece, contro ogni ragionevole sospetto era già laboriosa fra il frusciare della stoffa.
mmmmm..Come mi sono divertita ieri sera, tutta quella gente, ma quanto ho ballato?! E quelli che ballavano peggio di me..ma chi erano alla fine?? Mah..chissenefrega, erano fuori quanto me ed in certi casi è l’unica cosa che conta. E meno male che ho mandato giù un po’ di nettare degli dei, altrimenti che noia mortale.. e anche Michael si stava rompendo, non mi venga a dire cazzate! E’ strano in questo periodo, lo vedo da come mi guarda, c’è qualcosa che mi deve dire ma non ci riesce. Il solito tacchino, quando succede qualcosa entra in paranoia cazzo. Ormai lo conosco. Ci vorrà del tempo prima di sapere cosa c’è, lo so..e allora come dicono i cinesi: siediti sulla riva del fiume e aspetta, vedrai passare il cadavere del tuo nemico, presto o tardi. Bè, non è un mio nemico ovviamente, quindi non so quanto possa essere azzeccato ‘sto termine, e se è per questo non è nemmeno cinese.. ahahahaha oddio Michael con gli occhi a mandorla..oddio! Ma ho spento la sveglia nel sonno?!? E’ tardissimo mi devo alzare cazzoooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!
In tutti questi pensieri era immersa Natalie, che si era svegliata prima della sveglia –lei non l’aveva ancora realizzato- in quella mattina di inizio estate. Una lieve emicrania era il fastidioso strascico della serata precedente, i capelli arruffati, il vestitino bianco di raso ancora addosso. Ora ricordava: l’aveva portata Michael di sopra, e non si era permesso di sfilarle l’abito per aiutarla a mettere il pigiama con il quale avrebbe dormito sicuramente più comoda. –mah, che ragazzo strano, mi avrà vista in mutande mille volte, chissà perché ieri sera non mi poteva infilare un pigiama..vallo a capire!
Non prestò molta attenzione a questo dettaglio comunque, pensando che fosse brillo anche il suo amico, a cui piaceva tanto fare il santerellino, e che quindi non fosse stato in grado.
Scese dal letto e, ancora barcollante, si diresse verso la porta del bagno. Ne uscì quindici minuti più tardi, seguita da una densa nube di vapore profumato del sapone per il corpo che era solita usare. Infilò il solito paio di jeans strappati, una t-shirt bianca da yuppie di qualche taglia più grande della sua con la scritta “love is the answer” ed un arcobaleno sullo sfondo, un paio di scarpe da ginnastica tutte rovinate, un velo di mascara ed uscì dalla stanza sbuffando –si ricomincia- disse a se stessa ed inforcò le scale per il piano inferiore. La scuola era finita, ma questo non significava vacanza per Natalie, era più libera ora, e poteva aiutare a tempo pieno sua madre con gli innumerevoli lavori di ogni giorno.
Rumore di passi sulle scale ricoperte dalla moquette cobalto, che tuttavia non riusciva ad attutire del tutto lo spostarsi delle persone che scendevano o salivano. Ma quel passo svelto era inconfondibile alle sue orecchie, era Natalie che andava al lavoro, ne era sicuro. Lei era l’unica in tutta la casa a non avere il minimo riguardo per gli orari e per le persone che eventualmente dormissero più a lungo di lei, ogni mattina era la stessa storia: si alzava alle sei e per le sei e trenta percorreva il corridoio centrale a passo pesante e strascicato, per poi acquisire improvviso entusiasmo proprio all’imbocco della rampa, nella quale si catapultava subito dopo saltellando e scaricando tutto il suo peso molleggiando da un gradino ad un altro.
Le camere degli ospiti comunque erano abbastanza lontane da quella padronale da non farlo considerare un vero e proprio atto di disturbo, a quell’ora inoltre Michael era già sveglio nella maggior parte dei casi. Si trattava piuttosto di una questione di principio, di educazione. Più volte glielo aveva fatto notare, ma non c’era nulla da fare con lei, era più testarda di un mulo quella ragazzina; infatti, dopo averlo liquidato con un “se sei già sveglio perché rompi?”, la mattina seguente riprendeva a fare lo stesso.
Se ne stava appoggiato al vetro che apriva un varco sull’immensa vallata bagnata dalla rugiada del mattino. La camicia rossa in mano, il torace nudo che si lasciava accarezzare dai primi deboli raggi del giorno, gli unici forse che non lo ferivano con la potenza e l’intensità che avrebbero acquisito solo dopo poche ore.
Gli piaceva stare nella luce, quel senso di calore lo completava e lo nutriva, lo curava e lo guariva da quel freddo dentro, da quella foschia umida e densa che avvolgeva ogni mattino del suo cuore.
La pelle liscia aveva toni variabili in base alla zona, anche se ormai una marea lattea aveva inghiottito quasi del tutto il bel colore ambrato di pochi anni prima, delle sue origini che svanivano sempre più.
Una mano grande e nodosa percorreva lunghi tratti giungendo a tale amara constatazione in una carezza angosciata, alla ricerca dell’ennesimo inaspettato mutamento, dell’ennesimo difetto, dell’ennesimo dispetto di quel destino fortunato e crudele di cui subiva l’aura ogni giorno.
Questa è una di quelle giornate in cui non uscirei nemmeno dalla mia stanza. È tutto un caos, la mia vita, il lavoro, la mia testa. A fine mese inizia il tour e sembra non essere pronto nulla, oggi ennesima giornata estenuante di prove, fra un’ora parto per Los Angeles. Se Elliot non si riprende entro una settimana dovrò assumere una nuova assistente. Sempre tutto insieme, sempre tutto nel momento meno opportuno, come se non avessi abbastanza problemi. Sono un fantasma. Sto diventando un fantasma. Stasera devo andare da lei, glielo chiederò. Ho il cuore in gola al solo pensiero, ma lo devo fare, ormai ho deciso. Questa è la mia occasione di essere felice, di non essere più solo, non posso lasciarla sfuggire.
Ma senti quell’elefante di Nat che diavolo di casino sta facendo! Io…non ho parole!
***
Le ore passavano lente mentre il vento aveva spazzato via tutte le nubi rendendo quella macchia azzurra fra una foglia e l’altra ancora più nitida e luminosa. L’aria secca solcava le superfici esterne ed interne dell’immensa abitazione e faceva venire sete, se vi si rimaneva a lungo esposti.
Dopo aver aiutato sua madre a sistemare gli interni ora si trovava in giardino per prendere una rapida quanto salubre boccata d’aria dopo l’intenso lavoro della mattinata, trascorsa ad aspettare la pausa pranzo con impazienza. Non conosceva nemmeno lei il motivo di tanta irrequietezza, solitamente era responsabile e ligia, lavorava senza sosta senza mai pensare ad altro fino alla fine del turno, ma quel giorno tutto era strano, uno strano tarlo nel cervello rendeva tutto motivo di un’impalpabile quanto fastidiosa preoccupazione.
Camminava nel parco e annusava i profumi che arrivavano insieme al vento, apprezzava i colori come se non li avesse mai visti, memore di quella conversazione con Michael della notte appena trascorsa.
Già, Michael. Anche se non riusciva a definirlo con precisione sapeva che quel senso di inquietudine era dovuto a lui, che in quel momento si trovava a chissà quante miglia da lì, che provava le sue canzoni e le coreografie per quello che sarebbe stato il suo secondo tour da solista, ormai imminente. Sarebbero rimasti lontani per chissà quanti mesi, con fusi orari completamente opposti visto che sarebbe stato in Europa, persone diverse avrebbero intersecato i loro percorsi e non ci sarebbero più stati i loro momenti, quelli che li portavano via da tutto il resto, quelli che la facevano sentire viva.
Forse era per questo, forse si. –ma che razza di pensieri da rammollita sto facendo?!- chiuse gli occhi e si mise ad ascoltare la danza delle foglie finché, giunta in prossimità delle finestre delle camere, non si trovò a scrutare in direzione di quell’apertura al secondo piano, un po’ più piccola delle altre, un po’ più nascosta. La finestra della camera di Michael.
Rendendosi conto di quanto quel gesto fosse stato ordinario ed irrazionale le venne da ridere al pensiero di lei che vagava angosciata da questi stupidi sentimenti –ma che mi sta succedendo? Io starò benissimo, ho le mie cose, i miei amici, il mio mondo..
-mi regali qualche biglietto? Ti prego..
-non se ne parla! Sei troppo piccola per venire in mezzo a quella bolgia infernale!
-starai scherzando vero?! Dimmi che non l’hai detto sul serio, dimmi che non sei davvero così jurassico!
-non scherzo affatto, tu non hai la minima idea di quello che succede lì dentro. L’aria irrespirabile, la gente ammassata, il caldo..è proprio fuori discussione che tu venga!
-allora fammi venire nella zona vip, dove si siedono le persone importanti, dopotutto io sono importantissima, se non ci fossi sai che noia!?! No anzi: verrò dietro alle quinte e mi godrò il concerto dal palco eh? Che dici? Così magari do una mano, non so i tecnici, il trucco, che ne so..ci sarà bisogno di due mani in più no?!
Aveva guardato in aria scuotendo la testa, quella ragazza era veramente un bussolotto di dinamite pronto a detonare in ogni momento, con la caratteristica di autorigenerarsi, quindi una volta esplosa con le sue mille idee pazze e senza capo né coda era pronta a farlo di nuovo e ancora e ancora, fino allo stremo delle forze del suo malcapitato interlocutore, che in questo caso era lui.
-Natalia! Non infastidire il Sig. Jackson con le tue chiacchiere! Mi scusi Signore, mia figlia non sa tenere a freno la lingua, la perdoni..
Una donna sulla cinquantina abbondante si era affacciata alla finestra attirata dal vociare nell’atrio. Era la sua governante, una delle persone più fidate di tutto lo staff, professionale ed onesta, non aveva mai chiesto nulla al suo datore di lavoro, nemmeno un giorno di permesso oltre a quelli previsti dal contratto. Aveva lavorato ad Encino prima di seguirlo a Neverland, e nutriva per lei un certo affetto, era diversa dagli altri. Era confortevole, emanava il calore delle mamme.
-no Miranda, non scusarti, è un po’ dispettosa, ma.. devo dire che è davvero divertente averla intorno, davvero!
Con il tono gentile di sempre l’aveva rassicurata, elargendo un sorriso sincero e leggermente divertito anche per la sua espressione apprensiva, che tamburellava fra gli occhi del padrone e quelli della figlia, in cerca di un rimprovero che non era arrivato.
Voltandosi per continuare la sua passeggiata le aveva riservato uno sguardo di intesa molto eloquente, poi nel passarle accanto l’aveva sfiorata con un delicato tocco della mano sulla guancia, e le aveva bisbigliato all’orecchio -adesso mi devi un favore, ragazzina- per poi eclissarsi dietro al suo albero preferito con il sorriso della vittoria sul viso.
Il ricordo affiorato dai meandri di quella mente troppo sovraccarica per quel giorno l’aveva tenuta imbambolata -per non dire prigioniera- un lasso di tempo troppo lungo, seduta su una di quelle panchine di bronzo di fronte allo steccato che delimitava l'immenso belvedere. Il sole non brillava più dietro alle fronde, piuttosto formava un disegno astratto sulla linea dell’orizzonte, come se vi fosse stato incollato con una pressa, e poi immortalato nel suo ultimo meraviglioso sussulto di luce, prima di andare a scomparire dietro alle colline.
***
-allora signorina, la cena è stata di suo gradimento?
-si, passabile diciamo..
-passabile?!? Mioddio ho creato un mostro!!
Rise alla battuta di lui e bagnò di nuovo le labbra in quel calice di cristallo che, nonostante tutto, sembrava opaco di fronte al bagliore dei suoi occhi. Si sentiva osservata, scrutata, studiata, e la cosa non le dava alcun dispiacere, visto che indossava uno degli ultimi abiti di Valentino, non di alta moda ma comunque un bel prÊt-à-porter rosso fuoco, dall’ampio spacco sulla coscia e di un tessuto morbido come il cachemire ma leggero come la seta che sarà valsa quanto un’automobile, e nemmeno fra le più comuni forse. Orecchini brillanti si intravedevano attraverso la folta chioma mossa e fluente, labbra rosse come ciliegie appena colte, decolletè abbinate, chanel n°5. Era perfetta e amava mostrarsi agli altri nella sua mise più sgargiante, ma soprattutto, amava mostrarsi a lui.
-che ne dici di fare due passi? Potremmo andare da me, sai, hanno appena finito il laghetto dei cigni, manca solo una piccola cascata e poi sarà finito..- pensava che così sarebbe stato più facile, il buio, il chiaro di luna, così avrebbe potuto dirle quello che ormai sentiva da tempo, protetto dall’oscurità e da qualsiasi disturbo esterno.
-si, non mi dispiacerebbe, anche se- si avvicinò lentamente al suo orecchio abbassando notevolmente la voce in un tono più suadente che gli procurò come prevedeva un intenso brivido lungo la schiena –non sarebbe male nemmeno andare da me e saltare tutta la parte dei convenevoli, le passeggiate e quant’altro. Michael, ho voglia di te stasera..
Quello che lei aveva definito “convenevole” per lui era un punto focale dell’incontro, una parte essenziale ed insostituibile, la parte dell’attesa, in cui cresce la tensione, la parte in cui si rimane sospesi su uno spicchio di luna nell’inconsapevolezza e nella paura mista ad eccitazione, la miccia che garantiva la riuscita dell’esplosione perfetta. Arrossì violentemente dinnanzi a tale palesata impazienza, ma la reazione che questo suscitò in lui fu del tutto inaspettata perchè la sferzata di desiderio che quelle poche parole gli avevano iniettato nelle vene si irradiò con velocità allarmante ad ogni fibra del suo corpo, fino ad esplodere nel cervello. Mentre ascoltava il liquefarsi di ogni fibra di materia grigia la prese per mano, la fece alzare delicatamente dalla sedia di fronte a lui e la avvicinò alla sua bocca. Si sfiorarono appena e gli parve di morire come dopo essere stati morsi da un serpente che non lascia tregua, e per il cui veleno non esiste antidoto. La violenta vampata di calore che lo aveva sorpreso alle guance dopo la dichiarazione tanto, troppo esplicita di Brooke, ora lasciava spazio ad una forza innata che gli partiva da dentro e che lo spingeva in territori ignoti, dove forse non si era mai spinto con l’immaginazione.
-allora andiamo.
Le sussurrò all’orecchio piano, nello stesso sensualissimo modo usato da lei poco prima. Senza guardarla negli occhi si voltò e tenendola per mano si incamminò allontanandosi dalla terrazza del “the palm” a West Hollywood, con una fretta innaturale per Michael Jackson, guidato soltanto da un istinto irrazionale e selvaggio che stentava a riconoscere lui stesso.
***
Minuti, ore, non sapeva esattamente quanto tempo era passato da quando si era seduta lì quello stesso pomeriggio in preda all’agitazione. Ora riusciva a distinguere il paesaggio circostante solo a tratti, aiutata dal debole luccichio dei lumini ai lati del vialetto. La casa era un’ombra oscura che si innalzava quasi minacciosa nell’oscurità, con i mille occhi giallognoli delle tante finestre con le luci accese.
Si alzò dalla panca massaggiandosi la schiena dai muscoli leggermente atrofizzati, si stiracchiò e prese il cammino del ritorno, quando, sollevando di poco lo sguardo, lo vide affacciato alla piccola finestra, circondato dalla luce della tenue lampada che teneva di solito sul davanzale, utile in tutti quei momenti in cui non riusciva a dormire e voleva perdersi nei sogni ad occhi aperti.
Il cuore iniziò a tamburellarle nel petto per motivi che le risultavano ignoti e lo stomaco contribuì brontolando per non aver ricevuto la cena. Istantaneamente sollevò un braccio per salutarlo, convinta di essere vista nel buio. Ma dopo alcuni istanti si dovette rendere conto che Michael non poteva vederla, oppure, ancora peggio, l’aveva vista ma aveva deliberatamente deciso di ignorarla, troppo stanco forse per sostenere la sua solita esuberanza. Era rientrato in camera chiudendo la tenda in velluto blu.
Percorse il vialetto quasi di corsa, il freddo della sera e la tristezza sopraggiunta all'improvviso l’avevano costretta a considerare i pericoli di quel luogo che di giorno le era parso tanto ameno, -un animale potrebbe uscire dalle gabbie dello zoo, oppure un intruso malintenzionato potrebbe aggirarsi nella proprietà- così, a cavallo fra realtà ed irrazionalità, si ritrovò nello spiazzo della grande fontana, ormai fuori pericolo e considerevolmente più vicina alla casa.
Persa nei suoi pensieri si diresse verso l'ingresso laterale con passo veloce, quando, all’improvviso, avvertì la pressione di una mano posarsi sulla spalla facendola trasalire di colpo, ormai certa che le paure di prima si fossero avverate tutte insieme.
Un urlo acuto e stridulo fece capolino da quelle labbra che erano rimaste serrate per quasi tutto il giorno.
-ehi! sono io, che ti prende?
-ma..ma sei SCEMO?!?! Per poco non mi viene un colpo apoplettico!
-scusami io non pensavo che..insomma non pensavo di spaventarti, ti ho vista dalla finestra e sono sceso a salutarti..
Cercava di trattenere la risata cristallina che dopo meno di un secondo gli scivolò dalle labbra, facendola arrossire dalla rabbia per l’affronto subito.
-ma che ti ridi voglio sapere! Vorrei vedere te se uno ti arriva alle spalle mentre stai pensando agli affari tuoi!
-ah si? E a che pensavi?!
Glielo chiese parlando a fatica, la voce strozzata dalle risate incalzanti, non riusciva a trattenersi, era troppo buffa quando si arrabbiava.
-agli affari miei, appunto!
Paonazza in volto, non era riuscita a mascherare lo spavento e si era fatta cogliere impreparata da lui che magari aveva anche capito a cosa stava pensando. Il solo pensiero le mise i brividi e decise per una prudente ma efficace ritirata, cambiando argomento.
-bè allora come stai? Come è andata oggi?
Si ravviò i capelli dietro alle orecchie cercando di apparire quanto più disinvolta possibile, anche se le chiazze rosse permanevano impietose alla base delle guance, irradiando il fuoco anche alle orecchie che ebbe la non accortezza di scoprire.
-bene, abbastanza bene, è stata una giornata faticosa ma.. è finita. E tu? Che hai fatto?
-ho aiutato mia madre al lavoro, sai c’erano molte cose da sistemare per il ricevimento di dopodomani..
-il ricevimento di dopodomani?! Quale ricevim.. ommioddio! Ommioddio! Non è QUEL ricevimento vero?!? non mi sono dimenticato della giornata di Joe, vero?!
La fissava con gli occhi sgranati mentre un rivolo di sudore scendeva lungo la basetta appena davanti all’orecchio. Non poteva crederci. Con tutto quello che aveva da fare si era dimenticato che da lì a 48 ore scarse il ranch si sarebbe riempito di gente. Ma nemmeno così tanto, in fondo, era stato più colmo altre volte, per esempio al matrimonio di Liz, ma in quel caso era diverso. Si sarebbe riempito della sua famiglia. E non era una cosa facile quella. Impallidì.
-Michael, che succede?! Sei bianco come un cadavere..
-no è che io- si sedette su uno degli scalini in pietra bianca e si fasciò la testa con le mani chiuse a coppa –io me ne ero dimenticato.
-e allora, che problema c’è? Te l’ho appena ricordato con ben due giorni di anticipo, che vuoi di più?
Gli sorrise. La guardò. Era così semplice e spontanea in ogni sua sfumatura, così meravigliosamente rassicurante per questo.
-Nat, io dopodomani ho un impegno improrogabile, ecco qual è il problema. E non posso rimandare con la mia famiglia, perché la giornata di Joe viene solo una volta all’anno, la prenderanno male, diranno che mi faccio negare, che mi atteggio da super star e..
-allora dovrai rimandare l’impegno
Glielo disse piano, cercando di addolcire la pillola con un tono pacato e sedendosi accanto a lui sullo scalino.
-non posso!
Si contorceva le dita facendole arrossare per l’agitazione, era in un vicolo cieco e non sapeva come uscirne. La voce sembrava un lamento.
-si può sapere che devi fare di così IMPROROGABILE?!
-devo..anzi..voglio. cioè, ho deciso di chiedere a Brooke di sposarmi, visto che stasera non ci sono riuscito.
Lo disse tutto d’un fiato, con lo sguardo incollato a terra, come se avesse confessato un peccato capitale al boia. Si sentiva in colpa perché non gliel’aveva ancora detto, e loro due non avevano segreti. La loro amicizia era nata così, spontaneamente, non c’era bisogno di girare intorno alle cose con Natalie, non c’era bisogno di esitazioni, non c’era vergogna, non c’era mistero. Era così da quando era arrivata ad Encino nell’83, ancora bambina, con la signora Miranda. Lui aveva 25 anni, lei soltanto 9, ma era stata una scintilla potentissima a colpirli. Aveva guardato il mondo reale attraverso quegli occhi di bambina che gli raccontavano cosa vedeva fuori dai cancelli, com’era andare a scuola, cosa facevano i bambini al parco, com’era fare la spesa. E trovavano il tempo di correre sulla collina, di salire sul carosello, di rincorrersi e di saltare sulle molle, abbattendo le barriere e le distanze numeriche delle loro età anagrafiche. Ogni volta che partiva sapeva che al ritorno ci sarebbe stata lei, un po’ più grande, ad aspettarlo e a raccontargli di tutto quello che si era perso. Ma non le aveva più detto molto di sé da quando stava con Brooke. Sentiva che qualcosa non andava e la conferma era arrivata proprio l’altra sera, quando gli fu chiaro che era impossibile presenziare tutti e tre ad una stessa festa. Forse era per questo che aveva deciso di andarsene, non riusciva a reggere tutta quella pressione. Ma si sentiva in colpa ora, e il modo in cui lei lo stava guardando non migliorava certo le cose.
-non mi sopporta eh?
Glielo chiese ma non era una domanda. La disarmante retorica di chi ci conosce profondamente incalza sempre nei momenti peggiori. Lo sguardo disteso, le labbra rosa sembravano sorridergli mentre abbatteva ogni sua certezza, mentre lo spiazzava per l’ennesima volta. Comprensione. Una cosa che non avrebbe mai immaginato accanto alla naturale irruenza di quella ragazza.
-non è questo Nat, è che siete diverse, forse troppo. Non pensare che sia solo colpa tua, è che.. non si piò andare d’accordo con tutti!
Cercò in tutti i modi di essere convincente, mantenendo lo sguardo saldo su di lei, che ormai aveva compreso ogni cosa.
-perché non gliel’hai chiesto stasera?
-io.. non lo so.
-siete finiti a letto e la cosa ha perso la vena romantica che piace a te, vero?
-Natalie!
-che c’è?
-certe cose sono private! Che domande fai?!
-non ti ho chiesto i particolari, ti ho chiesto se le cose sono andate così.
Non riuscì a non sorridere guardandolo arrossire a dismisura per quella domanda diretta. Se lo era immaginato più volte, non doveva essere imbranato in certe cose, ma non riusciva a parlarne. Lo vide abbassare lo sguardo, totalmente perso nel vuoto del suo imbarazzo. Lo trovò irresistibile mentre scuoteva il capo cercando qualcosa da dire e non si trattenne dal passare il dorso della sua mano su quella guancia liscia e chiara, come quella di una bambola di porcellana.
-quante cose mi sono persa Mike? Quante?
Per un momento credette di non riuscire a sostenere quegli occhi nei suoi, ugualmente intensi. Per una volta quello sguardo tanto amato dalle folle, che lui stesso aveva deciso di inserire a fronte del suo nuovo album, veniva ricambiato di un’energia uguale ed opposta.
-Natalie, io non voglio che ora..
-no, non dire niente. Andiamo a vedere le stelle?
Questa volta si rifiutò di cercare uno sprazzo di logica in quella conversazione fatta di nulla e di tutto. Si limitò a prenderla per mano conducendola verso l’altura che portava il nome di sua madre, Katherine Mountain, a vedere le stelle –il resto domani- pensò, sentendosi leggero come non mai.
1983
mi fornisca il passaporto, prego
-eccolo
-nome e cognome, prego
-Miranda Josephina Goméz
-provenienza
-San Juan, señor, Puerto Rico
-è qui in vacanza?
-no señor, per lavorare
-il permesso di soggiorno, prego
-eccolo
-le bambine come si chiamano
-Paula Esther Goméz e Natalia Goméz
-ha i certificati di nascita?
-no señor, sono trovatelle, ho solo questo documento, non mi hanno ancora rilasciato il certif..
-signora Goméz, i documenti sono a posto. Il visto scade tra tre mesi, si ricordi di rispettare i tempi. Faccia completare la documentazione per le bambine e si ricordi che nel nostro paese le leggi sull’immigrazione sono così come le trova scritte, non si fanno sconti. Buona permanenza e benvenuta negli Stati Uniti d’America.
1975
Era un cestino molto simile a quello che aveva deciso di portare con sé per andare al mercato. Solo che all’interno non c’erano frutti, radici o vento. All’interno c’era una cosa viva, lo si poteva sentire perché respirava, nel buio di quel sottoscala alla periferia estrema della ciudadela di San Juan, nell’isola di Puerto Rico, all’estremo sud dell’ultima costa americana. La Florida.
Ebbene, all’interno di tale agglomerato ai margini, era pur possibile essere ancora più reietti ed esclusi, era possibile essere ulteriormente scartati, era possibile trovarsi in un cestino di vimini, in un sottoscala di Calle Pelayo.
Tuttavia un tale ritrovamento non destò lo stupore che ci si potrebbe aspettare, nemmeno la metà del nostro almeno, perché Mama era una donna del mondo, del suo mondo, e sapeva benissimo a cosa andava incontro ogni mattina quando si svegliava, quando si preparava per il nuovo giorno. Era come un tacito patto fra lei e il destino –lei ci credeva molto nel destino- non lo aveva e non lo avrebbe mai sfidato, per nulla al mondo; avrebbe accettato ogni incombenza, ogni fardello, avrebbe imparato da ogni errore, si sarebbe rialzata senza lamentarsi dei lividi.
In cambio lui le avrebbe regalato la certezza di vincere contro il male oscuro di quella solitudine contenuta nella foschia umida che avvolgeva ogni mattino del suo cuore.
Lui, signore indomato e beffardo, destino, fato, comunque lo si voglia chiamare, ogni tanto sapeva essere riconoscente ai devoti, e li graziava di un semplice gesto, concedendo una briciola che sarebbe dovuta bastare per un’intera vita, ma così saporita e totalizzante per coloro che non avevano in bocca alcun sapore.
Così era. Ogni pettirosso smarrito, non desiderato, dimenticato arrivava a lei. Solo di questo voleva gioire Mama, che arrivassero alla sua casa, che potesse accoglierli, che potesse essere la loro Mama, e che quella costruzione pericolante potesse essere il loro nido.
-Paulina, rosa mia, corri a chiamare Glauco di sopra, vai!
-hai visto mama, non mi credevi tu!
-ora corri bonita, corri su!
La sollevò da quel cestino che, seppur di dimensioni contenute, era troppo ampio per un esserino così piccolo. La sollevò da quel punto scuro e la portò alla luce. Era piccola, molto piccola, era una bambina, e Mama non ebbe bisogno di conferme, quegli abissi più neri del colore che riveste il nostro universo erano di una bambina.
1992
Il sole che filtrava dalle vetrate smerigliate creando fasci geometrici a decorare la monotonia del parquet scuro si posò anche sul letto, creando una piacevole interferenza con il buio del dormiveglia. Nel tepore creato dalle coperte leggere si riusciva a sognare anche da appena svegli, in un tentativo di prolungare quel dolce riposo appena svanito, pensando al nuovo giorno, alle cose da fare, nell’attesa della risoluzione necessaria per uscire dal bozzolo e passare all’azione.
Appoggiata al guanciale la chioma corvina schivava di poco il fascio luminoso, e pareva ancora spenta, cornice di una mente ancora quiescente, che invece, contro ogni ragionevole sospetto era già laboriosa fra il frusciare della stoffa.
mmmmm..Come mi sono divertita ieri sera, tutta quella gente, ma quanto ho ballato?! E quelli che ballavano peggio di me..ma chi erano alla fine?? Mah..chissenefrega, erano fuori quanto me ed in certi casi è l’unica cosa che conta. E meno male che ho mandato giù un po’ di nettare degli dei, altrimenti che noia mortale.. e anche Michael si stava rompendo, non mi venga a dire cazzate! E’ strano in questo periodo, lo vedo da come mi guarda, c’è qualcosa che mi deve dire ma non ci riesce. Il solito tacchino, quando succede qualcosa entra in paranoia cazzo. Ormai lo conosco. Ci vorrà del tempo prima di sapere cosa c’è, lo so..e allora come dicono i cinesi: siediti sulla riva del fiume e aspetta, vedrai passare il cadavere del tuo nemico, presto o tardi. Bè, non è un mio nemico ovviamente, quindi non so quanto possa essere azzeccato ‘sto termine, e se è per questo non è nemmeno cinese.. ahahahaha oddio Michael con gli occhi a mandorla..oddio! Ma ho spento la sveglia nel sonno?!? E’ tardissimo mi devo alzare cazzoooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo!
In tutti questi pensieri era immersa Natalie, che si era svegliata prima della sveglia –lei non l’aveva ancora realizzato- in quella mattina di inizio estate. Una lieve emicrania era il fastidioso strascico della serata precedente, i capelli arruffati, il vestitino bianco di raso ancora addosso. Ora ricordava: l’aveva portata Michael di sopra, e non si era permesso di sfilarle l’abito per aiutarla a mettere il pigiama con il quale avrebbe dormito sicuramente più comoda. –mah, che ragazzo strano, mi avrà vista in mutande mille volte, chissà perché ieri sera non mi poteva infilare un pigiama..vallo a capire!
Non prestò molta attenzione a questo dettaglio comunque, pensando che fosse brillo anche il suo amico, a cui piaceva tanto fare il santerellino, e che quindi non fosse stato in grado.
Scese dal letto e, ancora barcollante, si diresse verso la porta del bagno. Ne uscì quindici minuti più tardi, seguita da una densa nube di vapore profumato del sapone per il corpo che era solita usare. Infilò il solito paio di jeans strappati, una t-shirt bianca da yuppie di qualche taglia più grande della sua con la scritta “love is the answer” ed un arcobaleno sullo sfondo, un paio di scarpe da ginnastica tutte rovinate, un velo di mascara ed uscì dalla stanza sbuffando –si ricomincia- disse a se stessa ed inforcò le scale per il piano inferiore. La scuola era finita, ma questo non significava vacanza per Natalie, era più libera ora, e poteva aiutare a tempo pieno sua madre con gli innumerevoli lavori di ogni giorno.
Rumore di passi sulle scale ricoperte dalla moquette cobalto, che tuttavia non riusciva ad attutire del tutto lo spostarsi delle persone che scendevano o salivano. Ma quel passo svelto era inconfondibile alle sue orecchie, era Natalie che andava al lavoro, ne era sicuro. Lei era l’unica in tutta la casa a non avere il minimo riguardo per gli orari e per le persone che eventualmente dormissero più a lungo di lei, ogni mattina era la stessa storia: si alzava alle sei e per le sei e trenta percorreva il corridoio centrale a passo pesante e strascicato, per poi acquisire improvviso entusiasmo proprio all’imbocco della rampa, nella quale si catapultava subito dopo saltellando e scaricando tutto il suo peso molleggiando da un gradino ad un altro.
Le camere degli ospiti comunque erano abbastanza lontane da quella padronale da non farlo considerare un vero e proprio atto di disturbo, a quell’ora inoltre Michael era già sveglio nella maggior parte dei casi. Si trattava piuttosto di una questione di principio, di educazione. Più volte glielo aveva fatto notare, ma non c’era nulla da fare con lei, era più testarda di un mulo quella ragazzina; infatti, dopo averlo liquidato con un “se sei già sveglio perché rompi?”, la mattina seguente riprendeva a fare lo stesso.
Se ne stava appoggiato al vetro che apriva un varco sull’immensa vallata bagnata dalla rugiada del mattino. La camicia rossa in mano, il torace nudo che si lasciava accarezzare dai primi deboli raggi del giorno, gli unici forse che non lo ferivano con la potenza e l’intensità che avrebbero acquisito solo dopo poche ore.
Gli piaceva stare nella luce, quel senso di calore lo completava e lo nutriva, lo curava e lo guariva da quel freddo dentro, da quella foschia umida e densa che avvolgeva ogni mattino del suo cuore.
La pelle liscia aveva toni variabili in base alla zona, anche se ormai una marea lattea aveva inghiottito quasi del tutto il bel colore ambrato di pochi anni prima, delle sue origini che svanivano sempre più.
Una mano grande e nodosa percorreva lunghi tratti giungendo a tale amara constatazione in una carezza angosciata, alla ricerca dell’ennesimo inaspettato mutamento, dell’ennesimo difetto, dell’ennesimo dispetto di quel destino fortunato e crudele di cui subiva l’aura ogni giorno.
Questa è una di quelle giornate in cui non uscirei nemmeno dalla mia stanza. È tutto un caos, la mia vita, il lavoro, la mia testa. A fine mese inizia il tour e sembra non essere pronto nulla, oggi ennesima giornata estenuante di prove, fra un’ora parto per Los Angeles. Se Elliot non si riprende entro una settimana dovrò assumere una nuova assistente. Sempre tutto insieme, sempre tutto nel momento meno opportuno, come se non avessi abbastanza problemi. Sono un fantasma. Sto diventando un fantasma. Stasera devo andare da lei, glielo chiederò. Ho il cuore in gola al solo pensiero, ma lo devo fare, ormai ho deciso. Questa è la mia occasione di essere felice, di non essere più solo, non posso lasciarla sfuggire.
Ma senti quell’elefante di Nat che diavolo di casino sta facendo! Io…non ho parole!
***
Le ore passavano lente mentre il vento aveva spazzato via tutte le nubi rendendo quella macchia azzurra fra una foglia e l’altra ancora più nitida e luminosa. L’aria secca solcava le superfici esterne ed interne dell’immensa abitazione e faceva venire sete, se vi si rimaneva a lungo esposti.
Dopo aver aiutato sua madre a sistemare gli interni ora si trovava in giardino per prendere una rapida quanto salubre boccata d’aria dopo l’intenso lavoro della mattinata, trascorsa ad aspettare la pausa pranzo con impazienza. Non conosceva nemmeno lei il motivo di tanta irrequietezza, solitamente era responsabile e ligia, lavorava senza sosta senza mai pensare ad altro fino alla fine del turno, ma quel giorno tutto era strano, uno strano tarlo nel cervello rendeva tutto motivo di un’impalpabile quanto fastidiosa preoccupazione.
Camminava nel parco e annusava i profumi che arrivavano insieme al vento, apprezzava i colori come se non li avesse mai visti, memore di quella conversazione con Michael della notte appena trascorsa.
Già, Michael. Anche se non riusciva a definirlo con precisione sapeva che quel senso di inquietudine era dovuto a lui, che in quel momento si trovava a chissà quante miglia da lì, che provava le sue canzoni e le coreografie per quello che sarebbe stato il suo secondo tour da solista, ormai imminente. Sarebbero rimasti lontani per chissà quanti mesi, con fusi orari completamente opposti visto che sarebbe stato in Europa, persone diverse avrebbero intersecato i loro percorsi e non ci sarebbero più stati i loro momenti, quelli che li portavano via da tutto il resto, quelli che la facevano sentire viva.
Forse era per questo, forse si. –ma che razza di pensieri da rammollita sto facendo?!- chiuse gli occhi e si mise ad ascoltare la danza delle foglie finché, giunta in prossimità delle finestre delle camere, non si trovò a scrutare in direzione di quell’apertura al secondo piano, un po’ più piccola delle altre, un po’ più nascosta. La finestra della camera di Michael.
Rendendosi conto di quanto quel gesto fosse stato ordinario ed irrazionale le venne da ridere al pensiero di lei che vagava angosciata da questi stupidi sentimenti –ma che mi sta succedendo? Io starò benissimo, ho le mie cose, i miei amici, il mio mondo..
-mi regali qualche biglietto? Ti prego..
-non se ne parla! Sei troppo piccola per venire in mezzo a quella bolgia infernale!
-starai scherzando vero?! Dimmi che non l’hai detto sul serio, dimmi che non sei davvero così jurassico!
-non scherzo affatto, tu non hai la minima idea di quello che succede lì dentro. L’aria irrespirabile, la gente ammassata, il caldo..è proprio fuori discussione che tu venga!
-allora fammi venire nella zona vip, dove si siedono le persone importanti, dopotutto io sono importantissima, se non ci fossi sai che noia!?! No anzi: verrò dietro alle quinte e mi godrò il concerto dal palco eh? Che dici? Così magari do una mano, non so i tecnici, il trucco, che ne so..ci sarà bisogno di due mani in più no?!
Aveva guardato in aria scuotendo la testa, quella ragazza era veramente un bussolotto di dinamite pronto a detonare in ogni momento, con la caratteristica di autorigenerarsi, quindi una volta esplosa con le sue mille idee pazze e senza capo né coda era pronta a farlo di nuovo e ancora e ancora, fino allo stremo delle forze del suo malcapitato interlocutore, che in questo caso era lui.
-Natalia! Non infastidire il Sig. Jackson con le tue chiacchiere! Mi scusi Signore, mia figlia non sa tenere a freno la lingua, la perdoni..
Una donna sulla cinquantina abbondante si era affacciata alla finestra attirata dal vociare nell’atrio. Era la sua governante, una delle persone più fidate di tutto lo staff, professionale ed onesta, non aveva mai chiesto nulla al suo datore di lavoro, nemmeno un giorno di permesso oltre a quelli previsti dal contratto. Aveva lavorato ad Encino prima di seguirlo a Neverland, e nutriva per lei un certo affetto, era diversa dagli altri. Era confortevole, emanava il calore delle mamme.
-no Miranda, non scusarti, è un po’ dispettosa, ma.. devo dire che è davvero divertente averla intorno, davvero!
Con il tono gentile di sempre l’aveva rassicurata, elargendo un sorriso sincero e leggermente divertito anche per la sua espressione apprensiva, che tamburellava fra gli occhi del padrone e quelli della figlia, in cerca di un rimprovero che non era arrivato.
Voltandosi per continuare la sua passeggiata le aveva riservato uno sguardo di intesa molto eloquente, poi nel passarle accanto l’aveva sfiorata con un delicato tocco della mano sulla guancia, e le aveva bisbigliato all’orecchio -adesso mi devi un favore, ragazzina- per poi eclissarsi dietro al suo albero preferito con il sorriso della vittoria sul viso.
Il ricordo affiorato dai meandri di quella mente troppo sovraccarica per quel giorno l’aveva tenuta imbambolata -per non dire prigioniera- un lasso di tempo troppo lungo, seduta su una di quelle panchine di bronzo di fronte allo steccato che delimitava l'immenso belvedere. Il sole non brillava più dietro alle fronde, piuttosto formava un disegno astratto sulla linea dell’orizzonte, come se vi fosse stato incollato con una pressa, e poi immortalato nel suo ultimo meraviglioso sussulto di luce, prima di andare a scomparire dietro alle colline.
***
-allora signorina, la cena è stata di suo gradimento?
-si, passabile diciamo..
-passabile?!? Mioddio ho creato un mostro!!
Rise alla battuta di lui e bagnò di nuovo le labbra in quel calice di cristallo che, nonostante tutto, sembrava opaco di fronte al bagliore dei suoi occhi. Si sentiva osservata, scrutata, studiata, e la cosa non le dava alcun dispiacere, visto che indossava uno degli ultimi abiti di Valentino, non di alta moda ma comunque un bel prÊt-à-porter rosso fuoco, dall’ampio spacco sulla coscia e di un tessuto morbido come il cachemire ma leggero come la seta che sarà valsa quanto un’automobile, e nemmeno fra le più comuni forse. Orecchini brillanti si intravedevano attraverso la folta chioma mossa e fluente, labbra rosse come ciliegie appena colte, decolletè abbinate, chanel n°5. Era perfetta e amava mostrarsi agli altri nella sua mise più sgargiante, ma soprattutto, amava mostrarsi a lui.
-che ne dici di fare due passi? Potremmo andare da me, sai, hanno appena finito il laghetto dei cigni, manca solo una piccola cascata e poi sarà finito..- pensava che così sarebbe stato più facile, il buio, il chiaro di luna, così avrebbe potuto dirle quello che ormai sentiva da tempo, protetto dall’oscurità e da qualsiasi disturbo esterno.
-si, non mi dispiacerebbe, anche se- si avvicinò lentamente al suo orecchio abbassando notevolmente la voce in un tono più suadente che gli procurò come prevedeva un intenso brivido lungo la schiena –non sarebbe male nemmeno andare da me e saltare tutta la parte dei convenevoli, le passeggiate e quant’altro. Michael, ho voglia di te stasera..
Quello che lei aveva definito “convenevole” per lui era un punto focale dell’incontro, una parte essenziale ed insostituibile, la parte dell’attesa, in cui cresce la tensione, la parte in cui si rimane sospesi su uno spicchio di luna nell’inconsapevolezza e nella paura mista ad eccitazione, la miccia che garantiva la riuscita dell’esplosione perfetta. Arrossì violentemente dinnanzi a tale palesata impazienza, ma la reazione che questo suscitò in lui fu del tutto inaspettata perchè la sferzata di desiderio che quelle poche parole gli avevano iniettato nelle vene si irradiò con velocità allarmante ad ogni fibra del suo corpo, fino ad esplodere nel cervello. Mentre ascoltava il liquefarsi di ogni fibra di materia grigia la prese per mano, la fece alzare delicatamente dalla sedia di fronte a lui e la avvicinò alla sua bocca. Si sfiorarono appena e gli parve di morire come dopo essere stati morsi da un serpente che non lascia tregua, e per il cui veleno non esiste antidoto. La violenta vampata di calore che lo aveva sorpreso alle guance dopo la dichiarazione tanto, troppo esplicita di Brooke, ora lasciava spazio ad una forza innata che gli partiva da dentro e che lo spingeva in territori ignoti, dove forse non si era mai spinto con l’immaginazione.
-allora andiamo.
Le sussurrò all’orecchio piano, nello stesso sensualissimo modo usato da lei poco prima. Senza guardarla negli occhi si voltò e tenendola per mano si incamminò allontanandosi dalla terrazza del “the palm” a West Hollywood, con una fretta innaturale per Michael Jackson, guidato soltanto da un istinto irrazionale e selvaggio che stentava a riconoscere lui stesso.
***
Minuti, ore, non sapeva esattamente quanto tempo era passato da quando si era seduta lì quello stesso pomeriggio in preda all’agitazione. Ora riusciva a distinguere il paesaggio circostante solo a tratti, aiutata dal debole luccichio dei lumini ai lati del vialetto. La casa era un’ombra oscura che si innalzava quasi minacciosa nell’oscurità, con i mille occhi giallognoli delle tante finestre con le luci accese.
Si alzò dalla panca massaggiandosi la schiena dai muscoli leggermente atrofizzati, si stiracchiò e prese il cammino del ritorno, quando, sollevando di poco lo sguardo, lo vide affacciato alla piccola finestra, circondato dalla luce della tenue lampada che teneva di solito sul davanzale, utile in tutti quei momenti in cui non riusciva a dormire e voleva perdersi nei sogni ad occhi aperti.
Il cuore iniziò a tamburellarle nel petto per motivi che le risultavano ignoti e lo stomaco contribuì brontolando per non aver ricevuto la cena. Istantaneamente sollevò un braccio per salutarlo, convinta di essere vista nel buio. Ma dopo alcuni istanti si dovette rendere conto che Michael non poteva vederla, oppure, ancora peggio, l’aveva vista ma aveva deliberatamente deciso di ignorarla, troppo stanco forse per sostenere la sua solita esuberanza. Era rientrato in camera chiudendo la tenda in velluto blu.
Percorse il vialetto quasi di corsa, il freddo della sera e la tristezza sopraggiunta all'improvviso l’avevano costretta a considerare i pericoli di quel luogo che di giorno le era parso tanto ameno, -un animale potrebbe uscire dalle gabbie dello zoo, oppure un intruso malintenzionato potrebbe aggirarsi nella proprietà- così, a cavallo fra realtà ed irrazionalità, si ritrovò nello spiazzo della grande fontana, ormai fuori pericolo e considerevolmente più vicina alla casa.
Persa nei suoi pensieri si diresse verso l'ingresso laterale con passo veloce, quando, all’improvviso, avvertì la pressione di una mano posarsi sulla spalla facendola trasalire di colpo, ormai certa che le paure di prima si fossero avverate tutte insieme.
Un urlo acuto e stridulo fece capolino da quelle labbra che erano rimaste serrate per quasi tutto il giorno.
-ehi! sono io, che ti prende?
-ma..ma sei SCEMO?!?! Per poco non mi viene un colpo apoplettico!
-scusami io non pensavo che..insomma non pensavo di spaventarti, ti ho vista dalla finestra e sono sceso a salutarti..
Cercava di trattenere la risata cristallina che dopo meno di un secondo gli scivolò dalle labbra, facendola arrossire dalla rabbia per l’affronto subito.
-ma che ti ridi voglio sapere! Vorrei vedere te se uno ti arriva alle spalle mentre stai pensando agli affari tuoi!
-ah si? E a che pensavi?!
Glielo chiese parlando a fatica, la voce strozzata dalle risate incalzanti, non riusciva a trattenersi, era troppo buffa quando si arrabbiava.
-agli affari miei, appunto!
Paonazza in volto, non era riuscita a mascherare lo spavento e si era fatta cogliere impreparata da lui che magari aveva anche capito a cosa stava pensando. Il solo pensiero le mise i brividi e decise per una prudente ma efficace ritirata, cambiando argomento.
-bè allora come stai? Come è andata oggi?
Si ravviò i capelli dietro alle orecchie cercando di apparire quanto più disinvolta possibile, anche se le chiazze rosse permanevano impietose alla base delle guance, irradiando il fuoco anche alle orecchie che ebbe la non accortezza di scoprire.
-bene, abbastanza bene, è stata una giornata faticosa ma.. è finita. E tu? Che hai fatto?
-ho aiutato mia madre al lavoro, sai c’erano molte cose da sistemare per il ricevimento di dopodomani..
-il ricevimento di dopodomani?! Quale ricevim.. ommioddio! Ommioddio! Non è QUEL ricevimento vero?!? non mi sono dimenticato della giornata di Joe, vero?!
La fissava con gli occhi sgranati mentre un rivolo di sudore scendeva lungo la basetta appena davanti all’orecchio. Non poteva crederci. Con tutto quello che aveva da fare si era dimenticato che da lì a 48 ore scarse il ranch si sarebbe riempito di gente. Ma nemmeno così tanto, in fondo, era stato più colmo altre volte, per esempio al matrimonio di Liz, ma in quel caso era diverso. Si sarebbe riempito della sua famiglia. E non era una cosa facile quella. Impallidì.
-Michael, che succede?! Sei bianco come un cadavere..
-no è che io- si sedette su uno degli scalini in pietra bianca e si fasciò la testa con le mani chiuse a coppa –io me ne ero dimenticato.
-e allora, che problema c’è? Te l’ho appena ricordato con ben due giorni di anticipo, che vuoi di più?
Gli sorrise. La guardò. Era così semplice e spontanea in ogni sua sfumatura, così meravigliosamente rassicurante per questo.
-Nat, io dopodomani ho un impegno improrogabile, ecco qual è il problema. E non posso rimandare con la mia famiglia, perché la giornata di Joe viene solo una volta all’anno, la prenderanno male, diranno che mi faccio negare, che mi atteggio da super star e..
-allora dovrai rimandare l’impegno
Glielo disse piano, cercando di addolcire la pillola con un tono pacato e sedendosi accanto a lui sullo scalino.
-non posso!
Si contorceva le dita facendole arrossare per l’agitazione, era in un vicolo cieco e non sapeva come uscirne. La voce sembrava un lamento.
-si può sapere che devi fare di così IMPROROGABILE?!
-devo..anzi..voglio. cioè, ho deciso di chiedere a Brooke di sposarmi, visto che stasera non ci sono riuscito.
Lo disse tutto d’un fiato, con lo sguardo incollato a terra, come se avesse confessato un peccato capitale al boia. Si sentiva in colpa perché non gliel’aveva ancora detto, e loro due non avevano segreti. La loro amicizia era nata così, spontaneamente, non c’era bisogno di girare intorno alle cose con Natalie, non c’era bisogno di esitazioni, non c’era vergogna, non c’era mistero. Era così da quando era arrivata ad Encino nell’83, ancora bambina, con la signora Miranda. Lui aveva 25 anni, lei soltanto 9, ma era stata una scintilla potentissima a colpirli. Aveva guardato il mondo reale attraverso quegli occhi di bambina che gli raccontavano cosa vedeva fuori dai cancelli, com’era andare a scuola, cosa facevano i bambini al parco, com’era fare la spesa. E trovavano il tempo di correre sulla collina, di salire sul carosello, di rincorrersi e di saltare sulle molle, abbattendo le barriere e le distanze numeriche delle loro età anagrafiche. Ogni volta che partiva sapeva che al ritorno ci sarebbe stata lei, un po’ più grande, ad aspettarlo e a raccontargli di tutto quello che si era perso. Ma non le aveva più detto molto di sé da quando stava con Brooke. Sentiva che qualcosa non andava e la conferma era arrivata proprio l’altra sera, quando gli fu chiaro che era impossibile presenziare tutti e tre ad una stessa festa. Forse era per questo che aveva deciso di andarsene, non riusciva a reggere tutta quella pressione. Ma si sentiva in colpa ora, e il modo in cui lei lo stava guardando non migliorava certo le cose.
-non mi sopporta eh?
Glielo chiese ma non era una domanda. La disarmante retorica di chi ci conosce profondamente incalza sempre nei momenti peggiori. Lo sguardo disteso, le labbra rosa sembravano sorridergli mentre abbatteva ogni sua certezza, mentre lo spiazzava per l’ennesima volta. Comprensione. Una cosa che non avrebbe mai immaginato accanto alla naturale irruenza di quella ragazza.
-non è questo Nat, è che siete diverse, forse troppo. Non pensare che sia solo colpa tua, è che.. non si piò andare d’accordo con tutti!
Cercò in tutti i modi di essere convincente, mantenendo lo sguardo saldo su di lei, che ormai aveva compreso ogni cosa.
-perché non gliel’hai chiesto stasera?
-io.. non lo so.
-siete finiti a letto e la cosa ha perso la vena romantica che piace a te, vero?
-Natalie!
-che c’è?
-certe cose sono private! Che domande fai?!
-non ti ho chiesto i particolari, ti ho chiesto se le cose sono andate così.
Non riuscì a non sorridere guardandolo arrossire a dismisura per quella domanda diretta. Se lo era immaginato più volte, non doveva essere imbranato in certe cose, ma non riusciva a parlarne. Lo vide abbassare lo sguardo, totalmente perso nel vuoto del suo imbarazzo. Lo trovò irresistibile mentre scuoteva il capo cercando qualcosa da dire e non si trattenne dal passare il dorso della sua mano su quella guancia liscia e chiara, come quella di una bambola di porcellana.
-quante cose mi sono persa Mike? Quante?
Per un momento credette di non riuscire a sostenere quegli occhi nei suoi, ugualmente intensi. Per una volta quello sguardo tanto amato dalle folle, che lui stesso aveva deciso di inserire a fronte del suo nuovo album, veniva ricambiato di un’energia uguale ed opposta.
-Natalie, io non voglio che ora..
-no, non dire niente. Andiamo a vedere le stelle?
Questa volta si rifiutò di cercare uno sprazzo di logica in quella conversazione fatta di nulla e di tutto. Si limitò a prenderla per mano conducendola verso l’altura che portava il nome di sua madre, Katherine Mountain, a vedere le stelle –il resto domani- pensò, sentendosi leggero come non mai.
1983
mi fornisca il passaporto, prego
-eccolo
-nome e cognome, prego
-Miranda Josephina Goméz
-provenienza
-San Juan, señor, Puerto Rico
-è qui in vacanza?
-no señor, per lavorare
-il permesso di soggiorno, prego
-eccolo
-le bambine come si chiamano
-Paula Esther Goméz e Natalia Goméz
-ha i certificati di nascita?
-no señor, sono trovatelle, ho solo questo documento, non mi hanno ancora rilasciato il certif..
-signora Goméz, i documenti sono a posto. Il visto scade tra tre mesi, si ricordi di rispettare i tempi. Faccia completare la documentazione per le bambine e si ricordi che nel nostro paese le leggi sull’immigrazione sono così come le trova scritte, non si fanno sconti. Buona permanenza e benvenuta negli Stati Uniti d’America.
marina56- Moderator
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CAPITOLO TERZO
1992
-sai cosa ti dico?
Camminava davanti a lui percorrendo quella salita con passo svelto, senza voltarsi e senza difficoltà ad orientarsi nel buio. Quella ormai era la sua casa più di qualunque altro luogo.
-cosa mi dici?
Mantenne il tono di sfida con il quale gli si era parata davanti con la solita domanda estemporanea.
-che chi arriva ultimo alla quercia è un tacchino!
Nat aveva pronunciato quella frase già correndo, sperando di avere un bel po’ di vantaggio sullo scatto felino di Michael, che, sapeva bene, non perdonava.
Ma lui aveva intuito tutto solo dal tono, e si era messo a correre dietro di lei molto prima di quanto immaginasse. Corse allo sfinimento ma non poté evitare il suo sguardo beffardo mentre la superava in quella corsa verso il cielo stellato, senza freni e senza motivo.
-così non vale!
Fu l’urlo di lui mentre avvertiva un peso aggiungersi repentino alla sua schiena, arrampicarsi e stringersi fortissimo fino a raggiungere le spalle, mentre due gambe gli stringevano i fianchi da dietro, in una morsa che non aveva alcuna intenzione di allentarsi. La allacciò a sé affrancando con le mani le ginocchia ai fianchi e, munito della nuova zavorra, prese a correre ancora più veloce verso la grande quercia, all’estremo apice della collina.
-yuhuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu
Natalie urlava a squarciagola, mentre una corda immaginaria sventolava sopra alle loro teste, accessorio di un’improbabile cow boy dall’aria insolitamente felice.
Risero, caddero a terra e risero ancora.
Era così semplice ora, era tutto così dannatamente semplice.
***
Il panorama dalla finestra della camera da letto era più bello che mai.
Le colline sotto di loro sfoggiavano miliardi di perle di luce che, vestite di tremante intermittenza, rendevano la città sottostante molto più affascinante e romantica, impreziosita da quell’oscurità surreale e magica il cui mistero iniziava a svanire ad est, quando le prime luci del giorno si posavano a delineare timidamente la celebre scritta.
Nessun rumore, solo quello della porta della stanza adiacente che si era aperta offrendogli un disegno se possibile ancora più meraviglioso di quello concesso dalla trasparenza della finestra a pochi centimetri.
Lei, avvolta da una vestaglia in pura seta nera, appoggiata allo stipite della porta del bagno lo scrutava con espressione indecifrabile ed una luce nello sguardo in grado di sciogliere l’ inibizione in un soffio. Aveva fatto un paio di passi verso di lui mentre la mano slacciava lentamente quel nastro che teneva uniti i due lembi di tessuto.
La guardava preda di un imbarazzatissimo istinto animale che tratteneva appena, desideroso soltanto che fosse lei a decidere i modi ed i tempi di ogni cosa.
-che ne pensi
Era stata la retorica spiccia di Brooke, che avvicinandosi aveva disteso i palmi sulla camicia scura che lui indossava, percorrendo sentieri immaginari fra il collo e l’addome.
Poi aveva sganciato da ogni asola i bottoni mentre lui, non riuscendo più a controllare il desiderio selvaggio, le aveva fatto scivolare dalle braccia la vestaglia, lasciandola completamente ed irreparabilmente nuda davanti ai suoi occhi.
Sussurrando parole irripetibili vicino al lobo che si era impegnata ad inumidire poco prima, si era inginocchiata sul suo bacino mettendo in seria difficoltà il suo equilibrio, fisico e mentale, mentre una canzone di Sinatra si insinuava attraverso le pareti, proveniente da quel mondo privo di colore appena fuori di lì.
Prigioniero di un limbo assordante e privo di vie di uscita, combatteva con il contrasto delle emozioni brucianti che quelle labbra gli stavano regalando con spietata cadenza. La mente in completa balia di quel fiume in piena alternava momenti di lucidità, in cui si assillava con domande di ogni tipo, a momenti di totale annegamento, avvolta da una nebbia di piacere troppo intensa, ma che tuttavia non era sufficiente a far cessare quella domanda, quella frase che ormai nasceva spontanea e senza permesso, ad ogni ora del giorno e della notte –dove ci porterà tutto questo-
No, non era il sesso, quello non era più un mistero per lui. Erano passati alcuni anni da quella notte del’89, quando aveva deciso di liberarsi dalle catene dei principi morali e di uscire dalle salde barricate che si era creato lui stesso; troppo pochi forse rispetto alla media maschile, ma non gli importava, ora che viveva prigioniero di quel ricordo dolce e amaro che bussava ogni tanto nelle serate d’estate, quando si fermava ad osservare la ruota panoramica nel ranch incapace di raggiungere fisicamente quella del luna park di Santa Monica.
Ora che il tempo aveva tamponato lacrime e sangue con Brooke era diverso.
Il sentimento che lo univa a lei non aveva più nulla a che vedere con quel senso di completezza assoluta, con quella forza sovrannaturale che lo aveva reso pazzo, con quella virulenza totalizzante che gli era entrata nelle fibre e che ancora oggi lo scuoteva.
No, non si sarebbe mai più lasciato trasportare con la stessa accondiscendenza dal fiume in piena, non avrebbe più permesso a se stesso una simile resa di fronte a quel calore che si era trasformato in ghiaccio istantaneamente ed aveva paralizzato il suo cuore, ora grande e vuoto, come una conchiglia abbandonata sul bagnasciuga, il cui abitante è finito chissà dove.
Il suo oggi era terrore. Terrore della solitudine.
E desiderio. Desiderio fulminante.
L’aveva presa con forza su quel copriletto di seta viola chiaro che non erano nemmeno riusciti a sollevare, ancora vestito per metà, in un impeto di frustrata voluttà, mentre la città continuava a vivere sotto ai loro piedi, al di fuori di quella stanza, ignara di aver perso di importanza, sovrastata dai loro gemiti.
Respiri strozzati nel petto e parole graffianti erano la cornice di quel ritmo che sincopato li trascinava fino in fondo, fino all’apice del piacere, fino a quando, insieme al fluire della tensione fuori di sé aveva avvertito ancora quella voce, ultimo sussulto della lucidità, che di lì a poco si era sciolta nel vapore dei loro respiri.
Dove ci porterà tutto questo.
***
Ora, era tutto diverso.
Come due colori sulla tavolozza vicini ma distanti, troppo diversi per unirsi in qualcosa di omogeneo ma ugualmente indispensabili al dipinto, c’erano due Michael, uguali ed opposti, in grado di vivere le emozioni in un modo assurdamente discontinuo.
Il dualismo si faceva a tratti talmente evidente da essere insopportabile proprio quella stessa notte, che nel giro di poche ore aveva del tutto smarrito i toni accesi della lussuria e del piacere intenso, colorandosi ora di blu, di mistero negli occhi di Natalie, di necessità della sua compagnia, così visceralmente indispensabile per l’unica cosa che desiderava veramente: non pensare.
Due colori così belli e preziosi. Due colori che non si sarebbero mai potuti fondere. Lui lo sapeva.
La guardò mentre si accomodava accanto a lui, appoggiando la testa sul suo addome per ammirare meglio lo spettacolo del cielo che sembrava così vicino. Lo aveva sempre utilizzato come cuscino, in tutti quei momenti che erano diventati rari, da un po’ di tempo. Ora sembrava completamente immersa nel suo elemento, in un mondo di silenzio, in cui le dita univano le stelle formando disegni immaginari che prendevano vita all’arrivo del vento, e raccontavano storie, e cantavano canzoni.
-Mike guarda! Ho trovato la stella più brillante dell’universo!
Sollevò lo sguardo dalle sue mani all’immensa oscurità vestita di lucciole che li sovrastava non potendo fare a meno di sorridere dinnanzi a quell’ingenuità che compariva inaspettata, in contrasto con le altre mille caratteristiche, che ora la faceva assomigliare davvero a qualcosa di piccolo e indifeso, una bambina.
-bè..non è esattamente la più brillante, ma di sicuro sarà fra le dieci stelle più brillanti della nostra galassia..
-ah si?! E tu che ne sai? Solo perché l’ho trovata io non è la più brillante?
Tu hai già la luna, lasciami le stelle no?
Non riuscì a risponderle, avvolto da un’intensa sensazione di tenerezza verso quegli occhi inviperiti che lo scrutavano dal basso. Ogni tanto, ne era convinto, era forse l’amica migliore che avesse mai avuto.
-Lo so perché quella è Vega, la quinta stella del cielo per grandezza
-Davvero?
Gli occhi di Natalie si erano ingranditi, se questo era possibile, dallo stupore.
-Si, fa parte della Lira, una costellazione abbastanza piccola ma molto appariscente, proprio grazie alla grandezza di Vega. Guarda-
Si alzò dal terreno mettendosi seduto, indicando il cielo ed unendo i puntini con le dita, come aveva fatto lei a casaccio poco prima. Anche Natalie fu costretta a sedersi dandogli le spalle, anzi appoggiandosi completamente a lui, totalmente rapita da quelle labbra che conoscevano le stelle. Avvicinandosi al suo orecchio la sua voce divenne un sussurro in grado di addomesticare la più feroce delle fiere ed iniziò il racconto che non era stato richiesto verbalmente, ma che sapeva, lei stava aspettando con paziente desiderio.
-Fu la prima lira ad essere costruita, ideata da Ermes, figlio di Zeus e di Maia, una delle Pleiadi, che inventò anche il plettro con cui suonarla.
Grazie a quella lira Ermes si tirò fuori dal guaio in cui s'era cacciato da ragazzo, quando aveva deliberatamente sottratto del bestiame di proprietà di Apollo. Infuriato Apollo si era presentato a reclamare la sua restituzione, ma quando sentì la bella musica che proveniva dalla lira lasciò che Ermes si tenesse le bestie e in cambio si prese la lira. Apollo diede poi la lira ad Orfeo, il più grande musicista del suo tempo, colui che era in grado di incantare le pietre ed i corsi d'acqua con la magia che emanava dai suoi canti, per accompagnare con essa le sue canzoni. Con il suono armonioso della sua lira Orfeo, unitosi alla spedizione di Giasone e degli Argonauti alla ricerca del vello d'oro, aveva perfino coperto le voci tentatrici delle sirene, ninfe marine che avevano adescato ed eliminato diverse generazioni di marinai. Così in molte altre imprese il magico suono della lira aveva accompagnato la vita di Orfeo portandogli buoni auspici e guidandolo come un prezioso talismano, e nel contempo allietando cuore e mente con le sue note irriproducibili, fino al giorno in cui sposò la ninfa Euridice.
L’amore che li univa non si può raccontare, lo profaneremmo. Possiamo solo dire che è impossibile immaginarlo.
Orfeo non viveva senza lei ed Euridice non viveva senza lui, si nutrivano soltanto dell’aria, poiché in essa era contenuto tutto ciò di cui il cuore innamorato necessita: Amore. Ma la bellezza di Euridice era il desiderio anche di altri, così Aristeo, un figlio di Apollo, un giorno in preda ad un raptus di passione l'assalì, e mentre tentava di sfuggirgli la donna inciampò in un serpente che la uccise all’istante con il suo morso velenoso.
Ad Orfeo si spezzò il cuore. Pazzo di dolore ed incapace di vivere senza la sua giovane sposa discese nell'oltretomba a chiedere che gliela restituissero. Questa era una richiesta senza precedenti. Ma il suono della sua musica affascinò persino Ade, il dio di quel mondo sotterraneo, che alla fine consentì che Euridice ritornasse con Orfeo nel mondo dei vivi, ad una condizione: Orfeo non doveva girarsi a guardare indietro fin quando i due non fossero di nuovo sani e salvi all'aperto.
Orfeo accettò prontamente e fece strada ad Euridice lungo l'oscuro passaggio che portava al mondo soprastante, strimpellando la lira per guidarla. Ma quella di essere seguito da un fantasma era per lui una sensazione snervante che nemmeno la sua lira fu in grado di acquietare. Non poteva essere perfettamente sicuro che la sua amata fosse dietro a lui, ma non osava voltarsi per accertarsene. Alla fine, quando erano quasi in superficie, i suoi nervi cedettero. Si girò per assicurarsi che Euridice fosse lì, e proprio in quell'istante lei scivolò nelle profondità del Regno dell'Oltretomba, perduta per sempre. Orfeo fu inconsolabile. Vagò per la campagna suonando musiche malinconiche sulla sua lira. Molte donne si offrirono di sposarlo, ma lui rimase per sempre solo, evocando il ricordo di Euridice con il dolce lamento del suo canto.
-e poi?
-e poi cosa?
-come va a finire?
Glielo chiese con impazienza, ma senza staccare gli occhi dal cielo, che si era trasformato in un teatro vero e proprio, in cui avevano preso forma le voci e le persone, in cui poteva vedere il racconto di Michael diventare realtà.
La sua guancia era ormai completamente adesa a quella fresca di lei che, totalmente sopraffatta dalla curiosità, non si era accorta di nulla in quella posizione con il naso all’insù. Un brivido lungo la schiena lo attraversò senza che potesse anche soltanto interrogarsi sul perché, mentre una forza strana non gli consentì di muovere un solo muscolo.
-ma è finita!
-non è possibile, non hai detto come ci va a finire la lira lassù, fra le stelle
-ah si, è vero. Non si sa molto su come morì Orfeo, si pensa che avesse provocato le ire del dio Dioniso per non averlo onorato abbastanza. Orfeo infatti reputava Apollo, dio del Sole, la divinità massima e se ne stava spesso seduto sulla sommità del Monte Pangeo in attesa dell'alba per essere il primo a salutare il Sole con le sue melodie. Per ripagarlo di quest'affronto, Dioniso mandò i maniaci suoi seguaci ad ucciderlo. Comunque siano andate le cose, alla fine Orfeo raggiunse la sua adorata Euridice nel Mondo dell'Oltretomba e le Muse posero la lira fra le stelle con l'approvazione di Zeus, loro padre.
-così alla fine hanno potuto stare insieme
-già, alla fine
-anche se lui è stato scemo forte eh!
-ma..Nat, come scemo, è mitologia, non..
-ho capito ma se il signor Ade gli aveva detto di non girarsi lui perché l’ha fatto? Perché non siamo mai contenti di quello che abbiamo, perché non vogliamo mai aspettare, vogliamo tutto e subito, e quando la felicità arriva davvero..Bam! non ce ne accorgiamo, la lasciamo ripartire senza averne presa un po’, totalmente incapaci di viverla.
La guardò intensamente in quegli occhi neri come la pece. Il cuore era andato a battere chissà dove mentre aveva udito le sue parole, mentre si era sentito nudo di fronte alla verità uscita da una bocca troppo giovane per conoscerla così. Ma era evidentemente soltanto una sua errata considerazione a questo punto.
Si allungò di poco per afferrarle quel polso sottile e tirarla a sé, non sapeva assolutamente perché ma doveva farlo, era qualcosa di più forte della volontà, della logica e perfino del buon senso, doveva farlo. E lo fece.
Pur essendo girata di spalle lo avvertiva su di sé come un velo leggero, ma presente, palpabile. Non conosceva il motivo di quello sguardo, non sapeva nulla al di fuori di quello che lui voleva concederle con le parole, intuiva. Intuiva e basta, solo vedendolo da lontano, solo dal modo in cui camminava o si voltava quando qualcuno lo chiamava, intuiva la sua stanchezza alla sera, la sua reticenza a parlare, la sua voglia di averla vicino, la sua rabbia, la sua esuberanza, il suo dolore. Non avrebbe mai udito certi pensieri esplicitarsi in parole. Si sarebbe sempre e solo accontentata di udirli sussurrati dalla sua stessa voce interiore, che tutto capiva, ed alla quale poco sfuggiva.
Una lieve tensione al polso, la sua mano la fece voltare verso di sé, lentamente. Non ebbe il coraggio di affrontarlo guardandolo negli occhi come sempre, ma non oppose alcuna resistenza lasciando che dirigesse quel movimento senza un senso.
Non voleva incrociare il suo sguardo, lo avrebbe spogliato definitivamente di quel briciolo di coraggio che gli era rimasto, e che ancora gli serviva per allacciare le mani dietro alla sua schiena ed affondare il viso fra i suoi capelli.
-stringimi
Glielo disse ma a lei parve di aver sognato. Forse per un attimo smise anche di respirare, ma gli concesse quello che desiderava, anche se non lo aveva mai chiesto così intensamente, così disperatamente, così intimamente. Era sempre stata per lui una compagna di giochi, di battute, di guerre con i palloncini d’acqua, di battibecchi e scorpacciate, di ricordi e discorsi che non si potevano annoverare esattamente nella categoria “serietà”. Non era mai capitato questo.
Preferiva farlo ridere o arrabbiare, a seconda dei casi, era così che amava stargli accanto, spesso per pochissimi minuti al giorno, più di rado per alcune ore, alcune volte per un lasso indefinito in cui perdeva completamente la concezione del tempo e dello spazio. In ogni caso i sentimenti erano troppo difficili da definire per lei, e risultavano sempre scomodi una volta palesati. Cambiavano le carte in tavola, costruivano sensi del dovere e sensi di colpa su alte palizzate che era poi troppo difficile riverniciare, una volta rovinate.
-forse sto sbagliando tutto
Un altro sussurro fra i capelli, un altro brivido.
-forse. Ma non lo saprai mai se non provi
Un alito di vento.
-stringimi ancora
Ora la testa le girava vorticosamente, ma non sapeva stabilire assolutamente cosa fosse o non fosse reale, quindi non prestò molta attenzione a quest’ultima sensazione arrivata, mentre lui aveva già aumentato quella pressione delle braccia attorno a lei con abbandono disarmante. Lo strinse ancora, passando i palmi sulla schiena coperta da una camicia bianca di seta che le lasciò una sensazione di fresca sfuggevolezza per diversi minuti. Quel profumo percepito solo a tratti ora era più intenso che mai, -non dimenticarlo, non dimenticarlo- continuava a ripetersi mentre riempiva i polmoni per afferrarne anche la più remota molecola. –non dimenticarlo, fallo durare, fissa questo momento strappato a non so chi, conservalo, imprimilo, incollalo, stampalo nella testa, perché non tornerà. Rendilo immortale dentro di te-
Poi avvertì il naso insinuarsi fra le sue folte ciocche corvine e le labbra posarsi infine sulla linea del collo. Un attimo di esitazione, poi il respiro di Michael le solleticò la pelle in un moto involontario. Farfalle volavano ora in ogni parte, dentro di lei, fuori, intorno. Le vedeva con la coda dell’occhio, poi a tutto campo, poi non le vedeva più, -tanto sto solo sognando- si ripeteva per non soccombere al silenzio che li custodiva sospesi a metà.
-NATALIA!
Una voce da lontano a squarciare l’atmosfera onirica. Si separarono intorpiditi, cercarono pieghe nei vestiti da lisciare o da scrollare dall’erba, si schiarirono la voce guardando il terreno.
-E’ mia madre, devo andare
-si…ora..
-no, tu resta qui..
-ti accompagno
-NATALIA!
-no, non e’ necessario
-ma..
- testone
Un sorriso.
Si era già voltata alla ricerca delle bianche pietre piatte che formavano il sentiero del ritorno.
-quando ci vediamo?
Si era alzato in piedi a chiederlo, con un’urgenza che da subito gli era sembrata esagerata, ma che non era riuscito a contenere, tuttavia.
-mah..chi può dirlo..
-ah si?
-domani scemo. Ciao!
Un freddo familiare si impossessò dei suoi polmoni mentre la guardava andare via. Si distese sul tappeto erboso della collina che lo catapultò istantaneamente e di nuovo verso quel cielo che era stato teatro di un incontro d’anime che non aveva e non avrebbe mai previsto, così potente e sfacciato da essere divenuto clandestino, alla fine, senza alcun motivo apparente. Ed era lì quasi boccheggiante per l’emozione, spaesato ma gratificato da una sensazione che nemmeno lui era riuscito a focalizzare. Non aveva risposte per ora, e forse era questo a rendere unico quel momento appena vissuto, appena sfuggito, segreto prezioso e da dimenticare, che sarebbe rimasto per sempre custodito dalla muta e remota luce di Vega.
***
1983
(Condado Beach, San Juan- Puerto Rico)
-Quando il cielo diventa viola è l’ora della malinconia, lo dice sempre Mama.
Non mi sembra vero, non mi sembra possibile tutto questo, ma tutto porta a pensare che mi sto sbagliando. Ancora poche ore e ce ne andremo. Ancora poche ore e tutto questo sarà soltanto un ricordo, doloroso ed opaco, poi sempre più sfocato, finchè scomparirà senza nemmeno aver ricevuto commiato.
Sono magra, ho la pelle secca e scura. Al posto di quelle che dovrebbero assomigliare a floride noci di cocco ho due datterini raggrinziti, lo so.
-sei meravigliosa così come sei
-Non bevo molta acqua. Mama dice che sono una bambina e tutti mi assegnano un’età inferiore alla mia. Nessuno sa che ti amo. Nessuno sa che si può amare anche a quattordici anni. Pensano che sia pazza quando mi strappo i capelli ed inghiottisco litri di sangue dalla lingua che mi mordo per il nervoso. Credono che sia pazza. E lo sono. Le notti in bianco si seguono fra loro tutte uguali ed hanno formato una scia così lunga che non ne ricordo più l’inizio.
-Paula, mi amor..
-non parlare
-non mi lasciare, non te ne andare
-ormai è tutto deciso. Domani mattina presto partiremo. Mama ha trovato un lavoro in America. Dice che staremo meglio, dice che lì le persone stanno bene e c’è tanto lavoro. Natalia ha solo otto anni, mama dice che vuole per noi una vita più bella. Nessuno sa che anche se non vado a scuola ho imparato a leggere. Amo la letteratura. Neruda, le sue poesie. Marquez, il premio Nobel l’anno scorso. Ho divorato tutti i libri che potevo. Luìs, non voglio lasciarti.
-non piangere, ti prego non piangere, io ti seguirò, non ti lascerò mai andare, mai
-non dire assurdità. Siamo insieme solo in quell’effimero alito di tempo che è relativo, sembra così veloce ora che siamo vicini e sarà così lento da domani, quando l’infinito ci separerà. Viviamolo tutto
-come sei saggia mio amor, anche se non capisco tutto quello che dici. Morirei felice solo ascoltando il suono della tua voce, anche non capendo nulla
-Luìs, il destino è stato crudele con noi. Ci ha fatto assaggiare questo dolce tormento per toglierlo e riprenderselo subito. Ma io voglio prenderne finchè non ci separerà con i suoi artigli. Vieni, entriamo in acqua, lasciamoci cullare, voglio essere tua per la prima volta e per sempre.
Si guardarono intensamente, poi senza aggiungere una sola parola si presero per mano, lui le baciò il palmo tenendo serrati gli occhi per alcuni secondi inspirando il suo profumo. Poi si diressero piano verso la prima onda che andava a morire sulla sabbia rosata dal sole, entrarono nell’acqua che non aveva ancora smaltito il calore dei raggi brucianti che avevano dominato il cielo per tutto il giorno, ed ora, anche ora che erano morti volevano lasciare la loro firma.
Si amarono in silenzio alla luce di quel tramonto che sembrava irripetibile per il colore viola, quello che invitava alla malinconia. Si amarono nell’acqua quei poco più che bambini, troppo piccoli per il dolore, troppo piccoli per quell’amore. Si amarono nella bruciante consapevolezza del mai e del più uniti insieme a sancire una condanna, verdetto impietoso per un fiore così bello e fragile. Si amarono registi di una passione mai sperimentata, vincitori per un attimo e vinti per sempre dal tempo che passava e lasciava solo lacrime.
Si amarono nella muta promessa di vivere per sempre felici nei meandri dei loro ricordi.
1992
I'm falling into you
This dream could come true
And it feels so good falling into you
Falling like a leaf, falling like a star
Finding a belief, falling where you are
Catch me, don't let me drop,
Love me, don't ever stop.
So close your eyes and let me kiss you
And while you sleep I will miss you.
By Celine Dion
Quarantadue gradi, non meno. Il cielo terso, non un alito di vento, non una nuvola e nemmeno il canto di qualcuno dei numerosi Ara Giacinto, i preziosi pappagalli dalle piume blu cobalto che riposavano spossati anche loro, appoggiati ai telai delle ampie uccelliere. Vociare indistinto vicino alla casa, rumore di gioco.
Stavano per scoccare le 16:00 e non era ancora sceso, vittima di un sonno insistente e difficile da debellare. Dopo gli intensi crampi alla schiena della sera prima aveva dovuto prendere qualche sedativo, glielo aveva prescritto il medico. Intorpidito, poco lucido e già stanco ancor prima di affrontare la giornata, gli ospiti ed il mondo, si chiedeva come avrebbe fatto a sopportare tutto. Uscire da quella porta gli costava quanto scalare un monte, ma lo fece, conscio di non avere scelta.
Arrivato all’imbocco della scalinata che conduceva direttamente alla sala principale si dovette però ricredere: le cose non erano andate così male finora, rispetto allo spettacolo che gli si stava presentando davanti agli occhi.
-che succede
Il tono urgente tradiva l’impazienza di avere una risposta. Ma era troppo, risuonava stridulo ed innaturalmente concitato.
-buongiorno Mr Jackson..
-Miranda, che succede
Non l’aveva mai guardata con un’espressione così seria. Un senso di fastidio alla base dello stomaco, disagio.
-mi scusi Mr Jack..
-non scusarti e dimmi che diavolo sono queste valigie!
Gli occhi erano fuoco come le guance, e se ne stavano spalancati a fissarla con una pretenziosità che non gli era mai appartenuta. Non era solito rivolgersi in quel modo alle persone e lei aveva già sentito odore di guai.
-s-sono di mia figlia, Mr Jackson..le stavo preparando perché è in partenza, mi dispiace, non immaginavo di doverla avvertire, io..
-in partenza per dove
Sembrava non interessargli nulla del resto. Era concentrato su quei bordi marroncini che rivestivano la tela dei quattro ampi borsoni. Natalia Gomèz. Si intravedeva scritto con un pennarello nero sulla targhetta che pendeva da uno dei quattro lacci che richiudevano una delle sacche. Il sangue gli affluiva e defluiva al cervello con disarmante velocità, alternando forti giramenti di testa a pulsazioni così violente da fargli credere che gli sarebbero esplose le orecchie da un momento all’altro.
-per Harvard signore. E’ stata presa.
Per un attimo gli parve che tutti e cinque i sensi si fossero azzerati lasciandolo solo sul fondo di un pozzo profondissimo. Nemmeno il mezzo sorriso di Miranda fece in modo che il buonsenso trasformasse quell’espressione basita in qualcosa che si avvicinasse alla sincera contentezza per un’amica che ha raggiunto il suo obiettivo. Nel silenzio imbarazzato che si creò ebbe appena l’accortezza di mormorare un –mi scusi Miranda- prima di catapultarsi giù dalle scale.
1992
-sai cosa ti dico?
Camminava davanti a lui percorrendo quella salita con passo svelto, senza voltarsi e senza difficoltà ad orientarsi nel buio. Quella ormai era la sua casa più di qualunque altro luogo.
-cosa mi dici?
Mantenne il tono di sfida con il quale gli si era parata davanti con la solita domanda estemporanea.
-che chi arriva ultimo alla quercia è un tacchino!
Nat aveva pronunciato quella frase già correndo, sperando di avere un bel po’ di vantaggio sullo scatto felino di Michael, che, sapeva bene, non perdonava.
Ma lui aveva intuito tutto solo dal tono, e si era messo a correre dietro di lei molto prima di quanto immaginasse. Corse allo sfinimento ma non poté evitare il suo sguardo beffardo mentre la superava in quella corsa verso il cielo stellato, senza freni e senza motivo.
-così non vale!
Fu l’urlo di lui mentre avvertiva un peso aggiungersi repentino alla sua schiena, arrampicarsi e stringersi fortissimo fino a raggiungere le spalle, mentre due gambe gli stringevano i fianchi da dietro, in una morsa che non aveva alcuna intenzione di allentarsi. La allacciò a sé affrancando con le mani le ginocchia ai fianchi e, munito della nuova zavorra, prese a correre ancora più veloce verso la grande quercia, all’estremo apice della collina.
-yuhuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu
Natalie urlava a squarciagola, mentre una corda immaginaria sventolava sopra alle loro teste, accessorio di un’improbabile cow boy dall’aria insolitamente felice.
Risero, caddero a terra e risero ancora.
Era così semplice ora, era tutto così dannatamente semplice.
***
Il panorama dalla finestra della camera da letto era più bello che mai.
Le colline sotto di loro sfoggiavano miliardi di perle di luce che, vestite di tremante intermittenza, rendevano la città sottostante molto più affascinante e romantica, impreziosita da quell’oscurità surreale e magica il cui mistero iniziava a svanire ad est, quando le prime luci del giorno si posavano a delineare timidamente la celebre scritta.
Nessun rumore, solo quello della porta della stanza adiacente che si era aperta offrendogli un disegno se possibile ancora più meraviglioso di quello concesso dalla trasparenza della finestra a pochi centimetri.
Lei, avvolta da una vestaglia in pura seta nera, appoggiata allo stipite della porta del bagno lo scrutava con espressione indecifrabile ed una luce nello sguardo in grado di sciogliere l’ inibizione in un soffio. Aveva fatto un paio di passi verso di lui mentre la mano slacciava lentamente quel nastro che teneva uniti i due lembi di tessuto.
La guardava preda di un imbarazzatissimo istinto animale che tratteneva appena, desideroso soltanto che fosse lei a decidere i modi ed i tempi di ogni cosa.
-che ne pensi
Era stata la retorica spiccia di Brooke, che avvicinandosi aveva disteso i palmi sulla camicia scura che lui indossava, percorrendo sentieri immaginari fra il collo e l’addome.
Poi aveva sganciato da ogni asola i bottoni mentre lui, non riuscendo più a controllare il desiderio selvaggio, le aveva fatto scivolare dalle braccia la vestaglia, lasciandola completamente ed irreparabilmente nuda davanti ai suoi occhi.
Sussurrando parole irripetibili vicino al lobo che si era impegnata ad inumidire poco prima, si era inginocchiata sul suo bacino mettendo in seria difficoltà il suo equilibrio, fisico e mentale, mentre una canzone di Sinatra si insinuava attraverso le pareti, proveniente da quel mondo privo di colore appena fuori di lì.
Prigioniero di un limbo assordante e privo di vie di uscita, combatteva con il contrasto delle emozioni brucianti che quelle labbra gli stavano regalando con spietata cadenza. La mente in completa balia di quel fiume in piena alternava momenti di lucidità, in cui si assillava con domande di ogni tipo, a momenti di totale annegamento, avvolta da una nebbia di piacere troppo intensa, ma che tuttavia non era sufficiente a far cessare quella domanda, quella frase che ormai nasceva spontanea e senza permesso, ad ogni ora del giorno e della notte –dove ci porterà tutto questo-
No, non era il sesso, quello non era più un mistero per lui. Erano passati alcuni anni da quella notte del’89, quando aveva deciso di liberarsi dalle catene dei principi morali e di uscire dalle salde barricate che si era creato lui stesso; troppo pochi forse rispetto alla media maschile, ma non gli importava, ora che viveva prigioniero di quel ricordo dolce e amaro che bussava ogni tanto nelle serate d’estate, quando si fermava ad osservare la ruota panoramica nel ranch incapace di raggiungere fisicamente quella del luna park di Santa Monica.
Ora che il tempo aveva tamponato lacrime e sangue con Brooke era diverso.
Il sentimento che lo univa a lei non aveva più nulla a che vedere con quel senso di completezza assoluta, con quella forza sovrannaturale che lo aveva reso pazzo, con quella virulenza totalizzante che gli era entrata nelle fibre e che ancora oggi lo scuoteva.
No, non si sarebbe mai più lasciato trasportare con la stessa accondiscendenza dal fiume in piena, non avrebbe più permesso a se stesso una simile resa di fronte a quel calore che si era trasformato in ghiaccio istantaneamente ed aveva paralizzato il suo cuore, ora grande e vuoto, come una conchiglia abbandonata sul bagnasciuga, il cui abitante è finito chissà dove.
Il suo oggi era terrore. Terrore della solitudine.
E desiderio. Desiderio fulminante.
L’aveva presa con forza su quel copriletto di seta viola chiaro che non erano nemmeno riusciti a sollevare, ancora vestito per metà, in un impeto di frustrata voluttà, mentre la città continuava a vivere sotto ai loro piedi, al di fuori di quella stanza, ignara di aver perso di importanza, sovrastata dai loro gemiti.
Respiri strozzati nel petto e parole graffianti erano la cornice di quel ritmo che sincopato li trascinava fino in fondo, fino all’apice del piacere, fino a quando, insieme al fluire della tensione fuori di sé aveva avvertito ancora quella voce, ultimo sussulto della lucidità, che di lì a poco si era sciolta nel vapore dei loro respiri.
Dove ci porterà tutto questo.
***
Ora, era tutto diverso.
Come due colori sulla tavolozza vicini ma distanti, troppo diversi per unirsi in qualcosa di omogeneo ma ugualmente indispensabili al dipinto, c’erano due Michael, uguali ed opposti, in grado di vivere le emozioni in un modo assurdamente discontinuo.
Il dualismo si faceva a tratti talmente evidente da essere insopportabile proprio quella stessa notte, che nel giro di poche ore aveva del tutto smarrito i toni accesi della lussuria e del piacere intenso, colorandosi ora di blu, di mistero negli occhi di Natalie, di necessità della sua compagnia, così visceralmente indispensabile per l’unica cosa che desiderava veramente: non pensare.
Due colori così belli e preziosi. Due colori che non si sarebbero mai potuti fondere. Lui lo sapeva.
La guardò mentre si accomodava accanto a lui, appoggiando la testa sul suo addome per ammirare meglio lo spettacolo del cielo che sembrava così vicino. Lo aveva sempre utilizzato come cuscino, in tutti quei momenti che erano diventati rari, da un po’ di tempo. Ora sembrava completamente immersa nel suo elemento, in un mondo di silenzio, in cui le dita univano le stelle formando disegni immaginari che prendevano vita all’arrivo del vento, e raccontavano storie, e cantavano canzoni.
-Mike guarda! Ho trovato la stella più brillante dell’universo!
Sollevò lo sguardo dalle sue mani all’immensa oscurità vestita di lucciole che li sovrastava non potendo fare a meno di sorridere dinnanzi a quell’ingenuità che compariva inaspettata, in contrasto con le altre mille caratteristiche, che ora la faceva assomigliare davvero a qualcosa di piccolo e indifeso, una bambina.
-bè..non è esattamente la più brillante, ma di sicuro sarà fra le dieci stelle più brillanti della nostra galassia..
-ah si?! E tu che ne sai? Solo perché l’ho trovata io non è la più brillante?
Tu hai già la luna, lasciami le stelle no?
Non riuscì a risponderle, avvolto da un’intensa sensazione di tenerezza verso quegli occhi inviperiti che lo scrutavano dal basso. Ogni tanto, ne era convinto, era forse l’amica migliore che avesse mai avuto.
-Lo so perché quella è Vega, la quinta stella del cielo per grandezza
-Davvero?
Gli occhi di Natalie si erano ingranditi, se questo era possibile, dallo stupore.
-Si, fa parte della Lira, una costellazione abbastanza piccola ma molto appariscente, proprio grazie alla grandezza di Vega. Guarda-
Si alzò dal terreno mettendosi seduto, indicando il cielo ed unendo i puntini con le dita, come aveva fatto lei a casaccio poco prima. Anche Natalie fu costretta a sedersi dandogli le spalle, anzi appoggiandosi completamente a lui, totalmente rapita da quelle labbra che conoscevano le stelle. Avvicinandosi al suo orecchio la sua voce divenne un sussurro in grado di addomesticare la più feroce delle fiere ed iniziò il racconto che non era stato richiesto verbalmente, ma che sapeva, lei stava aspettando con paziente desiderio.
-Fu la prima lira ad essere costruita, ideata da Ermes, figlio di Zeus e di Maia, una delle Pleiadi, che inventò anche il plettro con cui suonarla.
Grazie a quella lira Ermes si tirò fuori dal guaio in cui s'era cacciato da ragazzo, quando aveva deliberatamente sottratto del bestiame di proprietà di Apollo. Infuriato Apollo si era presentato a reclamare la sua restituzione, ma quando sentì la bella musica che proveniva dalla lira lasciò che Ermes si tenesse le bestie e in cambio si prese la lira. Apollo diede poi la lira ad Orfeo, il più grande musicista del suo tempo, colui che era in grado di incantare le pietre ed i corsi d'acqua con la magia che emanava dai suoi canti, per accompagnare con essa le sue canzoni. Con il suono armonioso della sua lira Orfeo, unitosi alla spedizione di Giasone e degli Argonauti alla ricerca del vello d'oro, aveva perfino coperto le voci tentatrici delle sirene, ninfe marine che avevano adescato ed eliminato diverse generazioni di marinai. Così in molte altre imprese il magico suono della lira aveva accompagnato la vita di Orfeo portandogli buoni auspici e guidandolo come un prezioso talismano, e nel contempo allietando cuore e mente con le sue note irriproducibili, fino al giorno in cui sposò la ninfa Euridice.
L’amore che li univa non si può raccontare, lo profaneremmo. Possiamo solo dire che è impossibile immaginarlo.
Orfeo non viveva senza lei ed Euridice non viveva senza lui, si nutrivano soltanto dell’aria, poiché in essa era contenuto tutto ciò di cui il cuore innamorato necessita: Amore. Ma la bellezza di Euridice era il desiderio anche di altri, così Aristeo, un figlio di Apollo, un giorno in preda ad un raptus di passione l'assalì, e mentre tentava di sfuggirgli la donna inciampò in un serpente che la uccise all’istante con il suo morso velenoso.
Ad Orfeo si spezzò il cuore. Pazzo di dolore ed incapace di vivere senza la sua giovane sposa discese nell'oltretomba a chiedere che gliela restituissero. Questa era una richiesta senza precedenti. Ma il suono della sua musica affascinò persino Ade, il dio di quel mondo sotterraneo, che alla fine consentì che Euridice ritornasse con Orfeo nel mondo dei vivi, ad una condizione: Orfeo non doveva girarsi a guardare indietro fin quando i due non fossero di nuovo sani e salvi all'aperto.
Orfeo accettò prontamente e fece strada ad Euridice lungo l'oscuro passaggio che portava al mondo soprastante, strimpellando la lira per guidarla. Ma quella di essere seguito da un fantasma era per lui una sensazione snervante che nemmeno la sua lira fu in grado di acquietare. Non poteva essere perfettamente sicuro che la sua amata fosse dietro a lui, ma non osava voltarsi per accertarsene. Alla fine, quando erano quasi in superficie, i suoi nervi cedettero. Si girò per assicurarsi che Euridice fosse lì, e proprio in quell'istante lei scivolò nelle profondità del Regno dell'Oltretomba, perduta per sempre. Orfeo fu inconsolabile. Vagò per la campagna suonando musiche malinconiche sulla sua lira. Molte donne si offrirono di sposarlo, ma lui rimase per sempre solo, evocando il ricordo di Euridice con il dolce lamento del suo canto.
-e poi?
-e poi cosa?
-come va a finire?
Glielo chiese con impazienza, ma senza staccare gli occhi dal cielo, che si era trasformato in un teatro vero e proprio, in cui avevano preso forma le voci e le persone, in cui poteva vedere il racconto di Michael diventare realtà.
La sua guancia era ormai completamente adesa a quella fresca di lei che, totalmente sopraffatta dalla curiosità, non si era accorta di nulla in quella posizione con il naso all’insù. Un brivido lungo la schiena lo attraversò senza che potesse anche soltanto interrogarsi sul perché, mentre una forza strana non gli consentì di muovere un solo muscolo.
-ma è finita!
-non è possibile, non hai detto come ci va a finire la lira lassù, fra le stelle
-ah si, è vero. Non si sa molto su come morì Orfeo, si pensa che avesse provocato le ire del dio Dioniso per non averlo onorato abbastanza. Orfeo infatti reputava Apollo, dio del Sole, la divinità massima e se ne stava spesso seduto sulla sommità del Monte Pangeo in attesa dell'alba per essere il primo a salutare il Sole con le sue melodie. Per ripagarlo di quest'affronto, Dioniso mandò i maniaci suoi seguaci ad ucciderlo. Comunque siano andate le cose, alla fine Orfeo raggiunse la sua adorata Euridice nel Mondo dell'Oltretomba e le Muse posero la lira fra le stelle con l'approvazione di Zeus, loro padre.
-così alla fine hanno potuto stare insieme
-già, alla fine
-anche se lui è stato scemo forte eh!
-ma..Nat, come scemo, è mitologia, non..
-ho capito ma se il signor Ade gli aveva detto di non girarsi lui perché l’ha fatto? Perché non siamo mai contenti di quello che abbiamo, perché non vogliamo mai aspettare, vogliamo tutto e subito, e quando la felicità arriva davvero..Bam! non ce ne accorgiamo, la lasciamo ripartire senza averne presa un po’, totalmente incapaci di viverla.
La guardò intensamente in quegli occhi neri come la pece. Il cuore era andato a battere chissà dove mentre aveva udito le sue parole, mentre si era sentito nudo di fronte alla verità uscita da una bocca troppo giovane per conoscerla così. Ma era evidentemente soltanto una sua errata considerazione a questo punto.
Si allungò di poco per afferrarle quel polso sottile e tirarla a sé, non sapeva assolutamente perché ma doveva farlo, era qualcosa di più forte della volontà, della logica e perfino del buon senso, doveva farlo. E lo fece.
Pur essendo girata di spalle lo avvertiva su di sé come un velo leggero, ma presente, palpabile. Non conosceva il motivo di quello sguardo, non sapeva nulla al di fuori di quello che lui voleva concederle con le parole, intuiva. Intuiva e basta, solo vedendolo da lontano, solo dal modo in cui camminava o si voltava quando qualcuno lo chiamava, intuiva la sua stanchezza alla sera, la sua reticenza a parlare, la sua voglia di averla vicino, la sua rabbia, la sua esuberanza, il suo dolore. Non avrebbe mai udito certi pensieri esplicitarsi in parole. Si sarebbe sempre e solo accontentata di udirli sussurrati dalla sua stessa voce interiore, che tutto capiva, ed alla quale poco sfuggiva.
Una lieve tensione al polso, la sua mano la fece voltare verso di sé, lentamente. Non ebbe il coraggio di affrontarlo guardandolo negli occhi come sempre, ma non oppose alcuna resistenza lasciando che dirigesse quel movimento senza un senso.
Non voleva incrociare il suo sguardo, lo avrebbe spogliato definitivamente di quel briciolo di coraggio che gli era rimasto, e che ancora gli serviva per allacciare le mani dietro alla sua schiena ed affondare il viso fra i suoi capelli.
-stringimi
Glielo disse ma a lei parve di aver sognato. Forse per un attimo smise anche di respirare, ma gli concesse quello che desiderava, anche se non lo aveva mai chiesto così intensamente, così disperatamente, così intimamente. Era sempre stata per lui una compagna di giochi, di battute, di guerre con i palloncini d’acqua, di battibecchi e scorpacciate, di ricordi e discorsi che non si potevano annoverare esattamente nella categoria “serietà”. Non era mai capitato questo.
Preferiva farlo ridere o arrabbiare, a seconda dei casi, era così che amava stargli accanto, spesso per pochissimi minuti al giorno, più di rado per alcune ore, alcune volte per un lasso indefinito in cui perdeva completamente la concezione del tempo e dello spazio. In ogni caso i sentimenti erano troppo difficili da definire per lei, e risultavano sempre scomodi una volta palesati. Cambiavano le carte in tavola, costruivano sensi del dovere e sensi di colpa su alte palizzate che era poi troppo difficile riverniciare, una volta rovinate.
-forse sto sbagliando tutto
Un altro sussurro fra i capelli, un altro brivido.
-forse. Ma non lo saprai mai se non provi
Un alito di vento.
-stringimi ancora
Ora la testa le girava vorticosamente, ma non sapeva stabilire assolutamente cosa fosse o non fosse reale, quindi non prestò molta attenzione a quest’ultima sensazione arrivata, mentre lui aveva già aumentato quella pressione delle braccia attorno a lei con abbandono disarmante. Lo strinse ancora, passando i palmi sulla schiena coperta da una camicia bianca di seta che le lasciò una sensazione di fresca sfuggevolezza per diversi minuti. Quel profumo percepito solo a tratti ora era più intenso che mai, -non dimenticarlo, non dimenticarlo- continuava a ripetersi mentre riempiva i polmoni per afferrarne anche la più remota molecola. –non dimenticarlo, fallo durare, fissa questo momento strappato a non so chi, conservalo, imprimilo, incollalo, stampalo nella testa, perché non tornerà. Rendilo immortale dentro di te-
Poi avvertì il naso insinuarsi fra le sue folte ciocche corvine e le labbra posarsi infine sulla linea del collo. Un attimo di esitazione, poi il respiro di Michael le solleticò la pelle in un moto involontario. Farfalle volavano ora in ogni parte, dentro di lei, fuori, intorno. Le vedeva con la coda dell’occhio, poi a tutto campo, poi non le vedeva più, -tanto sto solo sognando- si ripeteva per non soccombere al silenzio che li custodiva sospesi a metà.
-NATALIA!
Una voce da lontano a squarciare l’atmosfera onirica. Si separarono intorpiditi, cercarono pieghe nei vestiti da lisciare o da scrollare dall’erba, si schiarirono la voce guardando il terreno.
-E’ mia madre, devo andare
-si…ora..
-no, tu resta qui..
-ti accompagno
-NATALIA!
-no, non e’ necessario
-ma..
- testone
Un sorriso.
Si era già voltata alla ricerca delle bianche pietre piatte che formavano il sentiero del ritorno.
-quando ci vediamo?
Si era alzato in piedi a chiederlo, con un’urgenza che da subito gli era sembrata esagerata, ma che non era riuscito a contenere, tuttavia.
-mah..chi può dirlo..
-ah si?
-domani scemo. Ciao!
Un freddo familiare si impossessò dei suoi polmoni mentre la guardava andare via. Si distese sul tappeto erboso della collina che lo catapultò istantaneamente e di nuovo verso quel cielo che era stato teatro di un incontro d’anime che non aveva e non avrebbe mai previsto, così potente e sfacciato da essere divenuto clandestino, alla fine, senza alcun motivo apparente. Ed era lì quasi boccheggiante per l’emozione, spaesato ma gratificato da una sensazione che nemmeno lui era riuscito a focalizzare. Non aveva risposte per ora, e forse era questo a rendere unico quel momento appena vissuto, appena sfuggito, segreto prezioso e da dimenticare, che sarebbe rimasto per sempre custodito dalla muta e remota luce di Vega.
***
1983
(Condado Beach, San Juan- Puerto Rico)
-Quando il cielo diventa viola è l’ora della malinconia, lo dice sempre Mama.
Non mi sembra vero, non mi sembra possibile tutto questo, ma tutto porta a pensare che mi sto sbagliando. Ancora poche ore e ce ne andremo. Ancora poche ore e tutto questo sarà soltanto un ricordo, doloroso ed opaco, poi sempre più sfocato, finchè scomparirà senza nemmeno aver ricevuto commiato.
Sono magra, ho la pelle secca e scura. Al posto di quelle che dovrebbero assomigliare a floride noci di cocco ho due datterini raggrinziti, lo so.
-sei meravigliosa così come sei
-Non bevo molta acqua. Mama dice che sono una bambina e tutti mi assegnano un’età inferiore alla mia. Nessuno sa che ti amo. Nessuno sa che si può amare anche a quattordici anni. Pensano che sia pazza quando mi strappo i capelli ed inghiottisco litri di sangue dalla lingua che mi mordo per il nervoso. Credono che sia pazza. E lo sono. Le notti in bianco si seguono fra loro tutte uguali ed hanno formato una scia così lunga che non ne ricordo più l’inizio.
-Paula, mi amor..
-non parlare
-non mi lasciare, non te ne andare
-ormai è tutto deciso. Domani mattina presto partiremo. Mama ha trovato un lavoro in America. Dice che staremo meglio, dice che lì le persone stanno bene e c’è tanto lavoro. Natalia ha solo otto anni, mama dice che vuole per noi una vita più bella. Nessuno sa che anche se non vado a scuola ho imparato a leggere. Amo la letteratura. Neruda, le sue poesie. Marquez, il premio Nobel l’anno scorso. Ho divorato tutti i libri che potevo. Luìs, non voglio lasciarti.
-non piangere, ti prego non piangere, io ti seguirò, non ti lascerò mai andare, mai
-non dire assurdità. Siamo insieme solo in quell’effimero alito di tempo che è relativo, sembra così veloce ora che siamo vicini e sarà così lento da domani, quando l’infinito ci separerà. Viviamolo tutto
-come sei saggia mio amor, anche se non capisco tutto quello che dici. Morirei felice solo ascoltando il suono della tua voce, anche non capendo nulla
-Luìs, il destino è stato crudele con noi. Ci ha fatto assaggiare questo dolce tormento per toglierlo e riprenderselo subito. Ma io voglio prenderne finchè non ci separerà con i suoi artigli. Vieni, entriamo in acqua, lasciamoci cullare, voglio essere tua per la prima volta e per sempre.
Si guardarono intensamente, poi senza aggiungere una sola parola si presero per mano, lui le baciò il palmo tenendo serrati gli occhi per alcuni secondi inspirando il suo profumo. Poi si diressero piano verso la prima onda che andava a morire sulla sabbia rosata dal sole, entrarono nell’acqua che non aveva ancora smaltito il calore dei raggi brucianti che avevano dominato il cielo per tutto il giorno, ed ora, anche ora che erano morti volevano lasciare la loro firma.
Si amarono in silenzio alla luce di quel tramonto che sembrava irripetibile per il colore viola, quello che invitava alla malinconia. Si amarono nell’acqua quei poco più che bambini, troppo piccoli per il dolore, troppo piccoli per quell’amore. Si amarono nella bruciante consapevolezza del mai e del più uniti insieme a sancire una condanna, verdetto impietoso per un fiore così bello e fragile. Si amarono registi di una passione mai sperimentata, vincitori per un attimo e vinti per sempre dal tempo che passava e lasciava solo lacrime.
Si amarono nella muta promessa di vivere per sempre felici nei meandri dei loro ricordi.
1992
I'm falling into you
This dream could come true
And it feels so good falling into you
Falling like a leaf, falling like a star
Finding a belief, falling where you are
Catch me, don't let me drop,
Love me, don't ever stop.
So close your eyes and let me kiss you
And while you sleep I will miss you.
By Celine Dion
Quarantadue gradi, non meno. Il cielo terso, non un alito di vento, non una nuvola e nemmeno il canto di qualcuno dei numerosi Ara Giacinto, i preziosi pappagalli dalle piume blu cobalto che riposavano spossati anche loro, appoggiati ai telai delle ampie uccelliere. Vociare indistinto vicino alla casa, rumore di gioco.
Stavano per scoccare le 16:00 e non era ancora sceso, vittima di un sonno insistente e difficile da debellare. Dopo gli intensi crampi alla schiena della sera prima aveva dovuto prendere qualche sedativo, glielo aveva prescritto il medico. Intorpidito, poco lucido e già stanco ancor prima di affrontare la giornata, gli ospiti ed il mondo, si chiedeva come avrebbe fatto a sopportare tutto. Uscire da quella porta gli costava quanto scalare un monte, ma lo fece, conscio di non avere scelta.
Arrivato all’imbocco della scalinata che conduceva direttamente alla sala principale si dovette però ricredere: le cose non erano andate così male finora, rispetto allo spettacolo che gli si stava presentando davanti agli occhi.
-che succede
Il tono urgente tradiva l’impazienza di avere una risposta. Ma era troppo, risuonava stridulo ed innaturalmente concitato.
-buongiorno Mr Jackson..
-Miranda, che succede
Non l’aveva mai guardata con un’espressione così seria. Un senso di fastidio alla base dello stomaco, disagio.
-mi scusi Mr Jack..
-non scusarti e dimmi che diavolo sono queste valigie!
Gli occhi erano fuoco come le guance, e se ne stavano spalancati a fissarla con una pretenziosità che non gli era mai appartenuta. Non era solito rivolgersi in quel modo alle persone e lei aveva già sentito odore di guai.
-s-sono di mia figlia, Mr Jackson..le stavo preparando perché è in partenza, mi dispiace, non immaginavo di doverla avvertire, io..
-in partenza per dove
Sembrava non interessargli nulla del resto. Era concentrato su quei bordi marroncini che rivestivano la tela dei quattro ampi borsoni. Natalia Gomèz. Si intravedeva scritto con un pennarello nero sulla targhetta che pendeva da uno dei quattro lacci che richiudevano una delle sacche. Il sangue gli affluiva e defluiva al cervello con disarmante velocità, alternando forti giramenti di testa a pulsazioni così violente da fargli credere che gli sarebbero esplose le orecchie da un momento all’altro.
-per Harvard signore. E’ stata presa.
Per un attimo gli parve che tutti e cinque i sensi si fossero azzerati lasciandolo solo sul fondo di un pozzo profondissimo. Nemmeno il mezzo sorriso di Miranda fece in modo che il buonsenso trasformasse quell’espressione basita in qualcosa che si avvicinasse alla sincera contentezza per un’amica che ha raggiunto il suo obiettivo. Nel silenzio imbarazzato che si creò ebbe appena l’accortezza di mormorare un –mi scusi Miranda- prima di catapultarsi giù dalle scale.
marina56- Moderator
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Re: Don't call my name
capitolo quarto
1993
Urlava. Urlava fortissimo. Urlava talmente forte da rendere più che chiaro il percorso di quelle due vene che le solcavano la fronte formando una x proprio al centro. Il viso madido e violaceo, le mani fra i capelli, semi immerse nella chioma fradicia anche lei, di acqua gettata dagli idranti, o di sudore, ma più probabilmente di entrambi uniti insieme.
Sembrava disperata più che felice, sembrava agonizzare in quell’attesa che era stata snervante fin da subito. Sedici, diciassette, diciotto ore in piedi al sole, all’ombra, alla pioggia, e poi al buio. Un’attesa disumana.
Ma non era l’unica. Era circondata da settantamila simili a lei per sorte e sembianze, stipati attorno come sardine in una scatola di latta troppo piccola per contenerle tutte. Tutti la stessa espressione, tutti la stessa luce negli occhi. Tutti la stessa terrificante consapevolezza di un sogno che si sta per avverare.
Oddiomio che caldo. E la puzza, ne vogliamo parlare?? Ma che mi ha detto il cervello? Ma..m..MACHETTIGRIDI CRETINA DI UNA CRETINA! Guarda se sta spastica deve spaccarmi un timpano. Per cosa poi?? Cioè, capisco tutto ma santodio è Michael, mica Cristo sceso in terra! Già ma forse non tutti poss..Aahio! Chi mi ha ridotto il piede ad una frittella?! Ahhh tanto lo so, non mi basterai una sola volta. So che se ti rivedo è peggio, solo che mi manchi troppo. E se non ci riesco? Non sia mai!! Fammi immediatamente passare tu, armadio a quattro ante. Dio che puzza di sudore, ma che hanno questi sotto le ascelle, eau de cipol?!
-stai tranquilla, non agitarti così ti prego-
La ragazza con i capelli mossi non voleva saperne di calmarsi. Le guance sempre più rosse, le vene in fronte sempre più gonfie. Forse era preda di una crisi isterica. La guardava e non riusciva a non preoccuparsene.
Il monitor 7 era acceso da un pezzo e gli offriva quella panoramica un po’ sfocata, come se il tubo catodico dell’apparecchietto di servizio soffrisse anche lui di tutto quel fragoroso rimescolamento di suoni.
–nemmeno la metà di quello che sento io nella testa però- pensò ravviandosi un ciuffo ribelle uscito dall’elastico. La sommatoria di tutte quelle voci rendeva l’aria densa, carica di elettricità, -energia- l’avrebbe definita in un momento di entusiasmo. Ora però assomigliava di più all’avvicinarsi inesorabile di un treno in corsa che di lì a poco gli avrebbe sfondato i timpani.
Si muovevano per inerzia guidati dall’impercettibile succedersi dei battiti cardiaci che ancora li tenevano in piedi. Fissava la marea umana fluttuante ora verso destra ora verso sinistra, -non se ne rendono nemmeno conto- no, non se ne rendevano conto. Troppo rumore, poco, pochissimo ossigeno, emanavano calore, una nube immacolata si poteva vedere sulle loro teste alla luce bieca del riflettore bianco, quello che illumina il palco a centottanta gradi, attaccato alla torretta a sinistra del banco regia.
La gola secca e leggermente dolorante, lubrificata a getto continuo dallo sciroppo alla codeina. No, non era affatto in forma. –sono stanco maledizione- si ravviò l’ultimo ciuffo con un gesto stizzito, chiuse gli occhi e lo intrappolò definitivamente insieme agli altri. Non poteva cancellare o rinviare altre date, non poteva e non voleva. Lo aveva giurato nel silenzio della sua suite due sere prima, quando nemmeno i paramedici del Miguel Hidalgo erano riusciti ad alleviare quel maledetto dolore ai reni. Dopo cinque date cancellate, due rinviate, lo svenimento ed il ricovero si sentiva al capolinea. Ma raggiungerlo per davvero sarebbe stato immeritato. Non lo sopportava.
Senti bello, non so se hai inteso, ma se non ti sposti ti prendo a calci quel culone flaccido che ti ritrovi! Intende?!? Si, si, non me ne frega un accidente se c’eri prima tu, non vedi che sono nana? Come faccio a vedere qualcosa con quel capoccione, dai non rompere e levati!
Resistenza fisica. L’unica parola d’ordine in mezzo al conglomerato appiccicoso di quei corpi stipati in pochi metri quadrati. Solo e soltanto i più forti, i più resistenti ce la fanno.
Resistenza. –devo resistere, non è ancora finita.
Ecco, forse da qui ho una briciola di possibilità. Forse può vedermi. Dico forse. Eeeeeehi! Chi mi ha palpato il didietro?! Non so perché lo sto facendo, non-lo-so. Anzi lo so. Ahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh MA VI SIETE IMPAZZITI? CHE E’ STO SPRUZZO, VEDETE UN INCENDIO PER CASO?! Ah ho capito, volete dare una sciacquata a sti luridi che ho di fianco, ecco cos’è! Che palco immenso, cazzolina, ho sempre sognato di vederlo davvero..e ora..qui…qui e ora, devo ricordare ogni singola cosa.
***
-Lorraineeeeeeeeeee! Dove diavolo si è cacciata?!
-Dimmi teddy!
-Voglio Lorraine fra un secondo al carro 16. E’ necessario spostarlo di una cinquantina di centimetri perché così esce di troppo dal pannello!
-ma ieri..
-non vedete che Sugarfoot non ha spazio per muoversi?! Muovetevi mancano dieci minuti cazzo!
Impossibile offrire un quadro preciso dei singoli spostamenti dietro a quei pannelli scuri che separavano il sottobosco del backstage dal pubblico. Frenetico. Si spostavano in ogni direzione, su dalle scale, giù dalle scale, oggetti e persone in un indistinto susseguirsi di schiamazzi, appelli, ordini a mezza voce che somigliavano più ad intimazioni esasperate malcelate dall’ansia costante, dal tempo sovrano, nemico da sempre in tutti quei momenti in cui l’attesa diventa febbrile.
-si dilata quando sei impaziente e si comprime quando sei insicuro. Si diverte- un ghigno di sarcasmo fra quei denti bianchi, uno sguardo amaro rivolto al suo riflesso, quell’immagine che non sapeva far altro che assecondare ogni suo movimento.
Un’ultima occhiata allo specchio prima che le nocche di Karen battessero tre volte contro il legno chiaro della porta del camerino, poco sotto la targhetta designata a sopportare quelle due lettere scomode incise in nero. M.J.
-Michael ci siamo. Siediti un attimo
Obbedì rivolgendole un’occhiata densa che le arrivò riflessa per quello che era attraverso le fibre del vetro riflettente.
-ci siamo
Lo ripeté con una vena di pacata rassegnazione, a bassa voce, perché sprecarla per parlare sarebbe stato un vero e proprio suicidio.
Sfilò un lungo pennello dalla valigia che era stata trasformata in marsupio e che trasportava ovunque andasse senza più nemmeno avvertire la fatica. La fatica delle prime volte, quando diciannovenne doveva correre da un set fotografico all’altro, mentre Dick, agli esordi anche lui, non aveva il tempo di spiegarle dove fossero le cose, le persone a cui rivolgersi, cosa era meglio dire e cosa era invece meglio tacere alle domande imperanti di quei vip incerati sul loro aspetto fisico, per nulla interessati alla verità, ma soltanto alle lusinghe. I trucchi del mestiere li aveva imparati da sola, in onore di quello stesso pennello che ora teneva in mano, il succo di tutto. Dick Zimmerman le aveva presentato l’uomo che le sedeva di fronte ora con gli occhi chiusi, in attesa esclusivamente del suo estro, detentore di quella cieca fiducia che l’aveva fatta sentire forte e viva, realizzata, finalmente. Lo stesso uomo che ora si spegneva lentamente, e nel cui sguardo non c’era più la scintilla di qualche anno fa, persa nel vuoto di quella disperazione che avanzava inesorabile di minuto in minuto.
Uniformare il colore. Ma quale colore.
Una passata sotto gli occhi, una sotto gli zigomi, il mento. Intingeva e stendeva, intingeva e stendeva sul viso ora la crema, ora la cipria, una punta di terra di Siena come a dar forma ad un dipinto, quello che lei aveva voluto creare di volta in volta, ma ora più che mai scultura pallida ed emaciata, bisognosa soltanto di una carezza vera.
-assottiglia il naso, di qui per favore
-l’ho fatto Mike
-no di più, per favore prendi il numero 77
Non potevi fregarlo nemmeno lì, se ne intendeva, conosceva ogni dettaglio, ogni più piccolo cavillo di ogni ruolo, di ogni mansione che riguardasse il suo lavoro. Un formicolio alla fronte, messaggero di un’emozione troppo forte che stava arrivando proprio in quel momento, il più sbagliato, lo costrinse a chiudere gli occhi per evitare che si inumidissero all’arrivo inaspettato di quella memoria remota.
-ma come ti sei combinata?!
-perché?
Avrà avuto si e no dodici anni, se ne stava in piedi dietro alla porta della sua stanza che era rimasta serrata a chiave per tutta la mattina. A nulla erano servite le richieste di Katherine, poi quelle di Janet, poi le intimazioni di Joe. Non voleva uscire. Lo specchio quel giorno di febbraio gli aveva offerto una delle immagini peggiori della sua vita. Macchie. Una orribile valanga bianca aveva ridotto il bel colore ambrato del viso a qualche minuscolo isolotto, imbarazzante e sedentario, umiliante in tutta la desolazione che emanava, beffarda nell’impietosa condanna che rappresentava. Rifiuto totale. Si era infilato sotto alle lenzuola con il viso tumefatto dalle lacrime, inconsolabile. Terminate poi le richieste ed i rumori aveva pensato di essere totalmente solo nel vuoto di quella stanza, quando un fruscio sommesso aveva spostato la sua attenzione al pavimento, dal quale emergeva un foglietto bianco. La grafia infantile.
Apri?
Avvolto in un asciugamano verde che lasciava scoperti solo gli occhi aveva fatto scattare la serratura mosso più che altro dalla sua inguaribile curiosità. E l’aveva trovata lì, piccola, con in mano una tavoletta di cioccolata. Il viso pieno di puntini rossi disegnati con un pennarello. Aveva risposto con naturalezza cercando di contenere le risate che dopo pochi minuti erano esplose dalle loro bocche.
-ora che siamo uguali esci di lì?
Era stato quello il momento in cui aveva capito di adorarla profondamente.
–Natalie. Dio,Se solo fossi qui- se l’era lasciato sfuggire dalla mente in un quasi singhiozzo, senza nemmeno curarsi della presenza di Karen.
-se solo fossi qui-
Lo vide assopirsi in un pensiero lontano, quindi prese la tonalità più scura di marrone e cercò il più possibile di accontentarlo, consapevole che non sarebbe comunque mai stato possibile. Non su quell’argomento almeno.
***
-venti secondi! Diciannove..
- Mj? dov’è??
-sono qui
-oh bene, gli occhiali!
-sedici!
-una sistemata al ciuffo, Karen!
-della lacca di lì!
-tredici!
-in posizione! Tieni le gambe leggermente piegate come al solito, molleggia in questo modo..e quando si blocca piega tutto ed atterra con la schiena dritta, ok?
-ok
-sette!
-un po’ d’acqua per favore
-quattro!
-preparo cursore..sganciare la pedana!
-uno!
***
1992
Dopo le scale aveva aggredito anche il tappeto del soggiorno che aveva reagito al suo incedere urgente increspandosi tutto e diventando un ottimo motivo di caduta rovinosa al suolo per I futuri passanti.
Aveva salutato i presenti frettoloso e, senza preoccuparsi di dare nell’occhio, si era diretto come una furia alla dependance dove si sarebbe tenuto il rinfresco, sul lato est della proprietà, sicuro di trovarla intenta negli ultimi preparativi.
Doveva farsi spiegare il motivo di quella ferita che sentiva bruciare nel petto, appena inferta ma già infetta, gravissima e forse incurabile.
Gli aveva mentito, gli aveva taciuto una notizia così importante –e grave-. Avrebbe avuto mille occasioni per accennarglielo e non lo aveva fatto. Ma la cosa che faceva più male era l’averlo saputo in quel modo, nell’irreparabile imminenza del fatto. –come ha potuto- non riusciva a capacitarsene mentre quasi correva come impazzito sotto quel sole a picco che non voleva nemmeno degnarsi di calare un po’ nonostante lo zenit fosse ormai lontano.
-Natalie!
Aveva cercato di non far trasparire l’affanno mantenendo la voce più ferma possibile mentre lei gli correva incontro a piedi nudi e con un enorme sorriso, destata da quel richiamo mentre seduta sul bordo della piscina stava cercando un po’ di refrigerio.
Gli shorts di jeans lasciavano che i raggi di quel sole prepotente le accarezzassero le gambe che francamente non ricordava così lunghe e tornite, scure, impenetrabili, calde.
Aveva aperto le braccia e gli si era buttata letteralmente al collo, senza porsi domande o remore, mossa solamente dalla voglia bruciante di averlo addosso, rassegnatasi a quel cuore che aumentava inspiegabilmente i suoi battiti tutte le volte che lo vedeva, anche solo da lontano.
Quel contatto gli era stato fatale. Per un momento aveva perso la vista e l’udito, i colori e la connessione con quel prato che improvvisamente era diventato un deserto appena sufficiente per le emozioni date da quel corpo caldo che lo aveva travolto.
Lucidità precaria, che prima di spirare definitivamente gli aveva lasciato il tempo di avvertire i suoi seni premergli il petto, e chiudere le braccia di riflesso a completare quella stretta, dimenticandosi anche il suo nome per un lungo, infinito momento.
-perché l’hai fatto
Il senso di violenta frustrazione al pensiero di quelle valigie taciute e piene di cose non dette posate fuori dalla sua stanza a beffarsi di lui, gli aveva dato la forza per ritornare alla realtà, riaprire gli occhi e riorganizzare le idee, sebbene avesse perso ormai definitivamente il piglio impettito che solo la collera era riuscita a posare su quella sua figura esile ed armoniosa.
-fatto cosa
Gli occhi le si erano ingranditi per lo stupore mentre l’aveva allontanata delicatamente da quel dolce paradiso, pacato ma deciso ad ottenere le spiegazioni che gli spettavano di diritto.
-te ne vai senza dirmi niente
Lo sguardo severo, deluso.
-no, te l’avrei detto
Lo affrontava senza abbassare lo sguardo, nel suo solito movimento fiero delle sopracciglia che si erano inarcate. Le iridi ferme in quelle del suo inquisitore.
-E quand’è che me l’avresti detto, tanto per sapere
La collera stava nuovamente superando il livello massimo, e come mercurio impazzito l’aveva sentita sfondare la colonnina del suo termometro, riversandosi nella profondità dei suoi occhi scuri, ormai ridotti a due fessure.
-non amo gli addii. Lo sai benissimo
-e io non amo essere preso in giro!
Troppo alto quel tono di voce. Non gli apparteneva ed aveva fatto sobbalzare anche lui, assolutamente non abituato a rivolgersi così alle persone. Assolutamente non abituato a litigare con lei.
Non c’era speranza quando si arrabbiava, lo sapeva bene, quindi non si era nemmeno affannata a cercare di rispondergli, di spiegargli che non lo stava prendendo in giro, che non lo avrebbe mai fatto, ma era troppo doloroso lasciarlo, era troppo dolorosa la consapevolezza che anche lui se ne sarebbe andato per chissà quanto. Era come una cascata e loro si stavano avvicinando al precipizio, inesorabilmente, senza appigli.
Persa nell’accettazione di una realtà che aveva scelto di accantonare ma che era emersa con violenza nel momento meno opportuno, -proprio oggi, il nostro ultimo giorno- non aveva potuto fare a meno di accogliere sulle guance un paio di quelle gocce salate che tanto detestava.
Si era voltata di scatto per non farsi vedere.
L’aveva vista lievemente affannata e rossa sulle guance ambrate, l’aveva vista abbassare lo sguardo mentre non era riuscita a sostenere il suo, di fuoco, perfettamente consapevole che la discussione si sarebbe conclusa di lì a poco con lui che se ne andava, lasciandola sola con i suoi sensi di colpa. L’aveva vista girarsi di spalle e rivolgere lo sguardo verso un punto della vallata che lui non riuscì a decifrare dalla sua posizione arretrata.
-perché ti sei voltata?
-perché non voglio guardare mentre te ne vai arrabbiato.
***
Un boato assordante. I tecnici del suono in regia avevano comunicato brillantemente con il backstage perché nel momento in cui era stato sbalzato sul palco come un toast cotto a puntino erano riusciti a produrre un rumore secco e metallico, lo stesso che potrebbe fare una nave quando lascia gli ingranaggi del cantiere e viene posata in mare, suo futuro elemento, da quel momento all’eternità. Un effetto acustico che tuttavia aveva perduto la teatralità che avrebbe meritato, quasi completamente sopraffatto dal rumore della vita di quelle settantaduemila teste.
Immobile in posizione da guerriero greco, statico e dinamico, armonico nello spazio. Era lì, a pochi metri da lei che non riusciva a crederci. Certo che ne era valsa la pena, una giornata estenuante, l’attesa fuori dai cancelli che alcune ore dopo sarebbero stati completamente abbattuti dal peso della folla che non si era rassegnata a rimanere fuori, nonostante non tutti fossero muniti di biglietto, la corsa per raggiungere la posizione migliore nell’immenso prato che ora non riusciva ad essere sufficiente per tutti, le gomitate, gli spintoni. Ed eccolo in tutta la sua sfacciata regalità.
Un anno e tre mesi dopo, più bello dell’ultima volta, più bello di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
***
Era rimasto immobile dietro di lei per un lungo momento, incapace di prendere qualunque iniziativa, incapace di muovere un singolo arto, incapace di pensare. Le erano scese cinque lacrime, lo sapeva anche se non la vedeva direttamente in viso, aveva seguito i movimenti delle spalle e del braccio sinistro, pronto e scattante a recuperarle in un movimento impercettibile che però non gli era sfuggito.
Aveva sentito il rumore dell’erba sotto ai suoi passi mentre si allontanava. Avrebbe ricevuto i suoi ospiti come si conveniva, e non gli sarebbe passata per almeno tre o quattro giorni. Una sesta lacrima le aveva rigato il viso al pensiero che lei tutto quel tempo per aspettarlo non lo avrebbe avuto.
***
Scintille cadevano a pioggia dietro a quella figura luccicante di strass, oltre che di luce propria. Il fascio di luce accecante uscito dall’enorme riflettore centrale gli batteva direttamente in faccia, consentendogli di scorgere veramente pochi particolari nel mare di teste che lo stavano circondando, donandogli una sensazione di completezza e di vuoto, nel contempo. Un lampo squarciava il cielo annunciando la tempesta già prevista dal meteo delle cinque, qualcuno in lontananza diventava improvvisamente alto, -è salito sulle spalle dell’amico per vedere meglio, si daranno il cambio- trattenne un sorriso al pensiero, due abissi oscuri nella mischia si velavano di lacrime, aguzzò la vista e rifiutò il pensiero nello stesso momento in cui stava per nascere, -non può essere lei-, un tuono seguiva il lampo di prima, la ragazza dai capelli mossi sveniva stremata.
Nulla lo mosse più di tanto, niente pensieri, niente concentrazione, niente di niente. Quando si sentì abbastanza carico si tolse gli occhiali lentamente guardando fisso davanti a sé, lo sguardo fiero e le gote contratte, ne chiuse le stanghette e li lanciò via, perdendoli per sempre. Cinque, sei sette e otto..
***
-Sette minuti esatti da ora per il cambio scena!
-James, di qui con quei Subwoofer!
-Siedah! Dov’è?
-si sta scaldando la voce
-mj?
-arriva
-Security!
-Sta chiamando il capo della security
-security!
-mr Jackson mi dica, qualche problema?
-si. Venga un momento per favore. Guardi nel monitor. La vede?
-chi signore?
-quella ragazza con i capelli scuri, questa qui
-si?
-dovete portarmela sul palco
-ma non era l’altra che..
-no, stasera sale lei
-ma mr Jackson la procedura..
-me ne frego della procedura. Portami quella ragazza sul palco
-Michael non sarà possibile, lo sai. Abbiamo già provato con la bionda che fra l’altro è già nella posizione stabilita, come programmato. Anche volendo quella è troppo arretrata, è impossibile..
-Non significa niente quella parola per me. Rendetelo possibile, Teddy, non mi interessa. Sul palco. Mentre canto She’s out deve salire lei. E voglio il playback su tutta la traccia, avvertite Kenny in regia. Avete ancora tutto il tempo di I jus’t can’t stop, fatelo. Per favore.
***
-She's out of my life, She's out of my life
Merda santissima, mi si rigirano le budella, merda santissima questa canz..
-And I don't know whether to laugh or cry, I don't know whether to live or die, And it cuts like a knife ..She's out of my life
-Ma che èèèè Mollami immediatamente brutto grassone che non…
-AHHHHH! Mi ha morso! Si calmi immediatamente e stia ferma!
-Ma come ti permetti?? Dico, secondo te sono una gallina che vieni qui e mi prelevi alle spalle e mi posi dall’altra parte delle transen..cosa?! P-perché sono dall’altra parte delle transenne?? Ommioddio.
-It's out of my hands, It's out of my hands
-brutta schifosa ci dovevo essere io lììììììììììì
-oh ma che vuoi bella, ti mollo una pizza che..
-la prego di muoversi a seguirmi
-To think for two years she was here, And I took her for granted I was so cavalier, Now the way that it stands, She's out of my hands
-tra tre secondi scende la rampa, si muova a salire, uno, due..
-C-COOOSA?! Non ci penso nemmen…
-So I've learned that love's not possession, And I've learned that love won't wait (che ci fai qui, ragazzina?)
-Michael, io ti ammazzo, io ti odio, io ti..
-Now I've learned that love needs expression(te l’ho fatta. Ora fingi di essere in estasi, puoi anche cercare di baciarmi se vuoi)
-no ma io voglio sapere che ti ridi?!? Ti rendi conto di quello che mi..
-But I learned too late (non cercare di uscire dalla mia vita Natalie, non farlo mai più)
-She's out of my life,She's out of my life (devi andare ora, segui quest'uomo. E aspettami. E non provare..)
-ti uccido, io ti uccido
-Damned indecision and cursed pride ,Kept my love for her locked deep inside And it cuts like a knife, She's out of my life (aspettami là ho detto. Piccola pazza.)
***
La luce del crepuscolo che già di per sè metteva malinconia condensava quel senso di infinta mancanza che le faceva pesare il cuore da tutto il giorno. Lo aveva visto da lontano giocare con Mac, Janet e tutti gli altri, aveva ostentato sicurezza ed indifferenza per tutto il giorno, non l’aveva mai degnata di uno sguardo. Le faceva male ma nel contempo sapeva che quella era l’unica reazione possibile per uno come Michael. -No, non esiste nessuno come Michael-. Accantonò il pensiero di ciò che avrebbe voluto fare in quell’ultimo pomeriggio insieme, di ciò che avrebbe voluto dire prima di partire per il Massachussets. Aveva realizzato il sogno della sua vita e si sentiva così male. Prese la borsa marrone, uno zainetto in spalla, il resto lo aveva già fatto portare Mama sul taxi giallo che già l’attendeva fuori dal cancello ancora chiuso. Aveva già salutato anche lei, che dopo averle posato una carezza dalle tempie al mento se n’era ritornata subito in cucina, per non farle vedere le lacrime.
Non amava gli addii, nemmeno lei, no.
Mi mancherà tutto di te, anche quello che non mi hai dato. Mi mancheranno i tuoi occhi nel buio di queste notti, il profumo della camicia dopo una giornata di te, il tocco delle mani mentre mi aiuti a sollevarmi da terra dopo aver giocato, mi mancherà la luce accesa in camera tua ed ogni piccolo imprevisto che ti accadrà ma che non risolverai con il mio aiuto. Mi mancherà l’amore che non potrò prendermi a tua insaputa, mentre mi credi una bambina ed esci con gente della tua età, mentre mi tieni come una bambola fragile su quella mensola, preziosa, acerba, senza esperienza, mentre non ti accorgi. Mi mancherai tutto. Mi mancherai Michael, insieme alla tua estrema imbranataggine, insieme alle tue guance che sarebbero rosse, se avessi avuto il coraggio di dirti tutto questo.
Ciao.
Il debole sospetto di quello che provava bruciava come acido a contatto con la gola. Inafferrabile, irritante e caostico. Amore.
1993
Urlava. Urlava fortissimo. Urlava talmente forte da rendere più che chiaro il percorso di quelle due vene che le solcavano la fronte formando una x proprio al centro. Il viso madido e violaceo, le mani fra i capelli, semi immerse nella chioma fradicia anche lei, di acqua gettata dagli idranti, o di sudore, ma più probabilmente di entrambi uniti insieme.
Sembrava disperata più che felice, sembrava agonizzare in quell’attesa che era stata snervante fin da subito. Sedici, diciassette, diciotto ore in piedi al sole, all’ombra, alla pioggia, e poi al buio. Un’attesa disumana.
Ma non era l’unica. Era circondata da settantamila simili a lei per sorte e sembianze, stipati attorno come sardine in una scatola di latta troppo piccola per contenerle tutte. Tutti la stessa espressione, tutti la stessa luce negli occhi. Tutti la stessa terrificante consapevolezza di un sogno che si sta per avverare.
Oddiomio che caldo. E la puzza, ne vogliamo parlare?? Ma che mi ha detto il cervello? Ma..m..MACHETTIGRIDI CRETINA DI UNA CRETINA! Guarda se sta spastica deve spaccarmi un timpano. Per cosa poi?? Cioè, capisco tutto ma santodio è Michael, mica Cristo sceso in terra! Già ma forse non tutti poss..Aahio! Chi mi ha ridotto il piede ad una frittella?! Ahhh tanto lo so, non mi basterai una sola volta. So che se ti rivedo è peggio, solo che mi manchi troppo. E se non ci riesco? Non sia mai!! Fammi immediatamente passare tu, armadio a quattro ante. Dio che puzza di sudore, ma che hanno questi sotto le ascelle, eau de cipol?!
-stai tranquilla, non agitarti così ti prego-
La ragazza con i capelli mossi non voleva saperne di calmarsi. Le guance sempre più rosse, le vene in fronte sempre più gonfie. Forse era preda di una crisi isterica. La guardava e non riusciva a non preoccuparsene.
Il monitor 7 era acceso da un pezzo e gli offriva quella panoramica un po’ sfocata, come se il tubo catodico dell’apparecchietto di servizio soffrisse anche lui di tutto quel fragoroso rimescolamento di suoni.
–nemmeno la metà di quello che sento io nella testa però- pensò ravviandosi un ciuffo ribelle uscito dall’elastico. La sommatoria di tutte quelle voci rendeva l’aria densa, carica di elettricità, -energia- l’avrebbe definita in un momento di entusiasmo. Ora però assomigliava di più all’avvicinarsi inesorabile di un treno in corsa che di lì a poco gli avrebbe sfondato i timpani.
Si muovevano per inerzia guidati dall’impercettibile succedersi dei battiti cardiaci che ancora li tenevano in piedi. Fissava la marea umana fluttuante ora verso destra ora verso sinistra, -non se ne rendono nemmeno conto- no, non se ne rendevano conto. Troppo rumore, poco, pochissimo ossigeno, emanavano calore, una nube immacolata si poteva vedere sulle loro teste alla luce bieca del riflettore bianco, quello che illumina il palco a centottanta gradi, attaccato alla torretta a sinistra del banco regia.
La gola secca e leggermente dolorante, lubrificata a getto continuo dallo sciroppo alla codeina. No, non era affatto in forma. –sono stanco maledizione- si ravviò l’ultimo ciuffo con un gesto stizzito, chiuse gli occhi e lo intrappolò definitivamente insieme agli altri. Non poteva cancellare o rinviare altre date, non poteva e non voleva. Lo aveva giurato nel silenzio della sua suite due sere prima, quando nemmeno i paramedici del Miguel Hidalgo erano riusciti ad alleviare quel maledetto dolore ai reni. Dopo cinque date cancellate, due rinviate, lo svenimento ed il ricovero si sentiva al capolinea. Ma raggiungerlo per davvero sarebbe stato immeritato. Non lo sopportava.
Senti bello, non so se hai inteso, ma se non ti sposti ti prendo a calci quel culone flaccido che ti ritrovi! Intende?!? Si, si, non me ne frega un accidente se c’eri prima tu, non vedi che sono nana? Come faccio a vedere qualcosa con quel capoccione, dai non rompere e levati!
Resistenza fisica. L’unica parola d’ordine in mezzo al conglomerato appiccicoso di quei corpi stipati in pochi metri quadrati. Solo e soltanto i più forti, i più resistenti ce la fanno.
Resistenza. –devo resistere, non è ancora finita.
Ecco, forse da qui ho una briciola di possibilità. Forse può vedermi. Dico forse. Eeeeeehi! Chi mi ha palpato il didietro?! Non so perché lo sto facendo, non-lo-so. Anzi lo so. Ahhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh MA VI SIETE IMPAZZITI? CHE E’ STO SPRUZZO, VEDETE UN INCENDIO PER CASO?! Ah ho capito, volete dare una sciacquata a sti luridi che ho di fianco, ecco cos’è! Che palco immenso, cazzolina, ho sempre sognato di vederlo davvero..e ora..qui…qui e ora, devo ricordare ogni singola cosa.
***
-Lorraineeeeeeeeeee! Dove diavolo si è cacciata?!
-Dimmi teddy!
-Voglio Lorraine fra un secondo al carro 16. E’ necessario spostarlo di una cinquantina di centimetri perché così esce di troppo dal pannello!
-ma ieri..
-non vedete che Sugarfoot non ha spazio per muoversi?! Muovetevi mancano dieci minuti cazzo!
Impossibile offrire un quadro preciso dei singoli spostamenti dietro a quei pannelli scuri che separavano il sottobosco del backstage dal pubblico. Frenetico. Si spostavano in ogni direzione, su dalle scale, giù dalle scale, oggetti e persone in un indistinto susseguirsi di schiamazzi, appelli, ordini a mezza voce che somigliavano più ad intimazioni esasperate malcelate dall’ansia costante, dal tempo sovrano, nemico da sempre in tutti quei momenti in cui l’attesa diventa febbrile.
-si dilata quando sei impaziente e si comprime quando sei insicuro. Si diverte- un ghigno di sarcasmo fra quei denti bianchi, uno sguardo amaro rivolto al suo riflesso, quell’immagine che non sapeva far altro che assecondare ogni suo movimento.
Un’ultima occhiata allo specchio prima che le nocche di Karen battessero tre volte contro il legno chiaro della porta del camerino, poco sotto la targhetta designata a sopportare quelle due lettere scomode incise in nero. M.J.
-Michael ci siamo. Siediti un attimo
Obbedì rivolgendole un’occhiata densa che le arrivò riflessa per quello che era attraverso le fibre del vetro riflettente.
-ci siamo
Lo ripeté con una vena di pacata rassegnazione, a bassa voce, perché sprecarla per parlare sarebbe stato un vero e proprio suicidio.
Sfilò un lungo pennello dalla valigia che era stata trasformata in marsupio e che trasportava ovunque andasse senza più nemmeno avvertire la fatica. La fatica delle prime volte, quando diciannovenne doveva correre da un set fotografico all’altro, mentre Dick, agli esordi anche lui, non aveva il tempo di spiegarle dove fossero le cose, le persone a cui rivolgersi, cosa era meglio dire e cosa era invece meglio tacere alle domande imperanti di quei vip incerati sul loro aspetto fisico, per nulla interessati alla verità, ma soltanto alle lusinghe. I trucchi del mestiere li aveva imparati da sola, in onore di quello stesso pennello che ora teneva in mano, il succo di tutto. Dick Zimmerman le aveva presentato l’uomo che le sedeva di fronte ora con gli occhi chiusi, in attesa esclusivamente del suo estro, detentore di quella cieca fiducia che l’aveva fatta sentire forte e viva, realizzata, finalmente. Lo stesso uomo che ora si spegneva lentamente, e nel cui sguardo non c’era più la scintilla di qualche anno fa, persa nel vuoto di quella disperazione che avanzava inesorabile di minuto in minuto.
Uniformare il colore. Ma quale colore.
Una passata sotto gli occhi, una sotto gli zigomi, il mento. Intingeva e stendeva, intingeva e stendeva sul viso ora la crema, ora la cipria, una punta di terra di Siena come a dar forma ad un dipinto, quello che lei aveva voluto creare di volta in volta, ma ora più che mai scultura pallida ed emaciata, bisognosa soltanto di una carezza vera.
-assottiglia il naso, di qui per favore
-l’ho fatto Mike
-no di più, per favore prendi il numero 77
Non potevi fregarlo nemmeno lì, se ne intendeva, conosceva ogni dettaglio, ogni più piccolo cavillo di ogni ruolo, di ogni mansione che riguardasse il suo lavoro. Un formicolio alla fronte, messaggero di un’emozione troppo forte che stava arrivando proprio in quel momento, il più sbagliato, lo costrinse a chiudere gli occhi per evitare che si inumidissero all’arrivo inaspettato di quella memoria remota.
-ma come ti sei combinata?!
-perché?
Avrà avuto si e no dodici anni, se ne stava in piedi dietro alla porta della sua stanza che era rimasta serrata a chiave per tutta la mattina. A nulla erano servite le richieste di Katherine, poi quelle di Janet, poi le intimazioni di Joe. Non voleva uscire. Lo specchio quel giorno di febbraio gli aveva offerto una delle immagini peggiori della sua vita. Macchie. Una orribile valanga bianca aveva ridotto il bel colore ambrato del viso a qualche minuscolo isolotto, imbarazzante e sedentario, umiliante in tutta la desolazione che emanava, beffarda nell’impietosa condanna che rappresentava. Rifiuto totale. Si era infilato sotto alle lenzuola con il viso tumefatto dalle lacrime, inconsolabile. Terminate poi le richieste ed i rumori aveva pensato di essere totalmente solo nel vuoto di quella stanza, quando un fruscio sommesso aveva spostato la sua attenzione al pavimento, dal quale emergeva un foglietto bianco. La grafia infantile.
Apri?
Avvolto in un asciugamano verde che lasciava scoperti solo gli occhi aveva fatto scattare la serratura mosso più che altro dalla sua inguaribile curiosità. E l’aveva trovata lì, piccola, con in mano una tavoletta di cioccolata. Il viso pieno di puntini rossi disegnati con un pennarello. Aveva risposto con naturalezza cercando di contenere le risate che dopo pochi minuti erano esplose dalle loro bocche.
-ora che siamo uguali esci di lì?
Era stato quello il momento in cui aveva capito di adorarla profondamente.
–Natalie. Dio,Se solo fossi qui- se l’era lasciato sfuggire dalla mente in un quasi singhiozzo, senza nemmeno curarsi della presenza di Karen.
-se solo fossi qui-
Lo vide assopirsi in un pensiero lontano, quindi prese la tonalità più scura di marrone e cercò il più possibile di accontentarlo, consapevole che non sarebbe comunque mai stato possibile. Non su quell’argomento almeno.
***
-venti secondi! Diciannove..
- Mj? dov’è??
-sono qui
-oh bene, gli occhiali!
-sedici!
-una sistemata al ciuffo, Karen!
-della lacca di lì!
-tredici!
-in posizione! Tieni le gambe leggermente piegate come al solito, molleggia in questo modo..e quando si blocca piega tutto ed atterra con la schiena dritta, ok?
-ok
-sette!
-un po’ d’acqua per favore
-quattro!
-preparo cursore..sganciare la pedana!
-uno!
***
1992
Dopo le scale aveva aggredito anche il tappeto del soggiorno che aveva reagito al suo incedere urgente increspandosi tutto e diventando un ottimo motivo di caduta rovinosa al suolo per I futuri passanti.
Aveva salutato i presenti frettoloso e, senza preoccuparsi di dare nell’occhio, si era diretto come una furia alla dependance dove si sarebbe tenuto il rinfresco, sul lato est della proprietà, sicuro di trovarla intenta negli ultimi preparativi.
Doveva farsi spiegare il motivo di quella ferita che sentiva bruciare nel petto, appena inferta ma già infetta, gravissima e forse incurabile.
Gli aveva mentito, gli aveva taciuto una notizia così importante –e grave-. Avrebbe avuto mille occasioni per accennarglielo e non lo aveva fatto. Ma la cosa che faceva più male era l’averlo saputo in quel modo, nell’irreparabile imminenza del fatto. –come ha potuto- non riusciva a capacitarsene mentre quasi correva come impazzito sotto quel sole a picco che non voleva nemmeno degnarsi di calare un po’ nonostante lo zenit fosse ormai lontano.
-Natalie!
Aveva cercato di non far trasparire l’affanno mantenendo la voce più ferma possibile mentre lei gli correva incontro a piedi nudi e con un enorme sorriso, destata da quel richiamo mentre seduta sul bordo della piscina stava cercando un po’ di refrigerio.
Gli shorts di jeans lasciavano che i raggi di quel sole prepotente le accarezzassero le gambe che francamente non ricordava così lunghe e tornite, scure, impenetrabili, calde.
Aveva aperto le braccia e gli si era buttata letteralmente al collo, senza porsi domande o remore, mossa solamente dalla voglia bruciante di averlo addosso, rassegnatasi a quel cuore che aumentava inspiegabilmente i suoi battiti tutte le volte che lo vedeva, anche solo da lontano.
Quel contatto gli era stato fatale. Per un momento aveva perso la vista e l’udito, i colori e la connessione con quel prato che improvvisamente era diventato un deserto appena sufficiente per le emozioni date da quel corpo caldo che lo aveva travolto.
Lucidità precaria, che prima di spirare definitivamente gli aveva lasciato il tempo di avvertire i suoi seni premergli il petto, e chiudere le braccia di riflesso a completare quella stretta, dimenticandosi anche il suo nome per un lungo, infinito momento.
-perché l’hai fatto
Il senso di violenta frustrazione al pensiero di quelle valigie taciute e piene di cose non dette posate fuori dalla sua stanza a beffarsi di lui, gli aveva dato la forza per ritornare alla realtà, riaprire gli occhi e riorganizzare le idee, sebbene avesse perso ormai definitivamente il piglio impettito che solo la collera era riuscita a posare su quella sua figura esile ed armoniosa.
-fatto cosa
Gli occhi le si erano ingranditi per lo stupore mentre l’aveva allontanata delicatamente da quel dolce paradiso, pacato ma deciso ad ottenere le spiegazioni che gli spettavano di diritto.
-te ne vai senza dirmi niente
Lo sguardo severo, deluso.
-no, te l’avrei detto
Lo affrontava senza abbassare lo sguardo, nel suo solito movimento fiero delle sopracciglia che si erano inarcate. Le iridi ferme in quelle del suo inquisitore.
-E quand’è che me l’avresti detto, tanto per sapere
La collera stava nuovamente superando il livello massimo, e come mercurio impazzito l’aveva sentita sfondare la colonnina del suo termometro, riversandosi nella profondità dei suoi occhi scuri, ormai ridotti a due fessure.
-non amo gli addii. Lo sai benissimo
-e io non amo essere preso in giro!
Troppo alto quel tono di voce. Non gli apparteneva ed aveva fatto sobbalzare anche lui, assolutamente non abituato a rivolgersi così alle persone. Assolutamente non abituato a litigare con lei.
Non c’era speranza quando si arrabbiava, lo sapeva bene, quindi non si era nemmeno affannata a cercare di rispondergli, di spiegargli che non lo stava prendendo in giro, che non lo avrebbe mai fatto, ma era troppo doloroso lasciarlo, era troppo dolorosa la consapevolezza che anche lui se ne sarebbe andato per chissà quanto. Era come una cascata e loro si stavano avvicinando al precipizio, inesorabilmente, senza appigli.
Persa nell’accettazione di una realtà che aveva scelto di accantonare ma che era emersa con violenza nel momento meno opportuno, -proprio oggi, il nostro ultimo giorno- non aveva potuto fare a meno di accogliere sulle guance un paio di quelle gocce salate che tanto detestava.
Si era voltata di scatto per non farsi vedere.
L’aveva vista lievemente affannata e rossa sulle guance ambrate, l’aveva vista abbassare lo sguardo mentre non era riuscita a sostenere il suo, di fuoco, perfettamente consapevole che la discussione si sarebbe conclusa di lì a poco con lui che se ne andava, lasciandola sola con i suoi sensi di colpa. L’aveva vista girarsi di spalle e rivolgere lo sguardo verso un punto della vallata che lui non riuscì a decifrare dalla sua posizione arretrata.
-perché ti sei voltata?
-perché non voglio guardare mentre te ne vai arrabbiato.
***
Un boato assordante. I tecnici del suono in regia avevano comunicato brillantemente con il backstage perché nel momento in cui era stato sbalzato sul palco come un toast cotto a puntino erano riusciti a produrre un rumore secco e metallico, lo stesso che potrebbe fare una nave quando lascia gli ingranaggi del cantiere e viene posata in mare, suo futuro elemento, da quel momento all’eternità. Un effetto acustico che tuttavia aveva perduto la teatralità che avrebbe meritato, quasi completamente sopraffatto dal rumore della vita di quelle settantaduemila teste.
Immobile in posizione da guerriero greco, statico e dinamico, armonico nello spazio. Era lì, a pochi metri da lei che non riusciva a crederci. Certo che ne era valsa la pena, una giornata estenuante, l’attesa fuori dai cancelli che alcune ore dopo sarebbero stati completamente abbattuti dal peso della folla che non si era rassegnata a rimanere fuori, nonostante non tutti fossero muniti di biglietto, la corsa per raggiungere la posizione migliore nell’immenso prato che ora non riusciva ad essere sufficiente per tutti, le gomitate, gli spintoni. Ed eccolo in tutta la sua sfacciata regalità.
Un anno e tre mesi dopo, più bello dell’ultima volta, più bello di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
***
Era rimasto immobile dietro di lei per un lungo momento, incapace di prendere qualunque iniziativa, incapace di muovere un singolo arto, incapace di pensare. Le erano scese cinque lacrime, lo sapeva anche se non la vedeva direttamente in viso, aveva seguito i movimenti delle spalle e del braccio sinistro, pronto e scattante a recuperarle in un movimento impercettibile che però non gli era sfuggito.
Aveva sentito il rumore dell’erba sotto ai suoi passi mentre si allontanava. Avrebbe ricevuto i suoi ospiti come si conveniva, e non gli sarebbe passata per almeno tre o quattro giorni. Una sesta lacrima le aveva rigato il viso al pensiero che lei tutto quel tempo per aspettarlo non lo avrebbe avuto.
***
Scintille cadevano a pioggia dietro a quella figura luccicante di strass, oltre che di luce propria. Il fascio di luce accecante uscito dall’enorme riflettore centrale gli batteva direttamente in faccia, consentendogli di scorgere veramente pochi particolari nel mare di teste che lo stavano circondando, donandogli una sensazione di completezza e di vuoto, nel contempo. Un lampo squarciava il cielo annunciando la tempesta già prevista dal meteo delle cinque, qualcuno in lontananza diventava improvvisamente alto, -è salito sulle spalle dell’amico per vedere meglio, si daranno il cambio- trattenne un sorriso al pensiero, due abissi oscuri nella mischia si velavano di lacrime, aguzzò la vista e rifiutò il pensiero nello stesso momento in cui stava per nascere, -non può essere lei-, un tuono seguiva il lampo di prima, la ragazza dai capelli mossi sveniva stremata.
Nulla lo mosse più di tanto, niente pensieri, niente concentrazione, niente di niente. Quando si sentì abbastanza carico si tolse gli occhiali lentamente guardando fisso davanti a sé, lo sguardo fiero e le gote contratte, ne chiuse le stanghette e li lanciò via, perdendoli per sempre. Cinque, sei sette e otto..
***
-Sette minuti esatti da ora per il cambio scena!
-James, di qui con quei Subwoofer!
-Siedah! Dov’è?
-si sta scaldando la voce
-mj?
-arriva
-Security!
-Sta chiamando il capo della security
-security!
-mr Jackson mi dica, qualche problema?
-si. Venga un momento per favore. Guardi nel monitor. La vede?
-chi signore?
-quella ragazza con i capelli scuri, questa qui
-si?
-dovete portarmela sul palco
-ma non era l’altra che..
-no, stasera sale lei
-ma mr Jackson la procedura..
-me ne frego della procedura. Portami quella ragazza sul palco
-Michael non sarà possibile, lo sai. Abbiamo già provato con la bionda che fra l’altro è già nella posizione stabilita, come programmato. Anche volendo quella è troppo arretrata, è impossibile..
-Non significa niente quella parola per me. Rendetelo possibile, Teddy, non mi interessa. Sul palco. Mentre canto She’s out deve salire lei. E voglio il playback su tutta la traccia, avvertite Kenny in regia. Avete ancora tutto il tempo di I jus’t can’t stop, fatelo. Per favore.
***
-She's out of my life, She's out of my life
Merda santissima, mi si rigirano le budella, merda santissima questa canz..
-And I don't know whether to laugh or cry, I don't know whether to live or die, And it cuts like a knife ..She's out of my life
-Ma che èèèè Mollami immediatamente brutto grassone che non…
-AHHHHH! Mi ha morso! Si calmi immediatamente e stia ferma!
-Ma come ti permetti?? Dico, secondo te sono una gallina che vieni qui e mi prelevi alle spalle e mi posi dall’altra parte delle transen..cosa?! P-perché sono dall’altra parte delle transenne?? Ommioddio.
-It's out of my hands, It's out of my hands
-brutta schifosa ci dovevo essere io lììììììììììì
-oh ma che vuoi bella, ti mollo una pizza che..
-la prego di muoversi a seguirmi
-To think for two years she was here, And I took her for granted I was so cavalier, Now the way that it stands, She's out of my hands
-tra tre secondi scende la rampa, si muova a salire, uno, due..
-C-COOOSA?! Non ci penso nemmen…
-So I've learned that love's not possession, And I've learned that love won't wait (che ci fai qui, ragazzina?)
-Michael, io ti ammazzo, io ti odio, io ti..
-Now I've learned that love needs expression(te l’ho fatta. Ora fingi di essere in estasi, puoi anche cercare di baciarmi se vuoi)
-no ma io voglio sapere che ti ridi?!? Ti rendi conto di quello che mi..
-But I learned too late (non cercare di uscire dalla mia vita Natalie, non farlo mai più)
-She's out of my life,She's out of my life (devi andare ora, segui quest'uomo. E aspettami. E non provare..)
-ti uccido, io ti uccido
-Damned indecision and cursed pride ,Kept my love for her locked deep inside And it cuts like a knife, She's out of my life (aspettami là ho detto. Piccola pazza.)
***
La luce del crepuscolo che già di per sè metteva malinconia condensava quel senso di infinta mancanza che le faceva pesare il cuore da tutto il giorno. Lo aveva visto da lontano giocare con Mac, Janet e tutti gli altri, aveva ostentato sicurezza ed indifferenza per tutto il giorno, non l’aveva mai degnata di uno sguardo. Le faceva male ma nel contempo sapeva che quella era l’unica reazione possibile per uno come Michael. -No, non esiste nessuno come Michael-. Accantonò il pensiero di ciò che avrebbe voluto fare in quell’ultimo pomeriggio insieme, di ciò che avrebbe voluto dire prima di partire per il Massachussets. Aveva realizzato il sogno della sua vita e si sentiva così male. Prese la borsa marrone, uno zainetto in spalla, il resto lo aveva già fatto portare Mama sul taxi giallo che già l’attendeva fuori dal cancello ancora chiuso. Aveva già salutato anche lei, che dopo averle posato una carezza dalle tempie al mento se n’era ritornata subito in cucina, per non farle vedere le lacrime.
Non amava gli addii, nemmeno lei, no.
Mi mancherà tutto di te, anche quello che non mi hai dato. Mi mancheranno i tuoi occhi nel buio di queste notti, il profumo della camicia dopo una giornata di te, il tocco delle mani mentre mi aiuti a sollevarmi da terra dopo aver giocato, mi mancherà la luce accesa in camera tua ed ogni piccolo imprevisto che ti accadrà ma che non risolverai con il mio aiuto. Mi mancherà l’amore che non potrò prendermi a tua insaputa, mentre mi credi una bambina ed esci con gente della tua età, mentre mi tieni come una bambola fragile su quella mensola, preziosa, acerba, senza esperienza, mentre non ti accorgi. Mi mancherai tutto. Mi mancherai Michael, insieme alla tua estrema imbranataggine, insieme alle tue guance che sarebbero rosse, se avessi avuto il coraggio di dirti tutto questo.
Ciao.
Il debole sospetto di quello che provava bruciava come acido a contatto con la gola. Inafferrabile, irritante e caostico. Amore.
marina56- Moderator
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Re: Don't call my name
CAPITOLO QUINTO
Parte prima
Un tortuoso corridoio, due rampe di scale, ancora un corridoio. Gli ambienti si susseguivano uno dopo l’altro confondendo l’orientamento, stretti ed angusti, illuminati soltanto dalle fioche intermittenze delle emergency exit, incollate ogni qualche metro a sormontare le numerose porte chiuse.
Si trovava immersa in quel mare nero con il nulla in testa, nulla intorno, solamente qualche violento brivido ancora a scuoterla–impensabile, assolutamente impensabile che sia successo davvero- partiva dalla schiena e moriva alla base del cranio irradiandosi in un formicolio piacevole e fastidioso nel contempo.
Una stretta possente la trascinava per il braccio sinistro imponendo un’andatura un po’ troppo veloce per quei muscoli intorpiditi dalle tante ore in piedi, avvertiva la stanchezza risalirle la schiena ed andare a morire alla base della nuca rendendo difficoltosa perfino la vista. Presto sopraggiunse la stizza. Si sentiva un inutile burattino, usurpata nel suo diritto al libero arbitrio, costretta ad eseguire, obbedendo a leggi che nemmeno conosceva.
E se la sarebbe volentieri filata da lì -dopo aver tirato un bel calcio nel sedere di questa credenza a sei ante che ha dimenticato le buone maniere, ovviamente- se non fosse che ormai era troppo arrabbiata e la voglia di fare quattro “chiacchiere” con il motivo di tutto quel disagio era più forte di tutto il resto.
-ehi ciccio puoi anche mollarmelo il braccio, ti seguo lo stesso eh..
-non si sa mai, dato il morso di prima, potrebbe essere pericoloso lasciarla libera
-Non certo per te ciccio, avremo ad occhio e croce una cinquantina di chili che ci separano..eh si, anche in questo caso le dimensioni contano!
-la prego di smettere di chiamarmi ciccio
-pure permalosi se li sceglie i gorilla quello là?! Non basta lui?!
-come scusi?
-no no niente, per carità..
-aspetti qui senza toccare niente, per favore
Si voltò indietro stupendosi di non aver ricevuto altre risposte a tono da quella ragazzina insolente, mentre con la mente viaggiò a solo poche ore prima, quando la bionda aveva avuto un semi attacco di panico alla notizia che sarebbe dovuta salire su quel palco. Poi le era stato consegnato un free Pass per poter provare la scena –farai esattamente così, la posizione è leggermente arretrata ma pur sempre in prima fila, in modo che un membro della security potrà aiutarti a scavalcare..- era stato abbastanza meticoloso Teddy, amava programmare tutto e soprattutto che tutto andasse esattamente come previsto –sarà fuori di sé stasera per questo fuori programma di Mike..- pensò con una ghigno divertito stampato sulle labbra.
Ne aveva viste di tutti i colori Wayne, tante piccole scimmie urlatrici con gli occhi a mandorla schiacciate le une sulle altre che battevano i vetri del pulmino, con gli occhi azzurri, marroni, verdi, grigi, arrampicarsi sulla grondaia dell’hotel come animali selvaggi, correre sulla carreggiata della statale con la pretesa di raggiungere l’auto in corsa, accatastate come scatole in un container dietro a quelle innumerevoli transenne, graffiate ed esauste, leonesse frantumate nel cuore e nel corpo solo per avere un istante, un piccolo frammento in una vita.
Ma lei non scalpitava, non urlava e non aveva nulla che la facesse somigliare anche solo un pochino a tutte le altre persone che aveva visto dannarsi per MJ, anzi sembrava scocciata. Si, scocciata –mah, è strana la gente- se lo ritrovò in mente alla fine di tutte quelle considerazioni e del lungo corridoio. Mancava poco ormai.
Rimase sola in quella stanza asettica resa ancor più gelida da un enorme bocchettone che sputava aria condizionata a getto continuo –a prova di mummia- si, lo pensò, in un ennesimo tentativo di esorcizzare una situazione complicata, -ma poi, che cavolo ci sarà mai da non toccare, qui non c’è niente!- Una luce fioca si irradiava dal basso offrendo la vista di una moquette color cobalto stesa a guarnire un’area non troppo estesa in cui trovavano spazio solo un paio di sedie buttate lì a casaccio. –dove diavolo sono- La pelle increspata delle braccia non trovava sollievo nemmeno dopo le frequenti e ripetute frizioni delle mani su di essa, mentre un monitor sulla destra offriva la panoramica generale e sgranata del parterre, da cui si potevano scorgere una marea di teste ammassate ed urlanti, dagli occhi vitrei di fatica e felicità, sbarrati per alcuni, serrati per altri, svenuti sulle barelle trasportate via dagli uomini in rosso.
Il rumore di fondo che squassava le pareti improvvisate del backstage proveniva direttamente dal palco e copriva quasi del tutto l’audio del televisore, e, sebbene il suono non fosse affatto nitido, riusciva comunque ad immaginarlo migliore di così solamente seguendo il labiale del ragazzo con il cappello in terza fila, i cui occhi persi in una bolla estatica non gli avevano tuttavia fatto perdere un singolo attimo di quel momento irripetibile –a differenza mia che grazie alle belle idee di quello scemo mi sono persa già 20 minuti di concerto- e fu lì, quando sprofondò su quella poltroncina in velluto scuro, che qualcosa le sfondò la mente con la violenza di un fiume che abbatte una diga.
-Espero que todos tus deseos se hagan realidad. ¡Feliz cumpleaños mi amor!
-dai mama basta..
Non si rassegnava, non voleva cedere a quella cantilena dolce quanto tediosa che Mama era solita intonare per lei ogni anno. Sempre la stessa storia. La rendeva così nervosa, così irascibile e dura, non aveva voglia di niente, tantomeno di una cosa del genere.
Quando non c’era nessun altro le parlava in spagnolo, la sua lingua d’origine, e sebbene capisse ogni cosa fingeva che non le appartenesse, fingeva che non le interessasse, fingeva di non comprendere e rispondeva in inglese. Ma ormai Mama non ci faceva più caso, preparava ogni volta una torta di panna ricoperta di ananas tagliato sottile, le fette simmetriche ed ordinate tenute insieme da un fine strato di gelatina, era dolce, era buona, ma Natalie non la assaggiava mai.
Il sorriso solare e un po’ irriverente dei suoi tredici anni si era spento bruscamente anche quel giorno, come se fosse stata colpita dallo stesso male cronico anche quell’anno. Ed era sempre peggio.
Quella volta era tornato prima, non si sa da dove, ma il cielo era ancora chiaro quando la limo con cui era solito spostarsi in quel periodo aveva varcato i cancelli neri del suo regno. Era rientrato per festeggiare il compleanno di quella piccola amica, il pendolo della sala segnava le 19:00 in punto, e come ogni anno aveva fra le mani un pacchettino.
–non so dov’è, signore- si era sentito rispondere da quella donna nella saletta adiacente alla cucina, sul ripiano una torta all’ananas, intatta. L’aveva cercata ed all’imbrunire aveva visto un piede pendere dall’albero
–piccola scimmia- aveva sorriso ed era salito sul suo stesso ramo per osservarla da vicino.
-se volevi giocare a nascondino potevi anche dirmelo, e magari potevi anche nasconderti un po’ meglio..
Aveva cercato di scherzare, dandole un colpetto sulla spalla che però non aveva prodotto in lei che un passivo movimento ondulatorio del collo. Lo sguardo perso nel vuoto, all’orizzonte.
-Nat, è successo qualcosa?!-
Troppo lontano da lei quell’atteggiamento, troppo.
-no-
Infiniti minuti di silenzio in cui si era torturato con mille domande cercando perfino di sentirsi in colpa per il ritardo che non era riuscito ad evitare –Frank e le sue maledette manie di protagonismo con Mottola, non poteva lasciar fare a me?- a causa di quel contratto, ma non c’era soluzione, era così e basta, e quando stava per concludere che forse le paturnie dell’adolescenza non potevano che risolversi con il tempo, lei aveva interrotto il silenzio con qualcosa che gli aveva fatto rimpiangere qualsiasi muso lungo.
-oggi non è il mio compleanno
-come non è il tuo..
-non lo è. Io non ho la minima idea di quando sia il mio compleanno Michael
-come..
-sono stata abbandonata. Miranda mi ha trovata in un cestino. Ero piccola. Forse avevo sei mesi, forse meno. Era dicembre. Ma io non so quando sono nata. Non lo so. Lì succede spesso. In Porto Rico. Credo.
-…
-non devi dire qualcosa per forza
-n-no, scusami, è che non.. non immaginavo, cioè io credevo che..bè insomma ma che importa quello che credevo, fatto sta che le cose stanno così, solo che appunto non immaginavo che..insomma dammi tempo per capire..
-calmati, è tutto ok
Quelle guance rosse come pomodori maturi le avevano strappato un sorriso in mezzo alla tristezza. Era certamente l’essere più goffo che avesse conosciuto, ed empatico, anche. Sensibile. Troppo. Era più o meno la sua tredicesima primavera, e già si sentiva impazzire di lui.
Le aveva preso la mano ormai consapevole che con le parole non avrebbe combinato un gran che e si era soffermato sulla linea dell’orizzonte, invitandola a perdersi in un’altra realtà –quella in cui tutto è come vorremmo che fosse, dove i sogni sono veri piccola Nat-
Aveva visto una piccola lacrima sul suo profilo, poi il sole che scompariva dietro alle tempie, rosso, bellissimo –ora sei qui, non importa il resto- le mani intrecciate, non si capiva a chi dei due appartenesse il dolore.
***
-dovremmo rientrare, ci aspetta una torta niente male, da quel poco che ho visto prima..
-già
-e non fare quella faccia, tanto ce ne sarà un’altra diversa domani, e poi dopodomani..
-come sarebbe?
-sarebbe che visto che non sappiamo il giorno preciso, tutti i giorni di giugno potrebbe essere il tuo compleanno, quindi noi festeggeremo trenta possibili compleanni!
-tu sei matto..
-io so chi sei Nat- era tornato serio repentinamente per posarle le mani sulle guance minando il suo già precario equilibrio emotivo -non dimenticarlo tu-
si era persa così, in quell’intensa danza di sguardi, la prima della lunga serie che le avrebbe strappato il cuore ogni volta, negli anni a venire.
***
-chi arriva ultimo a casa è il ciccione dei simpson, quello che fa dei rutti assurdi..com’e che si chiama..ah si! Barneyyyyyyyy
Lo aveva visto correre all’indietro mentre stabiliva le regole del gioco, aveva parlato velocemente e quando la frase era terminata era già lontano, sicuro e fiero di quel vantaggio che gli avrebbe permesso di accendere le candeline e spegnere tutte le luci per lei.
Un battito di ciglia, un sospiro ed un repentino sprint del cuore alla vista dell’enorme cerotto che univa i due lembi di un mondo spezzato dalle ingiustizie nel monitor 7. Heal the world alle battute finali. Pochi istanti ancora ed avrebbe dovuto recuperare un briciolo della sua verve, scomparsa dietro alla tenera memoria appena svanita nel buio di quella stanza.
***
1990
-dove guardi?
-l’infinito
-non si può vedere l’infinito
-lo vedi se hai male qui. Infinito è il mio male, allora posso vedere l’infinito
-non dire così mi hermanita..dove hai male? Come posso fare?
-nulla pequeña, il mio male è dentro,non c’è medicina
-ci deve essere
-no. L’unica buona cosa è il mio ritorno a casa
-si, torniamo insieme, prendo la bici..
-no es mi casa aquì, Natalia!
La guardò in quelle iridi nere, più nere delle sue che non nascondevano una punta di risentimento per quella risposta piccata, unica valvola di sfogo per quella dea castano chiara che non aveva voluto imparare bene l’inglese.
–non merita niente, la nostra lingua es mas bella, non merita niente, non è musicale esta aquì, non avrà il mio impegno, no merece la atenciòn!-
le aveva detto una sera, dopo l’ennesima E in letteratura. Conosceva i suoi poeti, rifiutava il resto. Rifiutava quella terra ricca di colori e luoghi da visitare, rifiutava quel benessere di cui non comprendeva la sorgente, rifiutava ogni cosa e viveva nell’unica ombra che potesse fare luce. Quella dei ricordi.
-me ne vado pequeña, torno a casa
Lo disse con un tono più dolce stavolta, passandole una mano fra i capelli neri, sottili e fragili mossi dal vento. Incapace di scusarsi con quella piccola peste di sua sorella.
-cosa dici
-devo trovarlo e dirgli che non posso vivere. Luiz. Mi solo amor
-Paulina, non mi lasciare non voglio stare sola qui
-no està sola mi amorita
-invece si! Paula..
Le afferrò il braccio e vi si aggrappò come ad un’ancora nella tempesta, in un disperato quanto vano tentativo di trattenerla vicino a sé per respirarla ed intrappolare quel piccolo calore su di se ancora per un po’.
-non puoi capire l’amore Natalia, io sto troppo male. Stanotte io..
-Entiendo. Te llevo en mi corazón todos los días de aquí para siempre mi hermanita
SPOILER (clicca per visualizzare)
La prima ed unica volta. le parlò così, nella lingua che conosceva e che non usava mai per non sentire troppo male. Solo per lei, Paula.
Rimasero in silenzio a lungo. Paula era convinta che quel gomitolo di capelli corvini che le sfioravano i braccio destro avrebbe dovuto vedere ancora mille volte sorgere il sole prima di capire veramente il significato delle sue parole. Ma si sbagliava.
Solo un alito di vento.
Si guardarono negli occhi ancora una volta. Tanto bastò a Natalie per capire che sarebbe stata l’ultima.
***
Scese dal palco attraverso la stessa botola che lo aveva sbalzato fuori soltanto due ore prima.
Due assistenti gli andarono incontro istantaneamente posandogli sulle spalle un asciugamano ed aiutandolo ad infilare una giacca nera lucida, un terzo gli si avvicinò con una bottiglia di cui bevve avidamente tutto il contenuto succhiandolo da una cannuccia nera anche lei.
Lo cercò con lo sguardo e quando lo trovò non riuscì ad evitarlo. Un personaggio grassoccio gli si avvicinò a passi svelti gesticolando qualcosa.
-non ora Teddy, sono esausto
-no caro, adesso vieni e mi spieghi che cazzo ha voluto significare il tuo..
-nulla di che, volevo lei sul palco. Punto
Tagliò corto già proiettato all’imbocco del lungo corridoio ora illuminato a giorno per il suo passaggio.
-senti Mike, come produttore esecutivo devo dirti che non puoi assolutamente comportarti in questo modo, c’è tutto un discorso di sicurezza alla base che non può essere sottovalutato, oltre, ovviamente al lavoro di tutto lo staff che si spacca il culo in quattro, e lo sai..
Cercò di utilizzare tutto il fiato che aveva nei polmoni per dire quella frase in un sol colpo, mentre quasi lo rincorreva con piccoli saltelli, enormemente più corti delle ampie falcate di Michael.
-ok..ok, è vero. Però ti prego Ted, ora sono stanco
Decise di accontentarlo con uno studiato mea culpa non esattamente sentito, ma era l’unico modo per troncare quella conversazione che non aveva nulla di interessante ora che lei lo stava aspettando dietro alla porta, alla fine della rampa che stava per raggiungere. –cazzo proprio adesso dovevi venire a stressarmi- gli posò una mano sulla spalla rivolgendogli un’occhiata opaca di sudore, con tutta l’intenzione di suscitare la pena in quegli occhietti piccoli e vicini, ricoperti da spesse lenti da miopi.
-si, però sia chiaro che..
-domani!
Si era voltato di nuovo riprendendo la sua andatura spedita e sollevando solo la mano aperta ad intimare uno stop che venne accolto, lasciandolo libero di imboccare la rampa.
***
Il cuore che fino a poco prima gli batteva le tempie come impazzito ora pulsava così violentemente da far male, creando un devastante ritorno al petto ed alla gola. Ma se il ritmo aumentato di prima poteva essere giustificato dallo sforzo appena compiuto sul palco, ora proprio non riusciva a capacitarsene. Ogni passo era faticosissimo ed oramai mancavano soltanto un paio di metri.
***
Quando la porta si aprì la luce che vi rifletté istantaneamente sopra rivelò ai suoi occhi ormai abituati alla semi oscurità il suo vero colore. Rosso. Si levò dalla poltroncina di scatto, con la velocità di un ladruncolo colto sul fatto.
Ne vide dapprima soltanto il contorno, un’ombra nella luce intensa che proveniva da dietro. Quando si chiuse la porta alle spalle il buio calò nuovamente ma continuò a scorgerne la figura immobile. Come due agili predatori si scrutarono nella penombra in attesa che l’istinto suggerisse ad uno dei due la mossa successiva.
Le sembrò talmente bello che saltò due o tre respiri per paura di perdersi qualche dettaglio. Gli sembrò talmente bella che non emise suono per paura che si spostasse privandolo di quella magica angolazione.
L’emozione, l’ira, l’impazienza o tutte e tre le cose insieme presero il sopravvento e li fecero parlare. Contemporaneamente.
-non avevo idea. Non pensavo. E’ stato fantastico..
-come sei arrivata qui
-cioè io ti conosco da quasi tutta la mia vita e non avevo la minima idea, cioè non pensavo che sarebbe stato davvero così..
-come sei arrivata in Messico, voglio dire, cosa ci fai qui
-mi dispiace soltanto che ad un certo punto mi hai fatta mandare qui dietro, non sono più riuscita a gustarmi tutto come prima e sinceramente..
-ma del resto se avevi il biglietto è una cosa che hai pianificato. Sei venuta fin qui apposta..
-cioè, ma come ti è venuto in mente di far scendere Tara dal cielo come un angelo vero?! Semplicemente geniale!
-rispondimi
-Michael vorrei solo sapere perché non mi hai mai fatta venire ad un tuo concerto. È stata un’emozione senza pari, senza nulla con cui poterla paragonare, sono sconvolta e ancora non ci credo, sei..sei..
-come ti è venuto in mente di venire qui da sola, così, senza nemmeno avvertirmi, senza nemmeno..
-..davvero bravissimo, ecco, non mi viene in mente altro. Bravissimo è l’unico termine che possa rendere giustizia al talento che viene fuori come un fiume in piena quando un vero talento appunto si trova nel suo elemento ed in questo caso direi proprio che questa era la situazione perché..
-..degnarmi di una telefonata, che ne so, una lettera, un segnale di fumo, dimmi se non sarebbe stato più normale invece di farti trovare lì nel parterre costringendomi ad implorare la sicurezza di prenderti e farti salire, dimmi che scelta avevo, dimmi come avrei potuto rintracciarti, come..
-VUOI STARE UN ATTIMO ZITTA?! -VUOI STARE UN ATTIMO ZITTO?!
-STAI ZITTO TU! –STAI ZITTA TU!
Sospirò rumorosamente, poi guardò a terra, poi lei, di nuovo a terra. Si inumidì il labbro superiore e poi quello inferiore con un’unica omogenea carezza della lingua. Lo faceva sempre. Non le sfuggì, e perse un altro respiro guardandolo ancora fisso negli occhi –sarai tu a dover abbassare lo sguardo caro mio, a costo di bruciarmi le diottrie- E ancora. La fissò severo, aveva deciso per una sfuriata. –il minimo per come si è comportata-
-e quindi la signorina parte, sparisce e ritorna quando vuole, giusto?
-no
-ah no? E dove diavolo sei finita in questi quindici mesi (merda così sembra che sono stato a contarli)
-esattamente ad Harvard, nel Massachussets. Ho vinto una borsa di studio, ricordi? No, non lo ricordi, perché quel giorno mi hai ignorata, eri troppo perso nel tuo stupido orgoglio ferito, solo perché..(ha contato i mesi)
-solo perché mi hai tenuto nascosto un dettaglio irrilevante della tua vita come ad esempio che stavi per andartene da Neverland per sempre! È così che mi sono arrabbiato, per una stronzata, vero? (pessima, pessima. E chiudi quegli occhi, sono troppo grandi)
-non per sempre Michael, sarei tornata (ma che ti salta in mente)
-infatti ho visto come sei tornata (smetti di guardarmi così, non guardarmi dentro)
Non poté sopportare oltre. La sua barriera rischiava di crollare sotto la forza di quegli occhi puliti che in soli cinque minuti erano già lì a farlo vacillare, tutte le sue certezze, le promesse di riscatto e gli spergiuri di una chiusura totale, di isolamento da quel mondo che non lo aveva mai compreso, e che ora lo voleva a pezzi sul banco della carne. No, nessuno avrebbe più avuto un simile potere, nessuno avrebbe mai posseduto la chiave di quel suo lucchetto, nessuno. Dovette interrompere quella connessione, non doveva guardarlo così non poteva. Passò all’attacco.
-e io stupido che pensavo di avere diritto a delle scuse. Ma è ancora più triste perché in realtà sei solo la figlia della mia cuoca. E non dovremmo nemmeno stare qui a parlare io e te. Non dovremmo nemmeno conoscerci.
Decise di farle più male possibile, almeno così avrebbe smesso di scavargli negli occhi. E magari se ne sarebbe anche andata, che forse era meglio. Non aveva voglia di niente. Natalie rimase pietrificata da quei suoni che cercava di scomporre e ricomporre cercando di dare loro un significato differente da quello che preferiva non accettare. Non provò nemmeno a discutere.
-concordo. Stupido. Quello che sei.
-esci per favore (e insultami, così mi sentirò meno schifoso per quello che ho detto)
Quell’affermazione era stata fatta a denti troppo stretti, con gli occhi troppo chiusi a fessura in uno sguardo troppo opaco e tagliente. Rimase immobile come un animale che prende tempo di fronte al suo predatore naturale, in attesa che l’astuzia suggerisca la mossa più intelligente.
-non hai sentito? Lo stupido non vuole rubarti altro tempo, miss Harvard (insultami che aspetti, o esci da quella porta e scappa più lontano che puoi)
Aveva sentito benissimo. Ora che era lì per lui avvertì la vera consistenza del rifiuto e le sue parole le bruciarono la gola come lava piena di lame taglienti. –la figlia della sua cuoca- Sentì le lacrime accumularsi alla base degli occhi ed un fastidioso formicolio al naso. Quando fu sicura di non riuscire a trattenersi oltre gli rivolse un’ occhiata pregna di una delusione mai provata. Poi uscì.
***
Non appena si chiuse la porta alle spalle udì un tonfo sordo. Poi un rumore metallico. Si fermò un istante a riprendere fiato. Il corridoio deserto e buio, non aveva idea di come fosse arrivata lì. Ormai le guance erano bollenti e purpuree, si sentiva esplodere la testa mentre un urlo di rabbia se ne stava lì, alla base della gola, in attesa di uscire e sfogare almeno in parte il profondo senso di frustrazione che l’attanagliava ora. Non fece un passo però.
Si sedette sulla poltroncina di velluto ancora calda del peso di lei, e gli parve di avvertirne anche una nota di profumo. Margherite. Era rimasta lì seduta per più di metà concerto, l’altra metà l’aveva trascorsa là sotto, in mezzo a tutte quelle persone ammassate, solo per vederlo. L’altra poltroncina, quella sulla quale si sarebbe dovuto sedere lui nella scena che la sua immaginazione aveva prodotto nell’ultima ora, accanto a lei, mentre le avrebbe accarezzato dolcemente le mani ascoltando tutte le sue piccole storie, giaceva su un lato, innaturalmente a terra, scagliata vicino al muro da un calcio che la rabbia non gli aveva impedito di trattenere.
–sarà stanchissima- se lo ritrovò a far capolino dalle labbra umide. Il senso di vuota disperazione che lo attanagliava da giorni ora era tornato a divorarlo, trascinandolo sempre più in basso.
-lo avevo dimenticato per qualche ora- mentre la sapeva lì dentro ad aspettarlo, lì per lui, solo per lui, si era dimenticato di quel servizio sulla cnn, in cui una voce femminile annunciava al mondo intero di un suo possibile coinvolgimento in una storia di molestie ad un minore. Non aveva voluto crederci, perso nel vuoto attonito della suite in cui si trovava, sperava nella solita spazzatura, nulla di che. Ma poi le telefonate dall’America gli avevano fatto comprendere che stavolta il mostro da combattere sarebbe stato più forte di qualche stupido tabloid. Il procuratore distrettuale aveva ordinato una perquisizione dell’intera proprietà alle 3.05 del mattino, proprio mentre lui era così lontano –la mia casa- poi Backerman, il migliore sulla piazza, avrebbe gestito lui tutta la situazione, glielo aveva detto con voce sicura dal suo studio di New York sulla sua enorme sedia in pelle nera, poi Frank, il buon vecchio Frank, che al telefono era stato ottimista e più che mai paterno nel cercare di rassicurarlo –non è niente Mike, si risolverà tutto in una bolla di sapone, insieme a tutte le solite stronzate che dicono, stammi a sentire- Ma non era riuscito ad ascoltarlo oltre –bei tempi con Frank- era stata l’unica considerazione sconnessa del suo cervello ormai in poltilia dopo le notti insonni a cercare di comprendere, di capire come diavolo fosse potuta accadere una cosa simile –è che sei troppo buono Mike, dai tutto in cambio di nulla, e questo la gente lo sa e se ne approfitta- erano state le parole confuse di Jermaine che si era appena sposato per la seconda volta con una donna bellissima alle Bahamas. Poi Miranda al telefono, unica fra le poche voci veramente vere ed accoglienti –non si preoccupi Mr Jackson, qui è tutto a posto ed attendiamo il suo ritorno. Non hanno danneggiato niente, stia tranquillo-
Tranquillo. Come poteva stare tranquillo. Da un mese tutto era diventato terribilmente confuso. Quel ragazzo gravitava in casa sua da un anno ormai. Accadeva spesso, il ranch riceveva migliaia di visite ogni settimana, era una cosa normale. Jordan era solo uno dei tanti che arrivava il venerdì insieme a sua madre ed utilizzava le stanze e tutti i comfort possibili. In piena libertà. Si era confidato un giorno quando Jamal e Jermasty si erano allontanati per bere dopo l’ennesima lotta con i palloncini. Soffriva della separazione dei suoi genitori, si sentiva dimenticato da suo padre. Faceva di tutto per compiacerlo senza mai riuscirci. E avrebbe fatto di tutto per cambiare questa assurda consuetudine. –di tutto-
Un copione scadente ed una richiesta al di fuori di ogni logica. Avrebbe dovuto finanziare quel dannato progetto, un prestito di cinquecentomila dollari ed una buona parola a Dick Tracey, il penultimo gradino prima dell’olimpo firmato Columbia. Ma non aveva voluto, non era stato disposto a mettere il suo nome ed i suoi soldi su quella roba. Evan Chandler avrebbe potuto accontentarsi del suo impiego, sarebbe stato un ottimo dentista forse, ma come sceneggiatore certo non sarebbe mai arrivato da nessuna parte.
Ed ora che il peso di quell’umiliazione lo stava schiacciando sotto alle sue stesse mura si, le sue stesse mura, perché proprio la sua meravigliosa dimora sarebbe stata il fulcro di quegli ignobili crimini, nulla gli importava, si sentiva come infetto, portatore di una malattia contagiosa e letale. La tristezza. Lei, creatura strana e ricorrente, pareva incistata nella sua vita a periodi alterni, ma mai come stavolta si era trattenuta in lui così a lungo, così profondamente –non sei un’ospite, ora sei la padrona-
Si passò entrambe le mani sulle tempie surriscaldate dalla troppa pressione del sangue che correva impazzito di qua e di là nelle vene. Un’improvvisa nostalgia, poi un brivido di freddo. O di paura. Nulla nella lista delle cose belle, nulla nello stomaco, nulla da leggere su comodino, nulla di divertente da ricordare, nulla che facesse scaldare il cuore.
Nulla a parte lei.
-Natalie-
Lo disse piano. Poi divenne un’esigenza. Lo disse più forte. –ho voglia di parlare con te- lo disse ancora, fingendo che non fosse successo quello che era successo –Natalie- qualcosa lo fece alzare di lì –che cosa ho fatto- non sapeva se l’aveva detto o semplicemente pensato –dimmi che sei rimasta qui- non ebbe il coraggio di guardare quando dopo aver aperto la porta aveva inspirato violentemente tutta l’aria che i polmoni avrebbero potuto contenere, preparandosi all’ennesimo tonfo al cuore, all’ennesimo senso di vuoto.
Stavolta con la consapevolezza che la colpa era soltanto sua.
Parte prima
Un tortuoso corridoio, due rampe di scale, ancora un corridoio. Gli ambienti si susseguivano uno dopo l’altro confondendo l’orientamento, stretti ed angusti, illuminati soltanto dalle fioche intermittenze delle emergency exit, incollate ogni qualche metro a sormontare le numerose porte chiuse.
Si trovava immersa in quel mare nero con il nulla in testa, nulla intorno, solamente qualche violento brivido ancora a scuoterla–impensabile, assolutamente impensabile che sia successo davvero- partiva dalla schiena e moriva alla base del cranio irradiandosi in un formicolio piacevole e fastidioso nel contempo.
Una stretta possente la trascinava per il braccio sinistro imponendo un’andatura un po’ troppo veloce per quei muscoli intorpiditi dalle tante ore in piedi, avvertiva la stanchezza risalirle la schiena ed andare a morire alla base della nuca rendendo difficoltosa perfino la vista. Presto sopraggiunse la stizza. Si sentiva un inutile burattino, usurpata nel suo diritto al libero arbitrio, costretta ad eseguire, obbedendo a leggi che nemmeno conosceva.
E se la sarebbe volentieri filata da lì -dopo aver tirato un bel calcio nel sedere di questa credenza a sei ante che ha dimenticato le buone maniere, ovviamente- se non fosse che ormai era troppo arrabbiata e la voglia di fare quattro “chiacchiere” con il motivo di tutto quel disagio era più forte di tutto il resto.
-ehi ciccio puoi anche mollarmelo il braccio, ti seguo lo stesso eh..
-non si sa mai, dato il morso di prima, potrebbe essere pericoloso lasciarla libera
-Non certo per te ciccio, avremo ad occhio e croce una cinquantina di chili che ci separano..eh si, anche in questo caso le dimensioni contano!
-la prego di smettere di chiamarmi ciccio
-pure permalosi se li sceglie i gorilla quello là?! Non basta lui?!
-come scusi?
-no no niente, per carità..
-aspetti qui senza toccare niente, per favore
Si voltò indietro stupendosi di non aver ricevuto altre risposte a tono da quella ragazzina insolente, mentre con la mente viaggiò a solo poche ore prima, quando la bionda aveva avuto un semi attacco di panico alla notizia che sarebbe dovuta salire su quel palco. Poi le era stato consegnato un free Pass per poter provare la scena –farai esattamente così, la posizione è leggermente arretrata ma pur sempre in prima fila, in modo che un membro della security potrà aiutarti a scavalcare..- era stato abbastanza meticoloso Teddy, amava programmare tutto e soprattutto che tutto andasse esattamente come previsto –sarà fuori di sé stasera per questo fuori programma di Mike..- pensò con una ghigno divertito stampato sulle labbra.
Ne aveva viste di tutti i colori Wayne, tante piccole scimmie urlatrici con gli occhi a mandorla schiacciate le une sulle altre che battevano i vetri del pulmino, con gli occhi azzurri, marroni, verdi, grigi, arrampicarsi sulla grondaia dell’hotel come animali selvaggi, correre sulla carreggiata della statale con la pretesa di raggiungere l’auto in corsa, accatastate come scatole in un container dietro a quelle innumerevoli transenne, graffiate ed esauste, leonesse frantumate nel cuore e nel corpo solo per avere un istante, un piccolo frammento in una vita.
Ma lei non scalpitava, non urlava e non aveva nulla che la facesse somigliare anche solo un pochino a tutte le altre persone che aveva visto dannarsi per MJ, anzi sembrava scocciata. Si, scocciata –mah, è strana la gente- se lo ritrovò in mente alla fine di tutte quelle considerazioni e del lungo corridoio. Mancava poco ormai.
Rimase sola in quella stanza asettica resa ancor più gelida da un enorme bocchettone che sputava aria condizionata a getto continuo –a prova di mummia- si, lo pensò, in un ennesimo tentativo di esorcizzare una situazione complicata, -ma poi, che cavolo ci sarà mai da non toccare, qui non c’è niente!- Una luce fioca si irradiava dal basso offrendo la vista di una moquette color cobalto stesa a guarnire un’area non troppo estesa in cui trovavano spazio solo un paio di sedie buttate lì a casaccio. –dove diavolo sono- La pelle increspata delle braccia non trovava sollievo nemmeno dopo le frequenti e ripetute frizioni delle mani su di essa, mentre un monitor sulla destra offriva la panoramica generale e sgranata del parterre, da cui si potevano scorgere una marea di teste ammassate ed urlanti, dagli occhi vitrei di fatica e felicità, sbarrati per alcuni, serrati per altri, svenuti sulle barelle trasportate via dagli uomini in rosso.
Il rumore di fondo che squassava le pareti improvvisate del backstage proveniva direttamente dal palco e copriva quasi del tutto l’audio del televisore, e, sebbene il suono non fosse affatto nitido, riusciva comunque ad immaginarlo migliore di così solamente seguendo il labiale del ragazzo con il cappello in terza fila, i cui occhi persi in una bolla estatica non gli avevano tuttavia fatto perdere un singolo attimo di quel momento irripetibile –a differenza mia che grazie alle belle idee di quello scemo mi sono persa già 20 minuti di concerto- e fu lì, quando sprofondò su quella poltroncina in velluto scuro, che qualcosa le sfondò la mente con la violenza di un fiume che abbatte una diga.
-Espero que todos tus deseos se hagan realidad. ¡Feliz cumpleaños mi amor!
-dai mama basta..
Non si rassegnava, non voleva cedere a quella cantilena dolce quanto tediosa che Mama era solita intonare per lei ogni anno. Sempre la stessa storia. La rendeva così nervosa, così irascibile e dura, non aveva voglia di niente, tantomeno di una cosa del genere.
Quando non c’era nessun altro le parlava in spagnolo, la sua lingua d’origine, e sebbene capisse ogni cosa fingeva che non le appartenesse, fingeva che non le interessasse, fingeva di non comprendere e rispondeva in inglese. Ma ormai Mama non ci faceva più caso, preparava ogni volta una torta di panna ricoperta di ananas tagliato sottile, le fette simmetriche ed ordinate tenute insieme da un fine strato di gelatina, era dolce, era buona, ma Natalie non la assaggiava mai.
Il sorriso solare e un po’ irriverente dei suoi tredici anni si era spento bruscamente anche quel giorno, come se fosse stata colpita dallo stesso male cronico anche quell’anno. Ed era sempre peggio.
Quella volta era tornato prima, non si sa da dove, ma il cielo era ancora chiaro quando la limo con cui era solito spostarsi in quel periodo aveva varcato i cancelli neri del suo regno. Era rientrato per festeggiare il compleanno di quella piccola amica, il pendolo della sala segnava le 19:00 in punto, e come ogni anno aveva fra le mani un pacchettino.
–non so dov’è, signore- si era sentito rispondere da quella donna nella saletta adiacente alla cucina, sul ripiano una torta all’ananas, intatta. L’aveva cercata ed all’imbrunire aveva visto un piede pendere dall’albero
–piccola scimmia- aveva sorriso ed era salito sul suo stesso ramo per osservarla da vicino.
-se volevi giocare a nascondino potevi anche dirmelo, e magari potevi anche nasconderti un po’ meglio..
Aveva cercato di scherzare, dandole un colpetto sulla spalla che però non aveva prodotto in lei che un passivo movimento ondulatorio del collo. Lo sguardo perso nel vuoto, all’orizzonte.
-Nat, è successo qualcosa?!-
Troppo lontano da lei quell’atteggiamento, troppo.
-no-
Infiniti minuti di silenzio in cui si era torturato con mille domande cercando perfino di sentirsi in colpa per il ritardo che non era riuscito ad evitare –Frank e le sue maledette manie di protagonismo con Mottola, non poteva lasciar fare a me?- a causa di quel contratto, ma non c’era soluzione, era così e basta, e quando stava per concludere che forse le paturnie dell’adolescenza non potevano che risolversi con il tempo, lei aveva interrotto il silenzio con qualcosa che gli aveva fatto rimpiangere qualsiasi muso lungo.
-oggi non è il mio compleanno
-come non è il tuo..
-non lo è. Io non ho la minima idea di quando sia il mio compleanno Michael
-come..
-sono stata abbandonata. Miranda mi ha trovata in un cestino. Ero piccola. Forse avevo sei mesi, forse meno. Era dicembre. Ma io non so quando sono nata. Non lo so. Lì succede spesso. In Porto Rico. Credo.
-…
-non devi dire qualcosa per forza
-n-no, scusami, è che non.. non immaginavo, cioè io credevo che..bè insomma ma che importa quello che credevo, fatto sta che le cose stanno così, solo che appunto non immaginavo che..insomma dammi tempo per capire..
-calmati, è tutto ok
Quelle guance rosse come pomodori maturi le avevano strappato un sorriso in mezzo alla tristezza. Era certamente l’essere più goffo che avesse conosciuto, ed empatico, anche. Sensibile. Troppo. Era più o meno la sua tredicesima primavera, e già si sentiva impazzire di lui.
Le aveva preso la mano ormai consapevole che con le parole non avrebbe combinato un gran che e si era soffermato sulla linea dell’orizzonte, invitandola a perdersi in un’altra realtà –quella in cui tutto è come vorremmo che fosse, dove i sogni sono veri piccola Nat-
Aveva visto una piccola lacrima sul suo profilo, poi il sole che scompariva dietro alle tempie, rosso, bellissimo –ora sei qui, non importa il resto- le mani intrecciate, non si capiva a chi dei due appartenesse il dolore.
***
-dovremmo rientrare, ci aspetta una torta niente male, da quel poco che ho visto prima..
-già
-e non fare quella faccia, tanto ce ne sarà un’altra diversa domani, e poi dopodomani..
-come sarebbe?
-sarebbe che visto che non sappiamo il giorno preciso, tutti i giorni di giugno potrebbe essere il tuo compleanno, quindi noi festeggeremo trenta possibili compleanni!
-tu sei matto..
-io so chi sei Nat- era tornato serio repentinamente per posarle le mani sulle guance minando il suo già precario equilibrio emotivo -non dimenticarlo tu-
si era persa così, in quell’intensa danza di sguardi, la prima della lunga serie che le avrebbe strappato il cuore ogni volta, negli anni a venire.
***
-chi arriva ultimo a casa è il ciccione dei simpson, quello che fa dei rutti assurdi..com’e che si chiama..ah si! Barneyyyyyyyy
Lo aveva visto correre all’indietro mentre stabiliva le regole del gioco, aveva parlato velocemente e quando la frase era terminata era già lontano, sicuro e fiero di quel vantaggio che gli avrebbe permesso di accendere le candeline e spegnere tutte le luci per lei.
Un battito di ciglia, un sospiro ed un repentino sprint del cuore alla vista dell’enorme cerotto che univa i due lembi di un mondo spezzato dalle ingiustizie nel monitor 7. Heal the world alle battute finali. Pochi istanti ancora ed avrebbe dovuto recuperare un briciolo della sua verve, scomparsa dietro alla tenera memoria appena svanita nel buio di quella stanza.
***
1990
-dove guardi?
-l’infinito
-non si può vedere l’infinito
-lo vedi se hai male qui. Infinito è il mio male, allora posso vedere l’infinito
-non dire così mi hermanita..dove hai male? Come posso fare?
-nulla pequeña, il mio male è dentro,non c’è medicina
-ci deve essere
-no. L’unica buona cosa è il mio ritorno a casa
-si, torniamo insieme, prendo la bici..
-no es mi casa aquì, Natalia!
La guardò in quelle iridi nere, più nere delle sue che non nascondevano una punta di risentimento per quella risposta piccata, unica valvola di sfogo per quella dea castano chiara che non aveva voluto imparare bene l’inglese.
–non merita niente, la nostra lingua es mas bella, non merita niente, non è musicale esta aquì, non avrà il mio impegno, no merece la atenciòn!-
le aveva detto una sera, dopo l’ennesima E in letteratura. Conosceva i suoi poeti, rifiutava il resto. Rifiutava quella terra ricca di colori e luoghi da visitare, rifiutava quel benessere di cui non comprendeva la sorgente, rifiutava ogni cosa e viveva nell’unica ombra che potesse fare luce. Quella dei ricordi.
-me ne vado pequeña, torno a casa
Lo disse con un tono più dolce stavolta, passandole una mano fra i capelli neri, sottili e fragili mossi dal vento. Incapace di scusarsi con quella piccola peste di sua sorella.
-cosa dici
-devo trovarlo e dirgli che non posso vivere. Luiz. Mi solo amor
-Paulina, non mi lasciare non voglio stare sola qui
-no està sola mi amorita
-invece si! Paula..
Le afferrò il braccio e vi si aggrappò come ad un’ancora nella tempesta, in un disperato quanto vano tentativo di trattenerla vicino a sé per respirarla ed intrappolare quel piccolo calore su di se ancora per un po’.
-non puoi capire l’amore Natalia, io sto troppo male. Stanotte io..
-Entiendo. Te llevo en mi corazón todos los días de aquí para siempre mi hermanita
SPOILER (clicca per visualizzare)
La prima ed unica volta. le parlò così, nella lingua che conosceva e che non usava mai per non sentire troppo male. Solo per lei, Paula.
Rimasero in silenzio a lungo. Paula era convinta che quel gomitolo di capelli corvini che le sfioravano i braccio destro avrebbe dovuto vedere ancora mille volte sorgere il sole prima di capire veramente il significato delle sue parole. Ma si sbagliava.
Solo un alito di vento.
Si guardarono negli occhi ancora una volta. Tanto bastò a Natalie per capire che sarebbe stata l’ultima.
***
Scese dal palco attraverso la stessa botola che lo aveva sbalzato fuori soltanto due ore prima.
Due assistenti gli andarono incontro istantaneamente posandogli sulle spalle un asciugamano ed aiutandolo ad infilare una giacca nera lucida, un terzo gli si avvicinò con una bottiglia di cui bevve avidamente tutto il contenuto succhiandolo da una cannuccia nera anche lei.
Lo cercò con lo sguardo e quando lo trovò non riuscì ad evitarlo. Un personaggio grassoccio gli si avvicinò a passi svelti gesticolando qualcosa.
-non ora Teddy, sono esausto
-no caro, adesso vieni e mi spieghi che cazzo ha voluto significare il tuo..
-nulla di che, volevo lei sul palco. Punto
Tagliò corto già proiettato all’imbocco del lungo corridoio ora illuminato a giorno per il suo passaggio.
-senti Mike, come produttore esecutivo devo dirti che non puoi assolutamente comportarti in questo modo, c’è tutto un discorso di sicurezza alla base che non può essere sottovalutato, oltre, ovviamente al lavoro di tutto lo staff che si spacca il culo in quattro, e lo sai..
Cercò di utilizzare tutto il fiato che aveva nei polmoni per dire quella frase in un sol colpo, mentre quasi lo rincorreva con piccoli saltelli, enormemente più corti delle ampie falcate di Michael.
-ok..ok, è vero. Però ti prego Ted, ora sono stanco
Decise di accontentarlo con uno studiato mea culpa non esattamente sentito, ma era l’unico modo per troncare quella conversazione che non aveva nulla di interessante ora che lei lo stava aspettando dietro alla porta, alla fine della rampa che stava per raggiungere. –cazzo proprio adesso dovevi venire a stressarmi- gli posò una mano sulla spalla rivolgendogli un’occhiata opaca di sudore, con tutta l’intenzione di suscitare la pena in quegli occhietti piccoli e vicini, ricoperti da spesse lenti da miopi.
-si, però sia chiaro che..
-domani!
Si era voltato di nuovo riprendendo la sua andatura spedita e sollevando solo la mano aperta ad intimare uno stop che venne accolto, lasciandolo libero di imboccare la rampa.
***
Il cuore che fino a poco prima gli batteva le tempie come impazzito ora pulsava così violentemente da far male, creando un devastante ritorno al petto ed alla gola. Ma se il ritmo aumentato di prima poteva essere giustificato dallo sforzo appena compiuto sul palco, ora proprio non riusciva a capacitarsene. Ogni passo era faticosissimo ed oramai mancavano soltanto un paio di metri.
***
Quando la porta si aprì la luce che vi rifletté istantaneamente sopra rivelò ai suoi occhi ormai abituati alla semi oscurità il suo vero colore. Rosso. Si levò dalla poltroncina di scatto, con la velocità di un ladruncolo colto sul fatto.
Ne vide dapprima soltanto il contorno, un’ombra nella luce intensa che proveniva da dietro. Quando si chiuse la porta alle spalle il buio calò nuovamente ma continuò a scorgerne la figura immobile. Come due agili predatori si scrutarono nella penombra in attesa che l’istinto suggerisse ad uno dei due la mossa successiva.
Le sembrò talmente bello che saltò due o tre respiri per paura di perdersi qualche dettaglio. Gli sembrò talmente bella che non emise suono per paura che si spostasse privandolo di quella magica angolazione.
L’emozione, l’ira, l’impazienza o tutte e tre le cose insieme presero il sopravvento e li fecero parlare. Contemporaneamente.
-non avevo idea. Non pensavo. E’ stato fantastico..
-come sei arrivata qui
-cioè io ti conosco da quasi tutta la mia vita e non avevo la minima idea, cioè non pensavo che sarebbe stato davvero così..
-come sei arrivata in Messico, voglio dire, cosa ci fai qui
-mi dispiace soltanto che ad un certo punto mi hai fatta mandare qui dietro, non sono più riuscita a gustarmi tutto come prima e sinceramente..
-ma del resto se avevi il biglietto è una cosa che hai pianificato. Sei venuta fin qui apposta..
-cioè, ma come ti è venuto in mente di far scendere Tara dal cielo come un angelo vero?! Semplicemente geniale!
-rispondimi
-Michael vorrei solo sapere perché non mi hai mai fatta venire ad un tuo concerto. È stata un’emozione senza pari, senza nulla con cui poterla paragonare, sono sconvolta e ancora non ci credo, sei..sei..
-come ti è venuto in mente di venire qui da sola, così, senza nemmeno avvertirmi, senza nemmeno..
-..davvero bravissimo, ecco, non mi viene in mente altro. Bravissimo è l’unico termine che possa rendere giustizia al talento che viene fuori come un fiume in piena quando un vero talento appunto si trova nel suo elemento ed in questo caso direi proprio che questa era la situazione perché..
-..degnarmi di una telefonata, che ne so, una lettera, un segnale di fumo, dimmi se non sarebbe stato più normale invece di farti trovare lì nel parterre costringendomi ad implorare la sicurezza di prenderti e farti salire, dimmi che scelta avevo, dimmi come avrei potuto rintracciarti, come..
-VUOI STARE UN ATTIMO ZITTA?! -VUOI STARE UN ATTIMO ZITTO?!
-STAI ZITTO TU! –STAI ZITTA TU!
Sospirò rumorosamente, poi guardò a terra, poi lei, di nuovo a terra. Si inumidì il labbro superiore e poi quello inferiore con un’unica omogenea carezza della lingua. Lo faceva sempre. Non le sfuggì, e perse un altro respiro guardandolo ancora fisso negli occhi –sarai tu a dover abbassare lo sguardo caro mio, a costo di bruciarmi le diottrie- E ancora. La fissò severo, aveva deciso per una sfuriata. –il minimo per come si è comportata-
-e quindi la signorina parte, sparisce e ritorna quando vuole, giusto?
-no
-ah no? E dove diavolo sei finita in questi quindici mesi (merda così sembra che sono stato a contarli)
-esattamente ad Harvard, nel Massachussets. Ho vinto una borsa di studio, ricordi? No, non lo ricordi, perché quel giorno mi hai ignorata, eri troppo perso nel tuo stupido orgoglio ferito, solo perché..(ha contato i mesi)
-solo perché mi hai tenuto nascosto un dettaglio irrilevante della tua vita come ad esempio che stavi per andartene da Neverland per sempre! È così che mi sono arrabbiato, per una stronzata, vero? (pessima, pessima. E chiudi quegli occhi, sono troppo grandi)
-non per sempre Michael, sarei tornata (ma che ti salta in mente)
-infatti ho visto come sei tornata (smetti di guardarmi così, non guardarmi dentro)
Non poté sopportare oltre. La sua barriera rischiava di crollare sotto la forza di quegli occhi puliti che in soli cinque minuti erano già lì a farlo vacillare, tutte le sue certezze, le promesse di riscatto e gli spergiuri di una chiusura totale, di isolamento da quel mondo che non lo aveva mai compreso, e che ora lo voleva a pezzi sul banco della carne. No, nessuno avrebbe più avuto un simile potere, nessuno avrebbe mai posseduto la chiave di quel suo lucchetto, nessuno. Dovette interrompere quella connessione, non doveva guardarlo così non poteva. Passò all’attacco.
-e io stupido che pensavo di avere diritto a delle scuse. Ma è ancora più triste perché in realtà sei solo la figlia della mia cuoca. E non dovremmo nemmeno stare qui a parlare io e te. Non dovremmo nemmeno conoscerci.
Decise di farle più male possibile, almeno così avrebbe smesso di scavargli negli occhi. E magari se ne sarebbe anche andata, che forse era meglio. Non aveva voglia di niente. Natalie rimase pietrificata da quei suoni che cercava di scomporre e ricomporre cercando di dare loro un significato differente da quello che preferiva non accettare. Non provò nemmeno a discutere.
-concordo. Stupido. Quello che sei.
-esci per favore (e insultami, così mi sentirò meno schifoso per quello che ho detto)
Quell’affermazione era stata fatta a denti troppo stretti, con gli occhi troppo chiusi a fessura in uno sguardo troppo opaco e tagliente. Rimase immobile come un animale che prende tempo di fronte al suo predatore naturale, in attesa che l’astuzia suggerisca la mossa più intelligente.
-non hai sentito? Lo stupido non vuole rubarti altro tempo, miss Harvard (insultami che aspetti, o esci da quella porta e scappa più lontano che puoi)
Aveva sentito benissimo. Ora che era lì per lui avvertì la vera consistenza del rifiuto e le sue parole le bruciarono la gola come lava piena di lame taglienti. –la figlia della sua cuoca- Sentì le lacrime accumularsi alla base degli occhi ed un fastidioso formicolio al naso. Quando fu sicura di non riuscire a trattenersi oltre gli rivolse un’ occhiata pregna di una delusione mai provata. Poi uscì.
***
Non appena si chiuse la porta alle spalle udì un tonfo sordo. Poi un rumore metallico. Si fermò un istante a riprendere fiato. Il corridoio deserto e buio, non aveva idea di come fosse arrivata lì. Ormai le guance erano bollenti e purpuree, si sentiva esplodere la testa mentre un urlo di rabbia se ne stava lì, alla base della gola, in attesa di uscire e sfogare almeno in parte il profondo senso di frustrazione che l’attanagliava ora. Non fece un passo però.
Si sedette sulla poltroncina di velluto ancora calda del peso di lei, e gli parve di avvertirne anche una nota di profumo. Margherite. Era rimasta lì seduta per più di metà concerto, l’altra metà l’aveva trascorsa là sotto, in mezzo a tutte quelle persone ammassate, solo per vederlo. L’altra poltroncina, quella sulla quale si sarebbe dovuto sedere lui nella scena che la sua immaginazione aveva prodotto nell’ultima ora, accanto a lei, mentre le avrebbe accarezzato dolcemente le mani ascoltando tutte le sue piccole storie, giaceva su un lato, innaturalmente a terra, scagliata vicino al muro da un calcio che la rabbia non gli aveva impedito di trattenere.
–sarà stanchissima- se lo ritrovò a far capolino dalle labbra umide. Il senso di vuota disperazione che lo attanagliava da giorni ora era tornato a divorarlo, trascinandolo sempre più in basso.
-lo avevo dimenticato per qualche ora- mentre la sapeva lì dentro ad aspettarlo, lì per lui, solo per lui, si era dimenticato di quel servizio sulla cnn, in cui una voce femminile annunciava al mondo intero di un suo possibile coinvolgimento in una storia di molestie ad un minore. Non aveva voluto crederci, perso nel vuoto attonito della suite in cui si trovava, sperava nella solita spazzatura, nulla di che. Ma poi le telefonate dall’America gli avevano fatto comprendere che stavolta il mostro da combattere sarebbe stato più forte di qualche stupido tabloid. Il procuratore distrettuale aveva ordinato una perquisizione dell’intera proprietà alle 3.05 del mattino, proprio mentre lui era così lontano –la mia casa- poi Backerman, il migliore sulla piazza, avrebbe gestito lui tutta la situazione, glielo aveva detto con voce sicura dal suo studio di New York sulla sua enorme sedia in pelle nera, poi Frank, il buon vecchio Frank, che al telefono era stato ottimista e più che mai paterno nel cercare di rassicurarlo –non è niente Mike, si risolverà tutto in una bolla di sapone, insieme a tutte le solite stronzate che dicono, stammi a sentire- Ma non era riuscito ad ascoltarlo oltre –bei tempi con Frank- era stata l’unica considerazione sconnessa del suo cervello ormai in poltilia dopo le notti insonni a cercare di comprendere, di capire come diavolo fosse potuta accadere una cosa simile –è che sei troppo buono Mike, dai tutto in cambio di nulla, e questo la gente lo sa e se ne approfitta- erano state le parole confuse di Jermaine che si era appena sposato per la seconda volta con una donna bellissima alle Bahamas. Poi Miranda al telefono, unica fra le poche voci veramente vere ed accoglienti –non si preoccupi Mr Jackson, qui è tutto a posto ed attendiamo il suo ritorno. Non hanno danneggiato niente, stia tranquillo-
Tranquillo. Come poteva stare tranquillo. Da un mese tutto era diventato terribilmente confuso. Quel ragazzo gravitava in casa sua da un anno ormai. Accadeva spesso, il ranch riceveva migliaia di visite ogni settimana, era una cosa normale. Jordan era solo uno dei tanti che arrivava il venerdì insieme a sua madre ed utilizzava le stanze e tutti i comfort possibili. In piena libertà. Si era confidato un giorno quando Jamal e Jermasty si erano allontanati per bere dopo l’ennesima lotta con i palloncini. Soffriva della separazione dei suoi genitori, si sentiva dimenticato da suo padre. Faceva di tutto per compiacerlo senza mai riuscirci. E avrebbe fatto di tutto per cambiare questa assurda consuetudine. –di tutto-
Un copione scadente ed una richiesta al di fuori di ogni logica. Avrebbe dovuto finanziare quel dannato progetto, un prestito di cinquecentomila dollari ed una buona parola a Dick Tracey, il penultimo gradino prima dell’olimpo firmato Columbia. Ma non aveva voluto, non era stato disposto a mettere il suo nome ed i suoi soldi su quella roba. Evan Chandler avrebbe potuto accontentarsi del suo impiego, sarebbe stato un ottimo dentista forse, ma come sceneggiatore certo non sarebbe mai arrivato da nessuna parte.
Ed ora che il peso di quell’umiliazione lo stava schiacciando sotto alle sue stesse mura si, le sue stesse mura, perché proprio la sua meravigliosa dimora sarebbe stata il fulcro di quegli ignobili crimini, nulla gli importava, si sentiva come infetto, portatore di una malattia contagiosa e letale. La tristezza. Lei, creatura strana e ricorrente, pareva incistata nella sua vita a periodi alterni, ma mai come stavolta si era trattenuta in lui così a lungo, così profondamente –non sei un’ospite, ora sei la padrona-
Si passò entrambe le mani sulle tempie surriscaldate dalla troppa pressione del sangue che correva impazzito di qua e di là nelle vene. Un’improvvisa nostalgia, poi un brivido di freddo. O di paura. Nulla nella lista delle cose belle, nulla nello stomaco, nulla da leggere su comodino, nulla di divertente da ricordare, nulla che facesse scaldare il cuore.
Nulla a parte lei.
-Natalie-
Lo disse piano. Poi divenne un’esigenza. Lo disse più forte. –ho voglia di parlare con te- lo disse ancora, fingendo che non fosse successo quello che era successo –Natalie- qualcosa lo fece alzare di lì –che cosa ho fatto- non sapeva se l’aveva detto o semplicemente pensato –dimmi che sei rimasta qui- non ebbe il coraggio di guardare quando dopo aver aperto la porta aveva inspirato violentemente tutta l’aria che i polmoni avrebbero potuto contenere, preparandosi all’ennesimo tonfo al cuore, all’ennesimo senso di vuoto.
Stavolta con la consapevolezza che la colpa era soltanto sua.
marina56- Moderator
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Re: Don't call my name
CAPITOLO QUINTO
Parte seconda
Alla fine aveva aperto gli occhi.
La sua figura esile seduta a terra, le braccia a trattenere le ginocchia vicine al mento, gli occhi umidi sotto alle palpebre, le guance ancora livide da un pianto che andandosene aveva lasciato gli strascichi di un singhiozzo nervoso, cadenzato, irrisolto, la sua immagine di bambina, piccola e fragile, vittima di una tristezza pesante ed ingestibile.
Gli aveva lanciato il solito sguardo, quello di un animale ferito da lui, dalla vita o da chissà cos’altro, ma dritto, dignitoso, avvolto da un'aura regale che faceva sentire piccoli e basta.
Alzandosi lo aveva poi guardato negli occhi senza curarsi minimamente dei segni che il dispiacere di poco prima le aveva lasciato sul volto, sfacciata e caparbia, senza pretesa alcuna, non chiedeva spiegazioni o scuse.
Solo un abbraccio che si prese senza chiedere il permesso, nel buio di quel corridoio al di sotto dell’immenso palco a Città del Messico.
Provò a parlare ma non ci riuscì perché i brividi che ora gli increspavano le pareti del cuore come frustate senza sosta erano soltanto uno dei tanti pallidi segnali della sua totale impotenza di fronte alla forza di quello sguardo pulito, innocente, già sparito nell’incavo fra il collo umido ed i suoi riccioli neri.
-puoi provare a perdonarmi Nat
Glielo chiese con il volto immerso fra i fili corvini, paragonabili a quelli ordinati e lucenti delle donne asiatiche, anche per consistenza.
La stringeva così forte da renderle difficoltosa l’estensione della cassa toracica per respirare, lo sentiva, ma non riusciva ad allentare quella presa, non riusciva a non aggrapparsi a lei.
-già fatto
Lo udì, anche se era solamente un mormorio fra le sue ciocche umide di sudore e di paura.
-non ho mai detto quelle cose, mai. Possiamo fare finta che sia così
Disperato e senza freni, colmo di angoscia e senso di colpa, si lasciò andare alle lacrime che gli rigarono il volto copiose e liberatorie, senza trattenere i singhiozzi che uscivano nitidi e profondi, scuotendolo a tal punto che sentì la spasmodica necessità di insinuare la mano aperta fra le sue ciocche lisce anche se un po’ arruffate dall’umida densità dell’aria. –devo aggrapparmi per non cadere-
-possiamo
Gli confermò senza battere ciglio, il tono rassicurante non nascondeva più nulla, solo la voglia di perdersi in lui.
Michael non si preoccupò della voce roca e spezzata, non si preoccupò dei sussulti che gli spezzavano le parole in bocca, voleva soltanto piangere fra quelle braccia esili e forti.
Lo lasciò sfogare, lasciandosi quasi soffocare dalla morsa di quelle braccia in tensione attorcigliate si di lei.
-sono qui per te adesso
E si sentiva in colpa per essersene andata quella sera senza salutarlo,
e si sentiva in colpa per non essere rimasto tutta
la giornata con lei;
sarebbe
stata l’ultima ed avrebbe voluto viverla nel migliore dei modi possibili,
giocando e scherzando tutto il giorno, anche se la cosa che davvero avrebbe
desiderato più di tutte le altre era sentire che sapore aveva quella bocca;
sarebbe stata l’ultima e avrebbe voluto viverla nel
migliore dei modi possibili, magari seduto sul bordo di quel laghetto appena
costruito, con lei sulle ginocchia, ad accarezzarle le cosce lucenti di sole, di
quell’ambra irresistibile, e magari assaggiare quella pelle sicuramente dolce, sicuramente
calda, sicuramente sua.
Non
si vergognò quando il pensiero della sua bocca umida le fece correre un brivido
intenso che la divise in due per poi andare a morirle fra le gambe;
non si vergognò quando al pensiero di quelle cosce
perfette solamente da mordere e leccare ebbe un sussulto, e poi appena la
prontezza di scansarsi un poco da lei, per evitare che l’inevitabile divenisse
evidente.
-Natalie
-si
-non lasciarmi mai più
-…
-se no io..
La voce bassa, forse roca, persa nel limbo narrato da quel poema mai letto, nella nebbia di quella via mai percorsa, nelle sue mani, che lo percorrevano come esperte, strappandogli il lume della ragione. E le parole.
Gli accarezzava la schiena compiendo movimenti distesi ed omogenei fra le spalle ed i reni, cercando di riscaldarlo, cercando di sorreggerlo, mentre una sensazione di calore le si irradiava dal petto alla testa, alla schiena, alle braccia, in un miscuglio così eterogeneo di emozioni contrastanti che le risultò tremendamente difficile, no, impossibile separarle. O accettarle. Si perché l’onda d’urto di quei muscoli incandescenti così vicini, così tesi, iniziò a produrre sensazioni inaspettate, oppure ne risvegliò di vecchie; non lo riuscì a stabilire, ma non importa tuttavia perché divenne quasi impossibile trattenersi ora che le accarezzava i capelli fermandole il capo sulla spalla con una stretta gentile ma ferma –ho paura di te- mentre l’altra mano si era fermata a riposare alla base della schiena, là, dove si formava la curva deliziosa che tante volte aveva attirato gli sguardi colpevoli di lui durante i giochi sfrenati in estate, quando indossava solo un paio di shorts di jeans ed un top.
Molte, moltissime volte aveva cercato di vergognarsi dei pensieri che quella meravigliosa parte del suo corpo appena maturato aveva suscitato in lui, aveva provato a pensare al numero diciassette, gli anni che li separavano, ma non bastava. Nemmeno distogliere lo sguardo serviva, perché gli rimaneva tutto talmente stampato nella testa che poi era come guardarla ancora anche se lei non c’era più.
Si ritrovarono invischiati negli stessi pensieri, ancora una volta.
La respirò ancora, senza pensare a niente, senza preoccuparsi di cosa fosse bene fare o non fare, di cosa fosse o meno appropriato, o se fosse normale che il dolore fosse sfociato così facilmente in necessità di fondersi con qualcuno.
-non è così che avevo immaginato questo incontro, tutte le volte che ho pensato al momento in cui ti avrei riabbracciata
Continuò a mantenere la stretta, ma decise di stemperare la tensione parlandole un po’, almeno avrebbe riacquistato un briciolo di lucidità.
-io invece speravo in qualcosa di simile
-ah si?
La scostò bruscamente con le sopracciglia inarcate ed un mezzo sorriso di incredulità stampato sul volto. Che poi si spense nell’esatto istante in cui le quattro iridi si incrociarono senza via d’uscita. Non riuscì a credere di averle sentito pronunciare la frase che lo avrebbe costretto ad indagare più a fondo, per non impazzire definitivamente.
-si
Si. Ma che risposta era solo quel “si”. Era un tentativo telegrafico di troncare la conversazione, o era un invito, o un modo per vedere se avrebbe avuto il coraggio di continuare o..
-Perché?
Lo sentì chiedere dalla voce che gli era uscita dalle labbra senza permesso. Era evidente che ormai il controllo se ne era andato da un bel pezzo.
-non lo so
Lo disse scandendolo bene, non sapeva nemmeno lei il perché. Non ebbe il coraggio, o forse ne ebbe troppo, perché gli passò una mano sul viso, lentamente, la tempia, il sopracciglio incurvato perfettamente come un boomerang, le ciglia nere di mascara waterproof, l’henné sulla palpebra inferiore, la cicatrice sullo zigomo, la guancia ruvida di una piccola foresta nascente ricoperta dal fondotinta, le labbra bollenti e rosa, il mento, la fossetta al centro che l’anno scorso non c’era. Gli scivolò ancora negli occhi densi e caustici che le bruciarono la pelle di nuovo. Di nuovo si sentì venire meno.
-Bugiarda
-….
-sei una bugiarda
-lo sono
-dimmi perché ci speravi
-no
-dimmelo subito
Spalancò quei dannati occhi più di quanto avrebbe dovuto, poi intensificò la stretta, poi ancora un pò. Sembrava intenzionato a divorarla da un momento all’altro, ma lei non ebbe paura.
-no
-allora sarò costretto a scoprirlo da solo
Una luce in quegli occhi maledetti, occhi del diavolo, occhi di angelo o di bambino, che importa, occhi non umani, le provocò una dolorosa implosione del cuore che iniziò a fare di testa sua saltando qualche battito, prima di vederlo avvicinarsi di centimetro in centimetro, occhi biechi e maligni che si socchiudevano succhiandole l’ultima energia per scostarsi, occhi magnetici, unici fari nel buio dei suoi pensieri mentre fissavano la porzione inferiore del suo povero labbro rimasto solo in quella tempesta, nessuno che potesse aiutarlo, la gazzella lasciata sola dalle altre che attende il suo destino di fronte alla morte e lo sa, arriva, arriva, arriva.
Occhi chiusi, ormai un millimetro, sento il tuo odore, serrati non celano il purpureo imbarazzo che lo pervade lo stesso, anche se è lui ad uccidermi, anche se è lui a decidere, posso immaginare il tuo sapore così, si avvicinano ed io non distinguo più nulla, ipermetropia forzata dalla distanza, sei fuori fuoco, non riesco più a vederti, occhi non più occhi, buio totale, solo il calore di una bocca che ho sognato di notte e di giorno, d’estate e d’inverno, avevo paura ma non ne ho ora, anche se mi stringi di più, anche se spingi di più le labbra sulle mie, anche se ora un altro caldissimo oggetto le dischiude ancora e passa, lasciando la sua umida traccia di sopra e poi di sotto, poi entra dentro e mi scopre, si prende quello che vuole e non lo chiede, lo assecondo, si intrecciano, si amano, giocano forse, o danzano, poi la ritrae e torna a pizzicarmi le labbra con le sue, non era la lingua, non lo era, e come se mi avesse sentito ricomincia, la mette di nuovo fra i miei denti, prima però apre quei dannati occhi e leccandomi le labbra mi guarda, mi assaggia mi riprende, -oh si che lo era, ragazzina, lo è- mi dicono soddisfatti i suoi occhi, -Michael..- mi esce un rantolo come fossi ferita, in attesa del colpo di grazia, in attesa della morte, sto supplicando di fare piano, di uccidermi con dignità, con un colpo solo, ma lui è lontano, fa un mezzo ghigno, lo sa che sta facendo, mi bacia, mi vuole, intreccio serrato, la mano dietro alla testa, oddio, vuoi mangiarmi, di nuovo questo suo sapore, mai sentito prima, caldo e acido, questo non è un bacio, è qualcosa che porta solo alla morte, occhi chiusi, si sposta e con una faccia indescrivibilmente indescrivibile mi bacia la mandibola, occhi chiusi mentre scende dietro all’orecchio –non esiste niente ora Natalie..-, l’ha detto o non l’ha detto, non lo so, non lo voglio sapere, scende sulla gola e intensifica la stretta, le mani così grandi si richiudono sul viso in una carezza paterna, familiare, che non ha nulla a che vedere con quella stilettata di veleno sulfureo che mi ha appena voluto infliggere. Lo guardo con gli occhi che non vedono più nulla, se non la frase che è dipinta nella mia mente e che esce adesso, violenta e lucida
-ti. voglio. Adesso.
Mi guarda per niente colpito e mi porta nel buio dell’unica via d’uscita da quel luogo. Io non so più niente.
***
Avenida Altalbab era lucida di pioggia, la solita scrosciata torrenziale tipica di quella latitudine, e si apriva dinnanzi alle ruote della limo senza fare rumore, milioni di lucciole sfrecciavano ai lati fino ad aprirsi completamente in Plaza Africa, lampioni o visioni, che importava ormai che era rimasta senza un briciolo di ragione. O amor proprio. Solo ora poteva comprendere in realtà il significato di “sogno che si avvera”. Ma no, nemmeno quello, forse “bisogno che si avvera” era più giusto. Com’è quando si desidera qualcosa per una vita e mezza e poi, non si sa come né perché, quello succede davvero? Ma non succede come avevamo immaginato, no, è qualcosa di totalmente inaspettato. E’ qualcosa di più bello.
Se ne stava seduta con la testa appoggiata al poggiatesta, quasi sdraiata sul sedile, le mani abbandonate prone sulla pelle amaranto del lussuoso abitacolo, la maglia bianca arruffata sulla schiena, sollevata dallo schienale che avrebbe voluto costringerla ad una maggior compostezza che però aveva rifiutato, lasciava buona parte del ventre scoperto a guardare la luce lattiginosa della luna. Il viso assorto, fisso fuori dal finestrino, perso fra le infinite gocce sparse su di esso con violenza.
Se ne stava seduto con la testa appoggiata al poggiatesta, composto, le gambe divaricate, i pantaloni di scena ancora addosso rimanevano lucidi proprio sulle ginocchia dove il tessuto era maggiormente in tensione e riflettevano la luce della luna, il chiodo lucido nero ora allacciato, troppa umidità a quest’ora, troppo sudore ancora da asciugare sulla pelle, troppa adrenalina ed il tempo necessario alla doccia che era stato dedicato ad altro –oh God, cosa mi sta succedendo-. Sentì di nuovo la risposta arrivare dal basso ventre, inesorabile e decisa, chiara come mai prima.
Cercò di interrogarsi sul perché, ma fu tutto inutile quando vide la sua mano avvicinarsi come se, per l’ennesima volta, avesse sentito i suoi pensieri. Gli sfiorò le labbra e non riuscì a controllarlo, non ci riuscì, perché le afferrò quel palmo tiepido e lo ricoprì di baci convulsi, una supplica forse, -ti prego non permettermi di fare una cosa del genere Nat-, una richiesta. Ad ogni preghiera un bacio violento, come se lei detenesse il potere di esaudirle tutte, regina assoluta di ogni cosa, ora.
Continuava a guardare le luci e la vita fuori da quel finestrino mentre senza toccarla le stava divorando la mano proprio alla sua destra. Quando la lasciò riuscì a scendere sul collo a percepirne l’umido fervore, il petto avvolto dal tessuto lucido e liscio, l’interno coscia, il tricipite tornito a riposo, passò tre o quattro volte sulla stoffa liscia e lo sentì fremere, finché la sua mano grande non scese bloccare tutto.
-ferma, devi stare ferma..-
lo aveva detto piano, a fior di labbra, in un sussurro totalmente imprevisto, inaspettato per i suoi poveri nervi straziati da tutto l’insieme di eventi a dir poco assurdi che si erano susseguiti quella giornata. Non volle ascoltarlo. E continuò, vinta dalla passione.
Continuò senza guardarlo negli occhi, consapevole che se ci fossero caduti ora sarebbe stato impossibile fermarsi.
E si arrese anche lui a quella forza, lasciò continuare il percorso di quella carezza lenta e straziante dal ginocchio ad un punto vicinissimo all’inguine, e fissò nella mente la sensazione di piena consapevolezza di quel momento, consapevolezza di stare per compiere un errore, una specie di incesto emotivo, ma intensa, così terribilmente bella –è così dolce cadere, è così bello sbagliare- così terribilmente vera.
***
La mattina entra dalla finestra senza chiedere il permesso. Entra e basta, con i suoi raggi che eludono qualunque sorveglianza, qualunque resistenza, anche quella delle tende degli alberghi, delle specie di copertoni che se non fossero colorati direi che sono fatti di gomma. Queste sono blu scuro e ci sono dei piccoli raggi che escono da sotto, fuori c’è il sole ed io ho perso la ragione stanotte. Con questo mio amore grandissimo. E’ tutto per lui, tutto per lui, tutto nelle sue mani ora, lui è tutto. C’è una storia che deve risolvere, no, sono mille i problemi che deve risolvere, sono milioni, ed io non sarò accanto a lui, no. Noi non staremo insieme come dovrebbe essere, nulla sarà come dovrebbe essere, io lo so. Io lo accetterò. Nessuno, nessuno. Prima di te nessuno.
***
-siamo quasi arrivati, stiamo girando attorno al palazzo, non appena la macchina si ferma io scenderò. Tu rimani su. Rimani sull’auto, non voglio che ti vedano. Sarà pieno di..
-Michael lo so com’è, non è mica la prima volta che..
-stavolta è diverso.
La interruppe conscio del fatto che quell’eccesso di prudenza celasse ben altro. Stavolta non doveva proteggere se stesso, stavolta c’era in ballo molto di più. Prezioso. Forse. Non importa, nessuno avrebbe dovuto vederla, nessuna foto, nessuno scoop. Lei non c’entrava con questa roba e non era certo questo il momento di iniziare.
-va bene
-..quindi dicevo, tu resti in macchina, ti lasceranno nel parcheggio sotterraneo, da lì ti accompagneranno direttamente in camera..
Pronunciò l’ultima parola abbassando la voce che divenne roca immediatamente, facendole correre l’ennesimo brivido lungo la schiena. –mi accompagneranno in camera..
-..mia. nella mia suite. Dove mi aspetterai.
-va bene signore
Disse mimando il saluto militare. Ma lui non accolse quella piccola ironia, rimase serio. Poi le prese il mento fra due dita
-aspettami di sopra Natalie
Forse era una supplica.
Deglutì a fatica guardandolo infilarsi gli occhiali da sole, mentre una mano dall’esterno apriva la porta della limo.
***
E’ tutto surreale ora. Ma che sto facendo. Ma dove mi sono cacciata. In che situazione..io credo di aver perso la testa stasera. C’è una voce che mi suggerisce che però sono ancora in tempo per rimediare. Si, dovrei ascoltarla. Ma il panorama è così bello, così bello da qui che..aspetta, apro la finestra, così, non so, magari una boccatina d’aria mi aiuterà. Allora, riepiloghiamo con ordine. No, a che serve, non serve, so cos’è successo. Il punto ora è: cosa succederà. Sono venuta fin qui per parlare con lui, volevo sentire che diavolo è questa cazzata che dicono in tele. Mama dice che hanno perquisito Neverland. Non ho pensato a niente, ho prenotato il primo volo e sono venuta qui. Non sarei riuscita a tornare a Neverland senza di lui. Mi è mancato da impazzire, talmente tanto che mi sta mancando adesso che ci siamo appena separati. Dio sto facendo una cazzata, vero? Ma esisterà un Dio che voglia aiutarmi? Si dai, fra tutti quelli che ci sono ce ne sarà uno che voglia ascoltami. Maometto? Ma no quello è il profeta. Quello della montagna. Allah? Zeus? Sono politeista proprio per queste evenienze, aumento la probabilità che qualcuno mi ascolti così. Ma mi sa che ho fatto una bella cazzata in tutti questi anni, li ho stressati tutti a furia di parlare di lui perché proprio adesso nel momento del bisogno non mi sente nessuno. Atena, dove sei? Oddio la porta, oddio la porta oddio la porta oddio la porta. Distaccata. Faccio finta di niente. Mi appoggio alla ringhiera della terrazza e faccio finta di guardare fuori, si, così se ha cambiato idea, ma certo che ha cambiato idea, mi vorrà fare una ramanzina, vorrà parlare di quello che è successo, certamente. Allora mi troverà qui. Muoio. Nettuno dove sei!
Non la vide nella saletta all’ingresso.
Iniziò allora a produrre torbidi pensieri sul fatto che fosse già in camera da letto. –ha preso alla lettera la mia richiesta- al solo pensiero l’erezione che era riuscito in qualche modo a calmare solo una ventina di minuti prima ritornò a tirare la stoffa dei pantaloni sfacciata ed incontrollata. –io mi devo calmare, non posso continuare così, non è normale che..- gli morì ogni ragionamento quando, entratovi con foga inaudita, constatò che anche l’ultima stanza delle otto che componevano la suite era vuota. –se n’è andata di nuovo-
Il tempo di guardare a terra, uno spiraglio di vento muoveva le tende della sala da pranzo. La finestra socchiusa. Stava appoggiata alla ringhiera con gli avambracci. Le mani congiunte l’una nell’altra. L’espressione assorta nelle luci della città che continuava a correre, anche di notte. Il vento muoveva i lembi della camicetta bianca senza maniche annodata sul fianco. I jeans chiari. Uno strappo appena sotto la rotondità del sedere che ora sbandierava perfetto con quell’aria inconsapevole che gli fece temere di non riuscire a contenersi oltre, le scarpe da ginnastica tutte consumate. La desiderava spasmodicamente da quando lo aveva abbracciato in quel maledetto corridoio. Ma che gli stava succedendo. Era immerso in tutt’altri problemi fino a tre ore prima ed ora si stava per avvinghiare alla prima faccia amica capitata dopo mesi di estranei. Ma che gli stava succedendo. Non lo capì finché non si voltò a guardarlo negli occhi di nuovo. Smarrimento misto a desiderio malcelato in quelle iridi calde del sole sud americano, di sudore, di innocenza e di peccato, di giustizia e di errori, di giovinezza e saggezza, di comprensione senza parole, di una vita trascorsa accanto a lui dietro ai sipari, dietro alle quinte, lontana dai riflettori, senza trucco, senza inganno. Solo Amore.
Non ebbe più la voglia né la necessità di nascondere nulla, ora, davanti a lei, la sua debolezza, desiderarla così dopo aver scacciato l’idea per anni, la sua debolezza, non aver capito, non aver ammesso a sé stesso che ciò di cui aveva bisogno stava esattamente due piani sotto alla sua stanza, la sua debolezza, essere stato spregevole poco prima ed averle detto quelle cose per sfogare la sua rabbia, perché per una volta non l’aveva messo al primo posto ed aveva deciso di partire, la sua debolezza, il tempo perso a cercare negli altri il calore che aveva trovato soltanto fra le sue braccia, la sua debolezza, essersi fatto sconfiggere dalle convenzioni, averla messa da parte, averla esclusa anche dai suoi sogni mentre meditava di sposare una donna che poi, neanche a dirlo, lo aveva rifiutato. Tutto questo ora bruciava nel petto e non rimaneva che tuffarsi in lei, come prima, per redimersi ancora una volta.
Non disse niente mentre le si avvicinò guardando a
terra
Non disse niente quando le prese le mani ed iniziò a
baciarne le nocche una ad una con gli occhi chiusi
Respirò
forte quando, così vicino da sentirne il profumo, le posò le mani aperte sui
fianchi tirandola a sé, ormai il bisogno di averla addosso aveva superato la
vergogna
Non respirò affatto quando, così vicino da sentirne
il profumo, aveva preso ad accarezzarle la schiena, per poi scendere sulle
rotondità sottostanti in un movimento circolare e fluido
La
sentì respirare dopo lunghi secondi di apnea, con gli occhi chiusi, non
servivano più ormai, tutti i sensi erano a mille
Si aggrappò alle sue spalle tese mentre sentiva la
volontà e la ragione scivolare via, come macchie d’olio superflue in quel mare
calmo e burrascoso
La
strinse più forte, ma non c’era più tempo, la sollevò ed attese che allacciasse
le gambe dietro alla sua schiena, passò le mani su entrambe le natiche per
sorreggerla e prese la via della porta finestra, poi della camera da letto.
Morì di tenerezza quando lo abbracciò e posò la testa sulla sua spalla durante
il tragitto, ma si trasformò nell’ennesima vampata di desiderio allo stato puro
quando una pioggia di piccoli baci vicini iniziarono a decorargli il collo di
mille impercettibili segni umidi
Come quando era soltanto una bambina la portava a
dormire in braccio, ma stavolta Natalie non si era addormentata dopo tanti dei
suoi giochi turbolenti, no, stavolta era nelle mani dell’uomo che l’aveva
portata sulle vette più alte e negli abissi più profondi allo stesso tempo, di
colui che occupava la sua mente da sempre, del suo maledetto tormento
Ebbe
un po’ paura a sollevare lo sguardo per affrontarla ancora una volta, per
mostrarle tutto, ancora una volta. non si sentiva sotto esame, non avvertiva
nessun peso, soltanto il desiderio incontrollato e doloroso di averla, di farla
stare bene, di averla tutta per sé anche solo per quella notte, per perdere il
senno insieme a lei e poi raccontarsi di aver vissuto solo un sogno. Ma lo fece
lo stesso, le scostò una ciocca spettinata e la lisciò con due dita, le prese
il viso e ne accarezzò le guance con i pollici, scese sulla gola e poi sulle
clavicole, ripercorse tutto il profilo
Non ebbe nessuna paura mentre si slacciò la catenina
d’oro bianco che non toglieva da qualche anno, perché voleva essere
completamente nuda davanti ai suoi occhi, voleva essere completamente sua,
nessun oggetto di mezzo che non fosse la sua pelle, per poterla appoggiare su
quella di lui, e sfregarla, ed accarezzarla, ed impregnarla del suo odore per
sempre
-ti voglio Michael, ti voglio adesso
Rimase
a guardarla attonito mentre slacciava lentamente quei bottoni piccoli, mentre
slegava il nodo alla fine, mentre faceva saltare uno ad uno i bottoni metallici
di ferro tendente al rossiccio, mentre li lasciava cadere alle caviglie, mentre
rimaneva solo con un paio di slip bianchi, mentre lo fissava ed aveva l’aspetto
di una dea
-non.
Permettermi. Di. Fare. Una. Cosa. Del. Genere.
Glielo
soffiò addosso con impazienza, conscio del fatto che tra poco non sarebbe più
stato in grado di fabbricare un pensiero più articolato del desiderarla e
basta.
Di nuovo gli fu addosso, quasi completamente nuda.
Lo aiutò con quel dannato body dorato che aveva mille cinghie ed allacciature
diverse, rise, rise anche lui di quella situazione buffa, poi tornò seria e lo
baciò ancora, gli sfilò la maglietta perché l’esigenza di sentire la sua pelle
addosso ora era diventata importante come respirare
Un
brivido. Non era freddo. Paura. Guardò di nuovo a terra prima che la perfezione
di quei seni meravigliosi lo rapisse di nuovo.
-Natalie..fermati..fermami
Ma lei era lontana ormai, persa in una bolla di
vacua sofferenza per quel senso di incompletezza, non lo sentiva, lo abbracciò
di nuovo e riprese a torturargli il collo, perché oramai non c’era più nulla da
dire
-Nat..noi..non..poss..
Fu l’ultimo tentativo. Poi gli guidò la mano fra le
sue gambe e non capì più nulla.
Ora sarò tua, anche se non lo sarò mai completamente, e tu non sarai mio. Ora che sei in ginocchio davanti a me per sfilarmi anche l’ultima barriera, ora che mi accarezzi e saggi il mio umido desiderio inesperto, ora che chiudi gli occhi e ti sembra di impazzire, ora sono tua.
E non riesco più a ragionare e non voglio, e voglio solo sentirti, e mi voglio spingere oltre perché non ho più niente da poter perdere tranne te, che ora sei mia. Sei mia mentre ti sdrai su questo letto bianco, e la tua pelle è così scura in confronto, sei mia mentre mi guardi e mentre non mi vergogno di rimanere senza niente addosso, sei mia ora che sono su di te, ti imprigiono ma sono solo un suddito di questa bellezza unica e mai vista nemmeno nei sogni, non vorrei mai svegliarmi, non vorrei mai disonorare o violare ciò che è perfetto anche solo così, senza niente, ma sono lezioso e voglio averti mia anche ora. Sei perfetta, un bocciolo di rosa meraviglioso in attesa del mattino, tutta piena di rugiada, voglio scivolarti dentro, fino a toccarti l’anima, che è anche la mia, ora che sento il tuo calore, ora sei mia, ora che sento il tuo sapore ora sei mia, una piccola resistenza, come un cancello a presidio di questo bollente scampolo di paradiso, ora che ti rilassi ed apri di più le gambe per me, ora che ti aggrappi al cuscino e sollevi le braccia, ora che ti offri così come sei, ora che per non impazzire devo fermarmi un secondo
Ora che rallenti e ricominci sono tua, non ho sentito nessun dolore e ti voglio ancora
Ora che i capezzoli bruniti e dolci mi chiedono soltanto di essere leccati, ora che il cuore non risponde, e ti voglio e ti voglio ancora, ed ho voglia di spingere ancora, e me lo consenti, ed ho voglia di piangere, e la tua espressione mi fa arrivare vicino, e vorrei soltanto andare su una stella insieme a te, e poi scendere insieme, o non scendere mai, mai più, per sempre lassù, insieme a te.
Le passò una mano sul viso, poi scese fino a raggiungere il ventre. Gli prese la faccia da entrambi i lati e lo tempestò di milioni di baci. La accarezzò e la fece salire su di lui, stropicciando le lenzuola, si sedette appoggiandosi alla testata, le prese i fianchi e spinse con tutte le forze possibili sul suo bacino, la sentì gemere ancora il suo nome, si gonfiò di orgoglio e piacere, si rituffò sui seni umidi e duri, si chinò a baciarle l’ombelico, si ributtò sopra di lei, le lenzuola a terra, prese il cuscino che le sorreggeva il capo e lo scagliò via con violenza –sei solo mia, non deve esserci nulla, solo tu, solo tu- la vide perdersi, il respiro spezzato, aumentò per un secondo l’attrito sul suo ventre per farle toccare la vetta più alta, il tempo di uscire da lei, uno due tre quattro getti incandescenti su di lei, nessun pensiero, solo la voglia di vivere ancora cent’anni per rivivere il ricordo di quella cosa appena vissuta, impossibile darle un nome, un respiro o una parola, nessun rumore, solo il suo fiato corto, ed una goccia scarlatta sulle sue mani grandi e nodose bastò a dargli la conferma di aver ricevuto il più bel dono della sua vita.
Parte seconda
Alla fine aveva aperto gli occhi.
La sua figura esile seduta a terra, le braccia a trattenere le ginocchia vicine al mento, gli occhi umidi sotto alle palpebre, le guance ancora livide da un pianto che andandosene aveva lasciato gli strascichi di un singhiozzo nervoso, cadenzato, irrisolto, la sua immagine di bambina, piccola e fragile, vittima di una tristezza pesante ed ingestibile.
Gli aveva lanciato il solito sguardo, quello di un animale ferito da lui, dalla vita o da chissà cos’altro, ma dritto, dignitoso, avvolto da un'aura regale che faceva sentire piccoli e basta.
Alzandosi lo aveva poi guardato negli occhi senza curarsi minimamente dei segni che il dispiacere di poco prima le aveva lasciato sul volto, sfacciata e caparbia, senza pretesa alcuna, non chiedeva spiegazioni o scuse.
Solo un abbraccio che si prese senza chiedere il permesso, nel buio di quel corridoio al di sotto dell’immenso palco a Città del Messico.
Provò a parlare ma non ci riuscì perché i brividi che ora gli increspavano le pareti del cuore come frustate senza sosta erano soltanto uno dei tanti pallidi segnali della sua totale impotenza di fronte alla forza di quello sguardo pulito, innocente, già sparito nell’incavo fra il collo umido ed i suoi riccioli neri.
-puoi provare a perdonarmi Nat
Glielo chiese con il volto immerso fra i fili corvini, paragonabili a quelli ordinati e lucenti delle donne asiatiche, anche per consistenza.
La stringeva così forte da renderle difficoltosa l’estensione della cassa toracica per respirare, lo sentiva, ma non riusciva ad allentare quella presa, non riusciva a non aggrapparsi a lei.
-già fatto
Lo udì, anche se era solamente un mormorio fra le sue ciocche umide di sudore e di paura.
-non ho mai detto quelle cose, mai. Possiamo fare finta che sia così
Disperato e senza freni, colmo di angoscia e senso di colpa, si lasciò andare alle lacrime che gli rigarono il volto copiose e liberatorie, senza trattenere i singhiozzi che uscivano nitidi e profondi, scuotendolo a tal punto che sentì la spasmodica necessità di insinuare la mano aperta fra le sue ciocche lisce anche se un po’ arruffate dall’umida densità dell’aria. –devo aggrapparmi per non cadere-
-possiamo
Gli confermò senza battere ciglio, il tono rassicurante non nascondeva più nulla, solo la voglia di perdersi in lui.
Michael non si preoccupò della voce roca e spezzata, non si preoccupò dei sussulti che gli spezzavano le parole in bocca, voleva soltanto piangere fra quelle braccia esili e forti.
Lo lasciò sfogare, lasciandosi quasi soffocare dalla morsa di quelle braccia in tensione attorcigliate si di lei.
-sono qui per te adesso
E si sentiva in colpa per essersene andata quella sera senza salutarlo,
e si sentiva in colpa per non essere rimasto tutta
la giornata con lei;
sarebbe
stata l’ultima ed avrebbe voluto viverla nel migliore dei modi possibili,
giocando e scherzando tutto il giorno, anche se la cosa che davvero avrebbe
desiderato più di tutte le altre era sentire che sapore aveva quella bocca;
sarebbe stata l’ultima e avrebbe voluto viverla nel
migliore dei modi possibili, magari seduto sul bordo di quel laghetto appena
costruito, con lei sulle ginocchia, ad accarezzarle le cosce lucenti di sole, di
quell’ambra irresistibile, e magari assaggiare quella pelle sicuramente dolce, sicuramente
calda, sicuramente sua.
Non
si vergognò quando il pensiero della sua bocca umida le fece correre un brivido
intenso che la divise in due per poi andare a morirle fra le gambe;
non si vergognò quando al pensiero di quelle cosce
perfette solamente da mordere e leccare ebbe un sussulto, e poi appena la
prontezza di scansarsi un poco da lei, per evitare che l’inevitabile divenisse
evidente.
-Natalie
-si
-non lasciarmi mai più
-…
-se no io..
La voce bassa, forse roca, persa nel limbo narrato da quel poema mai letto, nella nebbia di quella via mai percorsa, nelle sue mani, che lo percorrevano come esperte, strappandogli il lume della ragione. E le parole.
Gli accarezzava la schiena compiendo movimenti distesi ed omogenei fra le spalle ed i reni, cercando di riscaldarlo, cercando di sorreggerlo, mentre una sensazione di calore le si irradiava dal petto alla testa, alla schiena, alle braccia, in un miscuglio così eterogeneo di emozioni contrastanti che le risultò tremendamente difficile, no, impossibile separarle. O accettarle. Si perché l’onda d’urto di quei muscoli incandescenti così vicini, così tesi, iniziò a produrre sensazioni inaspettate, oppure ne risvegliò di vecchie; non lo riuscì a stabilire, ma non importa tuttavia perché divenne quasi impossibile trattenersi ora che le accarezzava i capelli fermandole il capo sulla spalla con una stretta gentile ma ferma –ho paura di te- mentre l’altra mano si era fermata a riposare alla base della schiena, là, dove si formava la curva deliziosa che tante volte aveva attirato gli sguardi colpevoli di lui durante i giochi sfrenati in estate, quando indossava solo un paio di shorts di jeans ed un top.
Molte, moltissime volte aveva cercato di vergognarsi dei pensieri che quella meravigliosa parte del suo corpo appena maturato aveva suscitato in lui, aveva provato a pensare al numero diciassette, gli anni che li separavano, ma non bastava. Nemmeno distogliere lo sguardo serviva, perché gli rimaneva tutto talmente stampato nella testa che poi era come guardarla ancora anche se lei non c’era più.
Si ritrovarono invischiati negli stessi pensieri, ancora una volta.
La respirò ancora, senza pensare a niente, senza preoccuparsi di cosa fosse bene fare o non fare, di cosa fosse o meno appropriato, o se fosse normale che il dolore fosse sfociato così facilmente in necessità di fondersi con qualcuno.
-non è così che avevo immaginato questo incontro, tutte le volte che ho pensato al momento in cui ti avrei riabbracciata
Continuò a mantenere la stretta, ma decise di stemperare la tensione parlandole un po’, almeno avrebbe riacquistato un briciolo di lucidità.
-io invece speravo in qualcosa di simile
-ah si?
La scostò bruscamente con le sopracciglia inarcate ed un mezzo sorriso di incredulità stampato sul volto. Che poi si spense nell’esatto istante in cui le quattro iridi si incrociarono senza via d’uscita. Non riuscì a credere di averle sentito pronunciare la frase che lo avrebbe costretto ad indagare più a fondo, per non impazzire definitivamente.
-si
Si. Ma che risposta era solo quel “si”. Era un tentativo telegrafico di troncare la conversazione, o era un invito, o un modo per vedere se avrebbe avuto il coraggio di continuare o..
-Perché?
Lo sentì chiedere dalla voce che gli era uscita dalle labbra senza permesso. Era evidente che ormai il controllo se ne era andato da un bel pezzo.
-non lo so
Lo disse scandendolo bene, non sapeva nemmeno lei il perché. Non ebbe il coraggio, o forse ne ebbe troppo, perché gli passò una mano sul viso, lentamente, la tempia, il sopracciglio incurvato perfettamente come un boomerang, le ciglia nere di mascara waterproof, l’henné sulla palpebra inferiore, la cicatrice sullo zigomo, la guancia ruvida di una piccola foresta nascente ricoperta dal fondotinta, le labbra bollenti e rosa, il mento, la fossetta al centro che l’anno scorso non c’era. Gli scivolò ancora negli occhi densi e caustici che le bruciarono la pelle di nuovo. Di nuovo si sentì venire meno.
-Bugiarda
-….
-sei una bugiarda
-lo sono
-dimmi perché ci speravi
-no
-dimmelo subito
Spalancò quei dannati occhi più di quanto avrebbe dovuto, poi intensificò la stretta, poi ancora un pò. Sembrava intenzionato a divorarla da un momento all’altro, ma lei non ebbe paura.
-no
-allora sarò costretto a scoprirlo da solo
Una luce in quegli occhi maledetti, occhi del diavolo, occhi di angelo o di bambino, che importa, occhi non umani, le provocò una dolorosa implosione del cuore che iniziò a fare di testa sua saltando qualche battito, prima di vederlo avvicinarsi di centimetro in centimetro, occhi biechi e maligni che si socchiudevano succhiandole l’ultima energia per scostarsi, occhi magnetici, unici fari nel buio dei suoi pensieri mentre fissavano la porzione inferiore del suo povero labbro rimasto solo in quella tempesta, nessuno che potesse aiutarlo, la gazzella lasciata sola dalle altre che attende il suo destino di fronte alla morte e lo sa, arriva, arriva, arriva.
Occhi chiusi, ormai un millimetro, sento il tuo odore, serrati non celano il purpureo imbarazzo che lo pervade lo stesso, anche se è lui ad uccidermi, anche se è lui a decidere, posso immaginare il tuo sapore così, si avvicinano ed io non distinguo più nulla, ipermetropia forzata dalla distanza, sei fuori fuoco, non riesco più a vederti, occhi non più occhi, buio totale, solo il calore di una bocca che ho sognato di notte e di giorno, d’estate e d’inverno, avevo paura ma non ne ho ora, anche se mi stringi di più, anche se spingi di più le labbra sulle mie, anche se ora un altro caldissimo oggetto le dischiude ancora e passa, lasciando la sua umida traccia di sopra e poi di sotto, poi entra dentro e mi scopre, si prende quello che vuole e non lo chiede, lo assecondo, si intrecciano, si amano, giocano forse, o danzano, poi la ritrae e torna a pizzicarmi le labbra con le sue, non era la lingua, non lo era, e come se mi avesse sentito ricomincia, la mette di nuovo fra i miei denti, prima però apre quei dannati occhi e leccandomi le labbra mi guarda, mi assaggia mi riprende, -oh si che lo era, ragazzina, lo è- mi dicono soddisfatti i suoi occhi, -Michael..- mi esce un rantolo come fossi ferita, in attesa del colpo di grazia, in attesa della morte, sto supplicando di fare piano, di uccidermi con dignità, con un colpo solo, ma lui è lontano, fa un mezzo ghigno, lo sa che sta facendo, mi bacia, mi vuole, intreccio serrato, la mano dietro alla testa, oddio, vuoi mangiarmi, di nuovo questo suo sapore, mai sentito prima, caldo e acido, questo non è un bacio, è qualcosa che porta solo alla morte, occhi chiusi, si sposta e con una faccia indescrivibilmente indescrivibile mi bacia la mandibola, occhi chiusi mentre scende dietro all’orecchio –non esiste niente ora Natalie..-, l’ha detto o non l’ha detto, non lo so, non lo voglio sapere, scende sulla gola e intensifica la stretta, le mani così grandi si richiudono sul viso in una carezza paterna, familiare, che non ha nulla a che vedere con quella stilettata di veleno sulfureo che mi ha appena voluto infliggere. Lo guardo con gli occhi che non vedono più nulla, se non la frase che è dipinta nella mia mente e che esce adesso, violenta e lucida
-ti. voglio. Adesso.
Mi guarda per niente colpito e mi porta nel buio dell’unica via d’uscita da quel luogo. Io non so più niente.
***
Avenida Altalbab era lucida di pioggia, la solita scrosciata torrenziale tipica di quella latitudine, e si apriva dinnanzi alle ruote della limo senza fare rumore, milioni di lucciole sfrecciavano ai lati fino ad aprirsi completamente in Plaza Africa, lampioni o visioni, che importava ormai che era rimasta senza un briciolo di ragione. O amor proprio. Solo ora poteva comprendere in realtà il significato di “sogno che si avvera”. Ma no, nemmeno quello, forse “bisogno che si avvera” era più giusto. Com’è quando si desidera qualcosa per una vita e mezza e poi, non si sa come né perché, quello succede davvero? Ma non succede come avevamo immaginato, no, è qualcosa di totalmente inaspettato. E’ qualcosa di più bello.
Se ne stava seduta con la testa appoggiata al poggiatesta, quasi sdraiata sul sedile, le mani abbandonate prone sulla pelle amaranto del lussuoso abitacolo, la maglia bianca arruffata sulla schiena, sollevata dallo schienale che avrebbe voluto costringerla ad una maggior compostezza che però aveva rifiutato, lasciava buona parte del ventre scoperto a guardare la luce lattiginosa della luna. Il viso assorto, fisso fuori dal finestrino, perso fra le infinite gocce sparse su di esso con violenza.
Se ne stava seduto con la testa appoggiata al poggiatesta, composto, le gambe divaricate, i pantaloni di scena ancora addosso rimanevano lucidi proprio sulle ginocchia dove il tessuto era maggiormente in tensione e riflettevano la luce della luna, il chiodo lucido nero ora allacciato, troppa umidità a quest’ora, troppo sudore ancora da asciugare sulla pelle, troppa adrenalina ed il tempo necessario alla doccia che era stato dedicato ad altro –oh God, cosa mi sta succedendo-. Sentì di nuovo la risposta arrivare dal basso ventre, inesorabile e decisa, chiara come mai prima.
Cercò di interrogarsi sul perché, ma fu tutto inutile quando vide la sua mano avvicinarsi come se, per l’ennesima volta, avesse sentito i suoi pensieri. Gli sfiorò le labbra e non riuscì a controllarlo, non ci riuscì, perché le afferrò quel palmo tiepido e lo ricoprì di baci convulsi, una supplica forse, -ti prego non permettermi di fare una cosa del genere Nat-, una richiesta. Ad ogni preghiera un bacio violento, come se lei detenesse il potere di esaudirle tutte, regina assoluta di ogni cosa, ora.
Continuava a guardare le luci e la vita fuori da quel finestrino mentre senza toccarla le stava divorando la mano proprio alla sua destra. Quando la lasciò riuscì a scendere sul collo a percepirne l’umido fervore, il petto avvolto dal tessuto lucido e liscio, l’interno coscia, il tricipite tornito a riposo, passò tre o quattro volte sulla stoffa liscia e lo sentì fremere, finché la sua mano grande non scese bloccare tutto.
-ferma, devi stare ferma..-
lo aveva detto piano, a fior di labbra, in un sussurro totalmente imprevisto, inaspettato per i suoi poveri nervi straziati da tutto l’insieme di eventi a dir poco assurdi che si erano susseguiti quella giornata. Non volle ascoltarlo. E continuò, vinta dalla passione.
Continuò senza guardarlo negli occhi, consapevole che se ci fossero caduti ora sarebbe stato impossibile fermarsi.
E si arrese anche lui a quella forza, lasciò continuare il percorso di quella carezza lenta e straziante dal ginocchio ad un punto vicinissimo all’inguine, e fissò nella mente la sensazione di piena consapevolezza di quel momento, consapevolezza di stare per compiere un errore, una specie di incesto emotivo, ma intensa, così terribilmente bella –è così dolce cadere, è così bello sbagliare- così terribilmente vera.
***
La mattina entra dalla finestra senza chiedere il permesso. Entra e basta, con i suoi raggi che eludono qualunque sorveglianza, qualunque resistenza, anche quella delle tende degli alberghi, delle specie di copertoni che se non fossero colorati direi che sono fatti di gomma. Queste sono blu scuro e ci sono dei piccoli raggi che escono da sotto, fuori c’è il sole ed io ho perso la ragione stanotte. Con questo mio amore grandissimo. E’ tutto per lui, tutto per lui, tutto nelle sue mani ora, lui è tutto. C’è una storia che deve risolvere, no, sono mille i problemi che deve risolvere, sono milioni, ed io non sarò accanto a lui, no. Noi non staremo insieme come dovrebbe essere, nulla sarà come dovrebbe essere, io lo so. Io lo accetterò. Nessuno, nessuno. Prima di te nessuno.
***
-siamo quasi arrivati, stiamo girando attorno al palazzo, non appena la macchina si ferma io scenderò. Tu rimani su. Rimani sull’auto, non voglio che ti vedano. Sarà pieno di..
-Michael lo so com’è, non è mica la prima volta che..
-stavolta è diverso.
La interruppe conscio del fatto che quell’eccesso di prudenza celasse ben altro. Stavolta non doveva proteggere se stesso, stavolta c’era in ballo molto di più. Prezioso. Forse. Non importa, nessuno avrebbe dovuto vederla, nessuna foto, nessuno scoop. Lei non c’entrava con questa roba e non era certo questo il momento di iniziare.
-va bene
-..quindi dicevo, tu resti in macchina, ti lasceranno nel parcheggio sotterraneo, da lì ti accompagneranno direttamente in camera..
Pronunciò l’ultima parola abbassando la voce che divenne roca immediatamente, facendole correre l’ennesimo brivido lungo la schiena. –mi accompagneranno in camera..
-..mia. nella mia suite. Dove mi aspetterai.
-va bene signore
Disse mimando il saluto militare. Ma lui non accolse quella piccola ironia, rimase serio. Poi le prese il mento fra due dita
-aspettami di sopra Natalie
Forse era una supplica.
Deglutì a fatica guardandolo infilarsi gli occhiali da sole, mentre una mano dall’esterno apriva la porta della limo.
***
E’ tutto surreale ora. Ma che sto facendo. Ma dove mi sono cacciata. In che situazione..io credo di aver perso la testa stasera. C’è una voce che mi suggerisce che però sono ancora in tempo per rimediare. Si, dovrei ascoltarla. Ma il panorama è così bello, così bello da qui che..aspetta, apro la finestra, così, non so, magari una boccatina d’aria mi aiuterà. Allora, riepiloghiamo con ordine. No, a che serve, non serve, so cos’è successo. Il punto ora è: cosa succederà. Sono venuta fin qui per parlare con lui, volevo sentire che diavolo è questa cazzata che dicono in tele. Mama dice che hanno perquisito Neverland. Non ho pensato a niente, ho prenotato il primo volo e sono venuta qui. Non sarei riuscita a tornare a Neverland senza di lui. Mi è mancato da impazzire, talmente tanto che mi sta mancando adesso che ci siamo appena separati. Dio sto facendo una cazzata, vero? Ma esisterà un Dio che voglia aiutarmi? Si dai, fra tutti quelli che ci sono ce ne sarà uno che voglia ascoltami. Maometto? Ma no quello è il profeta. Quello della montagna. Allah? Zeus? Sono politeista proprio per queste evenienze, aumento la probabilità che qualcuno mi ascolti così. Ma mi sa che ho fatto una bella cazzata in tutti questi anni, li ho stressati tutti a furia di parlare di lui perché proprio adesso nel momento del bisogno non mi sente nessuno. Atena, dove sei? Oddio la porta, oddio la porta oddio la porta oddio la porta. Distaccata. Faccio finta di niente. Mi appoggio alla ringhiera della terrazza e faccio finta di guardare fuori, si, così se ha cambiato idea, ma certo che ha cambiato idea, mi vorrà fare una ramanzina, vorrà parlare di quello che è successo, certamente. Allora mi troverà qui. Muoio. Nettuno dove sei!
Non la vide nella saletta all’ingresso.
Iniziò allora a produrre torbidi pensieri sul fatto che fosse già in camera da letto. –ha preso alla lettera la mia richiesta- al solo pensiero l’erezione che era riuscito in qualche modo a calmare solo una ventina di minuti prima ritornò a tirare la stoffa dei pantaloni sfacciata ed incontrollata. –io mi devo calmare, non posso continuare così, non è normale che..- gli morì ogni ragionamento quando, entratovi con foga inaudita, constatò che anche l’ultima stanza delle otto che componevano la suite era vuota. –se n’è andata di nuovo-
Il tempo di guardare a terra, uno spiraglio di vento muoveva le tende della sala da pranzo. La finestra socchiusa. Stava appoggiata alla ringhiera con gli avambracci. Le mani congiunte l’una nell’altra. L’espressione assorta nelle luci della città che continuava a correre, anche di notte. Il vento muoveva i lembi della camicetta bianca senza maniche annodata sul fianco. I jeans chiari. Uno strappo appena sotto la rotondità del sedere che ora sbandierava perfetto con quell’aria inconsapevole che gli fece temere di non riuscire a contenersi oltre, le scarpe da ginnastica tutte consumate. La desiderava spasmodicamente da quando lo aveva abbracciato in quel maledetto corridoio. Ma che gli stava succedendo. Era immerso in tutt’altri problemi fino a tre ore prima ed ora si stava per avvinghiare alla prima faccia amica capitata dopo mesi di estranei. Ma che gli stava succedendo. Non lo capì finché non si voltò a guardarlo negli occhi di nuovo. Smarrimento misto a desiderio malcelato in quelle iridi calde del sole sud americano, di sudore, di innocenza e di peccato, di giustizia e di errori, di giovinezza e saggezza, di comprensione senza parole, di una vita trascorsa accanto a lui dietro ai sipari, dietro alle quinte, lontana dai riflettori, senza trucco, senza inganno. Solo Amore.
Non ebbe più la voglia né la necessità di nascondere nulla, ora, davanti a lei, la sua debolezza, desiderarla così dopo aver scacciato l’idea per anni, la sua debolezza, non aver capito, non aver ammesso a sé stesso che ciò di cui aveva bisogno stava esattamente due piani sotto alla sua stanza, la sua debolezza, essere stato spregevole poco prima ed averle detto quelle cose per sfogare la sua rabbia, perché per una volta non l’aveva messo al primo posto ed aveva deciso di partire, la sua debolezza, il tempo perso a cercare negli altri il calore che aveva trovato soltanto fra le sue braccia, la sua debolezza, essersi fatto sconfiggere dalle convenzioni, averla messa da parte, averla esclusa anche dai suoi sogni mentre meditava di sposare una donna che poi, neanche a dirlo, lo aveva rifiutato. Tutto questo ora bruciava nel petto e non rimaneva che tuffarsi in lei, come prima, per redimersi ancora una volta.
Non disse niente mentre le si avvicinò guardando a
terra
Non disse niente quando le prese le mani ed iniziò a
baciarne le nocche una ad una con gli occhi chiusi
Respirò
forte quando, così vicino da sentirne il profumo, le posò le mani aperte sui
fianchi tirandola a sé, ormai il bisogno di averla addosso aveva superato la
vergogna
Non respirò affatto quando, così vicino da sentirne
il profumo, aveva preso ad accarezzarle la schiena, per poi scendere sulle
rotondità sottostanti in un movimento circolare e fluido
La
sentì respirare dopo lunghi secondi di apnea, con gli occhi chiusi, non
servivano più ormai, tutti i sensi erano a mille
Si aggrappò alle sue spalle tese mentre sentiva la
volontà e la ragione scivolare via, come macchie d’olio superflue in quel mare
calmo e burrascoso
La
strinse più forte, ma non c’era più tempo, la sollevò ed attese che allacciasse
le gambe dietro alla sua schiena, passò le mani su entrambe le natiche per
sorreggerla e prese la via della porta finestra, poi della camera da letto.
Morì di tenerezza quando lo abbracciò e posò la testa sulla sua spalla durante
il tragitto, ma si trasformò nell’ennesima vampata di desiderio allo stato puro
quando una pioggia di piccoli baci vicini iniziarono a decorargli il collo di
mille impercettibili segni umidi
Come quando era soltanto una bambina la portava a
dormire in braccio, ma stavolta Natalie non si era addormentata dopo tanti dei
suoi giochi turbolenti, no, stavolta era nelle mani dell’uomo che l’aveva
portata sulle vette più alte e negli abissi più profondi allo stesso tempo, di
colui che occupava la sua mente da sempre, del suo maledetto tormento
Ebbe
un po’ paura a sollevare lo sguardo per affrontarla ancora una volta, per
mostrarle tutto, ancora una volta. non si sentiva sotto esame, non avvertiva
nessun peso, soltanto il desiderio incontrollato e doloroso di averla, di farla
stare bene, di averla tutta per sé anche solo per quella notte, per perdere il
senno insieme a lei e poi raccontarsi di aver vissuto solo un sogno. Ma lo fece
lo stesso, le scostò una ciocca spettinata e la lisciò con due dita, le prese
il viso e ne accarezzò le guance con i pollici, scese sulla gola e poi sulle
clavicole, ripercorse tutto il profilo
Non ebbe nessuna paura mentre si slacciò la catenina
d’oro bianco che non toglieva da qualche anno, perché voleva essere
completamente nuda davanti ai suoi occhi, voleva essere completamente sua,
nessun oggetto di mezzo che non fosse la sua pelle, per poterla appoggiare su
quella di lui, e sfregarla, ed accarezzarla, ed impregnarla del suo odore per
sempre
-ti voglio Michael, ti voglio adesso
Rimase
a guardarla attonito mentre slacciava lentamente quei bottoni piccoli, mentre
slegava il nodo alla fine, mentre faceva saltare uno ad uno i bottoni metallici
di ferro tendente al rossiccio, mentre li lasciava cadere alle caviglie, mentre
rimaneva solo con un paio di slip bianchi, mentre lo fissava ed aveva l’aspetto
di una dea
-non.
Permettermi. Di. Fare. Una. Cosa. Del. Genere.
Glielo
soffiò addosso con impazienza, conscio del fatto che tra poco non sarebbe più
stato in grado di fabbricare un pensiero più articolato del desiderarla e
basta.
Di nuovo gli fu addosso, quasi completamente nuda.
Lo aiutò con quel dannato body dorato che aveva mille cinghie ed allacciature
diverse, rise, rise anche lui di quella situazione buffa, poi tornò seria e lo
baciò ancora, gli sfilò la maglietta perché l’esigenza di sentire la sua pelle
addosso ora era diventata importante come respirare
Un
brivido. Non era freddo. Paura. Guardò di nuovo a terra prima che la perfezione
di quei seni meravigliosi lo rapisse di nuovo.
-Natalie..fermati..fermami
Ma lei era lontana ormai, persa in una bolla di
vacua sofferenza per quel senso di incompletezza, non lo sentiva, lo abbracciò
di nuovo e riprese a torturargli il collo, perché oramai non c’era più nulla da
dire
-Nat..noi..non..poss..
Fu l’ultimo tentativo. Poi gli guidò la mano fra le
sue gambe e non capì più nulla.
Ora sarò tua, anche se non lo sarò mai completamente, e tu non sarai mio. Ora che sei in ginocchio davanti a me per sfilarmi anche l’ultima barriera, ora che mi accarezzi e saggi il mio umido desiderio inesperto, ora che chiudi gli occhi e ti sembra di impazzire, ora sono tua.
E non riesco più a ragionare e non voglio, e voglio solo sentirti, e mi voglio spingere oltre perché non ho più niente da poter perdere tranne te, che ora sei mia. Sei mia mentre ti sdrai su questo letto bianco, e la tua pelle è così scura in confronto, sei mia mentre mi guardi e mentre non mi vergogno di rimanere senza niente addosso, sei mia ora che sono su di te, ti imprigiono ma sono solo un suddito di questa bellezza unica e mai vista nemmeno nei sogni, non vorrei mai svegliarmi, non vorrei mai disonorare o violare ciò che è perfetto anche solo così, senza niente, ma sono lezioso e voglio averti mia anche ora. Sei perfetta, un bocciolo di rosa meraviglioso in attesa del mattino, tutta piena di rugiada, voglio scivolarti dentro, fino a toccarti l’anima, che è anche la mia, ora che sento il tuo calore, ora sei mia, ora che sento il tuo sapore ora sei mia, una piccola resistenza, come un cancello a presidio di questo bollente scampolo di paradiso, ora che ti rilassi ed apri di più le gambe per me, ora che ti aggrappi al cuscino e sollevi le braccia, ora che ti offri così come sei, ora che per non impazzire devo fermarmi un secondo
Ora che rallenti e ricominci sono tua, non ho sentito nessun dolore e ti voglio ancora
Ora che i capezzoli bruniti e dolci mi chiedono soltanto di essere leccati, ora che il cuore non risponde, e ti voglio e ti voglio ancora, ed ho voglia di spingere ancora, e me lo consenti, ed ho voglia di piangere, e la tua espressione mi fa arrivare vicino, e vorrei soltanto andare su una stella insieme a te, e poi scendere insieme, o non scendere mai, mai più, per sempre lassù, insieme a te.
Le passò una mano sul viso, poi scese fino a raggiungere il ventre. Gli prese la faccia da entrambi i lati e lo tempestò di milioni di baci. La accarezzò e la fece salire su di lui, stropicciando le lenzuola, si sedette appoggiandosi alla testata, le prese i fianchi e spinse con tutte le forze possibili sul suo bacino, la sentì gemere ancora il suo nome, si gonfiò di orgoglio e piacere, si rituffò sui seni umidi e duri, si chinò a baciarle l’ombelico, si ributtò sopra di lei, le lenzuola a terra, prese il cuscino che le sorreggeva il capo e lo scagliò via con violenza –sei solo mia, non deve esserci nulla, solo tu, solo tu- la vide perdersi, il respiro spezzato, aumentò per un secondo l’attrito sul suo ventre per farle toccare la vetta più alta, il tempo di uscire da lei, uno due tre quattro getti incandescenti su di lei, nessun pensiero, solo la voglia di vivere ancora cent’anni per rivivere il ricordo di quella cosa appena vissuta, impossibile darle un nome, un respiro o una parola, nessun rumore, solo il suo fiato corto, ed una goccia scarlatta sulle sue mani grandi e nodose bastò a dargli la conferma di aver ricevuto il più bel dono della sua vita.
marina56- Moderator
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Re: Don't call my name
CAPITOLO SESTO
Parte prima
1983
-!
Se ne stava dietro al grande tronco chissà da quanto tempo.
A guardarli mentre scherzavano e ridevano da tutto il pomeriggio. La corsa al recinto dei cavalli per prendere quello bianco che poi finiva per forza di cose alla più piccola per farle piacere, poi un gelato all’ombra generosa del platano, una pausa nell’erba fresca di margherite appena spuntate, lontani dal mondo. Musica di sottofondo.
Janet compiva diciassette anni proprio quel giorno e quella aveva tutta l’aria di essere una festa. C’erano un sacco di ragazzi più grandi e tutti i suoi fratelli. Nessuno sembrava essersi accorto di quella macchiolina scura perfettamente mimetizzata con la corteccia marrone, che osservava tutto da diverse ore. Nessuno o quasi.
-ehi. Come ti chiami?
Aveva cercato di avvicinarsi allungando la mano verso di lei. Prima di rimanere totalmente folgorato da un paio di fari neri che avrebbero illuminato qualunque oscurità, se lo avessero voluto. Ne era certo.
Il prendisole bianco senza spalline non faceva che accentuare il bronzo di quella pelle argillosa, i capelli spettinati e liberi a caschetto, l’espressione smarrita. Era stranissima e bellissima allo stesso tempo.
Avrebbe voluto comprendere almeno il perché di quello sguardo impaurito, ed anche il motivo di quello scatto felino all’indietro, lo teneva d’occhio allontanandosi sempre più. Un animaletto prudente. Si era fermato all’istante come si fa quando un animale si mostra diffidente, proprio per evitare che la paura si trasformi in rabbia.
Poi l’aveva vista correre via, il vestitino bianco librare nell’aria e nascondersi dietro alle gambe di una donna poco distante.
-la perdoni señor, lei non capisce..
Gli si era rivolta con un sorriso generoso e con un mezzo inchino. Ma chi era. Il tono di voce così caldo e rassicurante mentre sistemava l’ennesimo vassoio di tartine al tonno sulla tavola bianca allestita in giardino con una grazia regale in quei semplici movimenti.
Aveva liberato i capelli corvini dal turbante ampio e cangiante che era solita portare, li aveva intrecciati ed era così che arrivavano lontani, ben oltre la fine della schiena
-oh..non lo sapevo. Non volevo spaventarla..
Si era scusato arrossendo a dismisura.
-no señor, è colpa mia. Non dovrei lasciarla in giro per..
-oh no, non dire così, non dovevo spaventarla. Sono Michael.
Aveva aperto la mano verso di lei sorridendo. I riccioli scomposti apparivano lucidi sotto ad una certa quantità di gel che li ammansiva, abbassando di molto il cespuglio florido e lanoso di qualche anno prima.
Le foto non gli rendevano giustizia comunque, si, quelle che si trovavano il sabato sul Primera Hora. Era così giovane, così giovane anche da vicino. Così famoso. Così tanto più bello di tutti i ragazzi con cui lo fotografavano sulle copertine dei dischi, i fratelli dicevano, così diverso.
La luce che aveva negli occhi non era uno dei tanti effetti dell’obiettivo, no, era vera, reale, davanti a lei in quel momento.
Mama non aveva mai avuto tempo per queste cose,ma rimase colpita dall’umiltà con cui le aveva offerto la mano, con cui le aveva parlato.
Lei era solo una cuoca assunta come cameriera in una casa immensa, grande forse quanto il mondo che aveva sempre immaginato guardando le onde spumeggiare sugli scogli all’imbrunire, dalla sua casa in Calle Pelayo.
-encantada señor
In quella stretta uno sguardo di gratitudine per non essere stata trattata con sufficienza, per la prima volta in vita sua forse.
-come posso dire “mi chiamo Michael” in spagnolo..giusto?
-“mi nombre es..”
-mi nombre es Michael.
Si era abbassato all’altezza del tavolo sotto al quale Natalie si era nascosta fin dall'inizio di tutta la conversazione, aveva sollevato la tovaglia bianca trovandola seduta a gambe incrociate. Faceva sorridere l’accento con cui aveva detto quella frase priva di forma e la faccia buffa arrivata subito dopo a celare in qualche modo l’imbarazzo.
-Natalia!
Sorridendogli era uscita dal suo piccolo nascondiglio per porgergli la manina paffuta ed emettere il suo nome in un gridolino fiero.
Lo fece ridere.
Il mondo si era allargato, il sole era diventato più caldo.
Lei aveva otto anni, lui venticinque.
Iniziò così.
***
1993
-perché non me l’hai detto
Apro
gli occhi e qualche raggio mi ferisce dall’alto, dalla stessa finestra che
osservavo poche ore fa mentre lui dormiva. Non era così forte la luce, non come
ora almeno. Mi da talmente fastidio che devo assolutamente socchiudere gli
occhi e ripararmi comunque con una mano. Il suono della sua voce mi riempie i
padiglioni insieme alla certezza che quanto credo sia successo alcune ore fa è
la realtà. C’è qualcosa che stona con l’infinito che ho dentro però. E’ in piedi. Vestito. Lo sguardo su di
me in un’espressione che non ho mai visto. Forse non è così grave però.
Non può essere successo quello che è successo. Ma
lei è lì davvero. Provando a tornare indietro nel tempo non riesco a spiegare.
Il dualismo. Il contrasto. E’ tutto quello che sei, una feritoia in un muro di
cemento. Non riesco a fare mente locale e ricercare in me la motivazione. Sono
un uomo. No, non è abbastanza, non basterà a sedare la potenza di questo senso
di..non lo so che mi schiaccia.
-mm..che cosa?
Mi
fingo ancora assonnata per prendere tempo e camuffare il profondo senso di
vuoto che sale in gola quando lo vedo posarsi le mani sui fianchi ed
avvicinarsi lentamente alla mia posizione. Si abbassa leggermente il cappello
sugli occhi, non vuole guardarmi. Deve dirmi qualcosa che non mi piacerà. E
nemmeno a lui.
-lo sai cosa
Si avvicina sempre più alla sponda del letto. Questo
letto dove ancora sono sdraiata. E questo che ho sulla pelle è il suo odore, lo
è.
-no, cosa avrei dovuto dirti scusa?
Attacco
per non essere attaccata, l’ho imparato da piccola a mie spese. Mi sollevo e
cerco senza trovarlo uno scampolo di biancheria. Sono completamente nuda ora ma
non mi piego ad afferrare il lenzuolo, sarebbe un segno di insicurezza che lo
rinforzerebbe in tempo zero. Questo è il pietoso momento in cui dopo aver dato
sfogo ai suoi piaceri un uomo si pente. Ed ora inizierà un discorso vomitevole
su ciò che non avremmo dovuto fare. Continuo a fissarlo negli occhi dritta e
fiera, così come sono, stronzo.
Oddio. Non guardarla. Pensa. Non guardarla. Pensa.
Quello che mi hai regalato. Quello che mi hai regalato stanotte.
-che sarei stato il primo
Mi
piego ad afferrare gli slip e li infilo, poi i jeans e quando sto per aprire i
bottoni della camicetta che avevo sfilato senza nemmeno slacciarla se ne esce
con questa frase. Non riesco a trattenerla ed esce. Una risata amara, forte,
fragorosa e forse isterica. Non sono riuscita a trattenermi e non intendo
farlo. La porta è ormai vicina, non manca molto. La apro con forza ma non
riesco a spostare il peso in avanti per il passo successivo, perché subito la
sento richiudersi con violenza inaudita, preda di una forza superiore ed
opposta alla mia. Il calore del suo corpo attaccato alla mia schiena brucia
come fuoco su una piaga. Non posso quasi muovermi ingabbiata fra le sue braccia
arpionate alla parete. Aumenta la stretta su di me. Non mi lascerà andare.
-non erano affari tuoi in ogni caso
E’
un sibilo contro il legno della porta il mio, non riesco a prendere più fiato
di così comunque a causa della fermezza con lui mi stringe la vita.
-si che lo sono, lo sai che è così
Lo dice soffiandolo nell’orecchio con una foga, una
forza, una passione che già mi pesa la stoffa che ci separa. E’ attrazione, è
desiderio accumulato. Non so da quanto però.
-cosa vuoi da me?
Sono
costretta a voltarmi per scaricare meglio la rabbia sul suo viso contratto. Mi
afferra i polsi inchiodandoli alla porta insieme alle sue mani. Hai rovinato
tutto, ho rovinato tutto.
-solo sapere..chi ti ha detto di rivestirti
Non
riesce nemmeno a continuare la frase. Guarda in basso, poi me, poi in basso con
quell’aria colpevole. E’ viola in faccia. Non riesce ad esprimersi come
vorrebbe. Paralizzato per quello che abbiamo fatto ora non capisce un
accidente. E impazzisco per questo. Gli prendo il viso fra le mani e non riesco
a resistere ormai.
Il sapore che hai oggi è diverso. E’ più dolce, più
buono forse perché lo distinguo meglio da tutto il resto. Non dovrei lasciarmi
andare, non dovrei cedere a tutto questo. Mentre mi vestivo in bagno per non
svegliarti sentivo un gran rumore dentro alla mia testa, una gran confusione.
Tutto mi è sembrato così terribilmente complicato anche soltanto da spiegare a
me stesso. Solo in questo mare nero mi sembra di non avere scelta se non
sprofondare. Ma nel mezzo di una simile tempesta non voglio scambiarti per uno
scoglio, non potrai mai sopportare la sua violenza. Non mi aggrapperò anche se
la carezza che mi fai nella bocca rende tutto più chiaro. Che sto facendo.
Perdonami se sono così.
Sembra
incerto, trattenuto. Poi si lascia andare e mi bacia lui, con più trasporto,
più disperazione. Ancora come ieri sera. Non ho voglia di ascoltarti ora, ho
solo voglia di te ancora. Ancora.
Assetata
della sua pelle voglio che tutto scompaia tranne noi. Gli slaccio febbrilmente
i bottoni della camicia. Mi lascia fare. Cerca il mio sguardo ancora per un
po’, poi chiude gli occhi e getta la testa indietro ad ogni piccolo bacio che
gli poso sul collo.
Lo prometto, stavolta lo prometto solennemente a me
stesso. Questa volta e basta, questa volta e basta. E’solo una distrazione, è
solo un modo per non pensare, solo quello. E’ solo passione. Natalie.
***
2000
Un piccolo parcheggio con delle macchine vecchie, arrugginite, segnate dal tempo e dall’usura ristagnava al centro dello spiazzo. Una frettolosa colata di cemento a livellare il terreno, due palazzi dismessi e bui dal tetto piatto, bucherellato.
A che serve il tetto spiovente se non nevica mai.
Una piccola strada partiva da una zona remota di tutto quel tetro contorno e si proiettava verso il mare, unico spiraglio di colore in un deserto grigio, assordante. Mare mosso, mare burrascoso, mare come il mare che c’è quando il cielo è nuvoloso.
Che strana connessione fra loro due, se è triste l’uno è arrabbiato l’altro, se è sereno l’uno è calmo l’altro. Sono fratelli. No, quelli sono amanti. Succubi dell’umore reciproco, schiavi degli occhi dell’altro.
Una donna dall’aria triste stava seduta sul muretto rosso che incorniciava una delle tante case colorate ai lati di Calle Pelayo. Quella era la sua casa. Un’altra donna usciva da quella stessa casa e posava sulle spalle della prima una lunga carezza rassicurante. La prima si girava e si guardavano a lungo negli occhi, poi si abbracciavano. Unite insieme sembravano uno di quei dipinti di Gauguin, anzi no, di Renoir, che quando riusciva a catturare un volto catturava anche l’anima. Così è possibile vedere il dolore delle loro anime frustate dalla malinconia e dalla perdita, così come le sto guardando ora, dai miei occhi verdi.
Anche se mi stringi così forte non riesco a non sentire freddo Paula. Sto così male che non so gestirlo, non riesco più a sentire il mio cuore che batte, non riesco più a sentire me stessa, completamente persa in questa bolla confusa. Forse è lo shock.
la donna dall’aria triste si asciugava le lacrime che le arrossavano gli occhi con il dorso della mano, sembrava ancora una bambina. Aveva lunghi capelli corvini che svolazzavano in preda alla brezza della sera e sembrava ancora così giovane anche se di certo non lo era più nell’anima. L’altra donna continuava a stringerla per tenerle caldo, ma non era possibile, perché se si ha freddo al cuore non c’è nulla da fare. Ed io lo so bene questo.
Ti ho messo dei fiori sul letto. Le calle, quelle che ti piacciono tanto. Quando sbocceranno forse non potrò vederle, ma ne sentirò sicuramente il profumo. Perdonami per tutte le volte in cui non ho sorriso alla tua gentilezza, per tutte le volte in cui non ti ho ringraziata. Abbiamo scelto un posto meraviglioso davanti a Bahìa San Juan, dove il vento modella le rocce e dove mi hanno detto che ti piaceva stare quando ero talmente piccola da non poterlo ricordare. Grazie per avermi tenuta con te, per avermi raccolta dal fango in cui mi hanno buttata, per tutto quello che hai fatto per me. Ti ricorderò sempre, ricorderò il modo in cui mi facevi sentire amata, il modo in cui non ho mai sentito il peso del mio abbandono. Perché ero vicino a te Mama.
Tutto vicino a te era un po’ meglio.
la donna dall’aria triste nascondeva il viso nelle mani aperte ad un certo punto e veniva scossa da tanti sussulti della schiena e delle spalle. Erano così forti che mi preoccupai. Certo, non potevo farci niente, ma mi fece pena vederla così anche se non la conoscevo. L’altra donna rientrava nella casa e ne usciva subito dopo con altre persone che tenevano in mano un oggetto abbastanza grande in legno chiaro. Anche pesante, devo dire, perché ce ne volevano quattro per portarlo. Non so cosa fosse, soltanto che la donna dall’aria triste assunse un’espressione che mi è capitato raramente di vedere. Gli occhi vacui (mi passò vicina e li vidi per bene). Sarebbero stati luminosi magari, di un bel marrone talmente scuro da sembrare nero, ma tutta quella tristezza li aveva trasformati in due pozzi contornati solo dal rosso del sangue.
Mi sono sfilati davanti uno per uno, nessuno ha visto che ero lì, allora per noia o per non so cos’altro ho deciso di seguirli. Volevo solo vedere dove stessero portando quello strano oggetto.
Loro sono strani, bisogna cercare di capirli, bisogna cercare di essere pazienti, fanno a fatica a guardarsi dentro.
Di più non so dire però, del resto che cosa volete da me, sono solo un gatto.
***
1993
-cosa ti piace
Gli sfuggì dalle labbra basso, di gola, un rantolo.
Immerse il volto nell’incavo fra quelle due sfere morbide e calde, sufficientemente grandi da formare un cuscino, sufficientemente sode da costringerlo ad allentare la stretta dei jeans scuri, memore di tutte quelle volte in cui aveva dovuto farlo senza farsi vedere da lei. E da se stesso.
Lo tenne stretto per un po’, poi chiuse i suoi quando lesse nei grandi occhi scuri di Michael un desiderio impellente, animale, di averla di nuovo. Vide tanti puntini neri sul soffitto quando le sfilò del tutto la camicia già sbottonata ed iniziò a succhiarle piano un capezzolo, con cura, con bramosia, poi l’altro, con impazienza, con avidità, poi ancora l’uno e ancora l’altro, senza più staccare la lingua da lei, che ora si sentiva sciogliere in una pozza densa formata dal suo stesso desiderio.
-..questo?
Natalie lo sentì ruggire pochi centimetri sotto al suo mento, quando con una pretenziosità sfacciata dipinta sul volto la fissava negli occhi ora lambendo con la lingua la porzione sottile di pelle appena sotto ad uno dei suoi seni.
-..oppure questo?
Lo vide scendere sull’ombelico mentre le sue grandi mani provvedevano a slacciare di nuovo i jeans e sfilare insieme ad essi gli slip umidi. Completamente nuda, di nuovo, nelle sue mani, la vista appannata, appena in tempo per vederlo scendere sulla coscia ed accarezzarla con umidi tocchi della lingua, passare all’interno, verso l’alto, sull’inguine, formando un’autostrada lucida e dalle mille curve, letale.
Chiuse gli occhi quando lo vide sparire fra le sue gambe, preferì non guardare il motivo del suo liquefarsi in brividi caldi, anche se il tocco inconfondibile di un oggetto caldo e viscoso iniziò a farla tremare. Su di lei troppe mani, troppe bocche per discernere da quale luogo provenisse il piacere, dalle dita che si chiudevano attorno ad un seno, o dal fianco opposto strizzato senza pietà, o dalla lingua che roteava attorno al clitoride ormai gonfio ed incandescente, non lo sapeva e non lo volle sapere, finché Michael non decise di portarla alla fine, insinuando un dito, poi un altro dentro di lei, in quello stesso incavo appena violato poche ore fa, ora così caldo –sei solo mia- non riuscì a non pensarlo, era l’unico pensiero che gli batteva la mente, solo sua, solo sua, non era mai stata di nessun altro, solo sua, lo fece eccitare a dismisura, muoveva le dita in modo ritmico, una, due, tre volte, -solo mia- ancora e ancora, -di nessuno prima- quattro, rientrò in lei immergendo anche l’ultima falange, la sentì gemere, divenne pallido per il terrore di averle fatto male, -piccola perdonami- il tempo di guardarla di nuovo negli occhi ormai vitrei, persi lontano da lì, e di avvertire mille gocce trasparenti e bollenti scendergli dall’indice e dal medio, espandersi sul palmo e partire solitarie lungo il polso.
Si sollevò leggermente fissando il prodotto del piacere di lei, la mano lucida, troppo forte per resistere, se la passò sulle labbra e si unì a quel magico nettare in una lunga carezza che terminò fino al collo –voglio il tuo sapore addosso- se lo ritrovò in testa così, senza provare alcun imbarazzo.
-facciamo l’amore, ti prego Michael
Furono quelle le sillabe supplicate che gli fecero perdere del tutto il controllo, e la portata del sangue che lentamente sentì defluire dal cervello. Si sciolse all’istante, ed alzandosi per slacciare la camicia senza togliere lo sguardo da quei fianchi umidi capì che non c’era più via d’uscita.
***
2000
-Che roba kitch. Che roba kitch. Guarda se deve entrare con sotto beat it!
-perché? È una sua canzone, no?
-si ma.. cioè lo trovo kitch, lui che entra con sotto il playback, boh non mi piace..
-Nat ma mica possono far entrare la star del secolo con un silenzio tombale in sottofondo, ti pare?
-no, non dico quello, solo che..quando entra ok, ma poi cosa vuol dire che rimane fermo a darsi delle arie con la canzone che va..lui non sta facendo niente..
-ma lui non deve fare niente! Lui deve esserci e basta
-tu lo veneri in modo acritico
-io?!
-si!
-dai Nat, è evidente che ce l’hai talmente con lui che non riesci a guardarlo senza trovare qualcosa che non va..
-no, semplicemente detesto questo genere di ipocrisia!
Paula si alzò dalla poltroncina di vimini per spegnere l’acqua sul bollitore che ora fischiava come impazzito. Non volle insistere perché tanto sarebbe stato completamente inutile. Guardò sua sorella seduta sulla sedia a dondolo in sala mentre fissava il monitor della televisione con espressione schifata e continuando a scuotere la testa. -lo ama ancora tanto, povero amore-.
Non potè fare a meno di pensarlo di nuovo, come tutte le altre volte.
-sono incredibilmente onorato di essere stato scelto per questo premio..
-ma guardalo, fa finta di cadere dal pero, come se non lo sapesse da secoli!
-vorrei ringraziare i wma, e specialmente i fans, voi siete la ragione per cui continuo a fare ciò che faccio, le esibizioni..grazie…
-ruffiano!
-sono sul palco da quando avevo cinque anni..sapete, non ho avuto quella che si potrebbe definire “vita ordinaria”..
-oddio no! Ora comincia con la solfa dell’infanzia infelice… cazzo che palle!
-Nat, devi calmarti. Senti..
-si, forse è meglio se spengo prima di vomitare per davvero!
La vide alzarsi di scatto dopo aver spento la televisione e lanciato il telecomando in un punto lontano del tappeto.
Si scrollò la coperta dalle gambe lasciandola cadere a terra.
-con quella giacca è proprio ridicolo
Fece un ghigno di scherno prima di sbattere la porta in legno della camera in cui si sarebbe rinchiusa fino al giorno dopo, escludendo tutto il mondo alle sue spalle.
***
1993
-..quindi Fields mi ha chiamato e mi ha dato la notizia. Ero in Argentina
-ma che significa “presunti atti di molestia ai danni di un incapace”?! che, per caso è scemo quel ragazzino?! Non capisco..
-non lo so che significa, so soltanto che essendo un minore non è considerato in grado di intendere e volere secondo la legge
-ah però per venire a Neverland e fare tutto ciò che vuole o per farsi scarrozzare a Euro Disney lì la volontà c’era eccome! Se ripenso a come trattava quei poveri mici, li prendeva per la coda e li sbatteva da tutte le parti..avrei voluto cavargli gli occhi!
-Nat!
-si, è quello che ho detto. E lo farei anche ora se lo avessi davanti, lui e quello sciacallo di sua madre. Per non parlare del padre!
-lo so, le cose non sono certo andate nel migliore dei modi
-“nel migliore dei modi”?!? cazzo Mike quelli ti vogliono incastrare, non lo capisci? Cos’è questo tono rassegnato? Devi combattere!
-nella mia situazione non credo si possa fare molto ormai
A quelle parole si voltò a guardarlo. Era girato su un fianco e con la mano aperta le accarezzava la schiena nuda. Erano così da tutta la mattina, forse era addirittura pomeriggio. Lo scrutò per bene e si accorse di quanto fosse più chiara la sua pelle dall’ultima volta che lo aveva visto. Non c’erano più macchie sull’addome però, solo un alone sfocato che andava a morire nell’incavo fra l’ascella ed il pettorale sinistro. Com’era bello ancora. Com’era triste. Non riuscì a sopportare quello sguardo perso in un punto lontano velato da una pacata rassegnazione che usciva in ogni movimento, contrastata soltanto dalla forza con cui l’aveva presa, donandole tutta la disperazione che aveva in corpo attraverso baci affannosi e spinte sincopate e quasi violente così dentro, così profondamente dentro di lei. Non riuscì a sopportarlo.
-“nella tua situazione”?! e quale sarebbe la tua situazione?
-devi per forza ripetere tutto quello che dico?
-voglio soltanto farti notare l’assurdità delle tue parole. E quanto io non sia d’accordo con loro. Michael. Che cosa ti hanno convinto a credere eh?
-io..non lo so. Non so niente. E francamente sento di non avere le forze per..
Si dovette fermare per prendere un respiro ed inghiottire il groppo che gli stringeva la gola in una morsa. Cercò con tutte le forze che gli erano rimaste di ricacciare indietro quelle lacrime amare che invece scesero non appena battè le palpebre, facendolo sentire umiliato oltremodo per aver mostrato una debolezza così grande.
Non ci fu bisogno d’altro. Non appena vide il dolore sgorgare fuori da quegli occhi non riuscì a fare altro che non fosse prenderne un po’ anche per sé.
***
1993
verso la fine
Dopo tutte le cose che ci siamo detti credo ancora di non averlo convinto. E’ così testardo. Ma vincerò io, come sempre del resto.
Ha insistito per rimanere in Messico un’altra settimana, voleva almeno finire le date della seconda leg del tour. Un’ecatombe. Ecco come lo ha definito. Certo non è stato fortunato come lo scorso, ha avuto anche un sacco di problemi di salute, e poi, come non pensare a quelle dannate accuse. Lo hanno ucciso dentro, credo. Si sforza di sorridere a tutti e di continuare nelle sue cose quotidiane che, trattandosi di lui, non possono che essere insolite per qualunque altra persona, come ad esempio tre concerti sold out in cinque giorni, tutti con la stessa energia sul palco. Durante le prove è una iena, incazzosissimo con tutti ma soprattutto con se stesso. Se qualcosa non viene esattamente come ce l’ha in testa lui è capace di ripeterla anche quaranta volte. Trentasette per la precisione, l’altra sera le ho contate. Mi ha chiesto di rimanere un paio di giorni con lui. Ne sono passati cinque. Ogni giorno ad aspettare che tornasse, tranne ieri che sono andata con lui all’ospedale camuffata fra i membri dello staff. Conosco tutti già da un po’ quindi non è stato nemmeno difficile. Mi sono presa qualche settimana di stop dall’università, approfitterò della sessione di aprile per gli esami del semestre. Audrienne, la mia coinquilina crede che sia in vacanza, come tutto il mondo. Ho raccontato bugie a tutti. Non importa, ora ho qualcosa di più importante da fare. Ahu! Maledetto! Odio volare e stasera come se non bastasse è una turbolenza dietro l’altra. Michael dorme, finalmente. Senza l’aiuto delle sue medicine. Lui le chiama così credendo che io mi beva tutto. So quello che fa e non me ne andrò. Non ti lascio così amore mio. Si, lo amo. Da sempre probabilmente, solo che l’ho ammesso da poco. A lui non l’ho detto, ma lo sa. Provo a chiudere gli occhi anch’io va, che domani ci aspetta una valanga di emozioni.
San Juan, Paula, mi casa, arriviamo.
***
2000
-Bill, a destra, più a destra!
-arriva!
-MJ!
-Avvicinati, via il microfono, Cindy prendi..
-Michael..MICHAEL!
-ho sete
-vieni di là un attimo
-cosa c’è? Da dove usciamo?
-no, aspetta, mi dicono che c’è una chiamata per te..
-non possono passarmela in hotel?
-no, è tua madre
-dov’è il telefono
-ce l’ha Elliot
-Michael
-mamma? Ci sei?
-si Michael. Devo dirti una cosa, scusami se ti chiamo, so che..
-no no, ho finito, dimmi
-Miranda..mi hanno telefonato da San Juàn..Miranda non ce l’ha fatta, non ha superato l’intervento..non ce l’ha fatta Mike..
-…
-Michael..
-…
-Mike, ci sei?
-ho capito. Ora vado ok?
-Michael..
-ora vado..
La voce lo tradì e tremò. Katherine non sentì altro, solo il suono sordo e ritmato della linea appena caduta.
_________________
Parte prima
1983
-!
Se ne stava dietro al grande tronco chissà da quanto tempo.
A guardarli mentre scherzavano e ridevano da tutto il pomeriggio. La corsa al recinto dei cavalli per prendere quello bianco che poi finiva per forza di cose alla più piccola per farle piacere, poi un gelato all’ombra generosa del platano, una pausa nell’erba fresca di margherite appena spuntate, lontani dal mondo. Musica di sottofondo.
Janet compiva diciassette anni proprio quel giorno e quella aveva tutta l’aria di essere una festa. C’erano un sacco di ragazzi più grandi e tutti i suoi fratelli. Nessuno sembrava essersi accorto di quella macchiolina scura perfettamente mimetizzata con la corteccia marrone, che osservava tutto da diverse ore. Nessuno o quasi.
-ehi. Come ti chiami?
Aveva cercato di avvicinarsi allungando la mano verso di lei. Prima di rimanere totalmente folgorato da un paio di fari neri che avrebbero illuminato qualunque oscurità, se lo avessero voluto. Ne era certo.
Il prendisole bianco senza spalline non faceva che accentuare il bronzo di quella pelle argillosa, i capelli spettinati e liberi a caschetto, l’espressione smarrita. Era stranissima e bellissima allo stesso tempo.
Avrebbe voluto comprendere almeno il perché di quello sguardo impaurito, ed anche il motivo di quello scatto felino all’indietro, lo teneva d’occhio allontanandosi sempre più. Un animaletto prudente. Si era fermato all’istante come si fa quando un animale si mostra diffidente, proprio per evitare che la paura si trasformi in rabbia.
Poi l’aveva vista correre via, il vestitino bianco librare nell’aria e nascondersi dietro alle gambe di una donna poco distante.
-la perdoni señor, lei non capisce..
Gli si era rivolta con un sorriso generoso e con un mezzo inchino. Ma chi era. Il tono di voce così caldo e rassicurante mentre sistemava l’ennesimo vassoio di tartine al tonno sulla tavola bianca allestita in giardino con una grazia regale in quei semplici movimenti.
Aveva liberato i capelli corvini dal turbante ampio e cangiante che era solita portare, li aveva intrecciati ed era così che arrivavano lontani, ben oltre la fine della schiena
-oh..non lo sapevo. Non volevo spaventarla..
Si era scusato arrossendo a dismisura.
-no señor, è colpa mia. Non dovrei lasciarla in giro per..
-oh no, non dire così, non dovevo spaventarla. Sono Michael.
Aveva aperto la mano verso di lei sorridendo. I riccioli scomposti apparivano lucidi sotto ad una certa quantità di gel che li ammansiva, abbassando di molto il cespuglio florido e lanoso di qualche anno prima.
Le foto non gli rendevano giustizia comunque, si, quelle che si trovavano il sabato sul Primera Hora. Era così giovane, così giovane anche da vicino. Così famoso. Così tanto più bello di tutti i ragazzi con cui lo fotografavano sulle copertine dei dischi, i fratelli dicevano, così diverso.
La luce che aveva negli occhi non era uno dei tanti effetti dell’obiettivo, no, era vera, reale, davanti a lei in quel momento.
Mama non aveva mai avuto tempo per queste cose,ma rimase colpita dall’umiltà con cui le aveva offerto la mano, con cui le aveva parlato.
Lei era solo una cuoca assunta come cameriera in una casa immensa, grande forse quanto il mondo che aveva sempre immaginato guardando le onde spumeggiare sugli scogli all’imbrunire, dalla sua casa in Calle Pelayo.
-encantada señor
In quella stretta uno sguardo di gratitudine per non essere stata trattata con sufficienza, per la prima volta in vita sua forse.
-come posso dire “mi chiamo Michael” in spagnolo..giusto?
-“mi nombre es..”
-mi nombre es Michael.
Si era abbassato all’altezza del tavolo sotto al quale Natalie si era nascosta fin dall'inizio di tutta la conversazione, aveva sollevato la tovaglia bianca trovandola seduta a gambe incrociate. Faceva sorridere l’accento con cui aveva detto quella frase priva di forma e la faccia buffa arrivata subito dopo a celare in qualche modo l’imbarazzo.
-Natalia!
Sorridendogli era uscita dal suo piccolo nascondiglio per porgergli la manina paffuta ed emettere il suo nome in un gridolino fiero.
Lo fece ridere.
Il mondo si era allargato, il sole era diventato più caldo.
Lei aveva otto anni, lui venticinque.
Iniziò così.
***
1993
-perché non me l’hai detto
Apro
gli occhi e qualche raggio mi ferisce dall’alto, dalla stessa finestra che
osservavo poche ore fa mentre lui dormiva. Non era così forte la luce, non come
ora almeno. Mi da talmente fastidio che devo assolutamente socchiudere gli
occhi e ripararmi comunque con una mano. Il suono della sua voce mi riempie i
padiglioni insieme alla certezza che quanto credo sia successo alcune ore fa è
la realtà. C’è qualcosa che stona con l’infinito che ho dentro però. E’ in piedi. Vestito. Lo sguardo su di
me in un’espressione che non ho mai visto. Forse non è così grave però.
Non può essere successo quello che è successo. Ma
lei è lì davvero. Provando a tornare indietro nel tempo non riesco a spiegare.
Il dualismo. Il contrasto. E’ tutto quello che sei, una feritoia in un muro di
cemento. Non riesco a fare mente locale e ricercare in me la motivazione. Sono
un uomo. No, non è abbastanza, non basterà a sedare la potenza di questo senso
di..non lo so che mi schiaccia.
-mm..che cosa?
Mi
fingo ancora assonnata per prendere tempo e camuffare il profondo senso di
vuoto che sale in gola quando lo vedo posarsi le mani sui fianchi ed
avvicinarsi lentamente alla mia posizione. Si abbassa leggermente il cappello
sugli occhi, non vuole guardarmi. Deve dirmi qualcosa che non mi piacerà. E
nemmeno a lui.
-lo sai cosa
Si avvicina sempre più alla sponda del letto. Questo
letto dove ancora sono sdraiata. E questo che ho sulla pelle è il suo odore, lo
è.
-no, cosa avrei dovuto dirti scusa?
Attacco
per non essere attaccata, l’ho imparato da piccola a mie spese. Mi sollevo e
cerco senza trovarlo uno scampolo di biancheria. Sono completamente nuda ora ma
non mi piego ad afferrare il lenzuolo, sarebbe un segno di insicurezza che lo
rinforzerebbe in tempo zero. Questo è il pietoso momento in cui dopo aver dato
sfogo ai suoi piaceri un uomo si pente. Ed ora inizierà un discorso vomitevole
su ciò che non avremmo dovuto fare. Continuo a fissarlo negli occhi dritta e
fiera, così come sono, stronzo.
Oddio. Non guardarla. Pensa. Non guardarla. Pensa.
Quello che mi hai regalato. Quello che mi hai regalato stanotte.
-che sarei stato il primo
Mi
piego ad afferrare gli slip e li infilo, poi i jeans e quando sto per aprire i
bottoni della camicetta che avevo sfilato senza nemmeno slacciarla se ne esce
con questa frase. Non riesco a trattenerla ed esce. Una risata amara, forte,
fragorosa e forse isterica. Non sono riuscita a trattenermi e non intendo
farlo. La porta è ormai vicina, non manca molto. La apro con forza ma non
riesco a spostare il peso in avanti per il passo successivo, perché subito la
sento richiudersi con violenza inaudita, preda di una forza superiore ed
opposta alla mia. Il calore del suo corpo attaccato alla mia schiena brucia
come fuoco su una piaga. Non posso quasi muovermi ingabbiata fra le sue braccia
arpionate alla parete. Aumenta la stretta su di me. Non mi lascerà andare.
-non erano affari tuoi in ogni caso
E’
un sibilo contro il legno della porta il mio, non riesco a prendere più fiato
di così comunque a causa della fermezza con lui mi stringe la vita.
-si che lo sono, lo sai che è così
Lo dice soffiandolo nell’orecchio con una foga, una
forza, una passione che già mi pesa la stoffa che ci separa. E’ attrazione, è
desiderio accumulato. Non so da quanto però.
-cosa vuoi da me?
Sono
costretta a voltarmi per scaricare meglio la rabbia sul suo viso contratto. Mi
afferra i polsi inchiodandoli alla porta insieme alle sue mani. Hai rovinato
tutto, ho rovinato tutto.
-solo sapere..chi ti ha detto di rivestirti
Non
riesce nemmeno a continuare la frase. Guarda in basso, poi me, poi in basso con
quell’aria colpevole. E’ viola in faccia. Non riesce ad esprimersi come
vorrebbe. Paralizzato per quello che abbiamo fatto ora non capisce un
accidente. E impazzisco per questo. Gli prendo il viso fra le mani e non riesco
a resistere ormai.
Il sapore che hai oggi è diverso. E’ più dolce, più
buono forse perché lo distinguo meglio da tutto il resto. Non dovrei lasciarmi
andare, non dovrei cedere a tutto questo. Mentre mi vestivo in bagno per non
svegliarti sentivo un gran rumore dentro alla mia testa, una gran confusione.
Tutto mi è sembrato così terribilmente complicato anche soltanto da spiegare a
me stesso. Solo in questo mare nero mi sembra di non avere scelta se non
sprofondare. Ma nel mezzo di una simile tempesta non voglio scambiarti per uno
scoglio, non potrai mai sopportare la sua violenza. Non mi aggrapperò anche se
la carezza che mi fai nella bocca rende tutto più chiaro. Che sto facendo.
Perdonami se sono così.
Sembra
incerto, trattenuto. Poi si lascia andare e mi bacia lui, con più trasporto,
più disperazione. Ancora come ieri sera. Non ho voglia di ascoltarti ora, ho
solo voglia di te ancora. Ancora.
Assetata
della sua pelle voglio che tutto scompaia tranne noi. Gli slaccio febbrilmente
i bottoni della camicia. Mi lascia fare. Cerca il mio sguardo ancora per un
po’, poi chiude gli occhi e getta la testa indietro ad ogni piccolo bacio che
gli poso sul collo.
Lo prometto, stavolta lo prometto solennemente a me
stesso. Questa volta e basta, questa volta e basta. E’solo una distrazione, è
solo un modo per non pensare, solo quello. E’ solo passione. Natalie.
***
2000
Un piccolo parcheggio con delle macchine vecchie, arrugginite, segnate dal tempo e dall’usura ristagnava al centro dello spiazzo. Una frettolosa colata di cemento a livellare il terreno, due palazzi dismessi e bui dal tetto piatto, bucherellato.
A che serve il tetto spiovente se non nevica mai.
Una piccola strada partiva da una zona remota di tutto quel tetro contorno e si proiettava verso il mare, unico spiraglio di colore in un deserto grigio, assordante. Mare mosso, mare burrascoso, mare come il mare che c’è quando il cielo è nuvoloso.
Che strana connessione fra loro due, se è triste l’uno è arrabbiato l’altro, se è sereno l’uno è calmo l’altro. Sono fratelli. No, quelli sono amanti. Succubi dell’umore reciproco, schiavi degli occhi dell’altro.
Una donna dall’aria triste stava seduta sul muretto rosso che incorniciava una delle tante case colorate ai lati di Calle Pelayo. Quella era la sua casa. Un’altra donna usciva da quella stessa casa e posava sulle spalle della prima una lunga carezza rassicurante. La prima si girava e si guardavano a lungo negli occhi, poi si abbracciavano. Unite insieme sembravano uno di quei dipinti di Gauguin, anzi no, di Renoir, che quando riusciva a catturare un volto catturava anche l’anima. Così è possibile vedere il dolore delle loro anime frustate dalla malinconia e dalla perdita, così come le sto guardando ora, dai miei occhi verdi.
Anche se mi stringi così forte non riesco a non sentire freddo Paula. Sto così male che non so gestirlo, non riesco più a sentire il mio cuore che batte, non riesco più a sentire me stessa, completamente persa in questa bolla confusa. Forse è lo shock.
la donna dall’aria triste si asciugava le lacrime che le arrossavano gli occhi con il dorso della mano, sembrava ancora una bambina. Aveva lunghi capelli corvini che svolazzavano in preda alla brezza della sera e sembrava ancora così giovane anche se di certo non lo era più nell’anima. L’altra donna continuava a stringerla per tenerle caldo, ma non era possibile, perché se si ha freddo al cuore non c’è nulla da fare. Ed io lo so bene questo.
Ti ho messo dei fiori sul letto. Le calle, quelle che ti piacciono tanto. Quando sbocceranno forse non potrò vederle, ma ne sentirò sicuramente il profumo. Perdonami per tutte le volte in cui non ho sorriso alla tua gentilezza, per tutte le volte in cui non ti ho ringraziata. Abbiamo scelto un posto meraviglioso davanti a Bahìa San Juan, dove il vento modella le rocce e dove mi hanno detto che ti piaceva stare quando ero talmente piccola da non poterlo ricordare. Grazie per avermi tenuta con te, per avermi raccolta dal fango in cui mi hanno buttata, per tutto quello che hai fatto per me. Ti ricorderò sempre, ricorderò il modo in cui mi facevi sentire amata, il modo in cui non ho mai sentito il peso del mio abbandono. Perché ero vicino a te Mama.
Tutto vicino a te era un po’ meglio.
la donna dall’aria triste nascondeva il viso nelle mani aperte ad un certo punto e veniva scossa da tanti sussulti della schiena e delle spalle. Erano così forti che mi preoccupai. Certo, non potevo farci niente, ma mi fece pena vederla così anche se non la conoscevo. L’altra donna rientrava nella casa e ne usciva subito dopo con altre persone che tenevano in mano un oggetto abbastanza grande in legno chiaro. Anche pesante, devo dire, perché ce ne volevano quattro per portarlo. Non so cosa fosse, soltanto che la donna dall’aria triste assunse un’espressione che mi è capitato raramente di vedere. Gli occhi vacui (mi passò vicina e li vidi per bene). Sarebbero stati luminosi magari, di un bel marrone talmente scuro da sembrare nero, ma tutta quella tristezza li aveva trasformati in due pozzi contornati solo dal rosso del sangue.
Mi sono sfilati davanti uno per uno, nessuno ha visto che ero lì, allora per noia o per non so cos’altro ho deciso di seguirli. Volevo solo vedere dove stessero portando quello strano oggetto.
Loro sono strani, bisogna cercare di capirli, bisogna cercare di essere pazienti, fanno a fatica a guardarsi dentro.
Di più non so dire però, del resto che cosa volete da me, sono solo un gatto.
***
1993
-cosa ti piace
Gli sfuggì dalle labbra basso, di gola, un rantolo.
Immerse il volto nell’incavo fra quelle due sfere morbide e calde, sufficientemente grandi da formare un cuscino, sufficientemente sode da costringerlo ad allentare la stretta dei jeans scuri, memore di tutte quelle volte in cui aveva dovuto farlo senza farsi vedere da lei. E da se stesso.
Lo tenne stretto per un po’, poi chiuse i suoi quando lesse nei grandi occhi scuri di Michael un desiderio impellente, animale, di averla di nuovo. Vide tanti puntini neri sul soffitto quando le sfilò del tutto la camicia già sbottonata ed iniziò a succhiarle piano un capezzolo, con cura, con bramosia, poi l’altro, con impazienza, con avidità, poi ancora l’uno e ancora l’altro, senza più staccare la lingua da lei, che ora si sentiva sciogliere in una pozza densa formata dal suo stesso desiderio.
-..questo?
Natalie lo sentì ruggire pochi centimetri sotto al suo mento, quando con una pretenziosità sfacciata dipinta sul volto la fissava negli occhi ora lambendo con la lingua la porzione sottile di pelle appena sotto ad uno dei suoi seni.
-..oppure questo?
Lo vide scendere sull’ombelico mentre le sue grandi mani provvedevano a slacciare di nuovo i jeans e sfilare insieme ad essi gli slip umidi. Completamente nuda, di nuovo, nelle sue mani, la vista appannata, appena in tempo per vederlo scendere sulla coscia ed accarezzarla con umidi tocchi della lingua, passare all’interno, verso l’alto, sull’inguine, formando un’autostrada lucida e dalle mille curve, letale.
Chiuse gli occhi quando lo vide sparire fra le sue gambe, preferì non guardare il motivo del suo liquefarsi in brividi caldi, anche se il tocco inconfondibile di un oggetto caldo e viscoso iniziò a farla tremare. Su di lei troppe mani, troppe bocche per discernere da quale luogo provenisse il piacere, dalle dita che si chiudevano attorno ad un seno, o dal fianco opposto strizzato senza pietà, o dalla lingua che roteava attorno al clitoride ormai gonfio ed incandescente, non lo sapeva e non lo volle sapere, finché Michael non decise di portarla alla fine, insinuando un dito, poi un altro dentro di lei, in quello stesso incavo appena violato poche ore fa, ora così caldo –sei solo mia- non riuscì a non pensarlo, era l’unico pensiero che gli batteva la mente, solo sua, solo sua, non era mai stata di nessun altro, solo sua, lo fece eccitare a dismisura, muoveva le dita in modo ritmico, una, due, tre volte, -solo mia- ancora e ancora, -di nessuno prima- quattro, rientrò in lei immergendo anche l’ultima falange, la sentì gemere, divenne pallido per il terrore di averle fatto male, -piccola perdonami- il tempo di guardarla di nuovo negli occhi ormai vitrei, persi lontano da lì, e di avvertire mille gocce trasparenti e bollenti scendergli dall’indice e dal medio, espandersi sul palmo e partire solitarie lungo il polso.
Si sollevò leggermente fissando il prodotto del piacere di lei, la mano lucida, troppo forte per resistere, se la passò sulle labbra e si unì a quel magico nettare in una lunga carezza che terminò fino al collo –voglio il tuo sapore addosso- se lo ritrovò in testa così, senza provare alcun imbarazzo.
-facciamo l’amore, ti prego Michael
Furono quelle le sillabe supplicate che gli fecero perdere del tutto il controllo, e la portata del sangue che lentamente sentì defluire dal cervello. Si sciolse all’istante, ed alzandosi per slacciare la camicia senza togliere lo sguardo da quei fianchi umidi capì che non c’era più via d’uscita.
***
2000
-Che roba kitch. Che roba kitch. Guarda se deve entrare con sotto beat it!
-perché? È una sua canzone, no?
-si ma.. cioè lo trovo kitch, lui che entra con sotto il playback, boh non mi piace..
-Nat ma mica possono far entrare la star del secolo con un silenzio tombale in sottofondo, ti pare?
-no, non dico quello, solo che..quando entra ok, ma poi cosa vuol dire che rimane fermo a darsi delle arie con la canzone che va..lui non sta facendo niente..
-ma lui non deve fare niente! Lui deve esserci e basta
-tu lo veneri in modo acritico
-io?!
-si!
-dai Nat, è evidente che ce l’hai talmente con lui che non riesci a guardarlo senza trovare qualcosa che non va..
-no, semplicemente detesto questo genere di ipocrisia!
Paula si alzò dalla poltroncina di vimini per spegnere l’acqua sul bollitore che ora fischiava come impazzito. Non volle insistere perché tanto sarebbe stato completamente inutile. Guardò sua sorella seduta sulla sedia a dondolo in sala mentre fissava il monitor della televisione con espressione schifata e continuando a scuotere la testa. -lo ama ancora tanto, povero amore-.
Non potè fare a meno di pensarlo di nuovo, come tutte le altre volte.
-sono incredibilmente onorato di essere stato scelto per questo premio..
-ma guardalo, fa finta di cadere dal pero, come se non lo sapesse da secoli!
-vorrei ringraziare i wma, e specialmente i fans, voi siete la ragione per cui continuo a fare ciò che faccio, le esibizioni..grazie…
-ruffiano!
-sono sul palco da quando avevo cinque anni..sapete, non ho avuto quella che si potrebbe definire “vita ordinaria”..
-oddio no! Ora comincia con la solfa dell’infanzia infelice… cazzo che palle!
-Nat, devi calmarti. Senti..
-si, forse è meglio se spengo prima di vomitare per davvero!
La vide alzarsi di scatto dopo aver spento la televisione e lanciato il telecomando in un punto lontano del tappeto.
Si scrollò la coperta dalle gambe lasciandola cadere a terra.
-con quella giacca è proprio ridicolo
Fece un ghigno di scherno prima di sbattere la porta in legno della camera in cui si sarebbe rinchiusa fino al giorno dopo, escludendo tutto il mondo alle sue spalle.
***
1993
-..quindi Fields mi ha chiamato e mi ha dato la notizia. Ero in Argentina
-ma che significa “presunti atti di molestia ai danni di un incapace”?! che, per caso è scemo quel ragazzino?! Non capisco..
-non lo so che significa, so soltanto che essendo un minore non è considerato in grado di intendere e volere secondo la legge
-ah però per venire a Neverland e fare tutto ciò che vuole o per farsi scarrozzare a Euro Disney lì la volontà c’era eccome! Se ripenso a come trattava quei poveri mici, li prendeva per la coda e li sbatteva da tutte le parti..avrei voluto cavargli gli occhi!
-Nat!
-si, è quello che ho detto. E lo farei anche ora se lo avessi davanti, lui e quello sciacallo di sua madre. Per non parlare del padre!
-lo so, le cose non sono certo andate nel migliore dei modi
-“nel migliore dei modi”?!? cazzo Mike quelli ti vogliono incastrare, non lo capisci? Cos’è questo tono rassegnato? Devi combattere!
-nella mia situazione non credo si possa fare molto ormai
A quelle parole si voltò a guardarlo. Era girato su un fianco e con la mano aperta le accarezzava la schiena nuda. Erano così da tutta la mattina, forse era addirittura pomeriggio. Lo scrutò per bene e si accorse di quanto fosse più chiara la sua pelle dall’ultima volta che lo aveva visto. Non c’erano più macchie sull’addome però, solo un alone sfocato che andava a morire nell’incavo fra l’ascella ed il pettorale sinistro. Com’era bello ancora. Com’era triste. Non riuscì a sopportare quello sguardo perso in un punto lontano velato da una pacata rassegnazione che usciva in ogni movimento, contrastata soltanto dalla forza con cui l’aveva presa, donandole tutta la disperazione che aveva in corpo attraverso baci affannosi e spinte sincopate e quasi violente così dentro, così profondamente dentro di lei. Non riuscì a sopportarlo.
-“nella tua situazione”?! e quale sarebbe la tua situazione?
-devi per forza ripetere tutto quello che dico?
-voglio soltanto farti notare l’assurdità delle tue parole. E quanto io non sia d’accordo con loro. Michael. Che cosa ti hanno convinto a credere eh?
-io..non lo so. Non so niente. E francamente sento di non avere le forze per..
Si dovette fermare per prendere un respiro ed inghiottire il groppo che gli stringeva la gola in una morsa. Cercò con tutte le forze che gli erano rimaste di ricacciare indietro quelle lacrime amare che invece scesero non appena battè le palpebre, facendolo sentire umiliato oltremodo per aver mostrato una debolezza così grande.
Non ci fu bisogno d’altro. Non appena vide il dolore sgorgare fuori da quegli occhi non riuscì a fare altro che non fosse prenderne un po’ anche per sé.
***
1993
verso la fine
Dopo tutte le cose che ci siamo detti credo ancora di non averlo convinto. E’ così testardo. Ma vincerò io, come sempre del resto.
Ha insistito per rimanere in Messico un’altra settimana, voleva almeno finire le date della seconda leg del tour. Un’ecatombe. Ecco come lo ha definito. Certo non è stato fortunato come lo scorso, ha avuto anche un sacco di problemi di salute, e poi, come non pensare a quelle dannate accuse. Lo hanno ucciso dentro, credo. Si sforza di sorridere a tutti e di continuare nelle sue cose quotidiane che, trattandosi di lui, non possono che essere insolite per qualunque altra persona, come ad esempio tre concerti sold out in cinque giorni, tutti con la stessa energia sul palco. Durante le prove è una iena, incazzosissimo con tutti ma soprattutto con se stesso. Se qualcosa non viene esattamente come ce l’ha in testa lui è capace di ripeterla anche quaranta volte. Trentasette per la precisione, l’altra sera le ho contate. Mi ha chiesto di rimanere un paio di giorni con lui. Ne sono passati cinque. Ogni giorno ad aspettare che tornasse, tranne ieri che sono andata con lui all’ospedale camuffata fra i membri dello staff. Conosco tutti già da un po’ quindi non è stato nemmeno difficile. Mi sono presa qualche settimana di stop dall’università, approfitterò della sessione di aprile per gli esami del semestre. Audrienne, la mia coinquilina crede che sia in vacanza, come tutto il mondo. Ho raccontato bugie a tutti. Non importa, ora ho qualcosa di più importante da fare. Ahu! Maledetto! Odio volare e stasera come se non bastasse è una turbolenza dietro l’altra. Michael dorme, finalmente. Senza l’aiuto delle sue medicine. Lui le chiama così credendo che io mi beva tutto. So quello che fa e non me ne andrò. Non ti lascio così amore mio. Si, lo amo. Da sempre probabilmente, solo che l’ho ammesso da poco. A lui non l’ho detto, ma lo sa. Provo a chiudere gli occhi anch’io va, che domani ci aspetta una valanga di emozioni.
San Juan, Paula, mi casa, arriviamo.
***
2000
-Bill, a destra, più a destra!
-arriva!
-MJ!
-Avvicinati, via il microfono, Cindy prendi..
-Michael..MICHAEL!
-ho sete
-vieni di là un attimo
-cosa c’è? Da dove usciamo?
-no, aspetta, mi dicono che c’è una chiamata per te..
-non possono passarmela in hotel?
-no, è tua madre
-dov’è il telefono
-ce l’ha Elliot
-Michael
-mamma? Ci sei?
-si Michael. Devo dirti una cosa, scusami se ti chiamo, so che..
-no no, ho finito, dimmi
-Miranda..mi hanno telefonato da San Juàn..Miranda non ce l’ha fatta, non ha superato l’intervento..non ce l’ha fatta Mike..
-…
-Michael..
-…
-Mike, ci sei?
-ho capito. Ora vado ok?
-Michael..
-ora vado..
La voce lo tradì e tremò. Katherine non sentì altro, solo il suono sordo e ritmato della linea appena caduta.
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Re: Don't call my name
capitolo sesto
parte seconda
2000
Accelerò vistosamente il passo scagliando in qualche modo il cellulare nelle mani di Elliot, che prese a seguirlo senza riuscire però a raggiungere il suo passo per via di un paio di gambette troppo corte.
Al termine del lungo corridoio curvò troppo in fretta ansioso di arrivare a destinazione e non potè evitare una spallata sullo spigolo di cartongesso, senza sentire alcun dolore tuttavia, preda dell’impellente esigenza di chiudersi in quello che era stato temporaneamente allestito come suo camerino. Una stanzetta spoglia dotata del minimo indispensabile.
Ciò che serviva però in quel momento c’era.
Una chiave. La girò due volte nella serratura. Si appoggiò con la schiena sulla porta che da lì a poco sarebbe stata presa d’assalto, lo sapeva, almeno da cinque persone per altrettanti motivi differenti.
Non volle dedicarsi a questo con un pensiero di più però, perché sapeva che presto altri sarebbero arrivati a ricordargli che non possedeva nessun istante del suo tempo.
Ora era prioritario cercare di contenere l’ondata di emozione che gli avrebbe squarciato il petto se non l’avesse fatta defluire dagli occhi. Un groppo alla gola.
Era morta. Miranda, la sua cuoca, la sua adorata Miranda, uno dei pochi pilastri in mezzo a tutto quel casino che era la sua vita, Miranda, il pollo al curry per invogliarlo a mangiare dopo l’intervento, Miranda, una carezza dolcissima sul viso pieno di crema e disinfettante che faceva così male quella notte, Miranda che metteva in riga gli ultimi arrivati, Miranda, quella volta con le venezuelane
–quell’uomo è strano, vede soltanto ragazzini, ma possibile che non abbia una vita normale-
-e invece è normale che tu sia pagata profumatamente e invece di fare il tuo lavoro fai prendere aria a quella boccaccia?
Le metteva a tacere con i suoi modi un po’ bruschi, con quell’inglese dall’irresistibile accento latino, con quelle sue forme morbide e rassicuranti.
-Miranda
-buenas tardes señor Michael!
- Miranda, volevo dirti una cosa. Neverland è quasi pronta..
-exceptional señor Michael!
Lo interrompeva sempre con quel sorriso a trentacinque denti, non riusciva mai a contenere il suo entusiasmo, l’amore per la vita che aveva. Gli si scioglieva il cuore ogni volta a ripensarci. Era contagiosa e nemmeno nei momenti no riusciva a non restituirle un sorriso meraviglioso come un tramonto, travolto dalla valanga di energia che emanavano i suoi occhi allungati.
-si, è bellissimo. Ma la cosa che volevo dirti era un’altra.
Apriva gli occhi fin quasi a spalancarli quando stava attenta. Era così buffa. Doveva cogliere ogni minima sfumatura di quella lingua che non era la sua e che aveva dovuto imparare velocemente appena arrivata in America.
-ho parlato con mia madre e anche per lei va bene. Mi piacerebbe se venissi a Neverland. Farai la cuoca finalmente. Sempre se ti va. La mia cuoca personale. Ovviamente avrete un appartamento tutto per voi, nel ranch. Tu, Paula e Natalie, ovviamente. Spero mi dirai di si.
Ricordava con precisione tutti quegli “ovviamente” che non era riuscito a dosare nel modo giusto a causa dell’emozione con cui le aveva fatto quella richiesta. Di solito delegava gli impiegati dell’ufficio personale per quel genere di cose. Ma ormai Miranda non rappresentava soltanto quello che c’era scritto sulle carte.
Lo aveva abbracciato forte, mentre ancora si torturava le mani per l’imbarazzo. Non sapeva nemmeno lui perchè.
Gli anni lo avevano portato a viaggiare lontano, i tour, i capricci ed i cambiamenti di domicilio temporanei soltanto per respirare aria nuova, per sfuggire a quell’oppressione assordante che aveva iniziato a coglierlo piano piano, non lo avrebbe mai ammesso, ma anche a causa di quell’immensa casa vuota; e lui sapeva sempre che al ritorno ci sarebbe stata lei, e si sentiva sicuro, e si fidava, ed era certo che tutto sarebbe stato gestito nel migliore dei modi.
Poi era successa quella cosa e tutto era cambiato. -No, non ho voglia di ricordarlo ora, non voglio-. Ma gli venne in mente ugualmente. Aveva fatto una scelta difficile, difficilissima, la più difficile forse della sua vita. E Miranda era rimasta al suo fianco lo stesso. Ma era finito il tempo delle chiacchierate, si, era cambiato tutto. Si limitava al suo lavoro, eseguito perfettamente come al solito, ma semplicemente quello. Lo capiva e si innervosiva lo stesso al pensiero di non avere più quell’amicizia particolare con la donna dagli occhi a mandorla.
-cosa te ne frega Mike? E’ solo una cameriera!
-non parlare così Lisa. Per me è molto di più.
Finchè non arrivò quel giorno.-non ho voglia di ricordarlo..non voglio-. Ma non servì perché la memoria arrivò rapida ed affilata come una lama.
-avanti
-buonasera signor Jackson
Non usava più da tempo i suoi spagnolismi adorabili. Ma quel “buonasera” pronunciato perfettamente gli fece male. Ed anche il “signor Jackson”. Non lo aveva mai chiamato così. Mai. E non era riuscito ad evitare il solito atteggiamento che riservava a chi lo metteva da parte. Dopo averla degnata a malapena di uno sguardo le aveva infatti rivolto il tono più freddo ed incolore di cui fosse capace.
-Buonasera Miranda.
-questa è la mia lettera di dimissioni. Tra tre mesi andrò via, come da contratto. Vorrei..
-puoi andare anche domani, se vuoi, non sei obbligata a rispettare nessun termine.
Lo aveva ferito irrimediabilmente e non era riuscito a trattenere la collera.
-bene signore, come desidera.
-no, come desideri tu, Miranda.
-torno a casa, in Porto Rico. Sono stanca señor.
Gli aveva rivolto uno sguardo stanco, anzi no, esausto, come se la vita stesse defluendo lentamente fuori da lei, e poi un ultimo sorriso, quello che deponeva e sotterrava per sempre le armi, il solito sorriso meraviglioso che nemmeno il tempo le aveva sottratto, a fargli sapere che in fondo gli voleva bene, che lo perdonava per quello che aveva fatto, ma che lo abbandonava anche lei, in quella meravigliosa voliera dorata ed impreziosita, sua eterna prigione.
Ed ora in un camerino desolato nel Principato di Monaco tutto riaffiorava con spietata minuziosità di particolari, tutti i colori, tutti i profumi di quegli anni, la nostalgia che tornava a devastarlo lentamente mentre la memoria si beffava di tutti gli anni trascorsi a costruire buche profonde in cui sotterrare i ricordi. Ed il senso di colpa, incessante e velenoso.
Seduto sulla poltroncina da regista si portò le mani alle tempie e tirò su forte con il naso. Si era dimenticato dei suoi bambini per qualche istante, lo riconobbe, a causa del doloroso senso di confusione che ora gli impediva di mettere a fuoco le priorità, le persone.
Sollevò lo sguardo e vide il percorso di una lacrima nera che aveva solcato la sua discesa ancora pregna di mascara dalla palpebra inferiore all’angolo destro della bocca.
La rimosse con la mano aperta.
-pierrot decaduto-
Lo disse al riflesso con sdegno, guardando l’immagine del suo volto estraneo, mentre da fuori diverse nocche avevano preso a picchiettare la porta.
***
1993,verso la fine
Portami lontano (dalle mie lacrime)
Si, andiamo,
Ovunque tu voglia.
Portami lontano dalle mie lacrime.
Portami lontano da questo silenzio.
Sono al bordo della mia strada.
Sono al bordo della mia vita.
Seduto sul marciapiede,
così lontano da me,
da non sentirmi.
Neanche se grido.
Ascolta le mie lacrime,
vorrei avere altro da offrirti,
ma non posso mentirti.
Non a te.
Non posso non darti
Quello che sono ora.
Infelice. Profondamente infelice.
Tu sola,
sai ascoltare questo bimbo
che stringe le sue ginocchia
raggomitolato su se stesso
da solo, al bordo della vita.
By Grazia Longo
Un tramonto surreale lambiva il cielo in ogni direzione, delicata violenza di rosso che si scioglieva nel mare visibile attraverso la rete che separava la pista di atterraggio dalla vegetazione selvaggia poco sottostante.
Gli prese la mano senza guardarlo negli occhi, ma rapita da quel quadro lo condusse con sé verso la macchina scura che li aspettava come previsto pochi metri più in là.
Non ricordava con precisione l’ultima volta che era stata in quei luoghi, erano passati dieci anni, ma il tepore dell’aria e la salsedine che si volle prendere in faccia abbassando tutto il finestrino la riscaldarono dentro come la coperta più calda e profumata che potesse esistere.
L’aveva assediata di domande appena sveglio, quando dal piccolo finestrino del jet si iniziavano a scorgere le deboli intermittenze di una città che viveva il pieno delle sue luci, mentre la luna usciva furtiva e sensuale dalle nubi, ora deboli lucciole nel vuoto a chissà quanti piedi più sotto di loro.
-dove andremo una volta atterrati? Cosa faremo? Lo sai che deve essere tutto organizzato nel dettaglio vero? Lo sai che non posso assolutamente farmi riconoscere o avrò finito di vivere anche questa mini-settimana di vacanza? Ma Bill è al corrente di..
-oddiomichaelbastaaaaaaaaaaa! Ho detto che è tutto programmato, nel minimo particolare, ma se non la pianti apro lo sportello e..
Si era avvicinata di scatto dal sedile di fronte in cui si trovava, con tutta l’intenzione di iniziare uno di quei soliti giochi da maschiaccio, una sorta di lotta greco-romana che poi finiva per forza con uno dei due morto di solletico ad implorare pietà. Ma anche stavolta era stato più veloce di lei, le aveva afferrato i polsi bloccandole qualsiasi possibilità di movimento. Aveva perso l’equilibrio cadendo in avanti, sulle sue ginocchia, dimenandosi come una pazza per i pizzicotti che aveva preso a stamparle sui fianchi, sulle braccia, sulle gambe. E lei aveva risposto al fuoco con un altro proiettile, molto potente, molto più potente di qualsiasi altra cosa. Un bacio che lo prosciugò di ogni pensiero, sogno, istinto, svuotandolo da se stesso e da qualunque altro elemento del mondo.
La guardò ora, sospesa fra il sogno e la veglia, chiudere gli occhi con un mezzo sorriso tatuato addosso da quando l’aereo aveva toccato l’asfalto della pista, sospesa in un mondo fatto di cose e pensieri solo suoi, ai quali nemmeno lui avrebbe mai avuto accesso, lo sapeva. Rimase incantato dal tramonto spettacolare che moriva dietro al parabrezza della Bentley blu notte che li stava portando verso una meta che non conosceva, per la prima volta in vita sua, e per questo fremeva di agitazione in ogni poro. E di incredulità per quello che era accaduto nella sua vita da una settimana e mezza ormai.
Appoggiava i polpastrelli fuori dall’auto per sentire l’aria tiepida insinuarsi fra le dita delle mani e sfruttando la forza di attrito sui palmi le lasciava libere di danzare, tenute vive soltanto dall’aria che le colpiva compatta, a formare serpenti, lamette, fendenti che tagliavano l’inconsistenza dello spazio. La trovò irresistibile con gli occhi semichiusi, assorta chissà dove, lontana da tutto. Non disse nulla, desiderò solamente di vivere e morire appoggiato a lei, nell’immobile eternità delle sue gambe unite e composte, fasciate dalla gonna di jeans che aveva comprato il giorno prima. Anzi no, la notte prima, quando erano usciti alle due per andare al Pluvioso, il più grande centro commerciale di Città del Messico.
-allora, questa?
-mmm
-che vuol dire mmm??? O si o no!
Era uscita dalla tenda azzurra di seta comparendogli come una piccola fata, con la magia negli occhi e la t-shirt con l’arcobaleno annodata sull’addome, per offrirgli la vista della gonna che stava provando fino all’ultimo centimetro. La reazione era stata più che scontata per lui. Avrebbe potuto anche indossare un pannolone geriatrico che con quelle gambe meravigliose non le avrebbe permesso di compiere un passo in più.
-troppo corta direi
Lottò, bisogna dirlo. Sistemandosi sulla poltroncina in panno bianco aveva chiamato a raccolta tutte le sue forze per mantenere salda la lucidità ed apparire distaccato per poter fornire un giudizio più tecnico di qualche indistinto mugolio. Ma lei aveva capito tutto e si era avvicinata. La bocca ormai a pochi centimetri dal’ombelico perfettamente scavato in quel ventre morbido, che aveva anche scoperto caldo ed accogliente da qualche incredibile giorno. Le aveva preso i fianchi rimanendo seduto ed inspirando forte con il naso, chiudendo gli occhi, provando ad immaginare una fine un po’ diversa dall’inevitabile. E lo aveva di nuovo raggirato, perché dopo avergli accarezzato dolcemente i capelli senza gel, lo aveva osservato per un po’ con gli stessi occhi della bambina che ricordava, e poi
-allora la prendo
Per poi sparire di nuovo dietro alla tenda.
E le stava bene da matti quella gonna, accidenti a lei. Gliel’aveva comprata lui, dopo un quasi litigio alla cassa, mentre la commessa lo fissava esterrefatta.
-dalla ad Elliot, penserà a tutto l..
-non se ne parla proprio! Sto facendo shopping e pago io. Se non mi spenno dov’è il piacere della compulsività, scusa?!
E dopo un attimo
-e non guardarmi come fossi un marziano sai!
Risentita si era diretta come ipnotizzata nel reparto dell’intimo, e così lui aveva potuto approfittare di quella distrazione per farle quel piccolo regalo.
-Michael ti avevo detto che non..
-ok ok, questo però è un regalo, e i regali non si possono rifiutare in nessun caso..
Si era avvicinato abbracciandola, per la prima volta davanti ad altre persone, per sussurrarle piano all’orecchio
-la metterai per me?
-Ti avevo detto che l’avrei pagata io Mike..sai che odio quando..
-la metterai Nat?
Lo aveva sentito arrivare dalla base del collo, in un sussurro opaco e rovente, da quelle labbra che le sfioravano la pelle dietro all’orecchio. Si sentì venire meno a quel contatto, e dovette porvi fine prima che fosse troppo tardi.
Gli aveva baciato una guancia cercando di sottrarsi a quel magnete che aveva attirato l’attenzione di altre persone intorno a loro; sguardi morbosi ed inquisitori da ogni angolo, le fecero venire i brividi.
-si, la metterò per te. Grazie
Si era concessa senza toccarlo in una lunga carezza degli occhi che lo avevano attraversato da parte a parte aprendo la fantasia a scenari proibiti. Era stato costretto ad abbassare lo sguardo, scosso dalla visione dell’intreccio dei loro corpi nudi ed ansanti che gli aveva squarciato il cervello in un istante, volo pindarico, messaggero soltanto dell’inizio di una follia mai sperimentata prima.
Desiderò soltanto perdersi, in quei ricordi vecchi e recenti, mentre andava incontro all’ignoto, insieme a lei. Senza avere paura. Si rifugiò appoggiando il capo sulle sue gambe, si sdraiò sul sedile in pelle dell’elegante berlina. Sciolse i capelli perdendo l’elastico che li univa provando a sentirsi libero per un attimo, libero come lei. Gli accarezzava i capelli liberi, gli occhi chiusi, liberi di visioni segrete, le mani grandi e libere anche loro di massaggiarle la coscia, la coscia libera di perdere la sensibilità al tatto a causa delle troppe sensazioni, le sensazioni libere nell’abitacolo in cui si udivano solo i sospiri dell’impazienza, impazienza di arrivare, di scoprire qualcosa di nuovo ed inaspettato, per la prima volta, e di fare l’amore, ancora una volta.
***
-tu sai più di quello che dici
-so quello che c’è da sapere
-no, sai cose che nemmeno immagino, dimmele
-so che hai paura
-è così
-ma non so cosa ti fa più paura
Sapeva che sarebbe andata così, se fossero saliti in camera ed avessero aperto le tende alla luna, sapeva che non avrebbe atteso un momento in più e le avrebbe fatto scivolare tutti i vestiti a terra, senza fretta, con una carezza fra le stoffe e le sue mani che bruciavano.
Quello che non sapeva era quando sarebbe successo. E l’attesa lo aveva trasformato in una belva assetata che incanalava l’energia solo e soltanto in una cosa. Il desiderio di lei.
Dopo un’oretta circa la Bentley si era fermata in un piazzale in cui la forza delle radici delle piante aveva parzialmente divelto l’asfalto che lo ricopriva. Ne era rimasto colpito. Lo aveva preso per mano trascinandolo quasi per attraversarlo nel minor tempo possibile, seguiti da Bill ed altri tre che li precedevano e seguivano senza fare rumore nel buio. Nessun lampione per loro, solo il rumore delle gocce che cadevano da una grondaia in alluminio arrugginito per andare a morire in una pozza piena di loro sorelle.
Calle Pelayo era ancora la stessa stradina buia ed umida che ricordava; nel silenzio tombale della notte solo il rumore delle onde che andavano ad infrangersi sulla scogliera ad una decina di metri da lì. Rimase colpito anche da questo, ma non fece altre domande, consapevole che avrebbe turbato il silenzio sacro che giovava a tutta la situazione. Erano passati da una porticina minuscola ocra e di legno semi marcito per ritrovarsi in un piccolo cortile privato dove ampie balconate con tende bianche svolazzanti li sovrastavano, così come i grandi blocchi di marmo grezzo che rifiniva le pareti. La curiosità lo uccideva ma si impegnò solennemente a non dire una parola, mentre con la coda dell’occhio scorgeva la Natalie più piccola e meravigliosa che avesse mai visto con il viso rigato da mille fiumi.
Gli si strinse il cuore, ma fu rassicurato subito dopo dal suo sorriso e da un piccolo umido bacio a fior di labbra. Era felice, e quando l’emozione è troppa, bè è difficile contenerla tutta, lo sapeva.
Da una delle tende immacolate erano poi usciti due esseri di piccole dimensioni con in mano una candela seguiti da una donna. Man mano che si avvicinava riusciva piano piano a riconoscerne le forme, familiari anche se a lungo dimenticate, i tratti di un viso liscio ed allungato, gli occhi a mandorla, la pelle scura, i capelli castani. Paula.
Si erano abbracciate a lungo e si era sentito un intruso in quel momento così importante che però era durato solo il lasso di tempo necessario a farlo ricredere, perché avevano aperto la stretta inglobando anche lui in un abbraccio che lo riscaldò e spazzò via ogni cosa.
Poche parole, solo la potenza di quegli sguardi che sussurravano in una lingua troppo sottile per le orecchie. Paula aveva due bambini, Raphael e Soledad, erano piccoli e gemelli, era tornata in Porto Rico tre anni prima per cercare il suo unico amore, Luìz, lo aveva trovato e con lui la felicità che tanto le era mancata per tutti quegli anni –anni inutili- li aveva definiti davanti al thè caldo che aveva preparato sul tavolone di pietra e noce. Lui, il suo Luìz, era un uomo alto ed abbronzato, forse il doppio di lui ad occhio e croce, e a quell’affermazione amara le aveva accarezzato il mento –no amor, sono serviti a farti capire l’amore-. Rimase colpito anche da questo, tanta semplice meravigliosa verità. Nessuno gli rivolse domande, nessuno lo trattò come se fosse stato diverso, nessuno sguardo morboso o furtivo, nessuna richiesta, nessun imbarazzo. Paula doveva sicuramente essere al corrente di tutta la situazione e la adorò per tutta quella discrezione.
La stessa che trasparì dal tono gentile con cui li congedò –dovete essere molto stanchi, vero Michael? Anteriormente son en sus habitaciònes..- -di sopra ci sono le nostre stanze- aveva precisato Natalie, colma di gratitudine verso sua sorella che si era sforzata così tanto di parlare l’inglese –perdoname Natalia..- aveva abbassato lo sguardo e lui l’aveva ringraziata con un bacio ed un lungo abbraccio prima di salire la scalinata bianca nelle mani della piccola dea.
-questo…questo mi fa molta paura
Lo disse accarezzandole il seno nudo, ora che era in piedi davanti a lui, ora che le aveva tolto tutto, anche le due forcine che tenevano insieme due piccole ciocche di oscurità, non voleva nulla su di lei perché solo spogliata di tutto poteva essere ammirata nella purezza peccaminosa che sprigionava da quegli occhi. Un sospiro a pieni polmoni, si lasciò slacciare la cintura e poi anche i pantaloni che caddero in un secondo alle caviglie. La amò, la amò tantissimo perché non cercò di sfilargli anche i boxer, sapendo che si sarebbe vergognato troppo, desiderando di scoprirlo dopo, con calma, solo quando il fuoco dentro di loro si fosse trasformato in un incendio irreparabile ed il desiderio avrebbe fatto male.
Lo cullò verso di sé lasciandosi accarezzare piano dalle sue mani grandi e dal vento caldo che entrava dalla finestra, lasciò che i pollici e gli indici strofinassero i capezzoli ora duri come marmo, scuri, sensibilissimi, lasciò che qualcosa di rovente scivolasse da lei come se qualcuno avesse tolto un tappo, lasciò che le gambe tremassero e che la testa girasse, poi raccolse le forze perché era troppo importante
-lo so. Anche a me
-è che sei così bella,così bella che io non resisto..
-nemmeno io
Si guardarono negli occhi ancora una volta e si sentì svuotato da tutto, ancora una volta. La baciò dolcemente, leggero le inumidì le labbra con un tocco della lingua, non voleva essere irruente come era stato le altre volte, ora voleva assaporarla, voleva sentirla, avvertire lei, il suo sapore e la sua essenza, perché era così che aveva deciso di lasciarsi andare, perché era lei, e non lo avrebbe fatto per qualcun altro, perché voleva scoprirsi, fidarsi, affidarsi come aveva fatto lei, piccola rosa nera, rara e profumata di oppio, rosa velenosa, aveva creato in lui la dipendenza più forte di cui fosse mai stato vittima, gli aveva donato la pace, -amore mio, amore- nelle orecchie con la voce bassa, mentre doveva baciare e leccare anche tutto il resto del suo corpo morbido, della sua pelle liscia, doveva inginocchiarsi ed insinuarsi fra quelle pieghe rosate con la lingua, per il piacere, per darle piacere, per sentirla gemere e liquefarsi nella sua bocca, per sentire ancora quel sapore salato e dolce, per vederla perdersi, per godere anche solo di questo e dimenticare, come sempre, tutto quanto.
-Michael..
E sentire quel lamento, e stamparlo nella testa, e sentire male per il desiderio di soddisfare anche se stesso, fino alla fine, fino a sentirla venire con un ultimo gemito, fino a sentire il suo nome scandito per bene, e morire di orgoglio.
-girati per me
Ancora ansimante lo vide rialzarsi e tornare a baciarla per farle sentire un po’ di se, accarezzarle i fianchi, salire sulla linea della vita e guardarla di nuovo con i riccioli lasciati liberi di cadere sulla faccia, scompigliati dalla passione e dalla voglia di mostrarsi per una volta così com’era. Glielo soffiò sulle labbra e le parve di sognare, si sentì sciogliere ed al solo pensiero avvertì il ventre ribollirle profondamente.
Si leccò le labbra mentre la vide eseguire docilmente la richiesta che non aveva trattenuto e che albergava in lui da tempo, la sognava di notte, la voleva, voleva stringerle i fianchi e vedere come sarebbe stato bello strusciarsi e percepire la morbidezza di quel pendio sodo e sporgente che aveva alla fine della schiena, e sentirlo, e strizzarlo. E lo fece.
Entrò in lei dopo averle baciato ed accarezzato a lungo le natiche calde, proprio come aveva desiderato l’altra notte, quando aveva dovuto darsi piacere da solo assillato da quella terribile visione.
Si sentì riempita totalmente ed avvertì il calore di due mani grandi attorno ai fianchi, poi sul collo, sul seno, attorno alla gola, in un percorso quasi convulso che le fece perdere l’orientamento ed il senso del tempo, perché si udivano solo i suoi respiri bassi, gemiti di parole inesistenti nell’incavo fra spalla e collo, baci disperati, sudore. Le sollevò una gamba aiutandola ad appoggiarne il ginocchio sul davanzale della grande finestra aperta sul mare argentato, ed entrò ancora più dentro, lentamente, dolcemente, profondamente, mentre un groppo gli stringeva la base del petto e tratteneva a stento le lacrime, troppo forte, era troppo forte quella sensazione, troppo prepotente la voglia spasmodica di averne ancora, di farla godere ancora, almeno la metà di quello che stava provando lui, almeno la metà, almeno la metà. La coccolò accarezzandole la schiena con le mani aperte, i fianchi, -grazie per avermi dato tutto, grazie-, lo disse piano, poi chiese accesso alle sue labbra costringendola a reclinare un po’ la testa sulla sua spalla, e lo fece, lo desiderava troppo, e allora lo fece, inumidì due dita fra i denti e la lingua e le mise fra le sue gambe.
Aumentò il ritmo e pensò di essere prossima alla fine quando avvertì il suo tocco fra le gambe, il desiderio di stimolarla in ogni punto, il desiderio di amarla fino alla fine, di farla sua. Si aggrappò allo stipite della finestra incapace di trovare un altro punto di appoggio per non svenire quando il piacere la colpì all’improvviso, violento ed irreversibile. Trasformò il gemito che avrebbe voluto lasciare libero di uscire, il giusto lamento per quell’orgasmo così doloroso, in un respiro profondo e rumoroso comunque.
Si contrasse tre volte, si contrasse stringendolo in una piccola morsa che non gli permise di trattenersi. Si sciolse in lei, si sciolse insieme a lei –amore- gli uscì dalle labbra senza permesso, senza passare nemmeno dalla stanza dei pensieri, lo sospirò sulla sua spina dorsale prima di chiuderle gli occhi in un ultimo bacio, lasciandosi andare a tutto, come la piccola barca a vela che lì sotto si lasciava andare al vento, fra il nero dell’acqua e l’argento della luna.
***
Sodio amytal: barbiturico che consente di impiantare falsi ricordi nel soggetto che ne è sotto influenza. Induce uno stato ipnotico quando iniettato per endovena. Utilizzato per il trattamento dell’amnesia viene utilizzato per la prima volta durante la seconda guerra mondiale sui soldati traumatizzati dagli orrori della guerra. Nel ’52 ulteriori ricerche scientifiche descrissero la droga come siero della verità, anche se studi più recenti hanno smentito questa capacità. Recentemente l’affidabilità del farmaco è diventata argomento di vari dibattiti; il Prof. John Yagiela, coordinatore del dip. di anestesia della scuola per dentisti dell’U.C.L.A. dice: “è alquanto insolito che venga utilizzato per estrarre denti. Non ha senso, quando ci sono alternative migliori e più sicure. Io non l’avrei mai fatto”. Potenti effetti collaterali va somministrato solo in ospedale.
Giugno: Evan Chandler e l’anestesista Mark Torbiner somministrano Sodio Amytal a Jordan Chandler per un intervento dentistico. A loro insaputa (?!?!) la sostanza funge da siero della verità che induce Jordan a dichiarare alla domanda di Evan Chandler:
“Michael ti ha mai toccato il pene? Si”
NOTE: ma se non sapevano che fosse un farmaco con così tanti effetti collaterali, fra cui quello di impiantare falsi ricordi, perché gli hanno fatto una simile domanda? Perché non si sono limitati ad eseguire l’estrazione? C’è stata veramente un’estrazione? Prove?
Dottor Kenneth Gottlieb, psichiatra a San Francisco: “non userei mai una droga che altera l’inconscio di una persona, a meno che non sia disponibile alcuna altra sostanza. Non l’avrei usata senza strumentazione per la rianimazione in caso di reazione allergica” .
NOTE: Pare che Chandler non abbia seguito questi consigli però, perché tutto si svolge nel suo studio, con il solo ausilio dell’anestesista Mark Torbiner.
Dottor Mathis Abrams, psichiatra a Beverly Hills: dopo le dichiarazioni di Jordan al padre, l’avvocato di Chandler presenta a detto professionista una casistica puramente ipotetica. Sulla base di questa e senza mai aver parlato personalmente con Jordan Chandler scrive: “ci sono giusti motivi per pensare che ci siano state delle molestie sessuali”.
NOTE: ?!?!?!?
Agosto: Chandler e avvocato formulano la richiesta di risarcimento: 20 milioni di dollari e un contratto per tre film sceneggiati da Chandler. Il team di Michael rifiuta.
23 agosto: il caso Jackson-Chandler è la prima notizia dei telegiornali di sessantatre televisioni nell’area di Los Angeles e sulle prime pagine di tutti i giornali britannici. Carnevale mediatico in piedi. Michael si sente male poco prima del concerto a Bangkok. Stessa cosa il 29 a Singapore.
25 agosto: emesso il mandato di perquisizione di Neverland e Century City. Sotto sequestro libri, riviste, video, documenti, capi d’abbigliamento, foto di Jordan Chandler.
Via al delirio pubblico: i giornalisti in cerca di scoop non verificano più le notizie e gli ex dipendenti di casa Jackson escono con testimonianze shock. Tutti cercano soldi e notorietà. Testimonianze:
1. Stella e Philipppe Lamark, ex governanti: per quindicimila dollari al “the globe” rilasciano la seguente dichiarazione: “entrai dalla porta di servizio dell’Arcadia per portare le frittelle e vidi MJ che stava toccando Macaulay Culkin mentre questo era intento a giocare con un videogame”.
NOTE: Macaulay Culkin nega seccamente. La seconda volta che depongono la mano di Michael si trasferisce da fuori a dentro i pantaloncini. Mah.
2. Mark Quindoy e consorte, ex governanti: “giuro che ho visto MJ toccare un ragazzino fra le gambe mentre questi giocava tranquillamente con un giocattolo”. E ancora: “Michael Jackson è una delle persone più buone che uno può avere la fortuna di incontrare, ma ha una grave malattia”.
NOTE: nello stesso periodo delle rivelazioni i due risultano coinvolti in una causa civile contro Michael per arretrati non pagati Conflitto di interesse.
Il distretto degli avvocati di LA decreta che entrambe le coppie non sono attendibili come testimoni.
3. Blanca Francia, ex cameriera personale: per ventimila dollari ad “Hard Copy” dice di aver visto Michael in posizioni compromettenti con diversi ragazzini coi i quali faceva anche il bagno nella Jacuzzi completamente nudo. Dice che era solito chiamarli rubba (da rubbing up strusciarsi).
NOTE: dopo aver deposto con l’avvocato di Mike ritratta dichiarando di non aver mai visto Michael fare il bagno o la doccia con qualcuno, né tantomeno di averlo visto nudo nella Jacuzzi.
La testimonianza perde totalmente peso.
4. Orietta Murdoch, segretaria alla mjj productions fino al 1991: dice di aver prenotato più volte viaggi e camere d’albergo per molti ragazzini giovani amici del cantante (fra cui anche io!).
NOTE: e quindi?!?!? (nonostante la mia perplessità direi che questa verrà considerata attendibile)
5. Stevens (vigliacco che si nasconde sotto falso nome, si chiama Ed Faidyngher, nota mia), ex autista personale di Mike, intervistato ancora da Diana Dimond di “Hard Copy” dichiara (a telecamere spente e senza firmare dichiarazione alcuna) che Michael aveva un’insana passione per i ragazzini. Li accompagnava da Toys’r’us dove comprava loro tutto quello che volevano e si lanciava in carezze un po’ troppo affettuose, alla fine.
NOTE: sotto giuramento dichiara agli avvocati di Mike di non aver mai assistito a scene inequivocabilmente compromettenti.
6. Ieri, 22 novembre 1993: Morris Williams. Leroy Thomas, Fred Hammond, Aaron White e Donald Starkers, ex guardie del corpo di Mike, dichiarano di essere stati licenziati senza giusta causa, perché venuti a conoscenza di troppi particolari sui rapporti fra Mike e i ragazzini. Varie dichiarazioni a seguire, di cui mi sembra rilevante questa: “quando MJ viveva ancora con la famiglia nella megatenuta di Encino, faceva arrivare i bambini di nascosto (?!?!?) in modo che il resto della famiglia non lo vedesse.”
Impossibile lasciare spazio ad ulteriori note a causa di prevedibili e ripetuti conati di vomito.
Riflessione personale da utilizzare come spunto--> chiamare Bert:
è abbastanza singolare che, tra le numerose persone saltate fuori ad accusare Michael dopo Chandler (che meriterebbe un discorso a parte), nessuna sia stata tanto onesta e di sani principi da denunciarlo alla polizia e che tutti parlino soltanto DOPO aver perso l’impiego. Cioè, qualsiasi individuo con un normale senso della morale, vedendo bambini sedotti da un adulto, interverrebbe in maniera decisa. La paura di perdere il proprio posto di lavoro non può essere sufficiente ad arginare un provvedimento etico-morale, che di per se DOVREBBE ESSERE abbastanza istintivo.
Eppure non lo fa nessuno.
-chiamare Bert?
Lo chiese a se stesso prima di tutto, poi si voltò a guardarla esterrefatto.
Si era svegliato presto come al solito, forse per il canto dei gabbiani che si ammassavano gli uni sugli altri al mercato del pesce che doveva essere poco lontano da lì, e da una brezza frizzante, molto diversa dal vento caldo della notte precedente –o forse si tratta solamente di me- pensò nascondendo un sorriso malizioso allo specchio del bagno in marmo e ferro battuto. Si era messo una camicia e dei pantaloni larghi della tuta –voglio stare comodo- e si era seduto sul letto a guardarla dormire. Era così buffa. Era così sua. L’aveva vista mille volte, avevano dormito vicini in passato, ma mai come quella mattina sentì di possedere il cuore di una persona. Troppe cose da dire forse, ma fra tutte una gli apriva il petto senza sosta ogni volta che gli veniva in mente. Gli aveva dato tutto. Ed avrebbe continuato a farlo fino alla fine, ne era certo, e terrorizzato. Sapeva che tutto quanto stava accadendo era pericoloso per lei, si per lei, non gli importava di soffrire ulteriormente, non voleva però fare del male a lei. –com’è che si dice, quando non ti importa più di te stesso e pensi prima a qualcun altro, al suo benessere, alla sua felicità..come si dice Applehead?- si trovò a chiederlo ad un se stesso muto di fronte alla paura di rispondere, inerme, travolto dalla potenza di una cascata enorme. E la soluzione era sempre davanti ai suoi occhi. Si mosse. Arricciò il naso infastidita da chissà cosa, poi rabbrividì. Prese quanta più coperta potè e la avvolse tutta frizionandole la schiena con la morbida piuma per eliminare anche il più piccolo spiffero –dormi piccola, dormi-, l’espressione beata ed il naso all’insù, una bambina. Così diversa da ieri..
Lo aveva cacciato all’istante, un pensiero che lo avrebbe portato solamente a qualcosa che non avrebbe potuto avere. Non ora almeno.
Passò alcuni interminabili minuti, forse un’ora così, a bearsi solo di guardarla, poi si era soffermato sul meraviglioso panorama che offriva la finestra rimasta aperta dalla sera prima, e di nuovo era stato costretto a cacciare altri pensieri poco opportuni. Era una piccola ossessione ormai. Ne rise, ormai impotente di fronte a tutto.
Ed era lì che lo aveva visto, con la copertina rossa spiccare carminio e lucido sul comodino. Un quadernino a quadretti animato dalla sua piccola calligrafia regolare e gentile, la penna poco calcata sulla carta per non formare il solco che si sarebbe visto sul retro del foglio e rendere la lettura ancora più facile.
Aveva sorriso di tenerezza ed aveva fatto correre le dita sulla carta in una lenta carezza. Poi gli occhi avevano seguito la loro natura e d’istinto avevano iniziato a trasformare quei segni in parole, in frasi, in concetti.
Cinque, sei sette otto pagine di scritte, appunti, minuscoli segni e cancellature. Tutte sulla catastrofe che gli era piombata addosso da alcuni mesi. Lesse tutto in pochi minuti, divorando parole e notizie, arrossendo di rabbia, impallidendo di sgomento.
Aprì gli occhi si scatto, destata da un rumore secco.
Lo vide davanti a sé con in mano il suo quaderno ed un’espressione indecifrabile. Rabbrividì e si preparò al peggio.
-cos’è questo
Il tono piatto lo conosceva bene, così come conosceva gli occhi ridotti a fessure in quel volto dalle mascelle contratte e pulsanti. Sgranò gli occhi alla vista del suo taccuino degli appunti ai piedi del letto dove Michael lo aveva appena lanciato. Alla facoltà di legge le avevano consigliato di annotare gli elementi ritenuti rilevanti nei vari processi pubblici, così, per iniziare ad assumere un atteggiamento critico ed obiettivo nei confronti dei fatti. Forse si era lasciata prendere un po’ la mano stavolta, visto che questo non era un procedimento legale a caso. C’era di mezzo lui, e voleva in ogni modo conoscere, essere d’aiuto, dimostrare che si trovava al centro di un complotto, era troppo evidente, le faceva male da tanto lo era, ma lo sapeva, quel taccuino non avrebbe mai dovuto finire nelle sue mani. Sarebbe successo esattamente quello che stava succedendo ora.
-rispondimi. Cos’è questo
-il mio quaderno, e tu non avresti dovut..
-ah! Non ti azzardare! Non provarci Natalie! E dimmi che significa quel cazzo di quaderno!
-sono solo prove, elementi a tuo favore e non che ho voluto raccogliere per..
-per cosa? Per giocare all’apprendista avvocato?! E’ ridicolo!
Le voltò le spalle ed immerse entrambe le mani nei capelli. Chiuse gli occhi e cercò un respiro profondo che non arrivò.
-Michael, se mi ascoltassi io..
-e poi che significa “chiamare Bert”? tu conosci Fields? Come fai a conoscere il mio avvocato?
-Michael per favore..
-dovevano essere cinque giorni di pace, riposo e tranquillità. E invece, visto che sei una stupida ragazzina che non capisce che queste sono cose serie che non possono e non devono riguardarti, non lo saranno. Grazie infinite Natalie Sherlock Holmes Goméz.
Chiuse gli occhi quando sentì la porta della stanza sbattere violentemente contro lo stipite. Tutte quelle ore di lavoro a raccogliere materiale. Non avrebbe mai dovuto fargli trovare quel quaderno.
-merda!
(NOTA: tutte le testimonianze e le persone citate nel passaggio riguardante le accuse sono reali ed autentici. Tratto dal libro: "Michael Jackson Dossier" di Ken Paisli.)
parte seconda
2000
Accelerò vistosamente il passo scagliando in qualche modo il cellulare nelle mani di Elliot, che prese a seguirlo senza riuscire però a raggiungere il suo passo per via di un paio di gambette troppo corte.
Al termine del lungo corridoio curvò troppo in fretta ansioso di arrivare a destinazione e non potè evitare una spallata sullo spigolo di cartongesso, senza sentire alcun dolore tuttavia, preda dell’impellente esigenza di chiudersi in quello che era stato temporaneamente allestito come suo camerino. Una stanzetta spoglia dotata del minimo indispensabile.
Ciò che serviva però in quel momento c’era.
Una chiave. La girò due volte nella serratura. Si appoggiò con la schiena sulla porta che da lì a poco sarebbe stata presa d’assalto, lo sapeva, almeno da cinque persone per altrettanti motivi differenti.
Non volle dedicarsi a questo con un pensiero di più però, perché sapeva che presto altri sarebbero arrivati a ricordargli che non possedeva nessun istante del suo tempo.
Ora era prioritario cercare di contenere l’ondata di emozione che gli avrebbe squarciato il petto se non l’avesse fatta defluire dagli occhi. Un groppo alla gola.
Era morta. Miranda, la sua cuoca, la sua adorata Miranda, uno dei pochi pilastri in mezzo a tutto quel casino che era la sua vita, Miranda, il pollo al curry per invogliarlo a mangiare dopo l’intervento, Miranda, una carezza dolcissima sul viso pieno di crema e disinfettante che faceva così male quella notte, Miranda che metteva in riga gli ultimi arrivati, Miranda, quella volta con le venezuelane
–quell’uomo è strano, vede soltanto ragazzini, ma possibile che non abbia una vita normale-
-e invece è normale che tu sia pagata profumatamente e invece di fare il tuo lavoro fai prendere aria a quella boccaccia?
Le metteva a tacere con i suoi modi un po’ bruschi, con quell’inglese dall’irresistibile accento latino, con quelle sue forme morbide e rassicuranti.
-Miranda
-buenas tardes señor Michael!
- Miranda, volevo dirti una cosa. Neverland è quasi pronta..
-exceptional señor Michael!
Lo interrompeva sempre con quel sorriso a trentacinque denti, non riusciva mai a contenere il suo entusiasmo, l’amore per la vita che aveva. Gli si scioglieva il cuore ogni volta a ripensarci. Era contagiosa e nemmeno nei momenti no riusciva a non restituirle un sorriso meraviglioso come un tramonto, travolto dalla valanga di energia che emanavano i suoi occhi allungati.
-si, è bellissimo. Ma la cosa che volevo dirti era un’altra.
Apriva gli occhi fin quasi a spalancarli quando stava attenta. Era così buffa. Doveva cogliere ogni minima sfumatura di quella lingua che non era la sua e che aveva dovuto imparare velocemente appena arrivata in America.
-ho parlato con mia madre e anche per lei va bene. Mi piacerebbe se venissi a Neverland. Farai la cuoca finalmente. Sempre se ti va. La mia cuoca personale. Ovviamente avrete un appartamento tutto per voi, nel ranch. Tu, Paula e Natalie, ovviamente. Spero mi dirai di si.
Ricordava con precisione tutti quegli “ovviamente” che non era riuscito a dosare nel modo giusto a causa dell’emozione con cui le aveva fatto quella richiesta. Di solito delegava gli impiegati dell’ufficio personale per quel genere di cose. Ma ormai Miranda non rappresentava soltanto quello che c’era scritto sulle carte.
Lo aveva abbracciato forte, mentre ancora si torturava le mani per l’imbarazzo. Non sapeva nemmeno lui perchè.
Gli anni lo avevano portato a viaggiare lontano, i tour, i capricci ed i cambiamenti di domicilio temporanei soltanto per respirare aria nuova, per sfuggire a quell’oppressione assordante che aveva iniziato a coglierlo piano piano, non lo avrebbe mai ammesso, ma anche a causa di quell’immensa casa vuota; e lui sapeva sempre che al ritorno ci sarebbe stata lei, e si sentiva sicuro, e si fidava, ed era certo che tutto sarebbe stato gestito nel migliore dei modi.
Poi era successa quella cosa e tutto era cambiato. -No, non ho voglia di ricordarlo ora, non voglio-. Ma gli venne in mente ugualmente. Aveva fatto una scelta difficile, difficilissima, la più difficile forse della sua vita. E Miranda era rimasta al suo fianco lo stesso. Ma era finito il tempo delle chiacchierate, si, era cambiato tutto. Si limitava al suo lavoro, eseguito perfettamente come al solito, ma semplicemente quello. Lo capiva e si innervosiva lo stesso al pensiero di non avere più quell’amicizia particolare con la donna dagli occhi a mandorla.
-cosa te ne frega Mike? E’ solo una cameriera!
-non parlare così Lisa. Per me è molto di più.
Finchè non arrivò quel giorno.-non ho voglia di ricordarlo..non voglio-. Ma non servì perché la memoria arrivò rapida ed affilata come una lama.
-avanti
-buonasera signor Jackson
Non usava più da tempo i suoi spagnolismi adorabili. Ma quel “buonasera” pronunciato perfettamente gli fece male. Ed anche il “signor Jackson”. Non lo aveva mai chiamato così. Mai. E non era riuscito ad evitare il solito atteggiamento che riservava a chi lo metteva da parte. Dopo averla degnata a malapena di uno sguardo le aveva infatti rivolto il tono più freddo ed incolore di cui fosse capace.
-Buonasera Miranda.
-questa è la mia lettera di dimissioni. Tra tre mesi andrò via, come da contratto. Vorrei..
-puoi andare anche domani, se vuoi, non sei obbligata a rispettare nessun termine.
Lo aveva ferito irrimediabilmente e non era riuscito a trattenere la collera.
-bene signore, come desidera.
-no, come desideri tu, Miranda.
-torno a casa, in Porto Rico. Sono stanca señor.
Gli aveva rivolto uno sguardo stanco, anzi no, esausto, come se la vita stesse defluendo lentamente fuori da lei, e poi un ultimo sorriso, quello che deponeva e sotterrava per sempre le armi, il solito sorriso meraviglioso che nemmeno il tempo le aveva sottratto, a fargli sapere che in fondo gli voleva bene, che lo perdonava per quello che aveva fatto, ma che lo abbandonava anche lei, in quella meravigliosa voliera dorata ed impreziosita, sua eterna prigione.
Ed ora in un camerino desolato nel Principato di Monaco tutto riaffiorava con spietata minuziosità di particolari, tutti i colori, tutti i profumi di quegli anni, la nostalgia che tornava a devastarlo lentamente mentre la memoria si beffava di tutti gli anni trascorsi a costruire buche profonde in cui sotterrare i ricordi. Ed il senso di colpa, incessante e velenoso.
Seduto sulla poltroncina da regista si portò le mani alle tempie e tirò su forte con il naso. Si era dimenticato dei suoi bambini per qualche istante, lo riconobbe, a causa del doloroso senso di confusione che ora gli impediva di mettere a fuoco le priorità, le persone.
Sollevò lo sguardo e vide il percorso di una lacrima nera che aveva solcato la sua discesa ancora pregna di mascara dalla palpebra inferiore all’angolo destro della bocca.
La rimosse con la mano aperta.
-pierrot decaduto-
Lo disse al riflesso con sdegno, guardando l’immagine del suo volto estraneo, mentre da fuori diverse nocche avevano preso a picchiettare la porta.
***
1993,verso la fine
Portami lontano (dalle mie lacrime)
Si, andiamo,
Ovunque tu voglia.
Portami lontano dalle mie lacrime.
Portami lontano da questo silenzio.
Sono al bordo della mia strada.
Sono al bordo della mia vita.
Seduto sul marciapiede,
così lontano da me,
da non sentirmi.
Neanche se grido.
Ascolta le mie lacrime,
vorrei avere altro da offrirti,
ma non posso mentirti.
Non a te.
Non posso non darti
Quello che sono ora.
Infelice. Profondamente infelice.
Tu sola,
sai ascoltare questo bimbo
che stringe le sue ginocchia
raggomitolato su se stesso
da solo, al bordo della vita.
By Grazia Longo
Un tramonto surreale lambiva il cielo in ogni direzione, delicata violenza di rosso che si scioglieva nel mare visibile attraverso la rete che separava la pista di atterraggio dalla vegetazione selvaggia poco sottostante.
Gli prese la mano senza guardarlo negli occhi, ma rapita da quel quadro lo condusse con sé verso la macchina scura che li aspettava come previsto pochi metri più in là.
Non ricordava con precisione l’ultima volta che era stata in quei luoghi, erano passati dieci anni, ma il tepore dell’aria e la salsedine che si volle prendere in faccia abbassando tutto il finestrino la riscaldarono dentro come la coperta più calda e profumata che potesse esistere.
L’aveva assediata di domande appena sveglio, quando dal piccolo finestrino del jet si iniziavano a scorgere le deboli intermittenze di una città che viveva il pieno delle sue luci, mentre la luna usciva furtiva e sensuale dalle nubi, ora deboli lucciole nel vuoto a chissà quanti piedi più sotto di loro.
-dove andremo una volta atterrati? Cosa faremo? Lo sai che deve essere tutto organizzato nel dettaglio vero? Lo sai che non posso assolutamente farmi riconoscere o avrò finito di vivere anche questa mini-settimana di vacanza? Ma Bill è al corrente di..
-oddiomichaelbastaaaaaaaaaaa! Ho detto che è tutto programmato, nel minimo particolare, ma se non la pianti apro lo sportello e..
Si era avvicinata di scatto dal sedile di fronte in cui si trovava, con tutta l’intenzione di iniziare uno di quei soliti giochi da maschiaccio, una sorta di lotta greco-romana che poi finiva per forza con uno dei due morto di solletico ad implorare pietà. Ma anche stavolta era stato più veloce di lei, le aveva afferrato i polsi bloccandole qualsiasi possibilità di movimento. Aveva perso l’equilibrio cadendo in avanti, sulle sue ginocchia, dimenandosi come una pazza per i pizzicotti che aveva preso a stamparle sui fianchi, sulle braccia, sulle gambe. E lei aveva risposto al fuoco con un altro proiettile, molto potente, molto più potente di qualsiasi altra cosa. Un bacio che lo prosciugò di ogni pensiero, sogno, istinto, svuotandolo da se stesso e da qualunque altro elemento del mondo.
La guardò ora, sospesa fra il sogno e la veglia, chiudere gli occhi con un mezzo sorriso tatuato addosso da quando l’aereo aveva toccato l’asfalto della pista, sospesa in un mondo fatto di cose e pensieri solo suoi, ai quali nemmeno lui avrebbe mai avuto accesso, lo sapeva. Rimase incantato dal tramonto spettacolare che moriva dietro al parabrezza della Bentley blu notte che li stava portando verso una meta che non conosceva, per la prima volta in vita sua, e per questo fremeva di agitazione in ogni poro. E di incredulità per quello che era accaduto nella sua vita da una settimana e mezza ormai.
Appoggiava i polpastrelli fuori dall’auto per sentire l’aria tiepida insinuarsi fra le dita delle mani e sfruttando la forza di attrito sui palmi le lasciava libere di danzare, tenute vive soltanto dall’aria che le colpiva compatta, a formare serpenti, lamette, fendenti che tagliavano l’inconsistenza dello spazio. La trovò irresistibile con gli occhi semichiusi, assorta chissà dove, lontana da tutto. Non disse nulla, desiderò solamente di vivere e morire appoggiato a lei, nell’immobile eternità delle sue gambe unite e composte, fasciate dalla gonna di jeans che aveva comprato il giorno prima. Anzi no, la notte prima, quando erano usciti alle due per andare al Pluvioso, il più grande centro commerciale di Città del Messico.
-allora, questa?
-mmm
-che vuol dire mmm??? O si o no!
Era uscita dalla tenda azzurra di seta comparendogli come una piccola fata, con la magia negli occhi e la t-shirt con l’arcobaleno annodata sull’addome, per offrirgli la vista della gonna che stava provando fino all’ultimo centimetro. La reazione era stata più che scontata per lui. Avrebbe potuto anche indossare un pannolone geriatrico che con quelle gambe meravigliose non le avrebbe permesso di compiere un passo in più.
-troppo corta direi
Lottò, bisogna dirlo. Sistemandosi sulla poltroncina in panno bianco aveva chiamato a raccolta tutte le sue forze per mantenere salda la lucidità ed apparire distaccato per poter fornire un giudizio più tecnico di qualche indistinto mugolio. Ma lei aveva capito tutto e si era avvicinata. La bocca ormai a pochi centimetri dal’ombelico perfettamente scavato in quel ventre morbido, che aveva anche scoperto caldo ed accogliente da qualche incredibile giorno. Le aveva preso i fianchi rimanendo seduto ed inspirando forte con il naso, chiudendo gli occhi, provando ad immaginare una fine un po’ diversa dall’inevitabile. E lo aveva di nuovo raggirato, perché dopo avergli accarezzato dolcemente i capelli senza gel, lo aveva osservato per un po’ con gli stessi occhi della bambina che ricordava, e poi
-allora la prendo
Per poi sparire di nuovo dietro alla tenda.
E le stava bene da matti quella gonna, accidenti a lei. Gliel’aveva comprata lui, dopo un quasi litigio alla cassa, mentre la commessa lo fissava esterrefatta.
-dalla ad Elliot, penserà a tutto l..
-non se ne parla proprio! Sto facendo shopping e pago io. Se non mi spenno dov’è il piacere della compulsività, scusa?!
E dopo un attimo
-e non guardarmi come fossi un marziano sai!
Risentita si era diretta come ipnotizzata nel reparto dell’intimo, e così lui aveva potuto approfittare di quella distrazione per farle quel piccolo regalo.
-Michael ti avevo detto che non..
-ok ok, questo però è un regalo, e i regali non si possono rifiutare in nessun caso..
Si era avvicinato abbracciandola, per la prima volta davanti ad altre persone, per sussurrarle piano all’orecchio
-la metterai per me?
-Ti avevo detto che l’avrei pagata io Mike..sai che odio quando..
-la metterai Nat?
Lo aveva sentito arrivare dalla base del collo, in un sussurro opaco e rovente, da quelle labbra che le sfioravano la pelle dietro all’orecchio. Si sentì venire meno a quel contatto, e dovette porvi fine prima che fosse troppo tardi.
Gli aveva baciato una guancia cercando di sottrarsi a quel magnete che aveva attirato l’attenzione di altre persone intorno a loro; sguardi morbosi ed inquisitori da ogni angolo, le fecero venire i brividi.
-si, la metterò per te. Grazie
Si era concessa senza toccarlo in una lunga carezza degli occhi che lo avevano attraversato da parte a parte aprendo la fantasia a scenari proibiti. Era stato costretto ad abbassare lo sguardo, scosso dalla visione dell’intreccio dei loro corpi nudi ed ansanti che gli aveva squarciato il cervello in un istante, volo pindarico, messaggero soltanto dell’inizio di una follia mai sperimentata prima.
Desiderò soltanto perdersi, in quei ricordi vecchi e recenti, mentre andava incontro all’ignoto, insieme a lei. Senza avere paura. Si rifugiò appoggiando il capo sulle sue gambe, si sdraiò sul sedile in pelle dell’elegante berlina. Sciolse i capelli perdendo l’elastico che li univa provando a sentirsi libero per un attimo, libero come lei. Gli accarezzava i capelli liberi, gli occhi chiusi, liberi di visioni segrete, le mani grandi e libere anche loro di massaggiarle la coscia, la coscia libera di perdere la sensibilità al tatto a causa delle troppe sensazioni, le sensazioni libere nell’abitacolo in cui si udivano solo i sospiri dell’impazienza, impazienza di arrivare, di scoprire qualcosa di nuovo ed inaspettato, per la prima volta, e di fare l’amore, ancora una volta.
***
-tu sai più di quello che dici
-so quello che c’è da sapere
-no, sai cose che nemmeno immagino, dimmele
-so che hai paura
-è così
-ma non so cosa ti fa più paura
Sapeva che sarebbe andata così, se fossero saliti in camera ed avessero aperto le tende alla luna, sapeva che non avrebbe atteso un momento in più e le avrebbe fatto scivolare tutti i vestiti a terra, senza fretta, con una carezza fra le stoffe e le sue mani che bruciavano.
Quello che non sapeva era quando sarebbe successo. E l’attesa lo aveva trasformato in una belva assetata che incanalava l’energia solo e soltanto in una cosa. Il desiderio di lei.
Dopo un’oretta circa la Bentley si era fermata in un piazzale in cui la forza delle radici delle piante aveva parzialmente divelto l’asfalto che lo ricopriva. Ne era rimasto colpito. Lo aveva preso per mano trascinandolo quasi per attraversarlo nel minor tempo possibile, seguiti da Bill ed altri tre che li precedevano e seguivano senza fare rumore nel buio. Nessun lampione per loro, solo il rumore delle gocce che cadevano da una grondaia in alluminio arrugginito per andare a morire in una pozza piena di loro sorelle.
Calle Pelayo era ancora la stessa stradina buia ed umida che ricordava; nel silenzio tombale della notte solo il rumore delle onde che andavano ad infrangersi sulla scogliera ad una decina di metri da lì. Rimase colpito anche da questo, ma non fece altre domande, consapevole che avrebbe turbato il silenzio sacro che giovava a tutta la situazione. Erano passati da una porticina minuscola ocra e di legno semi marcito per ritrovarsi in un piccolo cortile privato dove ampie balconate con tende bianche svolazzanti li sovrastavano, così come i grandi blocchi di marmo grezzo che rifiniva le pareti. La curiosità lo uccideva ma si impegnò solennemente a non dire una parola, mentre con la coda dell’occhio scorgeva la Natalie più piccola e meravigliosa che avesse mai visto con il viso rigato da mille fiumi.
Gli si strinse il cuore, ma fu rassicurato subito dopo dal suo sorriso e da un piccolo umido bacio a fior di labbra. Era felice, e quando l’emozione è troppa, bè è difficile contenerla tutta, lo sapeva.
Da una delle tende immacolate erano poi usciti due esseri di piccole dimensioni con in mano una candela seguiti da una donna. Man mano che si avvicinava riusciva piano piano a riconoscerne le forme, familiari anche se a lungo dimenticate, i tratti di un viso liscio ed allungato, gli occhi a mandorla, la pelle scura, i capelli castani. Paula.
Si erano abbracciate a lungo e si era sentito un intruso in quel momento così importante che però era durato solo il lasso di tempo necessario a farlo ricredere, perché avevano aperto la stretta inglobando anche lui in un abbraccio che lo riscaldò e spazzò via ogni cosa.
Poche parole, solo la potenza di quegli sguardi che sussurravano in una lingua troppo sottile per le orecchie. Paula aveva due bambini, Raphael e Soledad, erano piccoli e gemelli, era tornata in Porto Rico tre anni prima per cercare il suo unico amore, Luìz, lo aveva trovato e con lui la felicità che tanto le era mancata per tutti quegli anni –anni inutili- li aveva definiti davanti al thè caldo che aveva preparato sul tavolone di pietra e noce. Lui, il suo Luìz, era un uomo alto ed abbronzato, forse il doppio di lui ad occhio e croce, e a quell’affermazione amara le aveva accarezzato il mento –no amor, sono serviti a farti capire l’amore-. Rimase colpito anche da questo, tanta semplice meravigliosa verità. Nessuno gli rivolse domande, nessuno lo trattò come se fosse stato diverso, nessuno sguardo morboso o furtivo, nessuna richiesta, nessun imbarazzo. Paula doveva sicuramente essere al corrente di tutta la situazione e la adorò per tutta quella discrezione.
La stessa che trasparì dal tono gentile con cui li congedò –dovete essere molto stanchi, vero Michael? Anteriormente son en sus habitaciònes..- -di sopra ci sono le nostre stanze- aveva precisato Natalie, colma di gratitudine verso sua sorella che si era sforzata così tanto di parlare l’inglese –perdoname Natalia..- aveva abbassato lo sguardo e lui l’aveva ringraziata con un bacio ed un lungo abbraccio prima di salire la scalinata bianca nelle mani della piccola dea.
-questo…questo mi fa molta paura
Lo disse accarezzandole il seno nudo, ora che era in piedi davanti a lui, ora che le aveva tolto tutto, anche le due forcine che tenevano insieme due piccole ciocche di oscurità, non voleva nulla su di lei perché solo spogliata di tutto poteva essere ammirata nella purezza peccaminosa che sprigionava da quegli occhi. Un sospiro a pieni polmoni, si lasciò slacciare la cintura e poi anche i pantaloni che caddero in un secondo alle caviglie. La amò, la amò tantissimo perché non cercò di sfilargli anche i boxer, sapendo che si sarebbe vergognato troppo, desiderando di scoprirlo dopo, con calma, solo quando il fuoco dentro di loro si fosse trasformato in un incendio irreparabile ed il desiderio avrebbe fatto male.
Lo cullò verso di sé lasciandosi accarezzare piano dalle sue mani grandi e dal vento caldo che entrava dalla finestra, lasciò che i pollici e gli indici strofinassero i capezzoli ora duri come marmo, scuri, sensibilissimi, lasciò che qualcosa di rovente scivolasse da lei come se qualcuno avesse tolto un tappo, lasciò che le gambe tremassero e che la testa girasse, poi raccolse le forze perché era troppo importante
-lo so. Anche a me
-è che sei così bella,così bella che io non resisto..
-nemmeno io
Si guardarono negli occhi ancora una volta e si sentì svuotato da tutto, ancora una volta. La baciò dolcemente, leggero le inumidì le labbra con un tocco della lingua, non voleva essere irruente come era stato le altre volte, ora voleva assaporarla, voleva sentirla, avvertire lei, il suo sapore e la sua essenza, perché era così che aveva deciso di lasciarsi andare, perché era lei, e non lo avrebbe fatto per qualcun altro, perché voleva scoprirsi, fidarsi, affidarsi come aveva fatto lei, piccola rosa nera, rara e profumata di oppio, rosa velenosa, aveva creato in lui la dipendenza più forte di cui fosse mai stato vittima, gli aveva donato la pace, -amore mio, amore- nelle orecchie con la voce bassa, mentre doveva baciare e leccare anche tutto il resto del suo corpo morbido, della sua pelle liscia, doveva inginocchiarsi ed insinuarsi fra quelle pieghe rosate con la lingua, per il piacere, per darle piacere, per sentirla gemere e liquefarsi nella sua bocca, per sentire ancora quel sapore salato e dolce, per vederla perdersi, per godere anche solo di questo e dimenticare, come sempre, tutto quanto.
-Michael..
E sentire quel lamento, e stamparlo nella testa, e sentire male per il desiderio di soddisfare anche se stesso, fino alla fine, fino a sentirla venire con un ultimo gemito, fino a sentire il suo nome scandito per bene, e morire di orgoglio.
-girati per me
Ancora ansimante lo vide rialzarsi e tornare a baciarla per farle sentire un po’ di se, accarezzarle i fianchi, salire sulla linea della vita e guardarla di nuovo con i riccioli lasciati liberi di cadere sulla faccia, scompigliati dalla passione e dalla voglia di mostrarsi per una volta così com’era. Glielo soffiò sulle labbra e le parve di sognare, si sentì sciogliere ed al solo pensiero avvertì il ventre ribollirle profondamente.
Si leccò le labbra mentre la vide eseguire docilmente la richiesta che non aveva trattenuto e che albergava in lui da tempo, la sognava di notte, la voleva, voleva stringerle i fianchi e vedere come sarebbe stato bello strusciarsi e percepire la morbidezza di quel pendio sodo e sporgente che aveva alla fine della schiena, e sentirlo, e strizzarlo. E lo fece.
Entrò in lei dopo averle baciato ed accarezzato a lungo le natiche calde, proprio come aveva desiderato l’altra notte, quando aveva dovuto darsi piacere da solo assillato da quella terribile visione.
Si sentì riempita totalmente ed avvertì il calore di due mani grandi attorno ai fianchi, poi sul collo, sul seno, attorno alla gola, in un percorso quasi convulso che le fece perdere l’orientamento ed il senso del tempo, perché si udivano solo i suoi respiri bassi, gemiti di parole inesistenti nell’incavo fra spalla e collo, baci disperati, sudore. Le sollevò una gamba aiutandola ad appoggiarne il ginocchio sul davanzale della grande finestra aperta sul mare argentato, ed entrò ancora più dentro, lentamente, dolcemente, profondamente, mentre un groppo gli stringeva la base del petto e tratteneva a stento le lacrime, troppo forte, era troppo forte quella sensazione, troppo prepotente la voglia spasmodica di averne ancora, di farla godere ancora, almeno la metà di quello che stava provando lui, almeno la metà, almeno la metà. La coccolò accarezzandole la schiena con le mani aperte, i fianchi, -grazie per avermi dato tutto, grazie-, lo disse piano, poi chiese accesso alle sue labbra costringendola a reclinare un po’ la testa sulla sua spalla, e lo fece, lo desiderava troppo, e allora lo fece, inumidì due dita fra i denti e la lingua e le mise fra le sue gambe.
Aumentò il ritmo e pensò di essere prossima alla fine quando avvertì il suo tocco fra le gambe, il desiderio di stimolarla in ogni punto, il desiderio di amarla fino alla fine, di farla sua. Si aggrappò allo stipite della finestra incapace di trovare un altro punto di appoggio per non svenire quando il piacere la colpì all’improvviso, violento ed irreversibile. Trasformò il gemito che avrebbe voluto lasciare libero di uscire, il giusto lamento per quell’orgasmo così doloroso, in un respiro profondo e rumoroso comunque.
Si contrasse tre volte, si contrasse stringendolo in una piccola morsa che non gli permise di trattenersi. Si sciolse in lei, si sciolse insieme a lei –amore- gli uscì dalle labbra senza permesso, senza passare nemmeno dalla stanza dei pensieri, lo sospirò sulla sua spina dorsale prima di chiuderle gli occhi in un ultimo bacio, lasciandosi andare a tutto, come la piccola barca a vela che lì sotto si lasciava andare al vento, fra il nero dell’acqua e l’argento della luna.
***
Sodio amytal: barbiturico che consente di impiantare falsi ricordi nel soggetto che ne è sotto influenza. Induce uno stato ipnotico quando iniettato per endovena. Utilizzato per il trattamento dell’amnesia viene utilizzato per la prima volta durante la seconda guerra mondiale sui soldati traumatizzati dagli orrori della guerra. Nel ’52 ulteriori ricerche scientifiche descrissero la droga come siero della verità, anche se studi più recenti hanno smentito questa capacità. Recentemente l’affidabilità del farmaco è diventata argomento di vari dibattiti; il Prof. John Yagiela, coordinatore del dip. di anestesia della scuola per dentisti dell’U.C.L.A. dice: “è alquanto insolito che venga utilizzato per estrarre denti. Non ha senso, quando ci sono alternative migliori e più sicure. Io non l’avrei mai fatto”. Potenti effetti collaterali va somministrato solo in ospedale.
Giugno: Evan Chandler e l’anestesista Mark Torbiner somministrano Sodio Amytal a Jordan Chandler per un intervento dentistico. A loro insaputa (?!?!) la sostanza funge da siero della verità che induce Jordan a dichiarare alla domanda di Evan Chandler:
“Michael ti ha mai toccato il pene? Si”
NOTE: ma se non sapevano che fosse un farmaco con così tanti effetti collaterali, fra cui quello di impiantare falsi ricordi, perché gli hanno fatto una simile domanda? Perché non si sono limitati ad eseguire l’estrazione? C’è stata veramente un’estrazione? Prove?
Dottor Kenneth Gottlieb, psichiatra a San Francisco: “non userei mai una droga che altera l’inconscio di una persona, a meno che non sia disponibile alcuna altra sostanza. Non l’avrei usata senza strumentazione per la rianimazione in caso di reazione allergica” .
NOTE: Pare che Chandler non abbia seguito questi consigli però, perché tutto si svolge nel suo studio, con il solo ausilio dell’anestesista Mark Torbiner.
Dottor Mathis Abrams, psichiatra a Beverly Hills: dopo le dichiarazioni di Jordan al padre, l’avvocato di Chandler presenta a detto professionista una casistica puramente ipotetica. Sulla base di questa e senza mai aver parlato personalmente con Jordan Chandler scrive: “ci sono giusti motivi per pensare che ci siano state delle molestie sessuali”.
NOTE: ?!?!?!?
Agosto: Chandler e avvocato formulano la richiesta di risarcimento: 20 milioni di dollari e un contratto per tre film sceneggiati da Chandler. Il team di Michael rifiuta.
23 agosto: il caso Jackson-Chandler è la prima notizia dei telegiornali di sessantatre televisioni nell’area di Los Angeles e sulle prime pagine di tutti i giornali britannici. Carnevale mediatico in piedi. Michael si sente male poco prima del concerto a Bangkok. Stessa cosa il 29 a Singapore.
25 agosto: emesso il mandato di perquisizione di Neverland e Century City. Sotto sequestro libri, riviste, video, documenti, capi d’abbigliamento, foto di Jordan Chandler.
Via al delirio pubblico: i giornalisti in cerca di scoop non verificano più le notizie e gli ex dipendenti di casa Jackson escono con testimonianze shock. Tutti cercano soldi e notorietà. Testimonianze:
1. Stella e Philipppe Lamark, ex governanti: per quindicimila dollari al “the globe” rilasciano la seguente dichiarazione: “entrai dalla porta di servizio dell’Arcadia per portare le frittelle e vidi MJ che stava toccando Macaulay Culkin mentre questo era intento a giocare con un videogame”.
NOTE: Macaulay Culkin nega seccamente. La seconda volta che depongono la mano di Michael si trasferisce da fuori a dentro i pantaloncini. Mah.
2. Mark Quindoy e consorte, ex governanti: “giuro che ho visto MJ toccare un ragazzino fra le gambe mentre questi giocava tranquillamente con un giocattolo”. E ancora: “Michael Jackson è una delle persone più buone che uno può avere la fortuna di incontrare, ma ha una grave malattia”.
NOTE: nello stesso periodo delle rivelazioni i due risultano coinvolti in una causa civile contro Michael per arretrati non pagati Conflitto di interesse.
Il distretto degli avvocati di LA decreta che entrambe le coppie non sono attendibili come testimoni.
3. Blanca Francia, ex cameriera personale: per ventimila dollari ad “Hard Copy” dice di aver visto Michael in posizioni compromettenti con diversi ragazzini coi i quali faceva anche il bagno nella Jacuzzi completamente nudo. Dice che era solito chiamarli rubba (da rubbing up strusciarsi).
NOTE: dopo aver deposto con l’avvocato di Mike ritratta dichiarando di non aver mai visto Michael fare il bagno o la doccia con qualcuno, né tantomeno di averlo visto nudo nella Jacuzzi.
La testimonianza perde totalmente peso.
4. Orietta Murdoch, segretaria alla mjj productions fino al 1991: dice di aver prenotato più volte viaggi e camere d’albergo per molti ragazzini giovani amici del cantante (fra cui anche io!).
NOTE: e quindi?!?!? (nonostante la mia perplessità direi che questa verrà considerata attendibile)
5. Stevens (vigliacco che si nasconde sotto falso nome, si chiama Ed Faidyngher, nota mia), ex autista personale di Mike, intervistato ancora da Diana Dimond di “Hard Copy” dichiara (a telecamere spente e senza firmare dichiarazione alcuna) che Michael aveva un’insana passione per i ragazzini. Li accompagnava da Toys’r’us dove comprava loro tutto quello che volevano e si lanciava in carezze un po’ troppo affettuose, alla fine.
NOTE: sotto giuramento dichiara agli avvocati di Mike di non aver mai assistito a scene inequivocabilmente compromettenti.
6. Ieri, 22 novembre 1993: Morris Williams. Leroy Thomas, Fred Hammond, Aaron White e Donald Starkers, ex guardie del corpo di Mike, dichiarano di essere stati licenziati senza giusta causa, perché venuti a conoscenza di troppi particolari sui rapporti fra Mike e i ragazzini. Varie dichiarazioni a seguire, di cui mi sembra rilevante questa: “quando MJ viveva ancora con la famiglia nella megatenuta di Encino, faceva arrivare i bambini di nascosto (?!?!?) in modo che il resto della famiglia non lo vedesse.”
Impossibile lasciare spazio ad ulteriori note a causa di prevedibili e ripetuti conati di vomito.
Riflessione personale da utilizzare come spunto--> chiamare Bert:
è abbastanza singolare che, tra le numerose persone saltate fuori ad accusare Michael dopo Chandler (che meriterebbe un discorso a parte), nessuna sia stata tanto onesta e di sani principi da denunciarlo alla polizia e che tutti parlino soltanto DOPO aver perso l’impiego. Cioè, qualsiasi individuo con un normale senso della morale, vedendo bambini sedotti da un adulto, interverrebbe in maniera decisa. La paura di perdere il proprio posto di lavoro non può essere sufficiente ad arginare un provvedimento etico-morale, che di per se DOVREBBE ESSERE abbastanza istintivo.
Eppure non lo fa nessuno.
-chiamare Bert?
Lo chiese a se stesso prima di tutto, poi si voltò a guardarla esterrefatto.
Si era svegliato presto come al solito, forse per il canto dei gabbiani che si ammassavano gli uni sugli altri al mercato del pesce che doveva essere poco lontano da lì, e da una brezza frizzante, molto diversa dal vento caldo della notte precedente –o forse si tratta solamente di me- pensò nascondendo un sorriso malizioso allo specchio del bagno in marmo e ferro battuto. Si era messo una camicia e dei pantaloni larghi della tuta –voglio stare comodo- e si era seduto sul letto a guardarla dormire. Era così buffa. Era così sua. L’aveva vista mille volte, avevano dormito vicini in passato, ma mai come quella mattina sentì di possedere il cuore di una persona. Troppe cose da dire forse, ma fra tutte una gli apriva il petto senza sosta ogni volta che gli veniva in mente. Gli aveva dato tutto. Ed avrebbe continuato a farlo fino alla fine, ne era certo, e terrorizzato. Sapeva che tutto quanto stava accadendo era pericoloso per lei, si per lei, non gli importava di soffrire ulteriormente, non voleva però fare del male a lei. –com’è che si dice, quando non ti importa più di te stesso e pensi prima a qualcun altro, al suo benessere, alla sua felicità..come si dice Applehead?- si trovò a chiederlo ad un se stesso muto di fronte alla paura di rispondere, inerme, travolto dalla potenza di una cascata enorme. E la soluzione era sempre davanti ai suoi occhi. Si mosse. Arricciò il naso infastidita da chissà cosa, poi rabbrividì. Prese quanta più coperta potè e la avvolse tutta frizionandole la schiena con la morbida piuma per eliminare anche il più piccolo spiffero –dormi piccola, dormi-, l’espressione beata ed il naso all’insù, una bambina. Così diversa da ieri..
Lo aveva cacciato all’istante, un pensiero che lo avrebbe portato solamente a qualcosa che non avrebbe potuto avere. Non ora almeno.
Passò alcuni interminabili minuti, forse un’ora così, a bearsi solo di guardarla, poi si era soffermato sul meraviglioso panorama che offriva la finestra rimasta aperta dalla sera prima, e di nuovo era stato costretto a cacciare altri pensieri poco opportuni. Era una piccola ossessione ormai. Ne rise, ormai impotente di fronte a tutto.
Ed era lì che lo aveva visto, con la copertina rossa spiccare carminio e lucido sul comodino. Un quadernino a quadretti animato dalla sua piccola calligrafia regolare e gentile, la penna poco calcata sulla carta per non formare il solco che si sarebbe visto sul retro del foglio e rendere la lettura ancora più facile.
Aveva sorriso di tenerezza ed aveva fatto correre le dita sulla carta in una lenta carezza. Poi gli occhi avevano seguito la loro natura e d’istinto avevano iniziato a trasformare quei segni in parole, in frasi, in concetti.
Cinque, sei sette otto pagine di scritte, appunti, minuscoli segni e cancellature. Tutte sulla catastrofe che gli era piombata addosso da alcuni mesi. Lesse tutto in pochi minuti, divorando parole e notizie, arrossendo di rabbia, impallidendo di sgomento.
Aprì gli occhi si scatto, destata da un rumore secco.
Lo vide davanti a sé con in mano il suo quaderno ed un’espressione indecifrabile. Rabbrividì e si preparò al peggio.
-cos’è questo
Il tono piatto lo conosceva bene, così come conosceva gli occhi ridotti a fessure in quel volto dalle mascelle contratte e pulsanti. Sgranò gli occhi alla vista del suo taccuino degli appunti ai piedi del letto dove Michael lo aveva appena lanciato. Alla facoltà di legge le avevano consigliato di annotare gli elementi ritenuti rilevanti nei vari processi pubblici, così, per iniziare ad assumere un atteggiamento critico ed obiettivo nei confronti dei fatti. Forse si era lasciata prendere un po’ la mano stavolta, visto che questo non era un procedimento legale a caso. C’era di mezzo lui, e voleva in ogni modo conoscere, essere d’aiuto, dimostrare che si trovava al centro di un complotto, era troppo evidente, le faceva male da tanto lo era, ma lo sapeva, quel taccuino non avrebbe mai dovuto finire nelle sue mani. Sarebbe successo esattamente quello che stava succedendo ora.
-rispondimi. Cos’è questo
-il mio quaderno, e tu non avresti dovut..
-ah! Non ti azzardare! Non provarci Natalie! E dimmi che significa quel cazzo di quaderno!
-sono solo prove, elementi a tuo favore e non che ho voluto raccogliere per..
-per cosa? Per giocare all’apprendista avvocato?! E’ ridicolo!
Le voltò le spalle ed immerse entrambe le mani nei capelli. Chiuse gli occhi e cercò un respiro profondo che non arrivò.
-Michael, se mi ascoltassi io..
-e poi che significa “chiamare Bert”? tu conosci Fields? Come fai a conoscere il mio avvocato?
-Michael per favore..
-dovevano essere cinque giorni di pace, riposo e tranquillità. E invece, visto che sei una stupida ragazzina che non capisce che queste sono cose serie che non possono e non devono riguardarti, non lo saranno. Grazie infinite Natalie Sherlock Holmes Goméz.
Chiuse gli occhi quando sentì la porta della stanza sbattere violentemente contro lo stipite. Tutte quelle ore di lavoro a raccogliere materiale. Non avrebbe mai dovuto fargli trovare quel quaderno.
-merda!
(NOTA: tutte le testimonianze e le persone citate nel passaggio riguardante le accuse sono reali ed autentici. Tratto dal libro: "Michael Jackson Dossier" di Ken Paisli.)
marina56- Moderator
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Re: Don't call my name
Capitolo settimo
Parte prima
1993
-non posso uscire adesso dannazione
Lo aveva rincorso, o almeno ci aveva provato, giù dalle scale bianche di marmo, i piedi nudi sulla superficie gelida e liscia. Non ci era riuscita, lui era sparito, ed un senso di nausea l’aveva colta al pensiero che fosse uscito dal portoncino principale, ultima barriera prima della strada –a quest’ora c’è il mercato, è pieno di gente là fuori- un brivido. Non riuscì a sentire freddo però, anche se la paura non svanì del tutto nel ritrovarlo seduto su una delle cinque sedie che circondavano un tavolino in marmo e ferro battuto poco distante dal grande tombino raffigurante l’Escudo.
-lo so
Ammise consapevole quanto lui, mentre un mocassino nero picchiettava ad intervalli regolari sul bronzo intagliato con lo stemma del Porto Rico, l’Escudo appunto. La camicia rosso scuro svolazzava fuori dai pantaloni larghi della tuta, lo sguardo perso, il tono piatto e rassegnato di chi, pur avendo sentito una presenza alle spalle, non sente la necessità di voltarsi.
-non so nemmeno dove potrei andare, e mi sento un idiota, onestamente. Per tutto
Non poteva uscire da lì nemmeno per fare due passi, per stare lontano da tutti, per arrabbiarsi in santa pace. E camminare.
-scusami Michael. Io non avrei mai voluto..
-cosa..dimmi cosa!
Se non altro aveva sollevato la testa. Occhi Negli occhi. E la scintilla di pacata disperazione di un animale in gabbia.
-non avrei assolutamente dovuto farti trovare quel quaderno
-Natalie, non avresti dovuto interessarti all’intera questione, non è un gioco questo! non lo è!
Si alzò per dirlo, abbandonando anche l’ultima imposizione di calma che si era auto inflitto.
-lo so benissimo che non è un gioco. Voglio aiutarti.
Lo disse con gli occhi limpidi di chi possiede una verità ovvia, di quelle che non si possono non vedere. E lo fece sentire così stupido, così..
-incapace- Esattamente così, mi fece sentire. Incapace. Incapace di rapportarmi a quello che sentivo, incapace di gestire non i problemi, non le altre persone, quello può anche succedere, ma me stesso. La rabbia e la frustrazione parlarono per me. E lo sgomento anche.
-tu?!?
Per la seconda volta mise le mani nei capelli chiudendole a coppa ed intrecciandole alla base della nuca.
-si, io! Ci sono delle cose che non vanno, ed io voglio fare chiarezza, voglio scoprire che diavolo sta succedendo, voglio capire Michael. Lo so, è doloroso, ma io voglio capire. Ed è quello che farò. Capire.
Lei voleva capire mentre io volevo solamente arrendermi a quel fiume marcio che mi voleva inghiottire. E lo sapeva, e me lo diceva lo stesso però, lei parlava e denunciava e parlava e si prodigava con la passione che le faceva tremare la voce. Voglio dire, senza nessun incoraggiamento, senza sapere quale sarebbe stata la mia reazione, senza sapere nulla. Lei si tuffava nel vuoto così, mentre io mi arrendevo al mio male senza sentire ragioni.
-così non mi aiuti Nat, io non ho bisogno di questo..io..
-ah e di cosa avresti bisogno nell’ordine? Fammi pensare, di una bottiglia da scolarti? di un antidolorifico? di una geisha? Bè sai che ti dico? Non sarò nessuna di queste tre cose!
“Moloch horridus” o diavolo spinoso. Una di quelle lucertole che vivono solo nelle zone più aride dell’Australia. Le spine, bè quelle hanno la loro funzione protettiva, e.. e le sue vennero fuori tutte in una volta, nel modo in cui pronunciò quelle parole, in cui inclinò il capo, in cui mise le mani sui fianchi, in cui fece un passo e mi fu così attaccata al naso che per un attimo non temetti per esso. Persi il controllo, è vero, della mia voce e di tutto il corpo, al solito. Farneticai.
-ma cosa dici? Cosa puoi sapere tu se nemmeno io so niente. Come puoi immaginare..
-Ti conosco-
Mi interruppe con un sussurro così fermo e deciso che sembrò un urlo a pieni polmoni. Si avvicinò di alcuni passi fino a posare l’indice sulla mia bocca per cucirla, per non permettermi di dire altro, per costringermi ad ascoltare le sue parole. Era così vicina..Dio, così vicina..potevo sentire il respiro nascerle e morirle dai battiti al solo contatto fra il suo dito indice e le mie labbra. Il senso di vertigine mi attraversa anche ora. Ancora.
-Non devi essere nulla con me, solo quello che sei quando sei tu
Silenzio e pace, dopo la confusione. Lottai per impedire all’emozione di trasformarsi in qualcosa che non sarei riuscito a gestire. Un condannato a morte, che non sa di cosa morirà, senza appigli né conforto, un peccatore. Perché vuoi redimermi tu?
-Non dovrai attraversare questo da solo
Arrossì nel dirlo. Se l’era giurato. Non-dirgli-quello-che-provi. E’ così difficile? Mai-cercare-sicurezza-da-lui, mai-essere-vulnerabile-con-lui.
Fu tutto inutile, perché anche dopo essersi ripetuta mille volte quelle frasi loro erano uscite lo stesso allo scoperto generando un colpevole senso di smarrimento in lei e due occhi sbarrati in lui, che non riuscì nemmeno ad articolare una sillaba.
-io..tu..n..
Se non alzo un po’ la cresta qui sputtano tutto. Devo riprendermi.
In un moto di autoconservazione alle stelle tirò fuori la voce più risoluta possibile, inarcò le sopracciglia, gesticolò enfaticamente, fece finta di niente. Ci provò.
-..non avrei dovuto lasciare che trovassi quegli appunti, ma non era certo mia intenzione ferirti! Cazzo Mike sembra che ci siamo conosciuti ieri. Ed ogni volta che non sei tu a dirigere la macchina è così. Ti arrabbi, scappi dentro al tuo ego spropositato, scusa se te lo dico, e ti nascondi dietro a delle inutili questioni di principio per..per.. ah! Mi sono rotta!
-N-natalie torna imm..
-si, esatto, mi sono rotta e adesso se non ti dispiace vado a godermi questi giorni di pace e di ricordi! Eh si, non sei l’unico a dover sistemare dei cocci rotti. Tu fai come vuoi.
***
2000
E la volevo, la volevo da impazzire anche quando mi diceva cose che non avevo voglia di sentire. La volevo e non riuscivo a controllarlo. Solo Dio può sapere quante volte ho ricevuto un insulto, uno spintone, una cinghiata, per non aver fatto bene qualcosa. In quel momento però mi sentii nudo e colpevole davanti a lei, con quella vita sottile, la voglia di combattere per me. La voglia di combattere per me. Dio. La voglia di combattere per me. Mi innervosii, oh se mi innervosii. Ricordo con precisione il vuoto mentale mentre cercavo di trovare una risposta a tono, o una risposta e basta. Pensai per diversi istanti a come potermi vendicare per quell’affronto, per me aveva sempre funzionato in quel modo, finchè un senso di debolezza mentale, una specie di stanchezza ai muscoli, incredibile, non arrivò a dirmi che forse se non mi venivano le parole era perché dovevo tacere. Dovevo tacere perché quella era la verità, e di fronte alla verità nemmeno il mio ego spropositato, come diceva Lei, avrebbe avuto la meglio. La chiamavo ragazzina per farla innervosire ma lei non si innervosiva mai, lei era sempre preparata a ricevere la verità. E tutte queste banalissime questioni anagrafiche sono lì, appoggiate come tovaglie vecchie e rosicchiate dalle tarme in un baule, a lasciare il tempo che trovano, perché non possono spiegare quello che era veramente, quello che riusciva a muovermi dentro. Mi arrabbiavo tanto senza capire che ero invidioso della sua saggezza, della sua sensibilità, non la volevo accettare e mi arrabbiavo, mi arrabbiavo come un matto. Non volevo essere così trasparente agli occhi degli altri e Lei destabilizzava tutto solo guardando verso di me.
Si sentì meglio, gli occhi nel riflesso mostrato dallo specchio. Si sentì anche instabile, ma era riuscito in qualche modo ad esorcizzare la portata di un dolore che aveva dentro da sette anni. Erano successe tante cose belle, altrettante brutte, ma né le une né le altre erano riuscite ad offuscare quel peso nel petto, a farlo passare in secondo piano, a farlo sembrare stupido. Il peso c’era sempre.
-MJ..
-Michael, apri, abbiamo cinque minuti per uscire di qui, il van è di sotto, dobbiamo sbrigarci!
-Michael? Ci dai un segno di vita?
-ma che è successo?
-non lo so
-perché si è chiuso là dentro?
-Michael, brutte notizie al telefono?
-ma chi è che l’ha chiamato?
-sua madre, penso. Non vorrei fosse successo qualcosa..
-Mich..
-sono pronto.
Aprì di scatto la porta e per poco Elliot e Travis non gli caddero ai piedi, appoggiati com’erano allo stipite.
-è più di un’ora che sei chiuso lì dentro, scusa Mike, ma che è successo?
-..niente. Niente. Sbrighiamoci, sono a pezzi.
Si guardarono con espressione interrogativa, quindi si affrettarono con passo svelto dietro di lui. Come sempre.
***
1993
L’acqua le scivolava sulla pelle, le gocce brillavano come mille diamanti al sole del tramonto, il vento soffiava portando con sé il pesce pescato quel mattino sul molo e lui la guardava da dietro il muretto con espressione colpevole e contemplativa. Dov’era quella spiaggia il giorno prima? Non l’aveva vista, eppure era bella grande. Era anche privata, a quanto sembrava, con un fitto steccato di legno verniciato di bianco che delimitava un’area di circa duecento metri. Dall’altra parte solo l’imponente scogliera di roccia tagliente a picco sul mare. Quell’ingresso all’acqua era soffice e gentile, invece, e a quanto sembrava Pauline aveva voluto tenerlo solo per se e la sua famiglia. Donne determinate, quelle.
Chissà quanto può costare un pezzo di spiaggia di queste dimensioni.
Si mandò al diavolo per la sesta volta nel sorprendersi a pensare a futilità anziché al suo problema fondamentale, che in quel preciso istante era sparito fra un’onda e la successiva. Con una mano davanti agli occhi per proteggersi dal sole diretto aguzzò lo sguardo facendo qualche passo verso il bagnasciuga e non la vide.
Un altro passo e non la vidi. Sentivo il cuore pulsare sapendo che non avrei potuto fare un accidente lo stesso. La chiamai, almeno quello.
-ti sei deciso a scendere, finalmente, Mr Turkey!
Con un sobbalzo si voltò, cercando i suoi occhi, attonito.
-non dirmi che ti ho spaventato eh, o forse si..- disse avvicinandosi fradicia alla camicia rossa che a contatto con le mille gocce colanti dalla sua pelle ambrata divenne molto più scura –ehi!..
Non appena mi fu a meno di un metro di distanza la bloccai, anzi la afferrai come si afferra qualcosa al volo, forse un po’ troppo violentemente.
Le immobilizzò le braccia stringendola forte a sé, al suo petto, così piccola, così piccola che a malapena le sfiorava le ciocche corvine con il mento.
-ehi!
-dove sei stata tutto il giorno, ragazzina
Fu un sussurro fra il collo e l’orecchio, un tocco delicato di due grandi mani che si intrecciarono dietro alla sua schiena senza allentare la stretta, pallido tentativo di nascondere la bramosa necessità di averla addosso dopo tutte quelle ore senza. Natalie non tentò nemmeno di divincolarsi.
-e tu?
-in giro
-hai visitato San Juàn?
-un po’
-e ti è piaciuto quello che hai visto?
-mmh-mmh
-cos’hai visto?
-mmm
-cosa c’è Mr Turkey
-niente
-dimmelo
-non mi hai detto cosa hai fatto tu
-niente di che, sono andata a fare una passeggiata con Paulina, Raphy e Sole..lo sai che conoscono smooth criminal? E’ pazzesco Mike, hanno solamente tre anni e mezzo! Io lo trovo incredibile..
Sollevò gli occhi senza celare la timida trepidazione per quella vicinanza così stretta, intimo corridoio per le parole che le uscivano dalle labbra per terminare esattamente nei respiri di lui. No, non era abituata ad uno sguardo così insistente su di sé.
-cosa c’è adesso?!
-dammi un bacio
-ora?
-immediatamente
-va bene, allora chiudi gli occhi
-no
-che bacio è se non chiudiamo gli occhi?!
-voglio guardarti
-bè ma..
-dammi un bacio, Natalie
***
2000
Assurdamente viziato, assurdamente solo, terribilmente lontano dall’essere me stesso e dalla pace che tanto desideravo. Ed è quello che meno riesco a sopportare anche oggi, guarda caso. Non sono mai riuscito a dirle “scusami, ferirti era l’ultima cosa che volevo”. Non ci sono riuscito perché quando avrei potuto farlo il mio orgoglio non me lo ha consentito, e quando avrei voluto farlo con tutto me stesso il nostro tempo era ormai scaduto. Il mio tempo è ormai scaduto. Io sono ormai scaduto. Quale persona sana di mente e con un minimo istinto di autoconservazione vorrebbe stare qui ad ascoltarmi. Nessuna, lo so. Chi, in quale sistema numerico, in quale universo vorrebbe rispondermi “si, ti perdono, anche se mi hai strappato il cuore dal petto e lo hai gettato nel fango, ti perdono perché sei tu, so che non volevi, che era una situazione di assoluta confusione, che ti eri perso, che non sapevi più cosa fare, che lei era vicina in quel momento e..” oddio basta! Basta, è una vera tortura questa, dannazione. Perché mai dovrebbe aver voglia di pronunciare anche solo un vaffanculo indirizzato a me! Perché continuo a pensarci, l’avevo seppellita, perché ritorna e fa più male di quando l’avevo chiusa fuori dalla testa. Ero così, non posso negarlo, non posso non riconoscerlo. Un trentaquattrenne con il cervello di un tredicenne e gli istinti di un ventenne. Non pensavo, pensavo troppo, pensavo sempre e solo a me stesso, ed il solo fatto che qualcos’altro mi avesse imprigionato le emozioni mi faceva sentire spaesato, confuso, eccitato, spaventato. Ed ho sbagliato.
***
1993
-dai, sbrigati!
-a fare cosa?!
-buttati! No! Anzi, prima spogliati, non vorrai entrare così!
-non ci penso nemmeno!
-Michael..
-tzz-tzz
-a che è servito allora arrivare fino a lì?
-a guardare te che affoghi, schiappa
-come come come come, scusa? Chi sarebbe la schiappa?!
-una ragazzina molto capricciosa di nome Natalie!
Rise forte dopo aver constatato che le sue provocazioni avevano fatto centro, si era incupita tutto d’un colpo, no, non le piaceva affatto essere chiamata in quel modo. Si innervosì istantaneamente, detestava quella risata altisonante e piena di scherno che faceva quando voleva darsi delle arie –vuoi fare il figo eh? Bene, allora giochiamo Mr Turkey- lo pensò e basta, ormai scomparsa fra un flutto e l’altro nell’acqua bassa e bollente del mare.
-ovviamente, visto che sei prevedibile come pochi, ora arriverai proprio sotto alla roccia per schizzarmi, non è vero schiappa?
Rise ancora, mettendosi le mani sui fianchi in attesa di ciò che gli sembrò assolutamente scontato. Nessun rumore però, solo il vento che batteva violento sugli scogli modellandoli, concedendo una piccola tregua dal feroce calore dei raggi ormai rossastri del tramonto.
-schiappa? Ok, dai, ora puoi schizzarmi, così sei contenta..dai, sono qui, vicino al bordo..
La voce gli era uscita un po’ meno squillante e canzonatoria, era troppo occupato ad ascoltare anche il più sottile rumore, per quello che era possibile sentire con quel vento. Dannato vento, non riusciva a sentire quasi il suono della sua voce.
-Nat?!
Lo ripetè diverse volte, il tono sempre più alto per cercare di sovrastare il fischio sinistro del vento. Si, quando la paura ti sale lungo la schiena in un percorso inverso rispetto a quello delle gocce di sudore che scendono sulla spina dorsale in attesa di morire nella cinta dei pantaloni, in quel momento, in quel preciso momento, tutto ti sembra grottesco, sinistro e surreale, tutto è fuori posto finchè non ricompare qualcosa di rassicurante in un deserto blu ed increspato, finchè la sua testa non appare a dirti che sta ancora respirando, finchè…
-Natalie! Non è divertente, non è affatto divertente! Quindi esci! Ok, hai vinto, dichiaro ufficialmente finito il gioco, esci ora!
Più urlava più gli sembrava inutile. Sapeva che quella massa di acqua marina in movimento avrebbe potuto trascinarla via nel tempo necessario a battere le ciglia, e mentre il capogiro e l’angoscia si erano ormai impossessati della sua razionalità non la vedeva riemergere.
Prese una decisione e saltò.
-quindi ti sei dovuto buttare, alla fine, Mr Turkey..
Sorrideva divertita mentre l’acqua sul corpo scivolava verso il suolo, preda della gravità a formare una pozza irregolare sulla bianca roccia liscia e tiepida. Posava le mani sui fianchi, Giunone, illuminata dal sole, i polpastrelli increspati per le troppe ore trascorse in acqua, il fisico asciutto di una donna ancora bambina, i capezzoli duri attraverso la tela del bikini. Si voltò dopo alcuni angoscianti minuti in cui l’aveva cercata sottacqua, dietro alle rocce, la camicia rossa e i mocassini ancora ai piedi, stava per impazzire. Un sospiro di sollievo gli solcò le labbra ed un gemito alla vista di lei che lo osservava divertita dalla esatta posizione in cui pochi minuti prima la scherniva lui.
-che cazzo di scherzo è questo, eh?
Tornò alla roccia in qualche bracciata e vi si issò facilmente fino a che non se lo ritrovò a pochi centimetri dal naso. Non era frequente sentirlo imprecare, poteva succedere ma non era sua abitudine. E nemmeno lo sguardo torvo che aveva compariva molto spesso.
-ehi, ehi..calm..
-smettila, non guardarmi così e soprattutto non toccarmi! Mi hai fatto prendere un colpo Natalie!
-Michael, stavamo solo giocando
-si, fino a quando ti ho chiesto di smettere, che non era divertente!
-ho solo fatto il giro degli scogli e sono risalita dall’altra parte, conosco questo luogo come le mie tasche Mike, ci sono cresciuta!
-mi hai fatto prendere una paralisi!
Aveva lo sguardo smarrito e non fui in grado di resistere, quegli occhi a metà fra il deluso e l’arrabbiato, fradicio come un pulcino, i vestiti che colavano. Non riuscii ad aspettare un momento di più. Gli presi il viso nelle mani e lo baciai leggera sulle labbra. Dio se solo qualcuno potesse immaginare quello che provavo, quella sensazione di malessere fisico, come se stesse per arrivare un conato, ed il cuore che esplodeva nel petto, e le gambe molli e la fatica a deglutire, Dio quanto sollievo sarebbe il condividere questo stato d’animo. Ma no, finchè non ci sei non puoi sapere, non puoi capire quanto stavo male io, malata di lui, di un amore che non sogna e che non vive, di un amore nascosto e destinato a morire prima di nascere. Ma così potente da non lasciare alcuna scelta.
Consapevole di aver avuto l’ennesima reazione spropositata la lasciò fare, si lasciò prendere, permise alla sua lingua di fare capolino dalle labbra e divorarlo da dentro, lentamente, velocemente, voracemente. Ripose a quel bacio pazzo di disperazione, senza consapevolezza, pieno solo di dolore. E di lei.
-togliti..toglila
Non gli do nemmeno il tempo di respirare, perché la fine è vicina, perché sto per impazzire, mi solleva, come sempre, gli allaccio le gambe intorno alla vita, gli indico una conca formata solo da una roccia e dal vento, al riparo da tutto dove possa amarmi ancora una volta, partono due bottoni, chissene frega, strappa quelli che rimangono e rimane con uno straccio scuro e bagnato sulle spalle, mi appoggia alla roccia calda ma io non la sento perché sono molto più calda, più bollente, sto per scoppiare, devo averlo, deve avermi, perché l’unico modo che conosco per essere è essere sua, solo sua. Ancora.
-Michael..
Lo imploro, si sbottona i pantaloni, slaccio il filo che tiene unito il fazzoletto blu del pezzo sopra del costume, lo lancia lontano, le tocca, prima una e poi l’altra, la bacia, succhia, un gemito basso, di gola, come non sono mai stata abituata a sentire dalle sue labbra, scende, toglie tutto quello che resta, toglie la camicia, ormai è in ginocchio, altri bottoni volano in aria, rimabalzano sul granito bianco e si tuffano per sempre in mare, i polsini sono andati, ti amo, lo vorrei dire, lo sento ma fa troppo male, ti amo, lo guardo e lo sa, mi guarda qui adagiata, il bianco sotto al corpo scuro che sembra ancora più scuro, sospira e mi guarda mentre affogo respirando aria, mentre lo chiamo, mi guarda e passa una mano vitrea sul collo e poi scende, scende, scende verso il basso, verso il mio abisso, bacia, lecca e succhia tutto il mio amore dalle mie gambe divaricate e gocciolanti di necessità, è cattivo e lo sa, è disperato e si libera di tutto, di tutto quello che ci separa, il sole è basso, si è appoggiato sulla linea dell’orizzonte, e quando il primo spicchio inizia a sciogliersi nell’immensità del blu lui è dentro di me in un tuffo violento che nemmeno tutta la mia fame, tutta la mia sete di lui riescono ad attutire.
-oh..
Nell’orecchio, mi bacia il collo ed inizia così a separarci per poi riunirci subito dopo, e geme così forte, e sospira così profondamente
-mia, solo mia, mia per sempre..oh..
Si inginocchia al suo amore, se è amore, se è almeno la metà di quello che sento io, si inginocchia e prega sul mio ventre, si inginocchia e mi solleva le gambe per precisare alcune cose, mi ha presa ma deve sottoscriverlo con un ritmo violento, sanguinoso come questo amore ingiusto, innaturale e al limite della realtà, mi afferra la vita e grida, stringe ed affonda le dita e se stesso nella mia carne, le rocce amplificano, il sole è nell’acqua per metà mentre ebbra e morta dentro colgo la scintilla di quell’istante che è solo un culmine. Orgasmo. E felicità.
Forse.
Parte prima
1993
-non posso uscire adesso dannazione
Lo aveva rincorso, o almeno ci aveva provato, giù dalle scale bianche di marmo, i piedi nudi sulla superficie gelida e liscia. Non ci era riuscita, lui era sparito, ed un senso di nausea l’aveva colta al pensiero che fosse uscito dal portoncino principale, ultima barriera prima della strada –a quest’ora c’è il mercato, è pieno di gente là fuori- un brivido. Non riuscì a sentire freddo però, anche se la paura non svanì del tutto nel ritrovarlo seduto su una delle cinque sedie che circondavano un tavolino in marmo e ferro battuto poco distante dal grande tombino raffigurante l’Escudo.
-lo so
Ammise consapevole quanto lui, mentre un mocassino nero picchiettava ad intervalli regolari sul bronzo intagliato con lo stemma del Porto Rico, l’Escudo appunto. La camicia rosso scuro svolazzava fuori dai pantaloni larghi della tuta, lo sguardo perso, il tono piatto e rassegnato di chi, pur avendo sentito una presenza alle spalle, non sente la necessità di voltarsi.
-non so nemmeno dove potrei andare, e mi sento un idiota, onestamente. Per tutto
Non poteva uscire da lì nemmeno per fare due passi, per stare lontano da tutti, per arrabbiarsi in santa pace. E camminare.
-scusami Michael. Io non avrei mai voluto..
-cosa..dimmi cosa!
Se non altro aveva sollevato la testa. Occhi Negli occhi. E la scintilla di pacata disperazione di un animale in gabbia.
-non avrei assolutamente dovuto farti trovare quel quaderno
-Natalie, non avresti dovuto interessarti all’intera questione, non è un gioco questo! non lo è!
Si alzò per dirlo, abbandonando anche l’ultima imposizione di calma che si era auto inflitto.
-lo so benissimo che non è un gioco. Voglio aiutarti.
Lo disse con gli occhi limpidi di chi possiede una verità ovvia, di quelle che non si possono non vedere. E lo fece sentire così stupido, così..
-incapace- Esattamente così, mi fece sentire. Incapace. Incapace di rapportarmi a quello che sentivo, incapace di gestire non i problemi, non le altre persone, quello può anche succedere, ma me stesso. La rabbia e la frustrazione parlarono per me. E lo sgomento anche.
-tu?!?
Per la seconda volta mise le mani nei capelli chiudendole a coppa ed intrecciandole alla base della nuca.
-si, io! Ci sono delle cose che non vanno, ed io voglio fare chiarezza, voglio scoprire che diavolo sta succedendo, voglio capire Michael. Lo so, è doloroso, ma io voglio capire. Ed è quello che farò. Capire.
Lei voleva capire mentre io volevo solamente arrendermi a quel fiume marcio che mi voleva inghiottire. E lo sapeva, e me lo diceva lo stesso però, lei parlava e denunciava e parlava e si prodigava con la passione che le faceva tremare la voce. Voglio dire, senza nessun incoraggiamento, senza sapere quale sarebbe stata la mia reazione, senza sapere nulla. Lei si tuffava nel vuoto così, mentre io mi arrendevo al mio male senza sentire ragioni.
-così non mi aiuti Nat, io non ho bisogno di questo..io..
-ah e di cosa avresti bisogno nell’ordine? Fammi pensare, di una bottiglia da scolarti? di un antidolorifico? di una geisha? Bè sai che ti dico? Non sarò nessuna di queste tre cose!
“Moloch horridus” o diavolo spinoso. Una di quelle lucertole che vivono solo nelle zone più aride dell’Australia. Le spine, bè quelle hanno la loro funzione protettiva, e.. e le sue vennero fuori tutte in una volta, nel modo in cui pronunciò quelle parole, in cui inclinò il capo, in cui mise le mani sui fianchi, in cui fece un passo e mi fu così attaccata al naso che per un attimo non temetti per esso. Persi il controllo, è vero, della mia voce e di tutto il corpo, al solito. Farneticai.
-ma cosa dici? Cosa puoi sapere tu se nemmeno io so niente. Come puoi immaginare..
-Ti conosco-
Mi interruppe con un sussurro così fermo e deciso che sembrò un urlo a pieni polmoni. Si avvicinò di alcuni passi fino a posare l’indice sulla mia bocca per cucirla, per non permettermi di dire altro, per costringermi ad ascoltare le sue parole. Era così vicina..Dio, così vicina..potevo sentire il respiro nascerle e morirle dai battiti al solo contatto fra il suo dito indice e le mie labbra. Il senso di vertigine mi attraversa anche ora. Ancora.
-Non devi essere nulla con me, solo quello che sei quando sei tu
Silenzio e pace, dopo la confusione. Lottai per impedire all’emozione di trasformarsi in qualcosa che non sarei riuscito a gestire. Un condannato a morte, che non sa di cosa morirà, senza appigli né conforto, un peccatore. Perché vuoi redimermi tu?
-Non dovrai attraversare questo da solo
Arrossì nel dirlo. Se l’era giurato. Non-dirgli-quello-che-provi. E’ così difficile? Mai-cercare-sicurezza-da-lui, mai-essere-vulnerabile-con-lui.
Fu tutto inutile, perché anche dopo essersi ripetuta mille volte quelle frasi loro erano uscite lo stesso allo scoperto generando un colpevole senso di smarrimento in lei e due occhi sbarrati in lui, che non riuscì nemmeno ad articolare una sillaba.
-io..tu..n..
Se non alzo un po’ la cresta qui sputtano tutto. Devo riprendermi.
In un moto di autoconservazione alle stelle tirò fuori la voce più risoluta possibile, inarcò le sopracciglia, gesticolò enfaticamente, fece finta di niente. Ci provò.
-..non avrei dovuto lasciare che trovassi quegli appunti, ma non era certo mia intenzione ferirti! Cazzo Mike sembra che ci siamo conosciuti ieri. Ed ogni volta che non sei tu a dirigere la macchina è così. Ti arrabbi, scappi dentro al tuo ego spropositato, scusa se te lo dico, e ti nascondi dietro a delle inutili questioni di principio per..per.. ah! Mi sono rotta!
-N-natalie torna imm..
-si, esatto, mi sono rotta e adesso se non ti dispiace vado a godermi questi giorni di pace e di ricordi! Eh si, non sei l’unico a dover sistemare dei cocci rotti. Tu fai come vuoi.
***
2000
E la volevo, la volevo da impazzire anche quando mi diceva cose che non avevo voglia di sentire. La volevo e non riuscivo a controllarlo. Solo Dio può sapere quante volte ho ricevuto un insulto, uno spintone, una cinghiata, per non aver fatto bene qualcosa. In quel momento però mi sentii nudo e colpevole davanti a lei, con quella vita sottile, la voglia di combattere per me. La voglia di combattere per me. Dio. La voglia di combattere per me. Mi innervosii, oh se mi innervosii. Ricordo con precisione il vuoto mentale mentre cercavo di trovare una risposta a tono, o una risposta e basta. Pensai per diversi istanti a come potermi vendicare per quell’affronto, per me aveva sempre funzionato in quel modo, finchè un senso di debolezza mentale, una specie di stanchezza ai muscoli, incredibile, non arrivò a dirmi che forse se non mi venivano le parole era perché dovevo tacere. Dovevo tacere perché quella era la verità, e di fronte alla verità nemmeno il mio ego spropositato, come diceva Lei, avrebbe avuto la meglio. La chiamavo ragazzina per farla innervosire ma lei non si innervosiva mai, lei era sempre preparata a ricevere la verità. E tutte queste banalissime questioni anagrafiche sono lì, appoggiate come tovaglie vecchie e rosicchiate dalle tarme in un baule, a lasciare il tempo che trovano, perché non possono spiegare quello che era veramente, quello che riusciva a muovermi dentro. Mi arrabbiavo tanto senza capire che ero invidioso della sua saggezza, della sua sensibilità, non la volevo accettare e mi arrabbiavo, mi arrabbiavo come un matto. Non volevo essere così trasparente agli occhi degli altri e Lei destabilizzava tutto solo guardando verso di me.
Si sentì meglio, gli occhi nel riflesso mostrato dallo specchio. Si sentì anche instabile, ma era riuscito in qualche modo ad esorcizzare la portata di un dolore che aveva dentro da sette anni. Erano successe tante cose belle, altrettante brutte, ma né le une né le altre erano riuscite ad offuscare quel peso nel petto, a farlo passare in secondo piano, a farlo sembrare stupido. Il peso c’era sempre.
-MJ..
-Michael, apri, abbiamo cinque minuti per uscire di qui, il van è di sotto, dobbiamo sbrigarci!
-Michael? Ci dai un segno di vita?
-ma che è successo?
-non lo so
-perché si è chiuso là dentro?
-Michael, brutte notizie al telefono?
-ma chi è che l’ha chiamato?
-sua madre, penso. Non vorrei fosse successo qualcosa..
-Mich..
-sono pronto.
Aprì di scatto la porta e per poco Elliot e Travis non gli caddero ai piedi, appoggiati com’erano allo stipite.
-è più di un’ora che sei chiuso lì dentro, scusa Mike, ma che è successo?
-..niente. Niente. Sbrighiamoci, sono a pezzi.
Si guardarono con espressione interrogativa, quindi si affrettarono con passo svelto dietro di lui. Come sempre.
***
1993
L’acqua le scivolava sulla pelle, le gocce brillavano come mille diamanti al sole del tramonto, il vento soffiava portando con sé il pesce pescato quel mattino sul molo e lui la guardava da dietro il muretto con espressione colpevole e contemplativa. Dov’era quella spiaggia il giorno prima? Non l’aveva vista, eppure era bella grande. Era anche privata, a quanto sembrava, con un fitto steccato di legno verniciato di bianco che delimitava un’area di circa duecento metri. Dall’altra parte solo l’imponente scogliera di roccia tagliente a picco sul mare. Quell’ingresso all’acqua era soffice e gentile, invece, e a quanto sembrava Pauline aveva voluto tenerlo solo per se e la sua famiglia. Donne determinate, quelle.
Chissà quanto può costare un pezzo di spiaggia di queste dimensioni.
Si mandò al diavolo per la sesta volta nel sorprendersi a pensare a futilità anziché al suo problema fondamentale, che in quel preciso istante era sparito fra un’onda e la successiva. Con una mano davanti agli occhi per proteggersi dal sole diretto aguzzò lo sguardo facendo qualche passo verso il bagnasciuga e non la vide.
Un altro passo e non la vidi. Sentivo il cuore pulsare sapendo che non avrei potuto fare un accidente lo stesso. La chiamai, almeno quello.
-ti sei deciso a scendere, finalmente, Mr Turkey!
Con un sobbalzo si voltò, cercando i suoi occhi, attonito.
-non dirmi che ti ho spaventato eh, o forse si..- disse avvicinandosi fradicia alla camicia rossa che a contatto con le mille gocce colanti dalla sua pelle ambrata divenne molto più scura –ehi!..
Non appena mi fu a meno di un metro di distanza la bloccai, anzi la afferrai come si afferra qualcosa al volo, forse un po’ troppo violentemente.
Le immobilizzò le braccia stringendola forte a sé, al suo petto, così piccola, così piccola che a malapena le sfiorava le ciocche corvine con il mento.
-ehi!
-dove sei stata tutto il giorno, ragazzina
Fu un sussurro fra il collo e l’orecchio, un tocco delicato di due grandi mani che si intrecciarono dietro alla sua schiena senza allentare la stretta, pallido tentativo di nascondere la bramosa necessità di averla addosso dopo tutte quelle ore senza. Natalie non tentò nemmeno di divincolarsi.
-e tu?
-in giro
-hai visitato San Juàn?
-un po’
-e ti è piaciuto quello che hai visto?
-mmh-mmh
-cos’hai visto?
-mmm
-cosa c’è Mr Turkey
-niente
-dimmelo
-non mi hai detto cosa hai fatto tu
-niente di che, sono andata a fare una passeggiata con Paulina, Raphy e Sole..lo sai che conoscono smooth criminal? E’ pazzesco Mike, hanno solamente tre anni e mezzo! Io lo trovo incredibile..
Sollevò gli occhi senza celare la timida trepidazione per quella vicinanza così stretta, intimo corridoio per le parole che le uscivano dalle labbra per terminare esattamente nei respiri di lui. No, non era abituata ad uno sguardo così insistente su di sé.
-cosa c’è adesso?!
-dammi un bacio
-ora?
-immediatamente
-va bene, allora chiudi gli occhi
-no
-che bacio è se non chiudiamo gli occhi?!
-voglio guardarti
-bè ma..
-dammi un bacio, Natalie
***
2000
Assurdamente viziato, assurdamente solo, terribilmente lontano dall’essere me stesso e dalla pace che tanto desideravo. Ed è quello che meno riesco a sopportare anche oggi, guarda caso. Non sono mai riuscito a dirle “scusami, ferirti era l’ultima cosa che volevo”. Non ci sono riuscito perché quando avrei potuto farlo il mio orgoglio non me lo ha consentito, e quando avrei voluto farlo con tutto me stesso il nostro tempo era ormai scaduto. Il mio tempo è ormai scaduto. Io sono ormai scaduto. Quale persona sana di mente e con un minimo istinto di autoconservazione vorrebbe stare qui ad ascoltarmi. Nessuna, lo so. Chi, in quale sistema numerico, in quale universo vorrebbe rispondermi “si, ti perdono, anche se mi hai strappato il cuore dal petto e lo hai gettato nel fango, ti perdono perché sei tu, so che non volevi, che era una situazione di assoluta confusione, che ti eri perso, che non sapevi più cosa fare, che lei era vicina in quel momento e..” oddio basta! Basta, è una vera tortura questa, dannazione. Perché mai dovrebbe aver voglia di pronunciare anche solo un vaffanculo indirizzato a me! Perché continuo a pensarci, l’avevo seppellita, perché ritorna e fa più male di quando l’avevo chiusa fuori dalla testa. Ero così, non posso negarlo, non posso non riconoscerlo. Un trentaquattrenne con il cervello di un tredicenne e gli istinti di un ventenne. Non pensavo, pensavo troppo, pensavo sempre e solo a me stesso, ed il solo fatto che qualcos’altro mi avesse imprigionato le emozioni mi faceva sentire spaesato, confuso, eccitato, spaventato. Ed ho sbagliato.
***
1993
-dai, sbrigati!
-a fare cosa?!
-buttati! No! Anzi, prima spogliati, non vorrai entrare così!
-non ci penso nemmeno!
-Michael..
-tzz-tzz
-a che è servito allora arrivare fino a lì?
-a guardare te che affoghi, schiappa
-come come come come, scusa? Chi sarebbe la schiappa?!
-una ragazzina molto capricciosa di nome Natalie!
Rise forte dopo aver constatato che le sue provocazioni avevano fatto centro, si era incupita tutto d’un colpo, no, non le piaceva affatto essere chiamata in quel modo. Si innervosì istantaneamente, detestava quella risata altisonante e piena di scherno che faceva quando voleva darsi delle arie –vuoi fare il figo eh? Bene, allora giochiamo Mr Turkey- lo pensò e basta, ormai scomparsa fra un flutto e l’altro nell’acqua bassa e bollente del mare.
-ovviamente, visto che sei prevedibile come pochi, ora arriverai proprio sotto alla roccia per schizzarmi, non è vero schiappa?
Rise ancora, mettendosi le mani sui fianchi in attesa di ciò che gli sembrò assolutamente scontato. Nessun rumore però, solo il vento che batteva violento sugli scogli modellandoli, concedendo una piccola tregua dal feroce calore dei raggi ormai rossastri del tramonto.
-schiappa? Ok, dai, ora puoi schizzarmi, così sei contenta..dai, sono qui, vicino al bordo..
La voce gli era uscita un po’ meno squillante e canzonatoria, era troppo occupato ad ascoltare anche il più sottile rumore, per quello che era possibile sentire con quel vento. Dannato vento, non riusciva a sentire quasi il suono della sua voce.
-Nat?!
Lo ripetè diverse volte, il tono sempre più alto per cercare di sovrastare il fischio sinistro del vento. Si, quando la paura ti sale lungo la schiena in un percorso inverso rispetto a quello delle gocce di sudore che scendono sulla spina dorsale in attesa di morire nella cinta dei pantaloni, in quel momento, in quel preciso momento, tutto ti sembra grottesco, sinistro e surreale, tutto è fuori posto finchè non ricompare qualcosa di rassicurante in un deserto blu ed increspato, finchè la sua testa non appare a dirti che sta ancora respirando, finchè…
-Natalie! Non è divertente, non è affatto divertente! Quindi esci! Ok, hai vinto, dichiaro ufficialmente finito il gioco, esci ora!
Più urlava più gli sembrava inutile. Sapeva che quella massa di acqua marina in movimento avrebbe potuto trascinarla via nel tempo necessario a battere le ciglia, e mentre il capogiro e l’angoscia si erano ormai impossessati della sua razionalità non la vedeva riemergere.
Prese una decisione e saltò.
-quindi ti sei dovuto buttare, alla fine, Mr Turkey..
Sorrideva divertita mentre l’acqua sul corpo scivolava verso il suolo, preda della gravità a formare una pozza irregolare sulla bianca roccia liscia e tiepida. Posava le mani sui fianchi, Giunone, illuminata dal sole, i polpastrelli increspati per le troppe ore trascorse in acqua, il fisico asciutto di una donna ancora bambina, i capezzoli duri attraverso la tela del bikini. Si voltò dopo alcuni angoscianti minuti in cui l’aveva cercata sottacqua, dietro alle rocce, la camicia rossa e i mocassini ancora ai piedi, stava per impazzire. Un sospiro di sollievo gli solcò le labbra ed un gemito alla vista di lei che lo osservava divertita dalla esatta posizione in cui pochi minuti prima la scherniva lui.
-che cazzo di scherzo è questo, eh?
Tornò alla roccia in qualche bracciata e vi si issò facilmente fino a che non se lo ritrovò a pochi centimetri dal naso. Non era frequente sentirlo imprecare, poteva succedere ma non era sua abitudine. E nemmeno lo sguardo torvo che aveva compariva molto spesso.
-ehi, ehi..calm..
-smettila, non guardarmi così e soprattutto non toccarmi! Mi hai fatto prendere un colpo Natalie!
-Michael, stavamo solo giocando
-si, fino a quando ti ho chiesto di smettere, che non era divertente!
-ho solo fatto il giro degli scogli e sono risalita dall’altra parte, conosco questo luogo come le mie tasche Mike, ci sono cresciuta!
-mi hai fatto prendere una paralisi!
Aveva lo sguardo smarrito e non fui in grado di resistere, quegli occhi a metà fra il deluso e l’arrabbiato, fradicio come un pulcino, i vestiti che colavano. Non riuscii ad aspettare un momento di più. Gli presi il viso nelle mani e lo baciai leggera sulle labbra. Dio se solo qualcuno potesse immaginare quello che provavo, quella sensazione di malessere fisico, come se stesse per arrivare un conato, ed il cuore che esplodeva nel petto, e le gambe molli e la fatica a deglutire, Dio quanto sollievo sarebbe il condividere questo stato d’animo. Ma no, finchè non ci sei non puoi sapere, non puoi capire quanto stavo male io, malata di lui, di un amore che non sogna e che non vive, di un amore nascosto e destinato a morire prima di nascere. Ma così potente da non lasciare alcuna scelta.
Consapevole di aver avuto l’ennesima reazione spropositata la lasciò fare, si lasciò prendere, permise alla sua lingua di fare capolino dalle labbra e divorarlo da dentro, lentamente, velocemente, voracemente. Ripose a quel bacio pazzo di disperazione, senza consapevolezza, pieno solo di dolore. E di lei.
-togliti..toglila
Non gli do nemmeno il tempo di respirare, perché la fine è vicina, perché sto per impazzire, mi solleva, come sempre, gli allaccio le gambe intorno alla vita, gli indico una conca formata solo da una roccia e dal vento, al riparo da tutto dove possa amarmi ancora una volta, partono due bottoni, chissene frega, strappa quelli che rimangono e rimane con uno straccio scuro e bagnato sulle spalle, mi appoggia alla roccia calda ma io non la sento perché sono molto più calda, più bollente, sto per scoppiare, devo averlo, deve avermi, perché l’unico modo che conosco per essere è essere sua, solo sua. Ancora.
-Michael..
Lo imploro, si sbottona i pantaloni, slaccio il filo che tiene unito il fazzoletto blu del pezzo sopra del costume, lo lancia lontano, le tocca, prima una e poi l’altra, la bacia, succhia, un gemito basso, di gola, come non sono mai stata abituata a sentire dalle sue labbra, scende, toglie tutto quello che resta, toglie la camicia, ormai è in ginocchio, altri bottoni volano in aria, rimabalzano sul granito bianco e si tuffano per sempre in mare, i polsini sono andati, ti amo, lo vorrei dire, lo sento ma fa troppo male, ti amo, lo guardo e lo sa, mi guarda qui adagiata, il bianco sotto al corpo scuro che sembra ancora più scuro, sospira e mi guarda mentre affogo respirando aria, mentre lo chiamo, mi guarda e passa una mano vitrea sul collo e poi scende, scende, scende verso il basso, verso il mio abisso, bacia, lecca e succhia tutto il mio amore dalle mie gambe divaricate e gocciolanti di necessità, è cattivo e lo sa, è disperato e si libera di tutto, di tutto quello che ci separa, il sole è basso, si è appoggiato sulla linea dell’orizzonte, e quando il primo spicchio inizia a sciogliersi nell’immensità del blu lui è dentro di me in un tuffo violento che nemmeno tutta la mia fame, tutta la mia sete di lui riescono ad attutire.
-oh..
Nell’orecchio, mi bacia il collo ed inizia così a separarci per poi riunirci subito dopo, e geme così forte, e sospira così profondamente
-mia, solo mia, mia per sempre..oh..
Si inginocchia al suo amore, se è amore, se è almeno la metà di quello che sento io, si inginocchia e prega sul mio ventre, si inginocchia e mi solleva le gambe per precisare alcune cose, mi ha presa ma deve sottoscriverlo con un ritmo violento, sanguinoso come questo amore ingiusto, innaturale e al limite della realtà, mi afferra la vita e grida, stringe ed affonda le dita e se stesso nella mia carne, le rocce amplificano, il sole è nell’acqua per metà mentre ebbra e morta dentro colgo la scintilla di quell’istante che è solo un culmine. Orgasmo. E felicità.
Forse.
marina56- Moderator
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Re: Don't call my name
Parte seconda
1993
Rimaneva solo il pallido semicerchio violaceo della sfera infuocata ormai affogata nell’immensità dell’oceano a rendere i suoi occhi visibili a quelli di lui, la fronte imperlata di sudore, il fiato corto, il capo appoggiato sui seni piccoli e sodi che di tanto in tanto si sollevava a cercarla. Con una mano sul torace le contava le coste facendole anche un po’ di solletico, lei ridacchiava e cercava di spostare le dita da quel punto ma lui non smetteva, la baciava languidamente il collo finchè non si stendeva di nuovo sulla pietra, e poi ricominciava la sua esplorazione avvolto soltanto dal rumore delle onde che esplodevano sulla scogliera lì sotto.
-com’è possibile
-non lo so, Mike
-ora non sono più Mr Turkey?
-no
-e perché cambio nome in base alle occasioni?
Divenne violaceo immediatamente, accortosi del vicolo cieco in cui si era infilato anche con una certa audacia. No, no, quella era sfacciataggine bella e buona. Sperò solamente che il buio potesse nasconderlo alla sua stessa vergogna. Ma ovviamente non fu così, perché Natalie scoppiò a ridere forte, tenedosi la pancia e rotolando diversi metri più in là.
-perché in determinate occasioni non ti comporti da tacchino, assolutamente, piuttosto direi..
-ok ok touchè, basta così, ho capito
-perché abbassi la testa?
-smettila!
-perché scusa?! Si stato tu ad iniziare!
-ma io volevo dire qualcos’altro
Le prese la mano e se la portò alle labbra, ci soffiò sopra e ne bacio le dita una ad una, lentamente. Natalie capì che stavolta non avrebbero ricominciato a giocare cambiando nuovamente scenario. Di solito venivano catapultati in superficie alla velocità della luce dagli abissi del fuoco fatuo della passione alla tiepida brezza del gioco spensierato di due bambini mai cresciuti, come avevano fatto sempre, stavolta no. E ne fu contenta, ne aveva voglia anche lei. Com’era possibile?
-cosa
Gli si avvicinò dolcemente posandogli una carezza sui riccioli ancora umidi, era la prima volta che parlavano di quello che stava succedendo, anche se di fatto non ne stavano ancora parlando.
Sentì il cuore accelerare all’improvviso percependo i suoi occhi neri addosso. Natalie aiutami a dirti quello che ho dentro
-ecco.. volevo dirti che mi dispiace se le cose sono accadute così in fretta..voglio dire, non ne abbiamo mai parlato, non ti ho mai detto quello che sento, a Città del Messico io..
-io ti conosco
Rimase in silenzio per la seconda volta. quella frase gli ronzava in testa senza sosta da un tempo indefinibile. Ogni volta che era stato triste, o fuori di sé, o stanco o.. tornavo a casa e c’era lei, lei bambina che mi chiedeva di giocare ancora, lei che non sapeva che ero stanco, lei che non faceva domande assurde, lei che non si aspettava nulla in cambio, lei che cresceva ed io che restavo a bocca aperta guardando quanto era bella, quanto era sbagliato pensarlo, quanto non sarebbe mai stata mia, quanto mi sarebbe piaciuto dirle che c’ero. Dio santo.
-si, mi conosci
Lo disse come ipnotizzato, confuso dalla velocità degli eventi, dalla violenza del suo desiderio, disorientato dal fatto di non conoscere il motivo, la causa di tutto.
-e sono confuso, è tutto veloce, e anche quello che ci succede, noi giochiamo, stiamo bene come sempre, come abbiamo sempre fatto, poi però arriva qualcosa che esplode e non riesco assolutamente a trattenere quello che vorrei fare se fossi libero di farlo..
-ti penti di questo qualcosa in più Michael?
Non era lei a parlare ma una donna, ora. La mia fatica aumentò a dismisura.
-si! Cioè, no! Vorrei solo..
-cosa vorresti
-bè vorrei che.. non.. non lo so in effetti
Ci sarebbe aspettati qualcosa di più da me, lo so, l’avrebbe voluto lei almeno, lo so di certo, e anche io. Avrei voluto dire in quel momento solamente che mi ero accorto di essere innamorato di lei da un lasso di tempo talmente indefinito e difficile da snodare nella matassa del mai e del sempre da potersi definire quasi un “da sempre”. Ora mi suona patetico ma allora aveva una connotazione diversa, erano poche parole, semplici, vere. Invece biascicai come un codardo.
Si alzò veloce e palesemente arrabbiata, afferrò quello che rimaneva di una camicia rossa senza bottoni e se lo infilò alla bella e meglio per poi catapultarsi giù per il sentiero.
Infilai i pantaloni ancora fradici con tutta la velocità di cui ero capace, volevo raggiungerla anche se non avrei saputo cosa dire, giusto per fare un banale tentativo di rimediare al mio ennesimo disastro. Saltai dalla roccia alla strada sterrata, la rincorsi e non fu difficile raggiungerla visto che camminava e basta, pensavo a cosa le avrei detto, ad ogni passo visualizzavo e davo forma ad una possibile conversazione di senso compiuto, ho trentaquattro anni, tu diciotto, siamo amici da una vita ma abbiamo anche fatto l’amore, non una ma diverse volte, e mi è piaciuto, molto, moltissimo, ho diciassette anni più di te e non ho alcuna possibilità di avere una vita normale, qualunque cosa faccia è motivo di speculazione e discussione, sono appena stato accusato di aver abusato di un ragazzo e probabilmente ci sarà un processo anche se non ho fatto niente, avevi otto anni quando ti ho vista la prima volta e io già venticinque, già allora non avevo più la mia vita, eri piccola e ti sei nascosta sotto al tavolo, non parlavamo la stessa lingua ma ti ho insegnato a cantare con il diaframma, tu mi hai insegnato la spontaneità e a fare le trecce, sono una frana in queste cose Natalie, non so come poter fare anche perché so che tutto quello che sta succedendo è meraviglioso e sbagliato allo stesso idendico e spaventoso modo, la mia vita è solo per me, non posso trascinarti, ci faremo male ma ho un bisogno disperato di averti accanto, ho bisogno di sentire che ci sei, e non riesco nemmeno a pensare a quello che mi hai dato senza piangere per un’ora, la qual cosa non è proprio rassicurante o virile, ma è così che mi fai sentire, ed ho scritto già undici canzoni cercando di spiegartelo ma non ne ho incisa nemmeno una, maledizione, e mi sento così in colpa Natalie, per quello che ti farò, si, so già che ti farò del male, tutto quello che tocco si frantuma e..oddio ti amo in un modo che non potrò mai spiegarti, la bambina che ricordo e la donna che sei diventata, ti amo in ogni parte, come un fratello, come un amico, come un uomo, come mi è possibile, in un modo che nemmeno io conosco.
Non dissi niente quando la raggiusi, perché si voltò con le braccia conserte per tenere chiusa la camicia e mi posò una carezza sul viso. Stava piangendo. Feci finta di niente per non metterla in imbarazzo, lei odiava farsi vedere piangere. Mi sorrise asciugandosi una lacrima con il dorso della mano.
-quello che senti vale anche per me. Tutto, fino all’ultima goccia. Ti starò accanto, io ti appartengo. E non parliamone più, è troppo difficile.
Non riuscì nemmeno a balbettare una sillaba di assenso perché le lacrime che gli erano salite agli occhi minacciavano di riversarsi fuori da un momento all’altro se non fosse stato attento. Il cuore era gonfio di orgoglio e di qualcosa che si irradiava ovunque riscaldandolo, non seppe stabilire cosa fosse esattamente, ma mentre la guardava correre sulle scale di pietra bianca verso la casa sapeva solo che ne voleva ancora, ancora, ancora, e se mai fosse finito ne avrebbe voluto ancora lo stesso, ancora di più.
***
2000
Riesco solo ad aprire piano la tenda, senza farmi vedere troppo, non ne ho voglia oggi. Saranno un centinaio, irriducibili. Vorrei fare di più, ma proprio non sono dell’umore, anzi, sto proprio da schifo. Miranda. E adesso cosa posso fare? Vorrei salutarla per l’ultima volta. chiederle scusa per come l’ho trattata quel giorno, anche se forse non può sentirmi. Vorrei. Cerco di convincere mia figlia a guardarmi, e sembra decidersi, anche se con poca convinzione, a darmi un po’ di colore in una giornata inutile. Debbie nell’altra stanza, stasera la conferenza stampa, domani si torna a casa. Prince non è interessato a nessun gioco in particolare, semplicemente, guarda. Se non ci fossero credo che non mi importerebbe davvero più di niente. Non ragiono così di solito, solo che non riesco a scacciare quell’immagine, quelle immagini dalla mia testa. Can’t get you out of my mind. E non sono fatto per sopportare a lungo quello che non mi piace, in genere posso permettermi di alleviare qualsiasi cosa mi affligga. Ho sempre potuto farlo e l’ho sempre fatto, ma non lo farò oggi, devo rimanere consapevole delle mie emozioni, come dice Karen. Nessun fiore del male, nessuna consolazione. Non sanno davvero ancora nulla del mondo, della sofferenza, anche se credo che il solo fatto di avermi come padre li metterà in croce, prima o poi. Sono condannato a far soffrire le persone che amo. Che ipocrita. Voglio solo smettere di vederla, di sentirla mentre parla, mentre mi prende la mano in tutti quei flash che arrivano a tradimento e da chissà dove, maledizione, non so nemmeno dove fuggire, né dove trovare un po’ di pace. Nemmeno negli occhi di Paris, non stavolta.
***
1993
Gli prese la mano e varcarono la soglia ad arco della cucina quando ormai del sole non rimaneva che una pallida traccia rossastra ad increspare il cobalto del cielo estivo. Le avvolse un braccio attorno alla vita e la baciò in fronte, una mano fra i capelli aperta, pronta a lasciar scorrere le ciocche umide dalle radici alle punte, ed immaginare quel movimento all’infinito.
Infinito, un concetto che non potremo mai comprendere totalmente, ma che io in quelle ore, in quei minuti percepivo solamente come qualcosa che avrei continuato e basta, senza chiedere o cercare altro mai, mai più.
-hai fame?
-mmh-mmh
-cosa vuoi mangiare?
-te
-dico sul serio
-anch’io
-mi ero appena vest..
-baciami, Natalie
2000
Ma quanto poteva durare? Ancora tre giorni? Uno? Una settimana? Non lo sapeva, e con il passare del tempo che aveva smesso di quantificare da un po’ si accrescevano i dubbi, la paura del seguito. L’umore rimaneva abbastanza instabile, quello non lo poteva cambiare, ma non aveva più sentito il bisogno di procurarsi il sonno perché arrivava da solo, quando sveniva letteralmente fra le sue braccia, il viso sul petto a volte umido di caldo, altre volte bagnato di pioggia, altre di passione, altre ancora delle sue stesse lacrime. Si, piangeva, piangeva spesso alla sera, quando non tardavano le chiamate da Los Angeles, gli aggiornamenti in cui riceveva un resoconto dettagliato da Fields sulle procedure avvenute quel giorno, sulle sanzioni disciplinari e la raccolta dati, sulle testimonianze in accumulo da ambo le parti, sul procuratore distrettuale, sulla convocazione del Gran Jury per decidere se passare agli atti le accuse penali contro di lui, sulla strategia di difesa, ogni volta un pezzo di terreno che si sgretolava sotto ai piedi, una fetta di nulla che lo stava mandando al manicomio e ce lo avrebbe mandato veramente o..o forse direttamente all’obitorio, se non avessi potuto condividerla con lei. Io, Nat e il mio Nulla. Guardo Paris ora, la mia piccola, e so che non sarò mai più solo, di avere delle responsabilità, di non potermi perdere come feci allora, quando la usavo come appiglio, un’ancora di salvezza anche solo temporanea in un deserto di polvere e sangue. Succhiavo la vita e la speranza dai suoi occhi neri, sentivo senza ascoltare la sua voce che mi cullava dolcemente verso un oblio positivo, fatto da una promessa che non avrebbe mai tradito. Rimanermi accanto. Ho fatto in modo che uscisse totalmente dalla mia vita, come ogni volta che mi sono trovato ad un bivio difficile, l’ho lasciata andare, anzi, l’ho personalmente accompagnata fra le braccia di qualcuno che le avrebbe dato di più e non me ne pento affatto. Ed ecco l’unica sciocca verità che devo ingoiare ora, per buttare alle spalle un pezzo di me.
***
Parte terza
1993
-non ti lascerò
-non dirlo
-lo so, andrà così. Io non ti lascerò, qualunque cosa succeda
-parli così perché non sai cosa rischio
-io ti conosco, non dimenticarlo prima di dire qualunque cosa
-non posso, non puoi..
-ehi, non fare così. Ho detto che non ti lascerò, è quello che succederà, lo vedrai con i tuoi stessi occhi, di tempo ne avremo
Gli prendeva il viso fra le mani per farsi ascoltare, costringendolo a guardarla negli occhi. Baciava le sue guance asciugandogli una lacrima, gli sorrideva senza sapere dove sbattere la testa per trovare quel coraggio, lo baciava in fronte, lo baciava ancora, incapace di placare quella sete incontenibile, quel desiderio impossibile che mordeva e feriva senza mai dare pace a nessuno dei due. Lo stringeva al petto, cercava di farsi più piccola per incastrarsi meglio fra le sue braccia come se non ci fosse stata nessuna macchina scura ad aspettarlo nel piazzale, come se non fosse partito nessun aereo fra due ore, come se non avesse dovuto lasciarlo andare con le spalle ricurve ed un pallore in viso paragonabile solamente a quello della cerulea signora morte, nel giorno in cui ti viene a prendere.
***
Londra. Non stava bene, lui non stava bene. Il suo amore era stato utile, era stato intenso, un balsamo emolliente per un petto crivellato di colpi, lo aveva fatto volare appena più in alto delle nuvole. Ma non era stato sufficiente, no, non lo era. Da quando l’amore non è sufficiente, scusa? Se lo era domandato un mucchio di volte, durante le notti insonni ad osservarlo contorcersi per i crampi. La flebo nel braccio. L’aveva supplicata di ucciderlo. Momenti di follia a cui alternava una lucidità esausta, disarmante. La consapevolezza del condannato a morte che brucia negli occhi prima di lasciare tutto lo spazio alla paura.
L’amore è sempre sufficiente, anzi no, è l’unica cosa che conta, è l’unica cosa che fa andare avanti il mondo, l’amore può guarire ogni cosa. Lo scrivi sempre nelle tue maledette canzoni, e allora dimmi perché stavolta non è così? Dimmi perché cazzo non è così Michael! Michael, dimmi perché il mio amore non è abbastanza!
2000
L’amore può non essere abbastanza quando il macigno che hai legato al collo è troppo pesante. Prima o poi cadrai. Così ho iniziato a cadere anch’io. Un volo libero e privo di motivo, il vuoto che ti attorciglia l’intestino,come andare sull’otto volante. Non c’era solo una piacevole caduta nell’aria calda però, c’era la mia fine, ogni giorno di più. Iniziai a perdere l’appetito, poi il sonno. Erano troppi giorni che non le prendevo. Le mie pillole. Stare vicino a lei era sufficiente per dimenticare o quasi, passeggiare mano nella mano al tramonto, credevo che sarebbe stato abbastanza, mangiare schifezze giù in cucina illuminati da una sola fioca candela, credevo che sarebbe bastato così poco, ridere a crepapelle delle facce dei passanti che si toccavano il capo senza riuscire a vederci appostati nel sottotetto con un intero arsenale di gelatine da lanciare, e alla fine l’ho fatto credere anche a lei, ci credeva alla fine, le ho fatto credere che tutto sarebbe andato meglio, le ho fatto credere che sarebbe stato sufficiente. Parlare tutta la notte. Esplodere mille volte dentro le sue pareti calde. Mille sorrisi. Mille lacrime, mille momenti di estasi che anche solo richiamare ora mi uccide, mille volte mia, mille volte tuo, mille volte io, quel me stesso che nemmeno credevo esistere più.
Non ho voluto che mi seguisse, il giorno della mia partenza. Lo decisi svegliandomi quel mattino, all’ultimo momento, decisi che la cosa doveva rimanere segreta, intima, una battaglia da sconfiggere senza esercito, un duello piuttosto. Ricordi sfocati dell’ennesima falla della coscienza, ma del resto non avevo responsabilità morali verso nessuno, ne ero convinto. Elizabeth, un raggio lontano, fioco, ricordo la sua voce nel dormiveglia che mi raccontava di una bambina prodigio. Janet, voci confuse, aghi nel braccio e la terapia. Poi una mattina è uscito il sole ed era più caldo, le mie barriere in frantumi, come sempre.
-E così hai anche la tv in camera, Mr Turkey, non pensavo davvero..
-solo perché ho un certo influsso sulla caposala, sai, sono un bravo bambino..io! tu invece fai sempre tutto quello che ti pare no? Che ci fai qui??
Non si girò per dirlo, optò per un po’ di indifferenza, non voleva certo che si notasse dagli occhi o dall’inflessione della voce quello che provava in quel momento. Stupore misto a felicità pura, appena distillata, potente e sfuggevole come il fumo dell’assenzio, insieme ad un senso di vuoto per quell’escavatrice che gli aveva preso i visceri e li aveva dissotterrati dall’addome in un secondo. Erano passate solamente due settimane dall’ultima volta che l’aveva vista, ma i capelli gli sembravano diversi, più lunghi, più luminosi. Una giacca di jeans, pantaloni di lino, masticava una gomma e ogni qualche minuto faceva un palloncino che le scoppiava sul naso. Trovò difficile mantenere il contegno, ma ci volle comunque provare, aveva promesso una cosa e l’avrebbe matenuta fino in fondo.
Lasciarla in pace, lasciarla andare, quella non era storia per una ragazza - la mia ragazza?oh, una ragazzina..- di diciotto anni appena affacciata al davanzale della vita. Non era così che doveva vivere il suo primo amore, nemmeno la sua prima volta o i giramenti di testa o qualsiasi altra cosa. L’avevo capito, alla fine ci ero arrivato anch’io. Già, troppo tardi per tutto, ma non avrei mai potuto permetterle di stare al mio fianco nella situazione in cui mi trovavo. Era come se sentissi che qualcosa di terribile, di ancor più terribile sarebbe successo. E lei avrebbe dovuto esserne completamente fuori.
-ero da queste parti..
Non gli diede il tempo di rispodere, di reagire o di agire e basta. Gli aveva già circondato il collo con le braccia ed aveva messo il naso proprio alla base, lì dove inizia la clavicola. Aveva detto piano “oh Michael”e lui aveva capito che non sarebbe mai riuscito a dire basta. Ne aveva bisogno come dell’aria che respirava, quella era l’unica cosa che lo martoriava da dentro, ne aveva bisogno come l’aria e stava sfuggendo al suo controllo come tutto il resto.
-“da queste parti” eh?
Parlava ormai perso nei capelli, nell’abbraccio che ricambiava con troppa forza, nel modo in cui ormai le era aggrappato incapace di fare qualunque altra cosa.
-mmm mmm
-cos’hai fatto in queste settimane
-sono tornata nel Massachussets, ho ripreso i corsi
-già
-checc’è
-hai perso un sacco di lezioni, di tempo, per me, a San Juàn..
-guardami
-no
-guardami. Non l’ho fatto per te, l’ho fatto per me. Anche ora. Sono venuta qui per me, perché ne ho bisogno
-bisogno di cosa
-di sapere che da qualche parte ci sei. E stai bene, almeno in modo accettabile. Ne usciremo, starai meglio, io sono qui.
-Nat..ne uscirò, starò meglio, farò, dirò.. tutto io, da solo. Non sei compresa nel piano di recupero. Ed è così che deve essere. Non sei compresa
-sono qui Mike
-vattene
-sono qui
-ho detto che devi andare, lo fai da sola o chiamo..
-lo faccio da sola
E mentre usciva e chiudeva piano la porta gialla lui sapeva che dopo cinque minuti l’avrebbe trovata seduta a terra lì fuori, che sarebbe stata lì come ogni volta, e che nemmeno il padre eterno l’avrebbe fatta desistere dal suo proposito. Questo lo imbestialiva letteralmente, ma lo riscaldava come nient’altro al mondo, e gli faceva perdere il controllo, e lo disorientava e lo faceva volare alto, e.. Natalie, quanto male mi hai fatto. Quanto male ci siamo fatti.
***
1993
Lo prelevarono sabato diciotto dicembre dalla stanza sessantuno-bis in cui stava ancora ricevendo una flebo di proteine. Sulle gambe coperte da un plaid rosso era appoggiata una copia di “Collected Maxims and Other Reflections” del duca François de La Rochefoucauld.
Il volo AA137 partì dal London Heathrow airport alle 11:18, ed atterrò al Lax alle 21:56 con circa dieci minuti di ritardo.
Non riconobbe subito il posto in cui abitava. I cancelli erano alti e scuri come li aveva lasciati due mesi prima, il giardino curato, i fiori nelle aiuole. Tutto come prima. Niente come prima.
C’erano ancora i sigilli sulle porte, sull’armadio, all’imbocco delle scale. In camera era tutto rivoltato. Miranda sulla porta, lo sguardo di apprensione di Bill. Camminava in mezzo ai loro occhi bassi sentendo il peso di cento anni sulle articolazioni del ginocchio, che gli sembrò scricchiolare, poi cedere. Cadde in avanti proprio davanti al Green Giant, uno di quelli più realistici che aveva fatto sistemare vicino alla sala, reduce come lui dal lungo viaggio visto che se lo era portato dietro. Qualcuno lo aiutò a sollevarsi ma non servì a nulla, non voleva aprire gli occhi. Fece sette giri di tutta la casa ripercorrendo gli stessi passi in maniera quasi maniacale, come a volersi sincerare che le volte precedenti non fossero state che un brutto scherzo del jetlag o chi lo sa. Ma non era uno scherzo.
***
Venti dicembre millenovecentonovantatre.
16:45: un team investigativo composto dal Procuratore Distrettuale di Santa Barbara Tom Sneddon, dal detective Russ Birchim, dal fotografo dell’ufficio dello sceriffo Gary Spiegel, dal detective Federico Sicard e dal medico Dottor Richard Strick irrompe al Neverland Sycamore Valley Ranch con un mandato di perquisizione che conferisce il potere di esaminare e fotografare le natiche, il pene e lo scroto di Michael Joe Jackson.
16:52: gli avvocati difensori Weitzman e Cochran (sostituto di Bert Fields dimmessosi alcune settimane prima) accolgono la squadra spiegando la totale riluttanza ed apprensione del loro assistito nei confronti della procedura cui si deve sottoporre. L’avvocato Cochran chiede pazienza e si reca immediatamente in una magione all’interno della proprietà dove cerca di convincere Michael a non opporre resistenza.
18:06: la squadra investigativa viene fatta entrare nella magione dove sono anche presenti i due medici personali di MJ: il dottor David Forecast ed il Dottor Arnold Klein, il capo della sicurezza Bill Bray, ed il fotografo personale di MJ, Louis Swayne.
18:04: la squadra investigativa viene fatta salire al piano di sopra dove Michael siede su un divano con indosso un accapatoio beige in evidente stato di disagio. Tutti gli agenti si presentano e mentre il fotografo della polizia sistema l’equipaggiamento per le foto MJ si volta verso Birchim urlando “tu chi sei? Cosa fai qui?”. Birkim si riqualifica ma MJ gli urla di andare via, apparendo confuso ed in preda alla rabbia. Successivamente si volta verso Sicard e urla “fuori, devi andare fuori di qui!”
Dopo sei tentativi di calmarlo viene deciso che all’ispezione prenderanno parte i due fotografi ed i medici di MJ.
18:08: Michael cerca disperatamente di lasciare la stanza ma viene trattenuto dal dottor Klain che cerca di calmarlo. Se rifiuta di farsi scattare le foto il fatto verrà deposto a favore dell’accusa. Chandler ha fornito un disegno piuttosto dettagliato dei suoi genitali e l’unico modo per dimostrare che si tratta di una montatura è confrontare il disegno con fotografie reali. Rientrato nella stanza si toglie l’accappatoio sotto al quale indossa un costume da bagno. Il fotografo Spiegel lo prega allora di abbassarlo in modo da poter fare le foto. MJ ha un altro scatto d’ira in cui urla “perché mi stanno facendo questo”. Il dottor Klaine prega allora Michael di abbassare anche i calzoncini grigi.
-perché mi stanno facendo questo?
-perché mi stanno facendo questo?
-perché mi stanno facendo questo?
-ne vuoi ancora?
-non ne hai abbastanza?
-quante ne devi scattare ancora?
-quanto ne vuoi?
-voglio le vostre foto, le foto delle vostre facce!
-voglio le foto di questi due!
Terminata la sessione di foto un uomo bianco in viso, con le mani gelide ed il cuore a mille si riveste velocemente ed esce dalla stanza sbattendo la porta. Corre sul sentiero e poi nell’erba, la stessa che si vede da fuori i cancelli, i piedi nudi nell’erba. Corre e piange, ma corre veloce e le lacrime si sciolgono sulle tempie, prima di disintegrrsi nell’aria che non entra più nei polmoni, che non li riempirà mai più in modo totale. Un lembo dell’accappatoio che indossa si apre e lascia intravedere il costato e lo sterno, visibilissimi dagli spasmi di fatica e dai singhiozzi. Entra nell’acqua e vi si immerge totalmente. Corre via dal ragazzo che ha dentro, da quello che non sarà mai più, un pezzo di morte dietro alle spalle da cui fuggire ma a cui dover pagare pegno, un pezzo di se, per sempre.
Nello stesso istante una ragazza dai capelli neri guarda il cielo nuvoloso di Boston e si accorge che il sole è stato appena inghiottito da una di esse. La sua luce è forte, troppo potente per essere eclissata completamente, ma non ci sono più le ombre delle cose, tutto è contenuto ed inghiottito in una realtà piatta e monocromatica. Gialla. Non sa bene perché, ma qualcosa deve essere successo, la percorre un brivido, ed improvvisamente non le interessa poi molto quello che stava facendo, perché è colta da un’inquietudine interna, di quelle che non si spiegano e che non ti lasciano.
***
Era arrivata a Los Angeles di corsa il giorno dopo, dopo la telefonata di Mama. Dopo che aveva sentito qualcosa implodere nel petto. Non era lui, era un altro, un’altra persona. Inutile spiegare in cosa, sapeva solo che il vetro cadendo aveva sbattuto proprio nel punto di rottura, sbriciolandosi. Così Michael aveva sbattuto nel punto di rottura, sbriciolandosi. Non aveva voluto vedere nessuno per circa quattro giorni, poi, una volta venuto a sapere che era tornata aveva dato disposizione che fosse tenuta alla larga dalla sua stanza, fuori dalla quale Bill doveva alternarsi con altri due per impedire l’ingresso di chiunque, soprattutto di lei. Non se ne ebbe a male per questa particolare riluttanza nei suoi confronti, perché sapeva che trovarsela davanti l’avrebbe indebolito troppo, in modo insopportabile. Aveva dormito per cinque notti fuori dalla sua porta, sotto allo sguardo compassionevole di Bill
-Nat, non puoi stare qui, io..
-Bill. Per favore, non scherziamo
Il sesto giorno si era svegliata con l’inconfondibile suono di un mocassino che picchiettava il parquet, a pochi centimetri dal suo volto addormentato.
-ehi..
Aveva cercato di sollevarsi, la schiena un po’ indolenzita
-se avessi voglia di discutere, di parlare o di perdere del tempo ti chiederei che cosa ci fai qui, chi ti ha detto che puoi dormire su questo piano, perché non fai mai quello che ti chiedo di fare e soprattutto perché fai quello che ti chiedo di non fare continuamente. E’ buffo, è..è ridicolo, ti verrà da ridere, ma quando sei nei paraggi nemmeno le persone di cui mi fido di più e che lavorano per me in modo ineccepibile da anni riescono a darmi ascolto. Sei tu, è la tua influenza
-Michael, tesoro, sono io..
-non toccarmi per favore. Non ho finito. Ora io come ho detto non ho voglia, non posso perdere dell’altro tempo Natalie. Ho cose importanti di cui occuparmi. Quindi facciamo così. Ora te ne vai, e non torni più.
-Michael, lascia che..
-non. Toccarmi. Bill, portatela di sotto ed assicuratevi che non salga più, non voglio. Lo puoi fare, lo potete fare ragazzi? Credete di poterlo fare?
-Certo MJ
Un uomo alto e robusto la prese sotto braccio scortandola all’imboccatura della grande scalinata. Si voltò di nuovo a guardarlo. La camicia color pesca, i pantaloni neri con la piega davanti, le mani in tasca. La osservava con disinteresse, come se avesse visto quella scena un milione di volte, come se non lo riguardasse, come se non la stesse guardando veramente.
-Michael, io non me ne andrò mai, non ti lascerò mai
Furono le parole che pronunciò prima di vederlo sollevare un sopracciglio e sparire dietro alla grande porta in mogano, sbattendola.
***
Rimasi a Neverland due mesi e mezzo, sapevo che era solo questione di tempo. Prima o poi avrebbe ceduto al dolore ad avrebbe avuto bisogno di aggrapparsi. Ed io ci sarei stata. Non si trattava più solamente dell’amore o di tutte quelle stupide cose che credevo di provare. Era diventata la ragione delle mie giornate, aveva assunto una dimensione che mi spaventa anche ora, se ci ripenso. Finsi di non accorgermi della limo che veniva ogni pomeriggio trattenendosi a volte fino al giorno successivo. Uno dei suoi modi per passare il tempo. A volte passeggiavano mano nella mano nel parco, lo vedevo sorridere dalla finestra della mia stanza. Decise di non andare fino in fondo con il processo, dichiarò di non poter sostenere una goccia di cattiveria in più, di non poter sopportare la pressione dei media, di non volersi esporre e.. mah, semplicemente si era circondato di un gruppo di ciarlatani assetati solo di potere e soldi che lo consigliarono in base a quanto avrebbero guadagnato loro in primis. Naturalmente non mi permise mai di avvicinarmi abbastanza alla casa per potergli dire tutto questo. Ci provai tre volte, ma Bill era diventato di acciaio. E nel pomeriggio arrivava sempre lei. Passeggiavano, si tenevano la mano, poi sparivano, e piano piano sparivo anche io, persa in una bolla di dolore tagliente.
Mama sospirava, mi accarezzava il capo e mi supplicava di tornare a Boston. Stavo perdendo il mio tempo, la mia vita, chiusa lì dentro, le mie giornate lì dentro a sperare in qualcosa che non arrivava mai. Persi undici chili in quei mesi, non mi andava bene più nessun vestito. Finchè capii che dovevo vivere.
Andai a parlargli una mattina, feci chiamare un taxi che mi aspettava davanti al cancello, dovevo andare via. Arrivai in cima alle scale e dissi a Bill di bussare e dirgli che lo attendevo per salutarlo. Uscì dopo dieci minuti con indosso una vestaglia verde di seta, infilata alla bella e meglio, sotto nessun pigiama. Sbadigliò.
-uhm..ehi, non eri partita?
-no. Parto ora però
-uh..
Abbassò lo sguardo facendo attenzione a non incrociare il mio, mentre da dentro la stanza lei iniziò a chiamarlo. Si grattò la testa con fare impacciato, poi si sporse all’interno e pronunciò un “un attimo” un po’ frettoloso.
-ti amo, Michael. Me ne vado, l’ho capito, me ne vado. Ma ti amo. E ti amerò ancora per un bel po’. Ciao.
-non piangere
-no, hai ragione, non ti darò questa soddisfazione
-più che altro non saprei cosa dirti per consolarti. Quindi ti prego..
-si, vado. Conosco questa parte della discussione
-meglio così
Lo fissò ancora qualche minuto per fare in modo che tutti i tratti del suo viso rimanessero impressi nella sua mente, come se sapesse, come se sentisse che quella sarebbe stata l’ultima volta. l’ultima volta per una lunga serie di cose, l’ultima volta in cui l’avrebbe visto di persona, l’ultima volta in cui gli avrebbe parlato, avrebbe respirato a pieni polmoni ed avrebbe pensato di affidare il cuore a qualcuno.
***
Fissa il vuoto il sedici ottobre del 2000. Michael Jackson che ha tirato fuori una foto, quella foto. La baia di San Juàn alle spalle di una ragazza giovane, i capelli neri sollevati dal vento, il lino bianco del vestito senza orlo. La foto che ha trovato senza fatica, seppellita sotto ad una catasta di libri e due Diane’s, le più costose, in finissima porcellana bavarese. E’ stata un po’ ovunque quella roba, chiusa lì dentro prima, quando la sua casa conteneva ancora il sole, poi negli uffici della polizia giudiziaria di Los Angeles, poi nel reparto ispezioni di Santa Barbara, nelle mani di Blanca, di Ines e di un’innumerevole schiera di domestiche, di Tom Sneddon, di Howard Weitzman e di un’innumerevole schiera di poliziotti.
Ma il sedici ottobre del 2000 nella sua casa non c’è più nessuna di queste persone e tutti gli oggetti sono, come sempre, al loro posto, sistemati in maniera apparentemente disordinata e casuale, ma non per lui, che ha aperto lo stanzino chiuso da un lucchetto e l’ha ripresa in mano. La guarda e pensa che ci sono due tipi di foto, quelle che raffigurano e quelle che catturano. Le seconde sono veri colpi di genio perché non sono mai incomplete, non mostrano qualcosa da cui sei escluso, una posa che è appartenuta ad altri, un paesaggio astratto e sbiadito, un momento che non hai mai vissuto. Le foto che catturano ti danno esattamente quello che vuoi sapere, e te lo danno talmente bene che ti senti ladro e protagonista di quell’attimo, perché ci sei dentro anche tu.
E la foto che tiene in mano ora è sicuramente una foto che cattura. Ad essere immortalato è il momento esatto in cui la giovane ragazza dal vestito di lino dice “dai, smettila”. E’ imbarazzata per quell’ennesima foto in cui si trova al centro dell’obiettivo, deve essere stata una ragazza molto timida. Una mano protesa in avanti nel vano tentativo di coprire l’inquadratura, le labbra che disegnano una “o”, un mezzo sorriso le sfugge, la rinuncia totale ad una posa composta. Un’onda si infrange appena sotto alla ringhiera a cui è appoggiata, qualche goccia schizza in aria al di sopra della sua testa e rimane lì, imprigionata per sempre in quell’attimo che ora è eterno.
Michael Jackson ha quarantadue anni, ma ricorda perfettamente che a scattare quell’immagine è stato lui, una Kodak monouso ultracompact nelle mani, la pelle d’oca per il vento al tramonto, aveva indosso solamente una t-shirt bianca, pensava che il sole non sarebbe tramontato così in fretta. L’ultima sera a San Juàn, il giorno dopo è un’altra storia, altre cose di cui parlare, altro male che potrebbe sgorgare dal buco macero e sanguinolento che ha in mezzo al costato anche a distanza di anni.
Ora guarda e ripensa esclusivamente a quell’attimo, quell’istante intrappolato su carta, in cui tutto era diverso, in cui c’era ancora tempo, ora che la vita trascorsa gli sembra acqua scivolata fra le dita, ora che le valigie sono pronte sull’uscio. Ora che quel momento lontano sembra appartenere ad un’altra vita.
1993
Rimaneva solo il pallido semicerchio violaceo della sfera infuocata ormai affogata nell’immensità dell’oceano a rendere i suoi occhi visibili a quelli di lui, la fronte imperlata di sudore, il fiato corto, il capo appoggiato sui seni piccoli e sodi che di tanto in tanto si sollevava a cercarla. Con una mano sul torace le contava le coste facendole anche un po’ di solletico, lei ridacchiava e cercava di spostare le dita da quel punto ma lui non smetteva, la baciava languidamente il collo finchè non si stendeva di nuovo sulla pietra, e poi ricominciava la sua esplorazione avvolto soltanto dal rumore delle onde che esplodevano sulla scogliera lì sotto.
-com’è possibile
-non lo so, Mike
-ora non sono più Mr Turkey?
-no
-e perché cambio nome in base alle occasioni?
Divenne violaceo immediatamente, accortosi del vicolo cieco in cui si era infilato anche con una certa audacia. No, no, quella era sfacciataggine bella e buona. Sperò solamente che il buio potesse nasconderlo alla sua stessa vergogna. Ma ovviamente non fu così, perché Natalie scoppiò a ridere forte, tenedosi la pancia e rotolando diversi metri più in là.
-perché in determinate occasioni non ti comporti da tacchino, assolutamente, piuttosto direi..
-ok ok touchè, basta così, ho capito
-perché abbassi la testa?
-smettila!
-perché scusa?! Si stato tu ad iniziare!
-ma io volevo dire qualcos’altro
Le prese la mano e se la portò alle labbra, ci soffiò sopra e ne bacio le dita una ad una, lentamente. Natalie capì che stavolta non avrebbero ricominciato a giocare cambiando nuovamente scenario. Di solito venivano catapultati in superficie alla velocità della luce dagli abissi del fuoco fatuo della passione alla tiepida brezza del gioco spensierato di due bambini mai cresciuti, come avevano fatto sempre, stavolta no. E ne fu contenta, ne aveva voglia anche lei. Com’era possibile?
-cosa
Gli si avvicinò dolcemente posandogli una carezza sui riccioli ancora umidi, era la prima volta che parlavano di quello che stava succedendo, anche se di fatto non ne stavano ancora parlando.
Sentì il cuore accelerare all’improvviso percependo i suoi occhi neri addosso. Natalie aiutami a dirti quello che ho dentro
-ecco.. volevo dirti che mi dispiace se le cose sono accadute così in fretta..voglio dire, non ne abbiamo mai parlato, non ti ho mai detto quello che sento, a Città del Messico io..
-io ti conosco
Rimase in silenzio per la seconda volta. quella frase gli ronzava in testa senza sosta da un tempo indefinibile. Ogni volta che era stato triste, o fuori di sé, o stanco o.. tornavo a casa e c’era lei, lei bambina che mi chiedeva di giocare ancora, lei che non sapeva che ero stanco, lei che non faceva domande assurde, lei che non si aspettava nulla in cambio, lei che cresceva ed io che restavo a bocca aperta guardando quanto era bella, quanto era sbagliato pensarlo, quanto non sarebbe mai stata mia, quanto mi sarebbe piaciuto dirle che c’ero. Dio santo.
-si, mi conosci
Lo disse come ipnotizzato, confuso dalla velocità degli eventi, dalla violenza del suo desiderio, disorientato dal fatto di non conoscere il motivo, la causa di tutto.
-e sono confuso, è tutto veloce, e anche quello che ci succede, noi giochiamo, stiamo bene come sempre, come abbiamo sempre fatto, poi però arriva qualcosa che esplode e non riesco assolutamente a trattenere quello che vorrei fare se fossi libero di farlo..
-ti penti di questo qualcosa in più Michael?
Non era lei a parlare ma una donna, ora. La mia fatica aumentò a dismisura.
-si! Cioè, no! Vorrei solo..
-cosa vorresti
-bè vorrei che.. non.. non lo so in effetti
Ci sarebbe aspettati qualcosa di più da me, lo so, l’avrebbe voluto lei almeno, lo so di certo, e anche io. Avrei voluto dire in quel momento solamente che mi ero accorto di essere innamorato di lei da un lasso di tempo talmente indefinito e difficile da snodare nella matassa del mai e del sempre da potersi definire quasi un “da sempre”. Ora mi suona patetico ma allora aveva una connotazione diversa, erano poche parole, semplici, vere. Invece biascicai come un codardo.
Si alzò veloce e palesemente arrabbiata, afferrò quello che rimaneva di una camicia rossa senza bottoni e se lo infilò alla bella e meglio per poi catapultarsi giù per il sentiero.
Infilai i pantaloni ancora fradici con tutta la velocità di cui ero capace, volevo raggiungerla anche se non avrei saputo cosa dire, giusto per fare un banale tentativo di rimediare al mio ennesimo disastro. Saltai dalla roccia alla strada sterrata, la rincorsi e non fu difficile raggiungerla visto che camminava e basta, pensavo a cosa le avrei detto, ad ogni passo visualizzavo e davo forma ad una possibile conversazione di senso compiuto, ho trentaquattro anni, tu diciotto, siamo amici da una vita ma abbiamo anche fatto l’amore, non una ma diverse volte, e mi è piaciuto, molto, moltissimo, ho diciassette anni più di te e non ho alcuna possibilità di avere una vita normale, qualunque cosa faccia è motivo di speculazione e discussione, sono appena stato accusato di aver abusato di un ragazzo e probabilmente ci sarà un processo anche se non ho fatto niente, avevi otto anni quando ti ho vista la prima volta e io già venticinque, già allora non avevo più la mia vita, eri piccola e ti sei nascosta sotto al tavolo, non parlavamo la stessa lingua ma ti ho insegnato a cantare con il diaframma, tu mi hai insegnato la spontaneità e a fare le trecce, sono una frana in queste cose Natalie, non so come poter fare anche perché so che tutto quello che sta succedendo è meraviglioso e sbagliato allo stesso idendico e spaventoso modo, la mia vita è solo per me, non posso trascinarti, ci faremo male ma ho un bisogno disperato di averti accanto, ho bisogno di sentire che ci sei, e non riesco nemmeno a pensare a quello che mi hai dato senza piangere per un’ora, la qual cosa non è proprio rassicurante o virile, ma è così che mi fai sentire, ed ho scritto già undici canzoni cercando di spiegartelo ma non ne ho incisa nemmeno una, maledizione, e mi sento così in colpa Natalie, per quello che ti farò, si, so già che ti farò del male, tutto quello che tocco si frantuma e..oddio ti amo in un modo che non potrò mai spiegarti, la bambina che ricordo e la donna che sei diventata, ti amo in ogni parte, come un fratello, come un amico, come un uomo, come mi è possibile, in un modo che nemmeno io conosco.
Non dissi niente quando la raggiusi, perché si voltò con le braccia conserte per tenere chiusa la camicia e mi posò una carezza sul viso. Stava piangendo. Feci finta di niente per non metterla in imbarazzo, lei odiava farsi vedere piangere. Mi sorrise asciugandosi una lacrima con il dorso della mano.
-quello che senti vale anche per me. Tutto, fino all’ultima goccia. Ti starò accanto, io ti appartengo. E non parliamone più, è troppo difficile.
Non riuscì nemmeno a balbettare una sillaba di assenso perché le lacrime che gli erano salite agli occhi minacciavano di riversarsi fuori da un momento all’altro se non fosse stato attento. Il cuore era gonfio di orgoglio e di qualcosa che si irradiava ovunque riscaldandolo, non seppe stabilire cosa fosse esattamente, ma mentre la guardava correre sulle scale di pietra bianca verso la casa sapeva solo che ne voleva ancora, ancora, ancora, e se mai fosse finito ne avrebbe voluto ancora lo stesso, ancora di più.
***
2000
Riesco solo ad aprire piano la tenda, senza farmi vedere troppo, non ne ho voglia oggi. Saranno un centinaio, irriducibili. Vorrei fare di più, ma proprio non sono dell’umore, anzi, sto proprio da schifo. Miranda. E adesso cosa posso fare? Vorrei salutarla per l’ultima volta. chiederle scusa per come l’ho trattata quel giorno, anche se forse non può sentirmi. Vorrei. Cerco di convincere mia figlia a guardarmi, e sembra decidersi, anche se con poca convinzione, a darmi un po’ di colore in una giornata inutile. Debbie nell’altra stanza, stasera la conferenza stampa, domani si torna a casa. Prince non è interessato a nessun gioco in particolare, semplicemente, guarda. Se non ci fossero credo che non mi importerebbe davvero più di niente. Non ragiono così di solito, solo che non riesco a scacciare quell’immagine, quelle immagini dalla mia testa. Can’t get you out of my mind. E non sono fatto per sopportare a lungo quello che non mi piace, in genere posso permettermi di alleviare qualsiasi cosa mi affligga. Ho sempre potuto farlo e l’ho sempre fatto, ma non lo farò oggi, devo rimanere consapevole delle mie emozioni, come dice Karen. Nessun fiore del male, nessuna consolazione. Non sanno davvero ancora nulla del mondo, della sofferenza, anche se credo che il solo fatto di avermi come padre li metterà in croce, prima o poi. Sono condannato a far soffrire le persone che amo. Che ipocrita. Voglio solo smettere di vederla, di sentirla mentre parla, mentre mi prende la mano in tutti quei flash che arrivano a tradimento e da chissà dove, maledizione, non so nemmeno dove fuggire, né dove trovare un po’ di pace. Nemmeno negli occhi di Paris, non stavolta.
***
1993
Gli prese la mano e varcarono la soglia ad arco della cucina quando ormai del sole non rimaneva che una pallida traccia rossastra ad increspare il cobalto del cielo estivo. Le avvolse un braccio attorno alla vita e la baciò in fronte, una mano fra i capelli aperta, pronta a lasciar scorrere le ciocche umide dalle radici alle punte, ed immaginare quel movimento all’infinito.
Infinito, un concetto che non potremo mai comprendere totalmente, ma che io in quelle ore, in quei minuti percepivo solamente come qualcosa che avrei continuato e basta, senza chiedere o cercare altro mai, mai più.
-hai fame?
-mmh-mmh
-cosa vuoi mangiare?
-te
-dico sul serio
-anch’io
-mi ero appena vest..
-baciami, Natalie
2000
Ma quanto poteva durare? Ancora tre giorni? Uno? Una settimana? Non lo sapeva, e con il passare del tempo che aveva smesso di quantificare da un po’ si accrescevano i dubbi, la paura del seguito. L’umore rimaneva abbastanza instabile, quello non lo poteva cambiare, ma non aveva più sentito il bisogno di procurarsi il sonno perché arrivava da solo, quando sveniva letteralmente fra le sue braccia, il viso sul petto a volte umido di caldo, altre volte bagnato di pioggia, altre di passione, altre ancora delle sue stesse lacrime. Si, piangeva, piangeva spesso alla sera, quando non tardavano le chiamate da Los Angeles, gli aggiornamenti in cui riceveva un resoconto dettagliato da Fields sulle procedure avvenute quel giorno, sulle sanzioni disciplinari e la raccolta dati, sulle testimonianze in accumulo da ambo le parti, sul procuratore distrettuale, sulla convocazione del Gran Jury per decidere se passare agli atti le accuse penali contro di lui, sulla strategia di difesa, ogni volta un pezzo di terreno che si sgretolava sotto ai piedi, una fetta di nulla che lo stava mandando al manicomio e ce lo avrebbe mandato veramente o..o forse direttamente all’obitorio, se non avessi potuto condividerla con lei. Io, Nat e il mio Nulla. Guardo Paris ora, la mia piccola, e so che non sarò mai più solo, di avere delle responsabilità, di non potermi perdere come feci allora, quando la usavo come appiglio, un’ancora di salvezza anche solo temporanea in un deserto di polvere e sangue. Succhiavo la vita e la speranza dai suoi occhi neri, sentivo senza ascoltare la sua voce che mi cullava dolcemente verso un oblio positivo, fatto da una promessa che non avrebbe mai tradito. Rimanermi accanto. Ho fatto in modo che uscisse totalmente dalla mia vita, come ogni volta che mi sono trovato ad un bivio difficile, l’ho lasciata andare, anzi, l’ho personalmente accompagnata fra le braccia di qualcuno che le avrebbe dato di più e non me ne pento affatto. Ed ecco l’unica sciocca verità che devo ingoiare ora, per buttare alle spalle un pezzo di me.
***
Parte terza
1993
-non ti lascerò
-non dirlo
-lo so, andrà così. Io non ti lascerò, qualunque cosa succeda
-parli così perché non sai cosa rischio
-io ti conosco, non dimenticarlo prima di dire qualunque cosa
-non posso, non puoi..
-ehi, non fare così. Ho detto che non ti lascerò, è quello che succederà, lo vedrai con i tuoi stessi occhi, di tempo ne avremo
Gli prendeva il viso fra le mani per farsi ascoltare, costringendolo a guardarla negli occhi. Baciava le sue guance asciugandogli una lacrima, gli sorrideva senza sapere dove sbattere la testa per trovare quel coraggio, lo baciava in fronte, lo baciava ancora, incapace di placare quella sete incontenibile, quel desiderio impossibile che mordeva e feriva senza mai dare pace a nessuno dei due. Lo stringeva al petto, cercava di farsi più piccola per incastrarsi meglio fra le sue braccia come se non ci fosse stata nessuna macchina scura ad aspettarlo nel piazzale, come se non fosse partito nessun aereo fra due ore, come se non avesse dovuto lasciarlo andare con le spalle ricurve ed un pallore in viso paragonabile solamente a quello della cerulea signora morte, nel giorno in cui ti viene a prendere.
***
Londra. Non stava bene, lui non stava bene. Il suo amore era stato utile, era stato intenso, un balsamo emolliente per un petto crivellato di colpi, lo aveva fatto volare appena più in alto delle nuvole. Ma non era stato sufficiente, no, non lo era. Da quando l’amore non è sufficiente, scusa? Se lo era domandato un mucchio di volte, durante le notti insonni ad osservarlo contorcersi per i crampi. La flebo nel braccio. L’aveva supplicata di ucciderlo. Momenti di follia a cui alternava una lucidità esausta, disarmante. La consapevolezza del condannato a morte che brucia negli occhi prima di lasciare tutto lo spazio alla paura.
L’amore è sempre sufficiente, anzi no, è l’unica cosa che conta, è l’unica cosa che fa andare avanti il mondo, l’amore può guarire ogni cosa. Lo scrivi sempre nelle tue maledette canzoni, e allora dimmi perché stavolta non è così? Dimmi perché cazzo non è così Michael! Michael, dimmi perché il mio amore non è abbastanza!
2000
L’amore può non essere abbastanza quando il macigno che hai legato al collo è troppo pesante. Prima o poi cadrai. Così ho iniziato a cadere anch’io. Un volo libero e privo di motivo, il vuoto che ti attorciglia l’intestino,come andare sull’otto volante. Non c’era solo una piacevole caduta nell’aria calda però, c’era la mia fine, ogni giorno di più. Iniziai a perdere l’appetito, poi il sonno. Erano troppi giorni che non le prendevo. Le mie pillole. Stare vicino a lei era sufficiente per dimenticare o quasi, passeggiare mano nella mano al tramonto, credevo che sarebbe stato abbastanza, mangiare schifezze giù in cucina illuminati da una sola fioca candela, credevo che sarebbe bastato così poco, ridere a crepapelle delle facce dei passanti che si toccavano il capo senza riuscire a vederci appostati nel sottotetto con un intero arsenale di gelatine da lanciare, e alla fine l’ho fatto credere anche a lei, ci credeva alla fine, le ho fatto credere che tutto sarebbe andato meglio, le ho fatto credere che sarebbe stato sufficiente. Parlare tutta la notte. Esplodere mille volte dentro le sue pareti calde. Mille sorrisi. Mille lacrime, mille momenti di estasi che anche solo richiamare ora mi uccide, mille volte mia, mille volte tuo, mille volte io, quel me stesso che nemmeno credevo esistere più.
Non ho voluto che mi seguisse, il giorno della mia partenza. Lo decisi svegliandomi quel mattino, all’ultimo momento, decisi che la cosa doveva rimanere segreta, intima, una battaglia da sconfiggere senza esercito, un duello piuttosto. Ricordi sfocati dell’ennesima falla della coscienza, ma del resto non avevo responsabilità morali verso nessuno, ne ero convinto. Elizabeth, un raggio lontano, fioco, ricordo la sua voce nel dormiveglia che mi raccontava di una bambina prodigio. Janet, voci confuse, aghi nel braccio e la terapia. Poi una mattina è uscito il sole ed era più caldo, le mie barriere in frantumi, come sempre.
-E così hai anche la tv in camera, Mr Turkey, non pensavo davvero..
-solo perché ho un certo influsso sulla caposala, sai, sono un bravo bambino..io! tu invece fai sempre tutto quello che ti pare no? Che ci fai qui??
Non si girò per dirlo, optò per un po’ di indifferenza, non voleva certo che si notasse dagli occhi o dall’inflessione della voce quello che provava in quel momento. Stupore misto a felicità pura, appena distillata, potente e sfuggevole come il fumo dell’assenzio, insieme ad un senso di vuoto per quell’escavatrice che gli aveva preso i visceri e li aveva dissotterrati dall’addome in un secondo. Erano passate solamente due settimane dall’ultima volta che l’aveva vista, ma i capelli gli sembravano diversi, più lunghi, più luminosi. Una giacca di jeans, pantaloni di lino, masticava una gomma e ogni qualche minuto faceva un palloncino che le scoppiava sul naso. Trovò difficile mantenere il contegno, ma ci volle comunque provare, aveva promesso una cosa e l’avrebbe matenuta fino in fondo.
Lasciarla in pace, lasciarla andare, quella non era storia per una ragazza - la mia ragazza?oh, una ragazzina..- di diciotto anni appena affacciata al davanzale della vita. Non era così che doveva vivere il suo primo amore, nemmeno la sua prima volta o i giramenti di testa o qualsiasi altra cosa. L’avevo capito, alla fine ci ero arrivato anch’io. Già, troppo tardi per tutto, ma non avrei mai potuto permetterle di stare al mio fianco nella situazione in cui mi trovavo. Era come se sentissi che qualcosa di terribile, di ancor più terribile sarebbe successo. E lei avrebbe dovuto esserne completamente fuori.
-ero da queste parti..
Non gli diede il tempo di rispodere, di reagire o di agire e basta. Gli aveva già circondato il collo con le braccia ed aveva messo il naso proprio alla base, lì dove inizia la clavicola. Aveva detto piano “oh Michael”e lui aveva capito che non sarebbe mai riuscito a dire basta. Ne aveva bisogno come dell’aria che respirava, quella era l’unica cosa che lo martoriava da dentro, ne aveva bisogno come l’aria e stava sfuggendo al suo controllo come tutto il resto.
-“da queste parti” eh?
Parlava ormai perso nei capelli, nell’abbraccio che ricambiava con troppa forza, nel modo in cui ormai le era aggrappato incapace di fare qualunque altra cosa.
-mmm mmm
-cos’hai fatto in queste settimane
-sono tornata nel Massachussets, ho ripreso i corsi
-già
-checc’è
-hai perso un sacco di lezioni, di tempo, per me, a San Juàn..
-guardami
-no
-guardami. Non l’ho fatto per te, l’ho fatto per me. Anche ora. Sono venuta qui per me, perché ne ho bisogno
-bisogno di cosa
-di sapere che da qualche parte ci sei. E stai bene, almeno in modo accettabile. Ne usciremo, starai meglio, io sono qui.
-Nat..ne uscirò, starò meglio, farò, dirò.. tutto io, da solo. Non sei compresa nel piano di recupero. Ed è così che deve essere. Non sei compresa
-sono qui Mike
-vattene
-sono qui
-ho detto che devi andare, lo fai da sola o chiamo..
-lo faccio da sola
E mentre usciva e chiudeva piano la porta gialla lui sapeva che dopo cinque minuti l’avrebbe trovata seduta a terra lì fuori, che sarebbe stata lì come ogni volta, e che nemmeno il padre eterno l’avrebbe fatta desistere dal suo proposito. Questo lo imbestialiva letteralmente, ma lo riscaldava come nient’altro al mondo, e gli faceva perdere il controllo, e lo disorientava e lo faceva volare alto, e.. Natalie, quanto male mi hai fatto. Quanto male ci siamo fatti.
***
1993
Lo prelevarono sabato diciotto dicembre dalla stanza sessantuno-bis in cui stava ancora ricevendo una flebo di proteine. Sulle gambe coperte da un plaid rosso era appoggiata una copia di “Collected Maxims and Other Reflections” del duca François de La Rochefoucauld.
Il volo AA137 partì dal London Heathrow airport alle 11:18, ed atterrò al Lax alle 21:56 con circa dieci minuti di ritardo.
Non riconobbe subito il posto in cui abitava. I cancelli erano alti e scuri come li aveva lasciati due mesi prima, il giardino curato, i fiori nelle aiuole. Tutto come prima. Niente come prima.
C’erano ancora i sigilli sulle porte, sull’armadio, all’imbocco delle scale. In camera era tutto rivoltato. Miranda sulla porta, lo sguardo di apprensione di Bill. Camminava in mezzo ai loro occhi bassi sentendo il peso di cento anni sulle articolazioni del ginocchio, che gli sembrò scricchiolare, poi cedere. Cadde in avanti proprio davanti al Green Giant, uno di quelli più realistici che aveva fatto sistemare vicino alla sala, reduce come lui dal lungo viaggio visto che se lo era portato dietro. Qualcuno lo aiutò a sollevarsi ma non servì a nulla, non voleva aprire gli occhi. Fece sette giri di tutta la casa ripercorrendo gli stessi passi in maniera quasi maniacale, come a volersi sincerare che le volte precedenti non fossero state che un brutto scherzo del jetlag o chi lo sa. Ma non era uno scherzo.
***
Venti dicembre millenovecentonovantatre.
16:45: un team investigativo composto dal Procuratore Distrettuale di Santa Barbara Tom Sneddon, dal detective Russ Birchim, dal fotografo dell’ufficio dello sceriffo Gary Spiegel, dal detective Federico Sicard e dal medico Dottor Richard Strick irrompe al Neverland Sycamore Valley Ranch con un mandato di perquisizione che conferisce il potere di esaminare e fotografare le natiche, il pene e lo scroto di Michael Joe Jackson.
16:52: gli avvocati difensori Weitzman e Cochran (sostituto di Bert Fields dimmessosi alcune settimane prima) accolgono la squadra spiegando la totale riluttanza ed apprensione del loro assistito nei confronti della procedura cui si deve sottoporre. L’avvocato Cochran chiede pazienza e si reca immediatamente in una magione all’interno della proprietà dove cerca di convincere Michael a non opporre resistenza.
18:06: la squadra investigativa viene fatta entrare nella magione dove sono anche presenti i due medici personali di MJ: il dottor David Forecast ed il Dottor Arnold Klein, il capo della sicurezza Bill Bray, ed il fotografo personale di MJ, Louis Swayne.
18:04: la squadra investigativa viene fatta salire al piano di sopra dove Michael siede su un divano con indosso un accapatoio beige in evidente stato di disagio. Tutti gli agenti si presentano e mentre il fotografo della polizia sistema l’equipaggiamento per le foto MJ si volta verso Birchim urlando “tu chi sei? Cosa fai qui?”. Birkim si riqualifica ma MJ gli urla di andare via, apparendo confuso ed in preda alla rabbia. Successivamente si volta verso Sicard e urla “fuori, devi andare fuori di qui!”
Dopo sei tentativi di calmarlo viene deciso che all’ispezione prenderanno parte i due fotografi ed i medici di MJ.
18:08: Michael cerca disperatamente di lasciare la stanza ma viene trattenuto dal dottor Klain che cerca di calmarlo. Se rifiuta di farsi scattare le foto il fatto verrà deposto a favore dell’accusa. Chandler ha fornito un disegno piuttosto dettagliato dei suoi genitali e l’unico modo per dimostrare che si tratta di una montatura è confrontare il disegno con fotografie reali. Rientrato nella stanza si toglie l’accappatoio sotto al quale indossa un costume da bagno. Il fotografo Spiegel lo prega allora di abbassarlo in modo da poter fare le foto. MJ ha un altro scatto d’ira in cui urla “perché mi stanno facendo questo”. Il dottor Klaine prega allora Michael di abbassare anche i calzoncini grigi.
-perché mi stanno facendo questo?
-perché mi stanno facendo questo?
-perché mi stanno facendo questo?
-ne vuoi ancora?
-non ne hai abbastanza?
-quante ne devi scattare ancora?
-quanto ne vuoi?
-voglio le vostre foto, le foto delle vostre facce!
-voglio le foto di questi due!
Terminata la sessione di foto un uomo bianco in viso, con le mani gelide ed il cuore a mille si riveste velocemente ed esce dalla stanza sbattendo la porta. Corre sul sentiero e poi nell’erba, la stessa che si vede da fuori i cancelli, i piedi nudi nell’erba. Corre e piange, ma corre veloce e le lacrime si sciolgono sulle tempie, prima di disintegrrsi nell’aria che non entra più nei polmoni, che non li riempirà mai più in modo totale. Un lembo dell’accappatoio che indossa si apre e lascia intravedere il costato e lo sterno, visibilissimi dagli spasmi di fatica e dai singhiozzi. Entra nell’acqua e vi si immerge totalmente. Corre via dal ragazzo che ha dentro, da quello che non sarà mai più, un pezzo di morte dietro alle spalle da cui fuggire ma a cui dover pagare pegno, un pezzo di se, per sempre.
Nello stesso istante una ragazza dai capelli neri guarda il cielo nuvoloso di Boston e si accorge che il sole è stato appena inghiottito da una di esse. La sua luce è forte, troppo potente per essere eclissata completamente, ma non ci sono più le ombre delle cose, tutto è contenuto ed inghiottito in una realtà piatta e monocromatica. Gialla. Non sa bene perché, ma qualcosa deve essere successo, la percorre un brivido, ed improvvisamente non le interessa poi molto quello che stava facendo, perché è colta da un’inquietudine interna, di quelle che non si spiegano e che non ti lasciano.
***
Era arrivata a Los Angeles di corsa il giorno dopo, dopo la telefonata di Mama. Dopo che aveva sentito qualcosa implodere nel petto. Non era lui, era un altro, un’altra persona. Inutile spiegare in cosa, sapeva solo che il vetro cadendo aveva sbattuto proprio nel punto di rottura, sbriciolandosi. Così Michael aveva sbattuto nel punto di rottura, sbriciolandosi. Non aveva voluto vedere nessuno per circa quattro giorni, poi, una volta venuto a sapere che era tornata aveva dato disposizione che fosse tenuta alla larga dalla sua stanza, fuori dalla quale Bill doveva alternarsi con altri due per impedire l’ingresso di chiunque, soprattutto di lei. Non se ne ebbe a male per questa particolare riluttanza nei suoi confronti, perché sapeva che trovarsela davanti l’avrebbe indebolito troppo, in modo insopportabile. Aveva dormito per cinque notti fuori dalla sua porta, sotto allo sguardo compassionevole di Bill
-Nat, non puoi stare qui, io..
-Bill. Per favore, non scherziamo
Il sesto giorno si era svegliata con l’inconfondibile suono di un mocassino che picchiettava il parquet, a pochi centimetri dal suo volto addormentato.
-ehi..
Aveva cercato di sollevarsi, la schiena un po’ indolenzita
-se avessi voglia di discutere, di parlare o di perdere del tempo ti chiederei che cosa ci fai qui, chi ti ha detto che puoi dormire su questo piano, perché non fai mai quello che ti chiedo di fare e soprattutto perché fai quello che ti chiedo di non fare continuamente. E’ buffo, è..è ridicolo, ti verrà da ridere, ma quando sei nei paraggi nemmeno le persone di cui mi fido di più e che lavorano per me in modo ineccepibile da anni riescono a darmi ascolto. Sei tu, è la tua influenza
-Michael, tesoro, sono io..
-non toccarmi per favore. Non ho finito. Ora io come ho detto non ho voglia, non posso perdere dell’altro tempo Natalie. Ho cose importanti di cui occuparmi. Quindi facciamo così. Ora te ne vai, e non torni più.
-Michael, lascia che..
-non. Toccarmi. Bill, portatela di sotto ed assicuratevi che non salga più, non voglio. Lo puoi fare, lo potete fare ragazzi? Credete di poterlo fare?
-Certo MJ
Un uomo alto e robusto la prese sotto braccio scortandola all’imboccatura della grande scalinata. Si voltò di nuovo a guardarlo. La camicia color pesca, i pantaloni neri con la piega davanti, le mani in tasca. La osservava con disinteresse, come se avesse visto quella scena un milione di volte, come se non lo riguardasse, come se non la stesse guardando veramente.
-Michael, io non me ne andrò mai, non ti lascerò mai
Furono le parole che pronunciò prima di vederlo sollevare un sopracciglio e sparire dietro alla grande porta in mogano, sbattendola.
***
Rimasi a Neverland due mesi e mezzo, sapevo che era solo questione di tempo. Prima o poi avrebbe ceduto al dolore ad avrebbe avuto bisogno di aggrapparsi. Ed io ci sarei stata. Non si trattava più solamente dell’amore o di tutte quelle stupide cose che credevo di provare. Era diventata la ragione delle mie giornate, aveva assunto una dimensione che mi spaventa anche ora, se ci ripenso. Finsi di non accorgermi della limo che veniva ogni pomeriggio trattenendosi a volte fino al giorno successivo. Uno dei suoi modi per passare il tempo. A volte passeggiavano mano nella mano nel parco, lo vedevo sorridere dalla finestra della mia stanza. Decise di non andare fino in fondo con il processo, dichiarò di non poter sostenere una goccia di cattiveria in più, di non poter sopportare la pressione dei media, di non volersi esporre e.. mah, semplicemente si era circondato di un gruppo di ciarlatani assetati solo di potere e soldi che lo consigliarono in base a quanto avrebbero guadagnato loro in primis. Naturalmente non mi permise mai di avvicinarmi abbastanza alla casa per potergli dire tutto questo. Ci provai tre volte, ma Bill era diventato di acciaio. E nel pomeriggio arrivava sempre lei. Passeggiavano, si tenevano la mano, poi sparivano, e piano piano sparivo anche io, persa in una bolla di dolore tagliente.
Mama sospirava, mi accarezzava il capo e mi supplicava di tornare a Boston. Stavo perdendo il mio tempo, la mia vita, chiusa lì dentro, le mie giornate lì dentro a sperare in qualcosa che non arrivava mai. Persi undici chili in quei mesi, non mi andava bene più nessun vestito. Finchè capii che dovevo vivere.
Andai a parlargli una mattina, feci chiamare un taxi che mi aspettava davanti al cancello, dovevo andare via. Arrivai in cima alle scale e dissi a Bill di bussare e dirgli che lo attendevo per salutarlo. Uscì dopo dieci minuti con indosso una vestaglia verde di seta, infilata alla bella e meglio, sotto nessun pigiama. Sbadigliò.
-uhm..ehi, non eri partita?
-no. Parto ora però
-uh..
Abbassò lo sguardo facendo attenzione a non incrociare il mio, mentre da dentro la stanza lei iniziò a chiamarlo. Si grattò la testa con fare impacciato, poi si sporse all’interno e pronunciò un “un attimo” un po’ frettoloso.
-ti amo, Michael. Me ne vado, l’ho capito, me ne vado. Ma ti amo. E ti amerò ancora per un bel po’. Ciao.
-non piangere
-no, hai ragione, non ti darò questa soddisfazione
-più che altro non saprei cosa dirti per consolarti. Quindi ti prego..
-si, vado. Conosco questa parte della discussione
-meglio così
Lo fissò ancora qualche minuto per fare in modo che tutti i tratti del suo viso rimanessero impressi nella sua mente, come se sapesse, come se sentisse che quella sarebbe stata l’ultima volta. l’ultima volta per una lunga serie di cose, l’ultima volta in cui l’avrebbe visto di persona, l’ultima volta in cui gli avrebbe parlato, avrebbe respirato a pieni polmoni ed avrebbe pensato di affidare il cuore a qualcuno.
***
Fissa il vuoto il sedici ottobre del 2000. Michael Jackson che ha tirato fuori una foto, quella foto. La baia di San Juàn alle spalle di una ragazza giovane, i capelli neri sollevati dal vento, il lino bianco del vestito senza orlo. La foto che ha trovato senza fatica, seppellita sotto ad una catasta di libri e due Diane’s, le più costose, in finissima porcellana bavarese. E’ stata un po’ ovunque quella roba, chiusa lì dentro prima, quando la sua casa conteneva ancora il sole, poi negli uffici della polizia giudiziaria di Los Angeles, poi nel reparto ispezioni di Santa Barbara, nelle mani di Blanca, di Ines e di un’innumerevole schiera di domestiche, di Tom Sneddon, di Howard Weitzman e di un’innumerevole schiera di poliziotti.
Ma il sedici ottobre del 2000 nella sua casa non c’è più nessuna di queste persone e tutti gli oggetti sono, come sempre, al loro posto, sistemati in maniera apparentemente disordinata e casuale, ma non per lui, che ha aperto lo stanzino chiuso da un lucchetto e l’ha ripresa in mano. La guarda e pensa che ci sono due tipi di foto, quelle che raffigurano e quelle che catturano. Le seconde sono veri colpi di genio perché non sono mai incomplete, non mostrano qualcosa da cui sei escluso, una posa che è appartenuta ad altri, un paesaggio astratto e sbiadito, un momento che non hai mai vissuto. Le foto che catturano ti danno esattamente quello che vuoi sapere, e te lo danno talmente bene che ti senti ladro e protagonista di quell’attimo, perché ci sei dentro anche tu.
E la foto che tiene in mano ora è sicuramente una foto che cattura. Ad essere immortalato è il momento esatto in cui la giovane ragazza dal vestito di lino dice “dai, smettila”. E’ imbarazzata per quell’ennesima foto in cui si trova al centro dell’obiettivo, deve essere stata una ragazza molto timida. Una mano protesa in avanti nel vano tentativo di coprire l’inquadratura, le labbra che disegnano una “o”, un mezzo sorriso le sfugge, la rinuncia totale ad una posa composta. Un’onda si infrange appena sotto alla ringhiera a cui è appoggiata, qualche goccia schizza in aria al di sopra della sua testa e rimane lì, imprigionata per sempre in quell’attimo che ora è eterno.
Michael Jackson ha quarantadue anni, ma ricorda perfettamente che a scattare quell’immagine è stato lui, una Kodak monouso ultracompact nelle mani, la pelle d’oca per il vento al tramonto, aveva indosso solamente una t-shirt bianca, pensava che il sole non sarebbe tramontato così in fretta. L’ultima sera a San Juàn, il giorno dopo è un’altra storia, altre cose di cui parlare, altro male che potrebbe sgorgare dal buco macero e sanguinolento che ha in mezzo al costato anche a distanza di anni.
Ora guarda e ripensa esclusivamente a quell’attimo, quell’istante intrappolato su carta, in cui tutto era diverso, in cui c’era ancora tempo, ora che la vita trascorsa gli sembra acqua scivolata fra le dita, ora che le valigie sono pronte sull’uscio. Ora che quel momento lontano sembra appartenere ad un’altra vita.
marina56- Moderator
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