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Halloween..storia..leggende...film!!!

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Messaggio Da 4evermichael Sab Ott 22, 2011 10:09 pm

-La storia di Halloween


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Halloween o Hallowe'en è il nome di una festa popolare di origine pre-cristiana, ora tipicamente statunitense e canadese, che si celebra la sera del 31 ottobre, ossia alla vigilia della festa di Ognissanti(è questo il significato della parola Halloween). Tuttavia, le sue origini antichissime affondano nel più remoto passato delle tradizioni europee: viene fatta risalire a quando le popolazioni tribali usavano dividere l'anno in due parti in base alla transumanza del bestiame. Nel periodo fra ottobre e novembre, preparandosi la terra all'inverno, era necessario ricoverare il bestiame in luogo chiuso per garantirgli la sopravvivenza alla stagione fredda: è questo il periodo di Halloween.

In Europa la ricorrenza si diffuse con i Celti. Questo popolo festeggiava la fine dell'estate con Samhain, il loro Capodanno. In irlandese antico Samain significa infatti "fine dell'estate" (Sam, estate, e fuin, fine[1]). A sera tutti i focolari domestici venivano spenti e riaccesi dai druidi che passavano di casa in casa con torce ravvivate presso il falò sacro situato a Tlachtga, vicino alla reale Collina di Tara.

Nella dimensione circolare-ciclica del tempo, caratteristica della cultura celtica, Samhain si trovava in un punto fuori dalla dimensione temporale che non apparteneva né all'anno vecchio e neppure al nuovo; in quel momento il velo che divideva dalla terra dei morti si assottigliava ed i vivi potevano accedervi.

I Celti non temevano i propri morti e lasciavano per loro del cibo sulla tavola in segno di accoglienza per quanti facessero visita ai vivi, un'usanza, perelatro, sopravvisuta anche in aclune regione dell'Italia settentrionale. Da qui l'usanza del trick-or-treat (in italiano "dolcetto o scherzetto?"). Oltre a non temere gli spiriti dei defunti, i Celti non credevano nei demoni quanto piuttosto nelle fate e negli elfi, entrambe creature considerate però pericolose: le prime per un supposto risentimento verso gli esseri umani; i secondi per le estreme differenze che intercorrevano appunto rispetto all'uomo. Secondo la leggenda, nella notte di Samhain questi esseri erano soliti fare scherzi anche pericolosi agli uomini e questo ha portato alla nascita e al perpetuarsi di molte altre storie terrificanti.

Si ricollega forse a questo la tradizione odierna e più recente per cui i bambini, travestiti da streghe, zombie, fantasmi e vampiri, bussano alla porta urlando con tono minaccioso: "Dolcetto o scherzetto?". Per allontanare la sfortuna, inoltre, è necessario bussare a 13 porte diverse. L'etimologia Halloween deriva da All Hallows Eve, che vuole dire Vigilia di Tutti i Santi festa che ricorre, appunto, il 1º novembre. Poiché la figura dei santi è tipicamente cristiana, quindi posteriore alla religione druidica, un etimo fantasioso nato tra i cultori del Neopaganesimo fa derivare la parola da All allows even, cioè la sera in cui tutto è permesso, inclusa la credenza che i defunti che escano dalle tombe per far visita ai vivi. L'improbabilità di questa etimologia risede nel fatto che la parola Halloween è attestata per la prima volta in epoca molto recente,nel XIX secolo,esclusivamente negli USA

-Samahin

La tradizione di Halloween risale allo Samhain (sow-en), la celebrazione dell'anno nuovo presso l'antico popolo celtico. Samhain, che tradotto significa "la fine dell'estate," cadeva nel periodo alla fine di Ottobre, quando il cima diventava più freddo. Samhain stabiliva il cambiamento di stagione.
I Celti, che formarano una vera e propria società intorno all'anno 800 D.C. erano un popolo dedito all'allevamento. Quando cominciava a far freddo, i pastori portavano il loro bestiame a valle. Questo spostamento era di grande rilevanza sociale. Nei mesi invernali infatti, si stava a casa, facendo lavori manuali e passando molto più tempo insieme. Samhain portava anche l'ultimo raccolto dell'anno, evento festeggiate contemporaneamente in molte diverse culture.
Secondo la tradizione Celtica i momenti di transizione tra due stati (come il cambio di stagione appunto) avevano particolari poteri magici. Samhain era il più grande ed importante momento di transizione dell'anno -- cambiamento climatico e spostamento della popolazione.
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I Celti credevano che questo momento magico potesse aprire una sorta di connessione con il mondo dei morti -- coloro cioè che avevano fatto esperienza dell'ultima transizione, quella tra la vita e la morte. Si credeva infatti che durante il Samhain mondo dei vivi fosse in stretto contatto con quello dei morti, e che gli spiriti dei morti viaggiassero nuovamente sulla terra. Molte delle attività svolte durante Samhain riguardavano proprio questa credenza ed oggi si sono sviluppate in vere e proprie tradizioni di Halloween.
I Celti non scrivevano le loro tradizioni, ma le tramandavano oralmente, così che di generazione in generazione le leggende e le credenze si arricchivano di nuovi particolari.


-Jack O'Lantern

Tutti conoscono la zucca intagliata che rappresenta l'icona fondamentale della festa di Halloween. Pochi, però, sanno a cosa si riferisce esattamente. Per trovare una spiegazione, bisogna risalire a una vecchia leggenda della tradizione irlandese, quella che parla di quell'anima prava di nome Jack.
Costui, una vecchia canaglia ubriacona e taccagna, che lavorava come fabbro, si trovava a deambulare faticosamente verso casa nella notte di "Ognissanti" (All Hallows Eve), pieno di birra scura fin sopra gli occhi. Evidentemente, il suo fegato aveva deciso di mollare, e un attacco di cirrosi epatica sarebbe stata la sua condanna, quella notte stessa.
La fortuna volle che il Diavolo, forse sbagliando i tempi, decidesse di reclamare la sua anima prima che il senno dell'irlandese svanisse del tutto. Jack, vista la mal parata, decise di giocarsi il tutto per tutto. Impietosì il Diavolo, convincendolo a esaudire un ultimo desiderio. Il Diavolo, che non è malvagio come lo si descrive, accettò. Jack chiese, come ultimo desiderio, di farsi un'ulteriore bevuta.

"Purtroppo", disse al Signore dal piede Fesso, "non mi ritrovo nel portafoglio neppure il becco di un penny. Pertanto, signor Diavolo, potrebbe trasformarsi in una moneta da sei penny, onde consentirmi quest'ultima bevuta?".

Il Diavolo, che evidentemente quel giorno era di buzzo buono, decise di agevolare l'ubriacone, ma, trasformatosi in una moneta da sei penny, si trovo ingabbiato, dal furbo Jack, nel suo portamonete, in compagnia… d'un crocefisso d'argento. Immaginatevi la stizza e la rabbia del povero Diavolo: come ci si fa a fidare degli uomini? Non potendo ritrasformarsi per l'effetto deleterio del simbolo cristiano, il Diavolo accettò la proposta di Jack: posporre di un anno la presa della sua anima.
Il Diavolo, scornato, se ne tornò da dov'era venuto, e Jack decise che in quell'anno avrebbe fatto di tutto per migliorare il proprio comportamento. Ma, ahimè, di buoni propositi è lastricata la strada dell'inferno, e il fabbro ricominciò con la vita dissoluta: l'anno successivo, la notte di Ognissanti, pertanto, si ritrovò alle prese con il Diavolo. Ora, io uso la maiuscola per rispetto, come direbbe Dafoe, ma quell'essere infernale non doveva occupare un posto molto alto nella gerarchia infuocata: infatti, invece di prendere per un orecchio l'anima di Jack e scaraventarla nella Geenaa, acconsentì a esaudire, prima, un suo nuovo desiderio.

"Senta, signor Diavolo, non potrebbe aiutarmi a prendere quella mela lassù, all'estremità di quel ramo? Le sarei grato per tutta la vita…", gli disse il reprobo. Il Diavolo, non vedendoci possibilità d'imbroglio, annuì, e si mise sulle spalle di Jack, al fine di afferrare il pomo.

Una volta, il suo superiore aveva imbrogliato l'uomo, con quel frutto, ma questo povero Diavolo, che non conosceva la legge del contrappasso, ignorò la valenza simbolica del gesto. Mentre afferrava il frutto, Jack, sotto di lui, incise velocemente sul tronco dell'albero una croce, così che il Diavolo non riuscì a scendere, rimanendo appeso al ramo come un allocco. Nel tentativo di impietosire Jack, il Diavolo gli promise di lasciarlo in pace per dieci anni.

Jack rilanciò. "Se la faccio scendere, signor Diavolo, lei mi deve promettere che non pretenderà mai più la mia anima". Non potendo fare altrimenti, il Diavolo accettò. Il fegato di Jack, però, non tenne conto di questi accordi, e un anno dopo decise di averne abbastanza, e Jack… morì.
Ora, di andare in Paradiso proprio non se ne parlava, pertanto Jack si presentò alle porte dell'Inferno. Il Diavolo, a cui bruciavano ancore le umiliazioni inflitte dall'ubriacone, gli sbarrò la strada. "Una promessa è una promessa", disse fiammeggiando, "pertanto, caro il mio Jack, vattene da qui: io non ti voglio." Jack si guardò indietro, e vide solo buio, sulla via che avrebbe dovuto ricondurlo a casa.

"Non mi può aiutare a trovare la strada, signor Diavolo?"

Il principe delle Tenebre, che era veramente un Signore, prese un tizzone infuocato dalla fornace eterna e glielo lanciò. Jack, che aveva con se una grossa rapa (non chiedetemi il perché, grazie…), la intagliò e ci mise dentro il pezzo di carbone incandescente, per illuminarsi la strada.
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Da allora, nella notte di Halloween, se aguzzate bene la vista, vedrete una fiammella che vaga nell'oscurità alla ricerca della strada per casa. Quello è Jack O'Lantern, Jack della Lanterna. E la zucca, direte voi? La zucca deriva dal fatto che gli immigrati irlandesi, fuggiti dalle loro terre per la carestia della metà del diciannovesimo secolo, una volta arrivati in territorio americano, non trovarono rape grosse abbastanza da poter essere intagliate. Trovarono però una notevole quantità di zucche, che sembrarono
un degno sostituto della rapa. Venne utilizzata perché si pensava che potesse tenere lontane dalle case, nella notte di Ognissanti, gli spiriti dei defunti che, al pari di Jack, tentavano di ritornare alla propria casa. Pertanto, se la notte tra il 31 ottobre e il 1 Novembre vi venisse voglia di un bel risotto di zucca, non buttate via la scorza del vegetale, ma intagliatela e metteteci una candela… farete un figurone!


-Dolcetto o scherzetto?

Durante il Medioevo, una pratica popolare per Ognissanti era la preparazione della "soul cake" (torta dell'anima), un semplice dolce fatto di pane con una decorazione di uva sultanina o ribes. Nella tradizione chiamata "souling" i bamibini andavano di porta in porta chiedendo un pezzo di torta, proprio come nel moderno trick-or-treat. Per ogni fetta di torta ottenuta, ciascun bambino doveva dire una preghiera per l'anima di un parente defunto, o per un parente di chi aveva dato loro la torta in questione. Le preghiere dei bambini dovevano servire alle anime dei defunti per trovare l'uscita dal purgatorio e arrivare così al paradiso. I bambini cantavano anche la canzone della 'soul cake', così come oggi ci sono filastrocche del tipo 'Trick-or-treat, trick-or-treat, give me something good to eat.' (Dolcetto o Scherzetto, dammi qualcosa di buono da mangiare.)
Una versione della canzone diceva:

A soul cake!
A soul cake!
Have mercy on all Christian souls, for
A soul cake!

(Abbi pietà per tutte le anime Cristiane per una torta dell'anima)
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Ci sono evidenze di attività come 'trick-or-treat' nelle tradizioni Celtiche. Alcuni storici dicono che i Celti si travestivano in modi spaventosi e sfilavano per le strade per scacciare gli spiriti vagabondi fuori dalla loro città. Inoltre, i bambini Celti andavano di casa in casa per raccogliere legna, per formare un enorme falò al centro della cittadina. Quando il falò bruciava ogni altro fuoco doveva essere spento, per essere poi riacceso con una fiamma proveniente dal falò di Samhain del villaggio, come simbolo di comunione e collegamento tra tutti gli abitanti.

Molte delle tradizioni celtiche di Samhain avevano a che fare con la celebrazione dei propri dei. Ci si vestiva come gli dei celti durante le celebrazioni, e si andava di casa in casa a chiedere cibo da offrire alle deità. E' documentato che per i Celti, Samhain era strettamente legato all'offerta di cibo agli spiriti. Probabilemte c'erano anche sacrifici di animali, ed alcuni sotrici riferiscono anche di sacrifici umani.
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Messaggio Da 4evermichael Sab Ott 22, 2011 10:09 pm

Racconti di Halloween


1) LA FESTA DEI MORTI(Giovanni Verga)

Nella collina solitaria, irta di croci sull'occidente imporporato, dove non odesi mai canto di vendemmia, né belato d'armenti, c'è un'ora di festa, quando l'autunno muore sulle aiuole infiorate, e i funebri rintocchi che commemorano i defunti dileguano verso il sole che tramonta. Allora la folla si riversa chiassosa nei viali ombreggiati di cipressi, e gli amanti si cercano dietro le tombe.

Ma laggiù, nella riviera nera dove termina la città, c'era una chiesuola abbandonata, che racchiudeva altre tombe, sulle quali nessuno andava a deporre dei fiori. Solo un istante i vetri della sua finestra s'accendevano al tramonto, quasi un faro pei naviganti, mentre la notte sorgeva dal precipizio, e la chiesuola era ancora bianca nell'azzurro, appollaiata come un gabbiano in cima allo scoglio altissimo che scendeva a picco sino al mare. Ai suoi piedi, nell'abisso già nero, sprofondavasi una caverna sotterranea, battuta dalle onde, piena di rumori e di bagliori sinistri, di cui il riflusso spalancava la bocca orlata di spuma nelle tenebre.
Narrava la leggenda che la caverna sotterranea, per un passaggio misterioso, fosse in comunicazione colla sepoltura della chiesetta soprastante; e che ogni anno, il dì dei Morti - nell'ora in cui le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti - un prete sepolto da cent'anni nella chiesuola abbandonata, si levasse dal cataletto, colla stola indosso, insieme a tutti gli altri che dormivano al pari di lui nella medesima sepoltura, colle mani pallide in croce, e scendessero a convito nella caverna sottostante, che chiamavasi per ciò «la Camera del Prete». Dal largo, verso Agnone, i naviganti s'additavano l'illuminazione paurosa del festino, come una luna rossa sorgente dalla tetra riviera.
Tutto l'anno, i pescatori che stavano di giorno al sole sugli scogli circostanti, colla lenza in mano, non vedevano altro che lo spumeggiare della marea, quando s'internava muggendo nella «Camera del Prete», e il chiarore verdognolo che ne usciva colla risacca; ma non osavano gettarvi l'amo. Un palombaro che s'era arrischiato a penetrarvi, nuotando sott'acqua, uno che non badava né a Dio né al diavolo, pel bisogno che lo stringeva alla gola, e i figliuoli che aspettavano il pane, aveva visto il chiarore ch'era lì dentro, azzurro e ondeggiante al pari di quei fuochi che s'accendono da sé nei cimiteri, il pietrone liscio e piatto, come una gigantesca tavola da pranzo, e i sedili di sasso tutt'intorno, rosi dall'acqua, e bianchi quali ossa al sole. L'onda che s'ingolfava gorgogliando nella caverna, scorreva lenta e livida nell'ombra, e non tornava mai indietro; come non tornò più quel poveretto che s'era strascinato via. L'estate, nell'ora in cui ogni piccola insenatura della riva risonava della gazzarra dei bagnanti, l'onda calma scintillava, rotta dalle braccia di qualche ragazzo che nuotava verso le sottane bianche, formicolanti come fantasmi sulla spiaggia. - Così quel prete, un sant'uomo, aveva perso l'anima e la ragione dietro i fantasmi delle terrene voluttà, il giorno in cui Lei - la tentazione - era venuta a confessargli il suo peccato, nella chiesetta solitaria ridente al sole di Pasqua, col seno ansante e il capo chino, su cui il riflesso dei vetri scintillanti accendeva delle fiamme impure. Da cent'anni le sue ossa, consunte dal peccato, posavano nella fossa, stringendosi sul petto la stola maculata. Ivi non giungevano gli strilli provocanti delle ragazze sorprese nel bagno, né il canto bramoso dei giovani, né le querele delle lavandaie, né il pianto dei fanciulli abbandonati. La luna vi entrava tacita dallo spiraglio aperto nella roccia, e andava a posarsi, uno dopo l'altro, su tutti quei cadaveri stesi in fila nei cataletti, sino in fondo al sotterraneo tenebroso, dove faceva apparire per un istante delle figure strane. L'alba vi cresceva in un chiarore smorto, che al fuggire delle ombre sembrava far correre un ghigno sinistro sulle mascelle sdentate. Il giorno lungo della canicola indugiava sotto le arcate verdognole, con un brulichìo furtivo di esseri immondi in mezzo all'immobilità di quei cadaveri.

Erano defunti d'ogni età e d'ogni sesso: guance ancora azzurrognole, come se fossero state rase ieri l'ultima volta, e bianche forme verginali coperte di fiori; mummie irrigidite nei guardinfanti rigonfi, e toghe corrose che scoprivano tibie nerastre. Dallo spiraglio aperto nell'azzurro entravano egualmente il soffio caldo dello scirocco, e i gelati aquiloni che facevano svolazzare come farfalle di bruchi le trine polverose e i riccioloni cadenti dai crani gialli. I fiori, già secchi di lagrime, si agitavano pel sotterraneo, come vivi, e andavano a posarsi su altre labbra rose dal tempo; e appena il vento sollevava i funebri lenzuoli, stesi da mani smarrite d'angoscia su caste membra amate, occhi inquieti di rettili immondi guardavano furtivi nelle ossa nude.
Poscia, nell'ore in cui il sole moriva sull'orlo frastagliato dello spiraglio, il ghigno schernitore di tutte le cose umane sembrava allargarsi sui teschi camusi, e le occhiaie vuote farsi più nere e profonde, quasi il dito della morte vi avesse scavato fino alla sorgente delle lagrime. Là non giungeva nemmeno il mormorio delle preci recitate all'altare in suffragio dei defunti che dormivano sotto il pavimento della chiesuola, e i singhiozzi dei parenti non passavano il marmo della lapide. Le raffiche delle notti di fortuna scorrevano gemendo sulla casa dei morti, senza lasciarvi un pensiero per coloro che in quell'ora erravano laggiù, pel mare tempestoso, coi capelli irti d'orrore al sibilo del vento nel sartiame; né un senso di pietà per le povere donne che aspettavano sulla riva, sferzate dal vento e dalla pioggia; né un ricordo delle lagrime che videro forse, nell'ora torbida dell'agonia, e che bagnarono quegli stessi fiori che adesso vanno da una bara all'altra, come li porta il vento. - Così le lagrime si asciugarono dietro il loro funebre convoglio; e le mani convulse che composero nella bara le loro spoglie, si stesero ad altre carezze; e le bocche che pareva non dovessero accostarsi ad altri baci, insegnano ora sorridendo a balbettare i loro nomi ai bimbi inginocchiati ai piedi dello stesso letto, colle piccole mani in croce, perché i buoni morti lascino dei buoni regali ai loro piccoli parenti che non conobbero. - Tanto tempo è passato, insieme alle bufere della notte, e al soffio d'aprile, colle ore che suonano uniformi e impassibili anch'esse sul campanile della chiesuola, sino a quella del convito!

A quell'ora tutti gli scheletri si levano ad uno ad uno dalle bare tarlate, coi legacci cascanti sulle tibie spolpate, colla polvere del sepolcro nelle orbite vuote, e scendono in silenzio nella «Camera del Prete», recando nelle falangi scricchiolanti le ghirlande avvizzite, col ghigno beffardo di tutte le cose umane nelle bocche sdentate.
Più nulla! più nulla! - Né la tua treccia bionda, che ti cade dal cranio nudo. - Né i tuoi occhi bramosi, pei quali egli sfidò il disonore e la morte, onde portarti il bacio delle labbra che non ha più. Ti rammenti, i baci insaziati che dovevano durare eterni? - E neppure i morsi acuti della gelosia, il delirio sanguinoso che mise in mano a quell'altro l'arma omicida. - Né le lagrime che si piangevano attorno a quel letto, e quel morente voleva stamparsi negli occhi dilatati dall'agonia. - Né le ansie delle notti vegliate in quella stanza già funebre, in quell'attesa già disperata. - Né le carezze con cui il caro bimbo pagava il latte di quel seno e i dolori di quella maternità. - E neppure le lotte in cui l'uno si è logorato. - Né le speranze che hanno accompagnato l'altro sin là. - Né i fiori del campo per cui si è tanto sudato. - Né i libri sui quali si è vissuto tanta e tanta vita. - Né la bestemmia del marinaio che stringe ancora le alghe secche nelle falangi contratte. - Né la preghiera del prete che implora il perdono dei falli umani. - E non l'azzurro profondo del cielo tempestato di stelle; né il tenebrore vivente del mare che batte allo scoglio. - L'onda che s'ingolfa gorgogliando nella caverna sotterranea, e scorre lenta e livida sulla «Tavola del Prete» si porta via per sempre le briciole del convito, e la memoria di ogni cosa.

Ora nel costruire la diga del molo nuovo, hanno demolito la chiesuola e scoperchiano la sepoltura. La macchina a vapore vi fuma tutto il giorno nel cielo azzurro e limpido, e l'argano vi geme in mezzo al baccano degli operai. Quando rimossero l'enorme pietrone posato a piatto sul piedistallo di roccia come una tavola da pranzo, un gran numero di granchi ne scappò via, e quanti conoscevano la leggenda, andarono narrando che avevano visto lo spirito del palombaro ivi trattenuto dall'incantesimo. Il mare spumeggiante sotto la catena dell'argano tornò a distendersi calmo e color del cielo, e scancellò per sempre la leggenda della «Camera del Prete».
Nel raccogliere le ossa del sepolcreto per portarle al cimitero, fu una lunga processione di curiosi, perché frugando fra quegli avanzi, avevano trovato una carta che parlava di denari, e molti pretendevano di essere gli eredi. Infine, non potendo altro, ne cavarono tre numeri pel lotto. Tutti li giocarono, ma nessuno ci prese un soldo.


2) UN UOMO FELICE(Ruby Paglianti)

Era felice!
Un lavoro modesto, da persona qualunque.
Una vita sentimentale inesistente.
Nessun amico.
Nessun interesse.
Niente di niente.
Era felice!
Quella sera glielo avrebbero consegnato, non stava più nella pelle.
Come ogni anno, anche quest'anno.
I bambini vagavano per le strade vestiti da mostriciattoli, "dolcetto, o scherzetto", gridavano dal basso delle loro piccole e fastidiose bocche.
Pazienza, doveva avere ancora un po' di pazienza, non doveva cedere proprio adesso, non doveva ascoltare i bambini ridere e scherzare per le strade, correre intorno alla sua casa.
Resistere.
A mezzanotte il campanello suonò, puntuale come ogni anno.
Si alzò dal vecchio divano in stoffa logora, trascinandosi pesantemente verso la porta d'ingresso, aprì, gettò lo sguardo in strada, non vi era nessuno.
Silenzio.
Arpionò il grosso sacco e lo trascinò in casa, con tutto il suo contenuto.
La cucina era modesta come il suo lavoro, come la sua vita, ordinata e ben curata, posizionò il sacco sul tavolo in rovere e lo aprì con cura, con rispetto, con cupidigia inaudita.
Preparazione e passione, è tutto qui il segreto per una buona e gustosa cenetta, ripeteva sempre la oramai defunta madre.
Un buon rosso dai riflessi rubino venne versato in un gran bicchiere a coppa, tutto era pronto!
Tornò verso il sacco, né estrasse il bambino ancora stordito e lo posizionò sul tagliere in legno.
Quattro, cinque anni al massimo, carne tenera, come i maialini di latte.
Sfoderò il coltello, mentre il piccolo lo osservava, senza comprendere.
Non un fiato, non un bèlo, la tenera carne scivolò sulla lama affilata, mentre fiotti di sangue denso sgorgavano dalle budella, finendo sul pavimento in marmo.
Un ottimo arrosto, un buon vino, pace e solitudine, era un uomo felice, pronto a tornare alla propria misera vita, nell'attesa del prossimo Halloween.
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Messaggio Da 4evermichael Sab Ott 22, 2011 10:11 pm

3) Halloween in Blu

«Ancora.»
Era un Freddy Kruger particolarmente esigente e tracagnotto: la razione non gli era bastata, ed era rimasto con le braccia grassocce tese, la bocca seria come un funzionario delle tasse, mentre le lame di plastica si staccavano dal guanto. Frank sorrise e gli versò altri dolcetti alla cannella e al miele, a forma di ossa e teschi. Il bambino non disse niente, scappò fuori dal giardino come un ladro dopo un colpo favoloso.
Frank chiuse la porta, spense il sorriso e tornò in salotto. Si lasciò risucchiare dalla sua vecchia poltrona. Era cominciata la grande maratona horror alla TV. Di là dello schermo un mostro verde era emerso da una palude e si stava dirigendo verso le luci di un paese, ma Frank non riusciva ad appassionarsi alla storia.
In quella notte gli spiriti tornavano a mescolarsi con gli uomini, e le persone morte l’anno prima avrebbero potuto trovare un nuovo corpo per tornare in vita. Se avesse prestato fede alle leggende su Halloween, quella avrebbe potuto essere la sera buona per sperare ancora, ma Frank era così vuoto che spesso udiva la propria voce e non credeva neppure di esistere. Quella sera era buona soltanto per una commemorazione funebre.
Dave.
Si aggrappò alla bottiglia di birra in bilico sul bracciolo come se fosse uno sperone di roccia. Si sentiva cadere. In realtà era già da un anno che cadeva. All’inizio, aveva cercato in tutti i modi di tirare avanti: si era tuffato nel lavoro, ma il dolore non diminuiva. Ogni giorno che passava era come un nuovo carico di terra che un camion gli scaricava addosso, e la festa di Halloween lo aveva sorpreso vuoto, e con la certezza che tutto quello che doveva succedere era ormai successo.
Dietro lo schermo del televisore il mostro si era appostato in un vicolo buio, in attesa della sua prima vittima.
Dave impazziva per i film dell’orrore, e fu nel reparto horror di un negozio di noleggio che i due si erano incontrati per la prima volta, il 31 ottobre di due anni prima. Lui, un giovane professore di chimica, e Dave, un ventiquattrenne che lavorava al fast food della zona. Si erano scontrati di fronte al DVD di Profondo Rosso - roba vecchia d’importazione - e Frank aveva perso l’equilibrio cadendo a terra. Quando Dave gli tese la mano per aiutarlo e scusarsi, Frank vide che tremava. Lo aveva rassicurato dicendo che non era successo niente, ma il giovane si era fatto piccolo piccolo e Frank temette che potesse mettersi a piangere. Fu proprio la timidezza di Dave a permettergli di scambiare qualche parola più del dovuto, e mentre riusciva a strappargli un sorriso, notò che il viso del giovane era come un’alba pulita dalla pioggia, con grandi occhi azzurri, e la sua pelle liscia gli ricordava il latte. Quella notte fu la più agitata degli ultimi anni. Del resto, da troppo tempo Frank era alla deriva in una solitudine che non sembrava avere fine. Cominciò a frequentare il fast food dove Dave lavorava, e a poco a poco riuscì a farci amicizia.
Un suono acuto risalì le sue orecchie. Frank riemerse dai ricordi. In TV c’era un ispettore di polizia accanto al corpo martoriato di una donna. Evidentemente il mostro verde era riuscito nel suo intento omicida. Quel suono tornò. Il campanello. Dietro la porta c’era un rumore impaziente. Frank si alzò e si trascinò fino all’ingresso, prendendosi il tempo per riaggiustare un’espressione simpatica sulla faccia.
«Dolcetto o scherzetto?» Erano due zombi e uno scheletro.
«Dolcetto! Dolcetto!» sorrise Frank. Allungò una mano su un mobile e pagò allo scheletro, che sembrava essere il capo, la salvezza per quella sera. Il ragazzo, diffidente, guardò nel suo sacchetto e prese in mano uno dei dolci appena ricevuti: era un biscotto, grande quasi come il suo palmo, a forma di cuore, e con la glassa che disegnava un piccolo e simpatico teschio al centro.
«Sono bellissimi!»
«E buonissimi!» aggiunse Frank. «Li ho fatti con le mie mani. È una mia idea.»
Lo scheletro parve non sentire le parole di Frank. Si infilò il sacchetto sotto il mantello e fuggì. I due zombi lo inseguirono, dopo aver dato un’occhiata stupita alla zucca colorata che Frank teneva in bella vista sulla finestra. Almeno quei tre avevano notato i biscotti che aveva cotto apposta per i ragazzi della zona. Invece, molto probabilmente, il Freddy Kruger di prima li aveva inghiottiti senza neppure guardarli.
Chiuse la porta e tornò in salotto. Si ributtò sulla poltrona in cerca di una birra. Aveva scoperto che Dave viveva con il padre, un severo ex-colonello dell’esercito, o qualcosa del genere, mentre la madre era morta tanti anni prima, quando lui era ancora piccolo. Il ragazzo aveva fatto dentro e fuori in un mucchio di centri specializzati nella cura delle malattie nervose. Frank era convinto che Dave non avesse nessun problema, ma che fosse solo un ragazzo eccezionalmente sensibile. Non aveva amici se non qualche conoscenza superficiale al lavoro. Con gli estranei era taciturno e abbastanza nervoso, e a volte, quando la situazione gli procurava imbarazzo, perdeva il controllo e poteva apparire come uno che avesse dei problemi mentali. Ma Frank era certo che fosse un mezzo genio. Avevano stabilito una sintonia fin dal primo incontro, e Dave riuscì ad aprirgli il suo universo. Non andava all’università, ma leggeva moltissimo, e sapeva inventare certe storie fantastiche o improvvisare per scherzo delle poesie che lasciavano Frank sempre esterrefatto. Era chiaramente un ragazzo che soffriva, anche per il fatto che viveva la sua omosessualità come una colpa segreta. Ma il padre era convinto che Dave fosse malato, e quando tornava a casa sventolava sotto agli occhi del figlio confezioni di nuovi antidepressivi e indirizzi di importanti specialisti. Per un mese il ragazzo fu costretto a soggiornare in un istituto a Philadelphia, e fu allora che Frank capì di non poter vivere senza di lui. Aveva una paura terribile di perderlo, ma il giorno che Dave fece ritorno a casa ogni muro crollò.
Quella sera erano usciti da un cinema, e non la smettevano di commentare il film horror appena visto. Frank sentiva l’odore intenso della pelle del compagno, mescolato con la fragranza di cocco che saliva dai fianchi, dal petto. Le mani del ragazzo non tremavano e il viso guardava con serenità la gente. All’improvviso Dave si voltò verso di lui e gli disse: “sto veramente bene con te”, e questo era tutto ciò che Frank voleva sentire. Si erano trovati come un naufrago e l’isola, quando tutti e due si erano sentiti perduti in mare.
Frank osservò la sua enorme zucca tutta dipinta di blu. A vederla da dietro sembrava quasi la testa di uno che stesse affacciato dietro al vetro a guardare le maschere dell’orrore girare per le strade.
Ancora il campanello. Un altro rimbalzo fino alla porta d’ingresso. Questa volta era il piccolo Charlie, avvolto in un lenzuolo che lo faceva inciampare a ogni passo.
«Dolcetto o scherzetto?»
Frank ripassò il solito rituale.
«Signore, perché ha dipinto la zucca di blu?» chiese prima di andarsene.
«Perché è un bel colore. Il più bello, non trovi?»
Il bimbo rimase sospeso nei suoi pensieri, tutto concentrato come se stesse risolvendo un problema di meccanica quantistica.
«No! Il più bello è il rosso!» e scappò via come un vero fantasma.
Frank rimase un istante fuori: la notte era fredda e pulita come una lastra di marmo. Una luna paffuta si dondolava in alto, ma la luce che buttava giù schiariva appena le ombre dei mostri che correvano di casa in casa.
Rientrò. Fissò la zucca.
L’aveva dipinta tutta di blu. Era il colore preferito di Dave. Non un blu qualsiasi, ma una tonalità ben precisa: blu di Prussia. Su questo il ragazzo era molto preciso: assicurava che era il colore più buono di tutti, come diceva lui, un colore che ti poteva far volare lontano. E per chi sapeva guardarci dentro, il blu faceva occhieggiare un verde nascosto, come le distese d’erba che avrebbe sorvolato se si fosse fatto inghiottire dal colore.
Ora il mostro verde era tornato in paese e stava sfidando i suoi nemici. Invano, ma non lo sapeva. Un po’ come lui e Dave. Fu un’ombra del passato di Dave a far precipitare la situazione. Frank non avrebbe mai saputo perché quell’ombra era tornata. Una mattina il padre trovò nella cassetta delle lettere una busta. Dentro, delle foto di Dave insieme con un altro ragazzo, nudi su un letto in una camera di un motel. C’era una breve nota allegata: il mittente non era un ricattatore, lo aveva fatto solo per il piacere di rovinare Dave.
Il padre pestò a sangue il figlio, promettendo sfaceli. Ogni giorno gli mangiava la faccia quando lo incrociava per casa, e gli assestava un paio di pugni se gli pareva di non essersi sfogato a sufficienza. Poi, alla rabbia seguì l’indifferenza, e l’ex-colonnello divenne un estraneo gelido e tagliente come un coltello. Dopo qualche giorno, gli comunicò la sua decisione di farlo ricoverare in una clinica per un lungo periodo. Con le sue conoscenze non sarebbe stato difficile far passare il figlio per un povero demente.
Appena poteva, Dave si rifugiava a casa di Frank, e alla fine gli raccontò tutto. Fu costretto a farlo, perché Frank era intenzionato ad andare dal padre e chiarire con le buone o con le cattive tutta la faccenda, cosa che per il ragazzo equivaleva alla morte, più o meno.
L’altro ragazzo delle foto era il suo ex, un teppista che non aveva mai mandato giù l’idea di essere stato lasciato. Forse era stato lui a vendicarsi, dopo così tanto tempo. Le foto le avevano fatte con l’autoscatto. Frank rimase gelato: non sapeva che Dave avesse avuto un’altra storia, soprattutto non se lo immaginava perché una volta glielo aveva chiesto, e lui aveva risposto di no. Perché glielo aveva nascosto?
Con gli occhi gonfiati dalle lacrime, il giovane disse solo che se ne vergognava, che era stato uno sbaglio, e non voleva che lui pensasse male. Poi tacque.
Ma la situazione peggiorò in modo grottesco: a quanto pare, il segreto nascosto nella lettera era divenuto di dominio pubblico. Forse per colpa del suo ex. Gli adulti si limitavano a guardare storto Dave e a fare velenosi commenti dopo il suo passaggio. Ma la crudeltà venne dai più giovani. Forse i genitori avevano detto loro che Dave era un tipo da evitare, un malato o cose del genere. I bambini e i ragazzi della zona cominciarono a prenderlo in giro, ovunque lo incontrassero: per la strada, nei negozi e anche sotto casa. Proseguirono con gli insulti, e poi con mille scherzi idioti. Ogni giorno. Le crisi nervose si decuplicarono, e Dave perse il posto di lavoro.
La notizia dovette passare dai più piccoli ai ragazzi e, in particolare, a una banda di sbandati che pensarono bene di attendere Dave sotto casa, e di pestarlo, così, giusto per sapere come grida un gay quando gli molli un calcio nelle palle. L’ex-colonnello non denunciò l’aggressione, e si limitò a non urlare in faccia al figlio il suo disprezzo. Da allora Frank non vide più il ragazzo che amava, ma solo un fantasma che non riusciva neppure a camminare senza fare gesti strani o sbavare.
Lo stava perdendo. Frank tentò il tutto per tutto e gli propose di andare a vivere da lui, ma Dave, in un momento di lucidità, rifiutò. Temeva che la cosa avesse dei risvolti negativi. Del resto, chi aveva combinato quel casino si era ben guardato dal far cenno alla sua relazione con Frank, e suo padre era capace di tutto, anche di rovinargli la carriera di professore. L’ultima volta che lo vide, Frank cercò di svegliarlo rimproverandolo per la sua debolezza. Semplicemente, aveva perso la pazienza e non ce la faceva a vederlo soffrire così. Dave lo guardò stupito, dietro una maschera irriconoscibile.
«Il problema è solo mio», balbettò. «Io non sono di questo mondo.» Poi lo guardò triste, lo baciò appena, come se fosse infastidito, e scomparì. Fu l’ultima volta che lo vide, e dell’ultimo incontro gli rimase l’immagine che lo ha perseguitato per un anno fino a quella sera: Dave che si allontana caracollando come un ubriaco, con la schiena piegata, mentre i ragazzi, grandi e piccoli, gli urlano dietro e lo spintonano.
Due giorni dopo, il 31 ottobre dell’anno prima, il padre lo trovò impiccato in camera. Frank non riusciva a liberarsi dal pensiero che l’ex-colonnello avesse potuto emettere un sospiro di sollievo alla vista del figlio che pendeva nell’aria.
I minuti passarono, e alla TV il mostro verde giaceva nella piazza della città, morto e disteso in una pozza di liquame scuro che doveva essere il suo sangue. Intorno, i poliziotti - con l’ispettore in testa - esultavano di gioia. Frank finì l’ennesima birra, e solo dopo aver fatto rotolare lontano l’ultima bottiglia fissò il vassoio di dolci che teneva sul tavolino.
Il mostro era stato sconfitto, e il film era finito. Ne stava cominciando un altro, ma non importava. Era sempre la stessa storia. Agguantò il vassoio e guardò i biscotti che lui stesso aveva preparato, quelli con la glassa a forma di teschio.
Fissò la zucca blu. Dave era un sognatore, un tipo estroso, e al blu di Prussia sapeva ricollegare scenari fantastici, sogni e versi di poeti famosi. Frank era molto meno fantasioso, ma sulla tomba del suo amore ringraziò Dio di essere così ottuso e materialista. Perché a un chimico come lui il blu di Prussia non poteva che ricordare una cosa: il cianuro. Sapeva che da quel colorante era possibile isolare l’acido cianidrico, e poi produrne i sali.
Cianuro. Di potassio, per l’esattezza. Ottenerlo non era stato difficile per un chimico come lui. Era riuscito a introdurre il sale finemente pestato nella pasta dei dolci, senza che il composto si degradasse in alcun modo. Quando gli era balenata l’idea per la prima volta, si era ritrovato con un sorriso idiota e gli occhi pieni di lacrime.
Gli parve di sentire un grido strozzato, ma non ne era certo. C’era così tanta confusione là fuori. C’erano i bambini, l’ultimo anello della catena che aveva spezzato la vita di Dave. Avrebbe voluto far fuori il padre, ma subito dopo la tragedia l’uomo aveva traslocato, ed era partito per una destinazione ignota. Avrebbe voluto far fuori quell’ombra che aveva dato inizio a tutto, ma, a dire il vero, aveva solo un nome e nemmeno un volto: quelle fotografie non le aveva mai viste. Rimanevano loro, i bambini. I meno colpevoli. Avrebbe compiuto una vendetta vile, da quattro soldi. Che schifo di mondo.
Ricordò l’ultima immagine di Dave.
Questa volta era abbastanza sicuro di udire le urla di alcuni ragazzi in mezzo alla strada. Sentì dei pianti, bambini che chiamavano i genitori. E, appena percettibili, dei gorgoglii. Frank immaginò la cascata di reazioni che doveva squassare il corpo delle vittime: all’inizio, dallo stomaco risale un sapore amaro e pungente, mentre la gola s’intorpidisce e diventa pesante come un masso. Poi la testa comincia a girare, a far male, e senza accorgersene ci si ritrova a terra, a cercare di prendere aria con respiri spezzati e irregolari. Nel frattempo arrivano le convulsioni, e si è sommersi dall’odore di mandorle amare che risale dai visceri che bruciano. Poi, dopo pochissimo istanti e tanto dolore, il cuore si ferma. Addio, gente.
Sì, qualcosa stava succedendo. Le voci e gli strilli si accavallavano in un’unica onda poderosa, che stava sommergendo tutto il quartiere.
Frank si sistemò sulle gambe il vassoio e cominciò a mangiare i suoi biscotti, senza fretta. Finché poté, non staccò gli occhi dalla sua zucca blu. Voleva chiudere ogni conto, in quella sera e con quel colore davanti.
Halloween in blu.
Tutto era finito e perduto per sempre, ma almeno sarebbe andato là dove Dave era sempre stato: fuori del mondo.


4) GIOVANNA LA PAZZA(Giovanni Buzi)

Sera di Halloween.
Mollichino, piccolo villaggio tra le montagne, 668 anime.
Tutti i bambini sono in festa, mascherati da elfi, Biancaneve, la Bella Addormentata eccetera, vanno di casa in casa per racimolar dolci e caramelle. Mezzo metro di neve, la luna sospesa come una testa mozza. La casa di Giovanna è piantata accanto a un precipizio. Del gruppo, solo cinque bambini hanno il coraggio d’oltrepassare il cancello e bussare a quella porta, toc toc, il cuore in gola.
- Buonasera, graziosi, sorride una vecchia befana, meglio conosciuta in paese come Giovanna la Pazza. Cosa posso fare per voi, piccini?
I bambini, protetti dalle maschere, allungano una mano e rispondono,
- Buon Halloween, signora.
- Buon Halloween a voi, bellissimi. Volete una fettina di torta alle mele, una manciata di dolciumi, un pan di Spagna con crema, ciliegie e fragole fresche? Immagino di sì. Venite carini, venite...
I pupi, pur esitanti, entrano. La vecchia, gonne, sottogonne e scialle nero, li guida all’interno. Ad un lato del caminetto acceso c’è una tavola imbandita d’ogni leccornia, dall’altro un albero di Natale. “L’albero a novembre?”, pensano i bimbi. A più d’uno scappa da ridere, ma non c’era da stupirsi, non stavano in casa di Giovanna la Pazza?
Dai rami sfilacciati d’un abete in peluche, tra palle rosse e piccole zucche di vetro, s’accendono e si spengono mini teschi di plastica di tutti i colori.
- Vi piace il mio albero?, dice la vecchia con gli occhietti lucenti.
- Bello!, fa un bimbo-puffo tutt’azzurro.
- Bello sì... ma avete visto qui?, dice Giovanna la Pazza mostrando il tavolo pieno di dolci.
- Eccome!, esclamano in coro i pupi avventandosi su quel ben di dio.
- Calma belli, fa con voce ferma la vecchia.
I bimbi si bloccano.
- Tutto questo è per voi, ma chi vuole servirsi deve prima fare un piccolo giochino.
Che storia era quella? Erano pupi sì, ma non scemi. Tutti avevano la tele in casa e tutti sapevano quello che succedeva per il mondo, il bello (poco) e il brutto (molto). Adesso, pazza o non pazza, che voleva la vecchia?
- Ragazzi, quello che voglio da voi è una cosa molto semplice. Ascoltate: si potranno servire al Tavolo delle Dolcezze solo quei bambini che riusciranno a colpirne almeno una, e detto ciò mostra su una cassapanca una ventina di zucche con naso, bocca e occhi intagliati. Dimenticavo, continua la vecchia, sotto due zucche ci sono i genitori d’uno di voi.
- Come?, dice una bambina vestita da Bella Addormentata.
- Ho fatto due fori nella cassapanca. Da quei buchi passano le teste dei genitori d’uno di voi.
I bambini si guardano e scoppiano a ridere; non poteva esser vero. Era proprio Pazza, quella Giovanna! Accettano. Un bambino prende una noce da una cesta, sta per tirare quando sente la vecchia dire:
- Calma, bello. Cosa fai?
- Tiro.
- Buona idea, ma non le noci.
- Cosa, allora?
- Queste, fa la vecchia mostrando un bel cesto di mele rosse.
- Perfetto, dice una puffa, sarà più facile colpire le zucche.
- Sì, molto più facile. Però dovete sapere che cinque mele sono avvelenate.
- Ma questa non è un’altra favola?
- Silenzio! Chi partecipa al gioco può tirare tre sole mele. Se colpisce una zucca si serve al tavolo di tutto ciò che vuole, se le manca, se ne va a mani vuote.
- Cosa vuol dire che le mele sono avvelenate?
La vecchia sceglie una mela dal paniere, la passa sullo scialle, ci si specchia e la tira con forza contro il tavolo. Una zucca viene colpita ed esplode!
- Caspita, che c’hai messo, vecchia?
- Ce ne sono ancora quattro così. Non preoccupatevi, a voi non succederà niente.
- Ci sono veramente i genitori d’uno di noi sotto alle zucche?
- Lo giuro!, mette una mano sul cuore Giovanna la Pazza.
- E se li colpiamo con una mela avvelenata...
- Faranno Boom!, la vecchia aprendo le mani e mostrando un bel sorriso.
- Io ci sto, dice un elfo prendendo una mela.
- Gioco anch’io!, un Peter Pan tira e manca d’un pelo una zucca.
- Anch’io!, dice la Bella Addormentata lanciando una mela che colpisce in pieno buum! una zucca.
Il sole s’alza e fa risplendere le montagne innevate. A Mollichino, villaggio di 668 anime, ne mancano due all’appello; i genitori della piccola Maria, la Bella Addormentata.
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Messaggio Da 4evermichael Sab Ott 22, 2011 10:11 pm

5) LE ZUCCHE DI OGNISSANTI(Laura Mango)

Angela aveva dei vicini di casa molto silenziosi.Non si vedevano mai, sapeva della loro esistenza solo perché talvolta si affacciavano a bere il loro the scuro e fumante.
In tutto erano solo tre ragazzi: due femmine e un maschio. E lo furono per parecchio tempo o meglio finché una delle ragazze non svanì. Nel nulla, proprio nel nulla. Venne la polizia, li interrogò entrambi, ma non ne cavò niente: alibi inconfutabili e nessun movente.
Era accaduto la sera della vigilia di Ognissanti.
La mattina dopo Angela aveva trovato sui loro scalini due bellissime zucche arancioni intagliate con la classica boccaccia scura e dentellata, e con una candela dentro che spandeva tutt’attorno una breve luce.
Il giorno era davvero molto nuvoloso e le zucche contro la parete di pietra della casa sembravano tanto più splendenti.

Erick ed Anne non credevano fosse una buona cosa festeggiare Ognissanti quell’anno: esattamente la stessa sera di dodici mesi prima, la loro amica Ira era svanita nel nulla proprio andando a cercare delle zucche per la vigilia.
Ma, si dissero che il modo migliore per esorcizzare la paura fosse quello di andare proprio a cogliere quelle zucche.
Il campo dove crescevano stranamente incolte era a nord del paese. Loro, che erano tedeschi, non avevano mai ben capito certi atteggiamenti così assurdi degli italiani: perché lasciare terreni incolti appena dietro il paese? Non aveva senso.
A parte questo, il posto era davvero insolito. Infatti nei terreni attorno a questo campo più piccolo con le zucche, c’erano delle buone coltivazioni e il terreno era molto fertile, chissà perché lasciare quel fazzoletto di terra con le zucche così vuoto. Forse, avevano dedotto alla fine, era un territorio dello stato che poteva avere addirittura dimenticato di possederlo lasciandolo perciò inselvatichire.
Questa volta in due, si avviarono nel plumbeo pomeriggio del 31 ottobre a cogliere queste due zucche.
Erano le cinque del pomeriggio, tirava un forte vento e non passava nessuno.
Anne strinse forte la mano di Erick, non riusciva a parlare per l’angoscia. Era dal momento in cui avevano messo piede in quello strano campo arancione che aveva i brividi.
Sapeva che non dovevano essere lì.
“Erick andiamo via, io ho paura”, gli sussurrò in italiano.
“Ma smettila!”, replicò lui in tedesco.
Anne allora si guardò attorno e notò che le zucche erano sparse un po’ ovunque, scomposte al suolo, come abbandonate, e che erano unite dai loro tralci verdastri, ma prive di ogni perizia agricola. Erano cresciute selvaticamente ed incomprensibilmente dato che quello non era terreno da zucche.
“Se i nonni ti vedessero adesso, sai quante risate si farebbero?”, continuò lui ridacchiando.
Anne ebbe fulmine la visione del glorioso nonno Von Larck, eroe della seconda guerra mondiale pluridecorato al valore. Era un’immagine quella, che le si era stampata nella mente durante l’infanzia quando quell’enorme quadro che lo raffigurava era appeso nella grande villa di campagna della sua famiglia.
Lei, Ira ed Erick si erano conosciuti proprio perché i loro tre nonni erano stati molto amici durante la seconda guerra mondiale. Avevano combattuto in Italia nello stesso reggimento, esattamente dalle parti in cui loro abitavano in quel momento. Purtroppo di loro non era tornato che il nonno di Anne, in preda ad un’assurda frenesia.
Non era stata una bella guerra, ma lui tanto fece e tanto raccontò che sia a lui che ai suoi due amici defunti conferirono una medaglia al valore.
Poi le tre vedove s’incontrarono e i loro tre figli crebbero insieme. Ognuno di loro ebbe a sua volta ebbe un solo figlio, Ira, Erick ed Anne, e decisero che dovevano crescere anche loro come fratelli.
Quindi una volta cresciuti, ad Ira era venuta l’idea di passare qualche tempo in Italia proprio nel posto dove i loro nonni avevano così gloriosamente combattuto; così si erano ritrovati ad abitare in un appartamento nel mezzo di un bel borgo medievale.
Ira era scomparsa e loro cercavano le zucche.
Ad un tratto, mentre saggiavano la consistenza di qualcuna, Erick gridò un’esclamazione in tedesco e indicò ad Anne una fila di dieci zucche bellissime sotto un noce su di una piccola altura lì vicino.
Correndo tra i tralci arrivarono fin lì e pensarono che quelle dieci zucche fossero davvero belle: grandi, sode, mature e di un arancione acceso ai limiti dello sgargiante. Se ne stavano tutte e dieci in fila perfetta sotto questo noce da cui cadevano tante foglie rosse, come gocce di sangue. Se fosse stata una coltivazione, avrebbero detto che dovevano essere di una qualità di gran lunga superiore a tutte le altre.
“Prendiamo due di queste”, disse Erick.
Anne annuì un po’ sollevata: avevano trovato le zucche e non era ancora sera, potevano stare tranquilli dopotutto.
Con i coltelli portati da casa ne staccarono le due più grosse dal terreno e se le misero in braccio. Poi, mentre stavano per andar via, Anne notò un riflesso in controluce provenire tra le pieghe della corteccia del noce. Si avvicinò e con una mano pulì la macchia splendente coperta dal muschio che le era parso di vedere. Sembrava una targa dorata.
“Cosa c’è Anne?”, domandò Erick tornando indietro.
“Aspetta un attimo. Qui c’è scritto qualcosa. Mi pare che sia una targa di commemorazione. Dice che…dice che nell’Ottobre del ’44 c’è una battaglia tremenda tra i tedeschi in ritirata e i partigiani. I partigiani furono massacrati e per giorni i loro corpi rimasero insepolti su questo campo. Sotto questo albero i tedeschi fucilarono i dieci capi partigiani una volta vinto e…”
Anne si interruppe e soffocò a malapena un grido. “Cosa c’è adesso Anne?”, chiese Erick esasperato.
Anne indicò tre nomi sotto la targa.
“Il massacro fu compiuto ad opera di…”
Anche Erick si fermò per deglutire, una foglia rossastra gli si poggiò sulla mano. Non riuscì a pronunciare quei tre nomi.
Piuttosto stava per dire ad Anne di andarsene, quando i tralci della zucca che aveva tra le braccia gli si strinsero ai polsi, come se avessero preso improvvisamente vita.
Imprecò in lingua e guardò terrorizzato Anne. La vide combattere disperatamente con i tralci animati della sua zucca. Gridò il suo nome prima di scorgerne molti altri uscire dal suolo come alti serpenti per cingerle le caviglie, la vita e il collo.
La terra tra le zucche in fila indiana si aprì, ritirandosi come le acque del mar Morto, e lei venne inghiottita senza nemmeno un grido per colpa di una foglia che le si era infilata in bocca di traverso.
Questa fu l’ultima cosa che Erick vide con chiarezza, poi il respiro gli mancò e con lui la terra sotto i piedi. Decine di tralci lo avvolsero e sprofondò, tra le dieci bellissime zucche.
Angela quella mattina di Ognissanti tornava da una festa col suo borsone rosso. Sperò che anche quell’anno i vicini tedeschi avessero acceso le zucche sugli scalini di pietra della casa.
Rimase felicemente sorpresa quando, tutte attorno al muro del loro appartamento, trovò dieci zucche incredibilmente belle, tutte intagliate e tutte con una candela splendente dentro che spandeva tutt’attorno una breve luce.


6) L'ANGELO DELLA SALVEZZA (Marta Pagliaro)

“Cazzo! Oggi non me ne va una giusta, già sono in ritardo, mancava solo questo maledetto traffico!” esclama innervosito Giorgio travestito da Gomez “Mi burleranno anche oggi!” afferma rassegnato. “Se non riesco a venirne fuori, addio festa! Proprio questa sera che avevo davvero intenzione di divertirmi!” Mentre Giorgio dà libero sfogo alla sua rabbia, il traffico inizia a scorrere, sempre più velocemente, fino a che, sgombra la strada gli permette di accelerare. Nel buio della sera l’alta velocità, l’asfalto bagnato fanno perdere a Giorgio il controllo della vettura su cui viaggia. Alla Fine di una curva l’auto sbanda, sbatte contro un palo della luce ribaltandosi su se stessa più volte, fino a schiantarsi contro un grosso albero in fondo ad un burrone. La festa è animata, gli amici di Giorgio si divertono, mascherati da scheletri, streghe, vampiri, zombi, folletti dispettosi, angeli della morte ecc.. si insultano, scambiandosi a vicenda sguardi arcigni, urla e ghigni. Bussano alla porta. Apertala, Giulio grida agli amici “Ehi, ragazziiii.. il solito ritardatario è appena arrivato!” “ Ti aspettavo caro, non arrivavi più!” Si fa avanti, imbronciata Laila, travestita da Morticia. “Eccomi, sono tutto tuo!” Giorgio la consola, prendendola sotto il braccio.. “Andiamo a vedere, cosa fanno i nostri due malvagi bambini cara!” Continua Giorgio, sostenendo il gioco della famiglia Adams iniziato da Laila. Ottimo consiglio, mio dolce Gomez!” risponde Laila, perdonatolo. I due si allontanano dal gruppo, si appartano. Alla luce della luna piena si baciano e si dichiarano. Altri seduti al tavolo in cucina, a lume di candele disposte nelle varie zucche, svuotate come vuole la tradizione, giocano a carte con Martina, travestita da medium. Mescolate, disposte sul tavolo, Martina per finta evoca i morti. Giorgio a sentirla, avverte un senso di fastidio, preso per mano Laila si allontana.
Bussano di nuovo alla porta, i ragazzi eccitati, corrono, pensano che sia un altro ritardatario e scoprono invece la triste e brutta notizia. “Siamo della polizia, scusate l’intrusione ragazzi, ma noi abbiamo domande da porvi!” Comunica il commissario. “Riguardo a che cosa, signor commissario!” Chiede Mirko proprietario della villa. “Ad un certo Giorgio Granelli!” “Il nostro amico!” “Era vostro amico quindi!” “Era? È nostro amico, se mi dice cos’è che vuole da lui, lo chiamo, è di la con gli amici che si diverte!” “Ne sei sicuro?” “Sicurissimo, entri, lo constaterà da se!” Il commissario entra, seguito da due poliziotti, tra la folla di giovani mascherati, cercano Giorgio mascherato da Gomez, ma di lui non si hanno tracce. “Mi avevate detto che era qui!” Sostiene il commissario. “Si, era qui pochi minuti fa, era in compagnia di Laila, chiedete a lei!” Il commissario chiede a Laila notizie di Giorgio, ma ella risponde di averlo visto allontanarsi poco prima della loro venuta. Il commissario avuto la conferma che Giorgio era un loro amico e che mascherato quivi era diretto, annuncia ai ragazzi la morte del loro caro amico avvenuta in un incidente d’auto mentre era diretto ad una festa di Halloween. I ragazzi sgomenti replicano: “Non può essere possibile, era con noi pochi minuti fa!” Laila disperata piange, dicendo:“Gli ho parlato, insieme abbiamo riso, scherzato, ci siamo persino baciati, dichiarati finalmente!” “E’ vero” rispondono gli altri. “Sapreste dirmi più o meno che ora fossero?” chiede il commissario. “Circa le ventitrè !” risponde Giulio. “Mi spiace ragazzi, ma l’incidente è avvenuto prima, all’incirca alle ventidue, e l’ora del decesso è stata confermata dal medico legale. Siamo venuti da voi perché abbiamo trovato in macchina l’invito della festa, con sotto l’indirizzo e il numero civico in cui si teneva.!” “I genitori di Giorgio sono stati già avvisati della disgrazia?” chiede Stefano ai poliziotti. “Si, sono all’obitorio per l’identificazione!” risponde il commissario. La festa finisce all’istante, i ragazzi spaventati, confusi, tristi fanno ritorno alle rispettive case, guidando con molta prudenza.. I genitori di Giorgio siedono su di una panchina distrutti dal dolore, piangono la morte del figlio senza voler essere confortati. Giorgio in fondo al parco della villa, vede gli amici andare via, spegnere le luci, si fa avanti per capirne la ragione, li chiama, ma nessuno gli risponde, è come se non lo vedessero. Segue Mirko in camera sua, lo sente piangere, disperarsi per l’improvvisa morte di lui. Giorgio non crede alle sue orecchie, gli si avvicina dicendo: “ Non è vero, non devi piangere, io sono qui Mirko, dinanzi a te, toccami e sentirai che sono vivo come te!” Ma Mirko non lo sente, continua a sfogare la sua pena piangendo. Pazzo di dolore Giorgio va via dalla villa, vaga per le strade, ripercorre la strada, per cercare di ricordare, cammina, al centro di essa, le macchine lo investono senza causargli nessun danno. Arrivato sul posto, vede la sua macchina in fondo al burrone, capisce di essere stato vittima di un incidente, ma non vuole credere di esserne rimasto ucciso. Crede di essere rimasto ferito, di trovarsi in gravi condizioni in ospedale, prigioniero del coma. “Ed è per questo che gli amici non mi vedono, non sentono!” si ripete per convincersi. “Devo svegliarmi assolutamente, i miei amici soffrono, devo tornare da loro, non posso rimanere in un letto d’ospedale legato a dei macchinari. Sono giovane, ho tutta una vita davanti a me e moltissimo tempo ancora da spendere. I miei genitori saranno in pensiero, devo andare da loro!” Si reca in ospedale, gira per i vari reparti , ma del suo corpo non trova tracce. Lungo un corridoio incontra l’angelo della morte che gli dice: Cos’è che cerchi?” “Il mio corpo!” “Perché lo cerchi tra i vivi, tu che sei morto?” “Io non sono morto, sono ancora vivo, lo volete capire si o no!” “Fidati di me, io sono l’angelo della morte, ti ho fatto visita prima che morissi per avvisarti, non ricordi?” “Non è vero, non eri tu, era il mio amico Stefano che si divertiva a spaventarmi, dato che eravamo insieme alla festa di Halloween!” “Prima ti convinci e meglio è per te amico!” Giorgio fugge dal reparto, giù nell’atrio dell’ospedale vede i genitori che piangono, si disperano per la sua morte. Li guarda sconvolto, attraversa la porta chiusa dell’obitorio e si scopre cadavere etichettato su di un tavolo. Come gli amici e i genitori piange disperato la sua morte prematura. Non vuole andare via dal suo mondo, l’altro lo spaventa, è solo, non sa cosa fare. Poi si ricorda di Martina, delle carte, il senso di fastidio avvertito quando ella per finta evocava i morti. Torna indietro, ripercorre i vari reparti in cerca dell’angelo della morte, cerca aiuto, solo costui può darglielo “Finalmente ti ho trovato, ti prego di aiutarmi, non so come fare per poter comunicare con i miei amici e genitori!” prosegue “E pensare che poche ore fa, mi hanno veduto, parlato con me, perché ora non accade?” “Perché non ancora spiravi, e il tuo ultimo desiderio veniva esaudito prima della mia venuta!” poi continua “E’ cosi per tutti, ora sta a te decidere cosa fare riguardo alla tua nuova vita!” “Voglio rimanere sospeso tra la terra e il cielo, vivere tra i due mondi per sentirmi vicino sia all’uno che all’altro!” “Allora guarda me ed impara!” Avute diverse dimostrazioni, Giorgio impara a comunicare con i vivi. Si reca a casa di Laila, riuscito finalmente a farsi sentire, la convince ad accompagnarlo da Martina. Le due ragazze dispongono le carte sul tavolo e dopo aver pronunciato formule magiche, interrogano Giorgio, che spostatele con la sola forza del pensiero, inizia a comunicare, dicendo: “Mi spiace avervi lasciato così presto, è accaduto tutto in una breve frazioni di secondo, da non rendermene conto fino a che non mi sono visto cadavere all’obitorio. Desideravo davvero divertirmi quella sera al festa, ma tutto è andato storto sin dall’inizio. Ero già molto in ritardo e quando ho avuto dinanzi a me libera strada, ho accelerato perché vi giungessi. Vorrò essere l’angelo della salvezza, proteggerò i giovani dagli incidenti stradali, renderò lucide le loro menti annebbiate e guiderò le loro mani durante il percorso prima e dopo le feste, li sorveglierò durante le feste e con loro mi divertirò anch’io, il vostro Giorgio!”
È di nuovo Halloween, Giorgio è lì nella villa che si diverte con i suoi amici.
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Messaggio Da 4evermichael Sab Ott 22, 2011 10:12 pm

7) IO NON FESTEGGIO HALLOWEEN(Cyb)

Sono trascorsi sei anni, ma ricordo ancora.
Fu davvero straziante ciò che si presentò alla vista dei soccorritori dopo l’incendio.
La vecchia “Derek’s Coffins”, la fabbrica delle bare che serviva tutta la Contea, bruciò violentemente in pochissime ore senza dare la possibilità d’intervenire ad alcuna squadra di vigili del fuoco.
Dentro era pieno di segatura e trucioli sparsi.
L’ambiente era da sempre disordinato, con le bare ammonticchiate, le une sulle altre, vicino alle cataste di assi da lavorare con la sega circolare e con la pialla elettrica.
Il buon Booth, lo Sceriffo, aveva spesso rimproverato il signor Derek affinché provvedesse ad una maggiore pulizia dell’ambiente e ad un maggiore ordine.
Per la sicurezza, diceva.
Riceveva degli assensi cortesi, ma infastiditi, e i due ragazzi alle prese con la sega e la piallatrice continuavano imperterriti a fumare le loro sigarette fatte a mano davanti al loro principale che masticava, peraltro, il suo immenso sigaro cubano.
L’incendio rimosse ogni rimandare incenerendo tutto come stoppia.
Il bancone di lavoro fu ritrovato carbonizzato, rovesciato con tutti gli utensili sparsi intorno, abbrustoliti, nerastri o lucidi di fiamma.
Il coroner esaminò i corpi dei due ragazzi e del signor Derek.
Avevano cercato di fuggire tra le fiamme e il fumo denso che li accecava, ma non avevano fatto in tempo.
Non fu dato di sapere più alcun particolare: il medico legale fece una faccia scura e sibillina e si abbottonò per sempre sull’argomento.
Patirono di sicuro una morte orribile, ma forse anche misericordiosa, nel morso atroce del fuoco, ma anche in un soffocamento velocissimo per il fumo acre e spesso.
Nessuno ebbe modo di osservare i tre cadaveri.
Dopo poco tempo non se ne parlò più, per pudore ed orrore.
Neanche quando otto mesi dopo, all’ultima sera d’ottobre, ad Halloween, morì lo Sceriffo nel rogo della sua casa.
Il suo corpo non fu mai più ritrovato e l’evento terribile fu attribuito ad un corto circuito che aveva avuto buon gioco sulla vecchia casa di legno.
Io, invece, m’insospettii per qualcosa che sentii dire in giro.
Si vociferava di tre bambini che giravano per le case, intabarrati fino ai piedi da brandelli scuri bruciati.
La vecchia signora Higgins affermò che dalla finestra aveva visto che indossavano delle maschere scurissime, quasi nere, davvero spaventose, e che camminavano con un’andatura strana ballonzolante, anche se non poteva scorgere i loro piedi coperti da quegli orribili stracci.
S’affacciò dopo il loro passaggio e percepì un disgustoso odore di carne bruciata.
Da allora in poi, ogni anno, la sera di Halloween, una casa del paese brucia sempre inspiegabilmente insieme ai grandi fuochi della festa e non si riesce a recuperare la o le vittime del rogo.
Qualcuno dice di avere scorto gironzolare tre ragazzini mascherati, tutti in nero, che gridano contro le case illuminate il loro classico “Dolcetto o scherzetto” con innaturali voci cavernose…
E’ per questo motivo che in prossimità di ogni Halloween, dalla morte di sei anni fa dello Sceriffo Booth, diffidente come sono e con la mia sensibilità molto ricettiva, parto verso la fine di ottobre e ritorno dopo la festa dei morti.
Quei tre bambini mi puzzano tanto di spiriti adulti affamati e vendicativi, morti bruciati vivi in un denso fumo nero, con le gambe tranciate da una sega circolare impazzita di una fabbrica di bare andata a fuoco molto tempo fa…


8) AL DIAVOLO HALLOWEEN(Francesco Donato)

L’aveva notata all’ingresso della facoltà, mentre con una mano reggeva stretti al petto gli enciclopedici appunti di Simona, intenta ad accendere l’ennesima sigaretta, e con l’altra tastava il ciuffettino di barba, appena sotto l’orecchio destro, dimenticato per la troppa fretta.
Poi tutto era venuto da sé: scambio di sguardi, lei che si trattiene disinvolta più del dovuto davanti al calendario d’esami, sorrisini, ma si dammi una sigaretta anche a me che ancora è presto, ma non avevi smesso di fumare, la conosci quella ragazza che frequenta il tuo corso, si certo è la cugina del mio ex, occhiate eloquenti prima di entrare in aula.
Al resto ci aveva pensato Simona, anche se, Roberta, così si chiamava, aveva manifestato profonda complicità:
Che fai ad Halloween, caffè e sigaretta, stiamo organizzando all’Arcadia ti do gli inviti porta gente, io non ci sarò magari lo dico al mio amico di stamattina, carino l’amico tuo, ma non lo vedo spesso, dai lo chiamo io più siamo meglio è, e compagnia bella.
Ecco il numero. Ed il gioco è fatto.
Era andata, era solo da amministrare bene la situazione adesso.
Novantesimo minuto sopra di due gol.


- Quando le ho detto che non avevi un cellulare, e che ti avrebbe dovuto chiamare su un numero fisso per darti gli inviti si è messa a ridere, ed avrà sicuramente pensato che sei l’unico idiota che nel 2004 ancora non ha un cavolo di cellulare. Ma tranquillo, non le ho detto che scrivi battendo a macchina perché odi il computer e che ascolti la musica tassativamente su nastro e su vinile. Quanto sei strano lascio che sia lei a scoprirlo, anche se comunque Roberta è una che non va tanto per il sottile. –


Il dito che affonda sul tasto, l’asta che batte sulla carta imprimendo la lettera sul foglio, il rumore metallico della leva per andare a capo…
Scrivere al computer non avrebbe potuto mai e poi mai donargli queste sublimi sensazioni, e Luca non avrebbe mai e poi mai rinunciato a questo piacere viscerale. Come d’altronde, quando con meticolosa precisione appoggia la punta del giradischi tra i solchi del vinile, e ogni tanto dalle casse arriva uno leggero scricchiolio, perchè magari il disco non è più nuovo come una volta.
Rolling Stones, You gotta move, stasera ci sta tutta, questo credo debba aver pensato Luca, abbassando leggermente il volume e piazzandosi davanti alla macchina da scrivere.
Tanto il telefono era lì, ben in vista sul mobiletto frontale, doveva solo squillare, lui avrebbe alzato la cornetta e domani festa di Halloween con la tipa. Non si sentiva tagliato per queste cose a dire il vero, ma si sa, le persone che ci colpiscono veramente sono quelle che ci fanno fare le cose più assurde. Poi Halloween tutto sommato non è mica andare al Carnevale di Venezia con mascherine e coriandoli, o vestirsi da Babbo Natale il 25 Dicembre. Di certo non ci sarebbe andato in giacca e cravatta, ma una telefonata a Simona e tutto sarebbe andato liscio. Lei avrebbe risolto come sempre i suoi problemi.
Certo, l’unico problema al momento era il telefono, che non ne voleva sapere di squillare. E squilla dai…Ma si, meglio mettersi a scrivere un pò, che quando c’è l’adrenalina dentro, vengono fuori le cose migliori.
Che poi questa Roberta era proprio bella. Poi se ci aggiungiamo il profilo da divoratrice di uomini emerso dai discorsi di Simona, ce n’era abbastanza per esaltarsi. Alta quando basta, viso acqua e sapone, occhiali da donna in carriera, formosa quando basta, e anche qualcosa in più. A dirla proprio tutta, se proprio era il caso, valeva anche un travestimento da Uomo Lupo o da Conte Dracula. Dai forse anche da Power Ranger…
Ecco il telefono che squilla, un colpetto di tosse con la mano pronta ad alzare la cornetta, e via.
- Pronto? –
- Pronto? –
Una voce maschile. Oddio, chi è questo ora, pensò Luca. E poi “pronto” lo dico io casomai…
- Come pronto? Scusi chi è lei? –
- Chi sono io? Lei chiama ed io dovrei dirle chi sono? Lei dovrebbe dirmi chi è giovanotto! Funziona così, sa? –
- No guardi, io ho sentito squillare il telefono, ho alzato la cornetta e ho detto “pronto”, credo che funzioni bene anche così…-
- Ah, lei mi sta prendendo per pazzo quindi? –
- No, no non mi permetterei…-
- E invece è questo che lascia intendere, sa? –
- Guardi, mettiamola così, ci sarà stata un’interferenza, abbassiamo la cornetta, e chiudiamola qui…-
- Ma ce n’è gente pazza in questo mondo, sa? –
Luca non fece in tempo a dire niente, il tizio aveva chiuso rapidamente la chiamata. Restò un paio di secondi pensieroso con la cornetta all’altezza dell’orecchio dalla quale ora gli giungeva solo il ritmato “tu..tu..tu..tu”. Abbassò e si rimise a sedere davanti alla macchina.
Primo colpo di tasto, seconda telefonata.
Stavolta era lei dai…
- Pronto? –
- Pronto? –
- Oddio…-
- Giovanotto non è per niente divertente, sa? –
- Guardi, le assicuro che il mio telefono ha squillato, io ho alzato la cornetta e mi sono ritrovato di nuovo lei…ma non è che sbaglia a comporre il numero? –
- Comporre il numero? ma guardi che io non compongo un bel niente, sa? E’ lei che mi chiama, io mi limito solo a rispondere, sa? Ma questo gioco non è più divertente, mi vuole dire cosa vuole da me? –
Luca sbuffò, appoggiò la cornetta per un paio di secondi sulla spalla e si passò una mano sulla fronte. Poi riprese con tono pacato.
- Senta signore, lei dice di non aver chiamato, io le assicuro che ho fatto altrettanto…beh, c’è qualcosa che non va evidentemente...le ripeto, magari un’interferenza…com’è il suo numero scusi? -
- Giovanotto non credo alle sue fantasticherie, sa? Lei non prende in giro nessuno! E poi il mio numero lo sa benissimo visto che continua ad importunarmi! –
- Senta… per favore…aspetto una telefonata importante, lasciamo perdere. Stia tranquillo, domani chiamo i tecnici della Telecom e faccio dare un’occhiata…più di questo non so davvero cosa dirle…-
Il tipo riattaccò prima che Luca potesse finire. E lui fece di conseguenza.
Rimase stordito a fissare l’apparecchio. Alzò la cornetta e la riportò all’orecchio. Tutto regolare. Almeno dava questa impressione. Doveva sincerarsene però.
La rialzò e compose velocemente un numero. Dava libero. Oddio e se risponde quel tipo…
- Pizzeria Galaxy Express, buonasera –
Luca tirò un sospiro di sollievo.
- Ciao sono Luca, scusa cercavo Simona, ci sta? –
- No guarda, Simona oggi riposa, mi dispiace…-
- Va bene fa niente, ciao scusa –
Lo sapeva che Simona il Giovedì riposava, ma doveva pur provare il telefono.
Si tranquillizzò un pò e si diresse verso il frigo in cucina per un sorso d’acqua.
Prese la bottiglia, ma prima che potesse avvicinarci il muso la ripose nell’apposito scomparto del frigo. Il telefono squillava.
Dai prima aveva funzionato.
- …Pronto?....-
- Pronto un bel niente giovanotto, chiamo i carabinieri, sa? Ma chi crede di prendere in giro? Mi dica il suo nome che sporgo subito denuncia, sa? –
- Stefani Luca, Via Legnano, 12. Mi denunci pure. – disse risoluto, per nulla intimorito.
- Signor Stefani Luca, le faccio passare abbastanza guai se questa storia continua, sa? –
- Senta…le torno a ripetere…sto aspettando una telefonata abbastanza importante…se proprio pensa che sia io a chiamarla metta il telefono fuori posto e vada a letto, oppure mi denunci…faccia un po’ come crede. –
- Mettere il telefono fuori posto io! Ma lei…-
Luca riattaccò.
Scosse la testa, pensando che fosse davvero bizzarro quello che stava succedendo, ma l’indomani avrebbe chiamato davvero la Telecom, e più sarebbero stati i soldi che gli avrebbero scucito, più sarebbe risultata razionale la soluzione.
La gola gli bruciava, prima aveva alzato un po’ il tono, e per giunta non era riuscito ancora a placare la sete. Pensò alla sigaretta della mattina, che forse aveva accentuato il mal di gola che lo perseguitava da un paio di settimane, e come al solito, conciliò con la sua coscienza che sarebbe stata davvero l’ultima stavolta.
Aprì il frigo, e senza abbassarsi fece per tirare su la bottiglia dell’acqua dallo scomparto. Poi ci ripensò, si calò a verificarne il contenuto, e con enorme soddisfazione notò che un brick da 200ml di succo alla pesca era ancora in fondo, ben mimetizzato. Mentre allungò la mano per tirarlo via, squillò inesorabilmente il telefono. Colto di sorpresa, battè la testa, il pezzo di grana vicino al brick cadde sul recipiente celofanato della passata, il recipiente di vetro cadde sulle bottiglie del latte, rigorosamente anch’esse di vetro, e le bottiglie di vetro, unite a tutto il resto, si infransero per terra. C’era talmente tanto di quel vetro sparso che per un attimo pensò di essere passibile di denuncia da parte di quelli della raccolta differenziata.
Con la mano sulla testa a saggiare il bozzo che si era procurato, si voltò verso il telefono che continuava a squillare. Con una breve rincorsa, degna del miglior Roberto Carlos, diede per rabbia un calcio ad un collo di bottiglia rotto con l’etichetta del latte ancora attaccata per metà, facendolo finire sotto il divanetto, e si precipitò di corsa nell’altra stanza.
Si fermò davanti al telefono. Si passò l’intero braccio sulla fronte ad asciugare il sudore, e si morse il labbro inferiore, mentre faceva scivolare lentamente la mano sulla cornetta, con la stessa prudenza di chi deve disinnescare un ordigno. Ma si, alziamola.
- Pronto! – Deciso.
- Pronto? –
- Eh… Pronto…buonasera, scusi l’orario innanzi tutto…cercavo Luca…Luca Stefani…è in casa? Sono Roberta…-
- Sono il padre signorina Roberta, mi dispiace Luca non è in casa, sa? -
Luca resto con la cornetta incollata all’orecchio a bocca aperta, chiudendola ogni tanto per pronunciare invano la parola clou della serata. Pronto.
Non che le telefonate di prima non sconfinassero nell’irrazionale, ma questa andava ben oltre. Ascoltava un’assolutamente improbabile telefonata tra il signore di prima e Roberta. Senza poter intervenire per giunta. Ma che storia è mai questa pensò…
- Gli può dire di richiamarmi? Sempre che non torni eccessivamente tardi s’intende…in alternativa di passare in facoltà domattina…così gli consegno i biglietti per la festa di domani sera all’Arcadia…-
- Roberta, mi dispiace tanto, sa? Luca sta via tutta la settimana ( Luca, in devoto ascolto, diede un pugno al muro facendo cadere il quadretto di nonna Adele, posto sapientemente da sua madre sopra il telefono. Mandandolo in frantumi naturalmente…) Sa com’è, è andato a trovare la ragazza in Sicilia, si dovrebbero sposare presto se tutto va bene…-
Luca si mise quasi a piangere, mentre continuava a disperdere vetro per tutto il pavimento, fin dove si poteva spingere la furia dei suoi calci.
- Ma lei davvero è il padre? Ha una voce così giovanile…-
- Beh Roberta, sa… da quando la madre di Luca è scappata con un africano, ho cercato di mantenere una linea giovane sia nello stile di vita che nell’aspetto –
- Ma si, ha fatto benissimo! E poi scommetto che è anche un gran bell’uomo! -
Roberta liberò una risatina, tanto maliziosa che fece ribollire di rabbia il sangue nelle vene di Luca.
- Ma perché non ci viene lei all’Arcadia domani sera? Mi farebbe così tanto piacere conoscerla …-
tu.. tu..tu..tu...tu..tu..
La linea era caduta di colpo. Proprio sul più bello. Sul più bello si fa per dire.
Luca abbassò e rialzò la cornetta, ma niente, dava libero come d'altronde doveva essere.
Il cellulare di Simona era irraggiungibile, e per giunta doveva dare una generica sistemata al casino che aveva combinato.


- Ho capito quale Roberta dici, ma stamattina mi sa che non è venuta a lezione –
La ragazza cicciottella e saputella, guardò Luca sistemandosi gli occhiali sul naso, con un’aria di velata commiserazione, come per dire, ma che ci perdi tempo a fare dietro a quella.
Non era andata a lezione. E doveva essere davvero così se lo diceva la ragazza cicciotella e saputella che Luca incrociava a qualsiasi ora, in qualsiasi aula, a qualsiasi lezione, a qualsiasi esame. Come facesse ad essere ovunque se l’era sempre chiesto. Un mistero tanto celato che a confronto il Triangolo delle Bermuda gli appariva come un rebus della Settimana Enigmistica.


- Si signora, va bene quella…quanto le devo? –
Dai, la maschera di Michael Myers era adattissima. 20 euro spesi bene. E non solo perché cadeva a pennello, in pieno clima Halloween, ma soprattutto perché così sarebbe potuto rimanere in jeans, senza ricorrere a travestimenti molto vistosi. Poi Simona lavorava, e non contare sul suo aiuto, che si sarebbe sicuramente rivelato provvidenziale come sempre, era già un bel grattacapo.


L’Arcadia era uno di quei tipici locali di periferia, che si modificava camaleonticamente ad ogni cambio di tendenza. Era stata una balera sul finire degli anni 70, una discoteca negli anni 80, poi cadde un po’ in declino, chiuse, riaprì, fu coinvolta nel giro delle estorsioni e data più volte alle fiamme, ma alla fine era sempre lì. E a nulla serviva che le varie gestioni che si susseguivano negli anni, le cambiassero il nome per apportare una ventata di novità, l’Arcadia era sempre l’Arcadia.
Tutte le vicessitudini alle quali era andata incontro nel corso degli anni, le conferivano, suo malgrado, un aspetto solenne, che nemmeno la nuova abbagliante insegna e le pennellate rosa pallido sulle pareti dell’entrata riuscivano a scalfire. Adesso era quasi a tempo pieno “sacrificata” alle attività dell’ateneo: corsi, stage, dibattiti, cine-forum, ma non mancava mai di dar alloggio alle attività più mondane, come la festa di quella sera.
- Ciao, senti, ho dimenticato l’invito, ma dentro ci deve essere Roberta, una mia amica, credo che sia tra gli organizzatori…-
- Roberta? Ma certo! Tutti siamo amici di Roberta, e se non lo siamo lo saremo presto…-
Il tipo sulla porta era una perfetta riproduzione di Gomes della famiglia Addams, con tanto di sigaro acceso che non levava dalla bocca nemmeno per parlare, cosa che a dire il vero gli conferiva un’aria più da gangster stile “C’era una volta in America” che da mostro.
- Dai tranquillo, entra pure che stasera non lo facciamo mica il pienone mi sa…-
L’ingresso era in penombra, illuminato solo da due grosse zucche poste in cima alle scale.
Luca cominciò a scenderle lentamente, un piede per volta, aggrappato al passamano, messo in difficoltà più dalla maschera, che limitava notevolmente il suo raggio visivo, che dalla penombra.
Già la musica arrivava forte alle sue orecchie, nonostante fosse a metà scalinata e l’impatto, quando mise piede nell’immensa sala, fu abbastanza fastidioso per i suoi timpani.
Anche qui era l’effetto penombra a far da padrone,dal momento che le uniche luci che giungevano nitide erano quelle del bancone del bar, ed in lontananza quelle degli strobo.
Si girò un po’ intorno alla ricerca di Roberta, ma si vergognava da matti a dover squadrare meticolosamente le ragazze mascherate, dal momento che sia l’oscurità, sia i più bizzarri travestimenti, rendevano assolutamente difficile risalire a qualsiasi viso umano.
Decise quindi di far una breve sosta al bar, che tra l’altro, essendo una delle zone più illuminate, gli consentiva di godere di una prospettiva migliore. Si fece largo tra mummie, zombie e vampiri e conquistò uno sgabello di fronte all’immenso bancone, ordinò un Southern Comfort liscio e si levò la maschera per bere.
- Ehi ciao! Che ci fai qui anche tu? –
Luca si voltò riconoscendo la voce ma non riuscendo ad abbinarle immediatamente un volto.
La ragazza cicciottella e saputella? E che ci fa qui…
- Ehi ciao…-
Ma che bisogno c’era di travestirsi da darkettona? Avrebbe fatto un gran figurone anche al naturale…
- Non pensavo fossi un tipo da feste del genere…-
Tu invece si? Ed io che credevo vivessi in un monolocale sull’attico della facoltà…
- Beh, a dire il vero mi ci hanno invitato…-
- Ah, ho capito tutto…ti ha invitato Roberta. La ragazza che cercavi oggi…-
Ah, allora sei intelligente sul serio…ma quello sguardo pietoso che mi rappresenta?
- Beh…si…-
- Comunque se ancora non l’hai vista, sta di là a ballare… Ma non credo possa riconoscerti per come sta combinata…ciao tesoro, ci si vede in facoltà…-
Luca mandò giù il Southern di getto, chiudendo d’istinto gli occhi e storcendo il muso in una smorfia tanto caratteristica da poterci mettere il copyright sopra. Poi da rituale, si passava entrambe le mani sul volto, ed i suoi pensieri, chissà perché, andavano sempre a pescare nei cunicoli della memoria, l’immagine di nonna Adele che gli infilava, senza fronzoli, il cucchiaio con la medicina amara in bocca, mentre lui era seduto sul lettone.
Tornò ad essere Michael Myers, e si diresse verso la pista dimenticando per un istante quanto potesse rivelarsi una sofferenza per lui, che già in un autobus entrava in panico claustrofibico, dover condividere con così tanta gente quei pochi angusti metri quadrati. Quasi al buio per giunta.
Eccola lì Roberta.
Una strega che si dimena su di un cubo come in un folle sabba, posseduta dall’intercedere ossessivo del ritmo della musica.
Non c’è tantissima gente a dire il vero, ma quella poca che si concede gli onori della disagevole pista centrale, lo fa con la consapevolezza, di chi sa di poter essere scambiata di li a poco per un ammasso di sardine. Luca si divincola tra cumuli di braccia sudate, gambe impazzite, seni straripanti, cercando di aprirsi un varco, spingendo quando lo si rende necessario, con la testa su per aria per non perdere di vista il “sentiero”. Si gira a chiedere scusa al mastodontico Frankenstein al quale ha pestato il piede, Roberta non è più sul cubo.
Si sente smarrito, come se dovesse soccombere da un istante all’altro all’ammasso di corpi che lo inghiottisce nella semioscurità.
Il respiro si fa affannoso. L’aria diventa pesante. Marcia. A tratti putrida.
Avverte qualcosa di non comune, per un istante, solo per un istante, breve quanto il passaggio del raggio di luce degli strobo che per un attimo sfreccia davanti ai suoi occhi. Poi lo assale una sensazione a pelle, una di quelle che ti dicono che è meglio se te la squagli, ed anche in fretta. Sgomita per sottrarsi alla folla, ma non riesce a sottrarsi alle sue sensazioni.
Il raggio di luce si riaffaccia dalle sue parti, giusto in tempo per capire che lo zombie che gli sta di lato ha un’aria troppo da zombie per non essere uno zombie. E che il morso che lo raggiunge sul collo, facendolo contorcere dolorosamente è vero, vero come il sangue che comincia lentamente a sgorgare. Troppo da vampiro per non essere un vampiro.
Luca si ritaglia a stento uno spazio al di fuori dell’inumano ammucchiamento informe che ristagna nella pista da ballo, si aggrappa ad uno sgabello, che barcolla al suo peso. Vorrebbe aggrapparsi alla vita invece, ma sente che ormai è andata.
Il quarto uomo ha alzato il cartello con il tempo di recupero sul due a zero per gli altri stavolta.
Non ce la può fare.
- Giovanotto, si sente bene? Secondo me a bisogno di uno dottore, sa? –
Luca cade a terra. Un pozzetto di sangue si forma sul pavimento intorno al suo viso.
L’uomo vestito bizzarramente, gli dà le spalle e si allontana avvinghiato alla streghetta Roberta.
Luca con l’occhio semiaperto riesce a scorgerne solo la coda da diavolo.
Troppo da diavolo per non essere il diavolo.
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Messaggio Da 4evermichael Sab Ott 22, 2011 10:13 pm

9) DOLCETTO O SCHERZETTO(Laura Cherri)

"Dannato Halloween", grugnì William Scott mentre sbirciava fuori dalla finestra i gruppetti di bambini che si spostavano da una casa all'altra in cerca di dolci e caramelle.
Lui odiava Halloween. L'aveva sempre odiato, fin da bambino, posto che gli fosse mai capitata una cosa orrenda come l'infanzia. A ottantadue anni continuava a detestarlo, così come detestava i mille acciacchi che affliggevano il suo corpo di vecchio. La considerava la festa più idiota dell'universo, persino più idiota di quella di San Valentino. Quei cerebrolesi in costume suonavano il campanello di continuo, dondolandosi sulle gambette in attesa che lui venisse ad aprire. Protendevano le loro mani e lo fissavano con quegli occhietti capaci di intenerire un qualsiasi adulto dotato di un briciolo di istinto materno o paterno. Tranne lui. Perché lui li odiava in modo viscerale, ecco dove stava la differenza. Durante l'anno i bastardi non facevano altro che ideare scherzi crudeli ai suoi danni, per poi presentarsi ad Halloween sulla soglia di casa con l'aureola sopra la testa.
"Piccoli mocciosi..." sussurrò tra le pieghe di una smorfia di puro disgusto. Li vedeva dalla finestra e scuoteva la testa. Ce n'erano a decine, là fuori. Saltellavano, gridavano, sghignazzavano. Avrebbe venduto l'anima al diavolo in cambio di un acquazzone di acido solforico. Poltiglia d'infanti lungo tutte le strade. Il sogno della sua vita.
Aggrottò le sopracciglia quando vide Casper il fantasmino e Dracula il vampiro che si avvicinavano alla sua porta. Li guidava una bambina che calzava sulla testa una zucca di Halloween di plastica. La zucca era intagliata come si usa fare con quelle vere, con due triangoli al posto degli occhi, uno per il naso, e una zigzagante linea incurvata all'insù per bocca. Il suo travestimento finiva lì. Di seguito venivano un normalissimo vestitino bianco e un paio di scarpette nere di vernice.
"Ma che cariiini..." sibilò William ghignando. Il suo viso era una ragnatela di rughe, maschera di una vecchiaia acida e solitaria. Udì il campanello e si voltò verso la porta.
"Hanno davvero il coraggio di venire qui?" chiese sorpreso alla stanza vuota. Il campanello suonò di nuovo e i suoi occhi acquosi si animarono di odio e disprezzo. "Ah, sì? Adesso vi faccio vedere io."
Andò alla porta e la spalancò di colpo. Casper e Dracula trasalirono e lo fissarono intimoriti. Lui ne fu contento. Non riusciva a vedere l'espressione della bambina, ma era più che sicuro che anche lei si fosse spaventata.
"Dolcetto o scherzetto?" chiese la bambina. Tese la mano verso di lui senza esitare. La sua voce era soffocata da quella specie di casco arancione che indossava, ma William ebbe comunque l'impressione che fosse troppo matura per la sua età.
"Andatevene via, stupidi mocciosi", brontolò.
La bambina non si scompose. Prese a dondolarsi sulle gambette, proprio in quel modo che lui odiava, e ripeté: "Dolcetto o scherzetto?"
"Ma quale dolcetto e scherzetto!" gracchiò William. "Se non ve ne andate subito, io..."
"Dolcetto o scherzetto?" chiese di nuovo la bambina.
Perplesso, William fissò i due triangoli che la zucca aveva per occhi, cercando di vedere qualcosa. Il buio. Non gli riuscì di scorgere il più vago particolare del suo viso. Sembrava che dentro la zucca non ci fosse proprio nessun viso da vedere. Allungò una mano e batté le nocche sulla plastica arancione. Ne ricavò il rumore di due colpi dati a un contenitore di plastica vuoto.
"Dolcetto o scherzetto?" fece la bambina. Stessa cantilena, stessa intonazione. Come una bambola parlante.
"Ma sei sorda?" chiese William. "Ho detto di levarti dai piedi!"
"Dolcetto o scherzetto?"
William scosse la testa. "Non sei sorda, sei soltanto stupida. Levati dai piedi."
"Dolcetto o scherzetto?"
Infuriato, William fece uno scatto in avanti e ringhiò per spaventarla. Casper e Dracula fuggirono all'istante. Lei invece rimase dov'era.
"Non hai paura?" chiese William con voce pacata ma piena di minaccia.
La zucca fece segno di no e la bambina tese la mano un po' di più. "Dolcetto o scherzetto?"
"Io non ti do proprio nessun dolcetto, piccola rompiscatole."
"Scherzetto?"
"Ma certo, fammi questo scherzetto. Vediamolo, il tuo scherzetto. Voglio proprio vedere cosa..."
La bimba si frugò in tasca e tirò fuori un sacchettino di pelle nera, accuratamente chiuso con un laccio. Lo tese verso di lui e disse:"Scherzetto."
"Che cos'è?" domandò William lanciandole uno sguardo truce. Quella mossa non se l'era proprio aspettata. Avrebbe giurato che nel giro di qualche secondo gli sarebbero piovute addosso un paio di manciate di coriandoli o di stelle filanti. Lui naturalmente avrebbe dato in escandescenze e la bambina sarebbe scappata di corsa, sghignazzando stupidamente come facevano tutti i cerebrolesi della sua età. Invece la piccola vipera gli porgeva un sacchettino misterioso che, malgrado tutto, era riuscito a catturare la sua curiosità. "Avanti, che cosa sarebbe questa stupidaggine?"
"Scherzetto", rispose tranquilla la bambina e agitò il sacchettino per invitarlo a prenderlo.
"Cosa c'è lì dentro?"
"Scherzetto", ripeté la bambina e fece dondolare ancora il sacchettino. "Scherzetto, scherzetto, scherzetto!"
L'espressione sul volto di William passò dal disprezzo alla compassione. "Piccola idiota. Lo sa tua madre quanto sei idiota?"
Il sacchettino smise di oscillare e le orbite vuote della zucca lo fissarono in silenzio. La bambina depositò il sacchetto sullo zerbino.
"Niente dolcetto, perciò scherzetto", sentenziò. Gli voltò le spalle e trotterellò via, andando a unirsi agli altri bambini.
"Che scherzetto del cavolo", borbottò William e posò gli occhi sul piccolo oggetto che giaceva in mezzo allo zerbino. "Te lo do io, il dolcetto, se ti pesco un'altra volta a suonare il mio campanello." Si guardò attorno per assicurarsi che l'odiosa bambina non lo stesse tenendo d'occhio. Non si vedeva nessuna zucca arancione spuntare tra le testoline dei bambini che transitavano davanti a casa sua. Si chinò e prese il sacchettino per il laccio. Rientrò in casa e sedette sul divano. Tastò con cautela l'involucro di pelle nera per cercare di indovinare cosa contenesse, ma alla fine dovette ammettere di avere le idee piuttosto confuse. Sbuffò seccato e si decise a sciogliere il laccio. Quindi lo scosse vigorosamente per farne uscire il contenuto.
Lo scorpione cadde sulla sua coscia destra, alzò il pungiglione e lo affondò nella carne della gamba, rapido e spietato.


10) UNA CASA PER HALLOWEEN(Massimo Guetti)

Quando la vedemmo ci fulminò tutti. Si può dire che ci conquistò prima ancora che la potessimo guardare una seconda volta, per ripensarci. Voltammo la pagina patinata del catalogo di “Mille Avventure”, l’agenzia di viaggi dell’ex moglie di Chico, e la trovammo. Ci trovò. La nostra casa di Halloween.
Noi quattro, io, Chico, Palace e Jonny, avevamo una serie di “posti di Halloween”. Ogni anno uno diverso. La “Valle di Halloween”, il “Paese di Halloween”, l’“Isola di Halloween” e così via. Un posto sempre diverso, che fosse un po’ misterioso, almeno per noi. La “Casa di Halloween”, se ne stava in riva a un laghetto di montagna, in una valle che era solo quello e lei. Si specchiava in quella polla d’acqua blu scuro con la vanità di una sirena. Tentatrice. Praticamente eravamo gia là.
Spuntammo dall’altra parte del lago, alla fine di una strada, che continuava a contorcersi in un susseguirsi continuo di tornanti: sembrava avesse deciso di non fare quella consegna, di non portarci lì. Chico e Palace continuavano a dirmi di accelerare, che non vedevano l’ora di scendere dal mio maggiolone scassato. Il maggiolone era la “Macchina di Halloween”. Eravamo quattro quarantenni fumati che avevano affittato una casa rossa, chiusa in una valle boscosa, per fare i ragazzini una notte di fine ottobre.
Niente alcol nei posti di Halloween, fumo quanto ne volevi, ma niente alcol. La casetta rossa aveva le finestre bordate di bianco e un aspetto un po’ trasandato, obliquo….da Halloween appunto. Il tetto, azzurro pallido, sembrava avvolto in una di quelle carte-regalo che di solito nascondono qualcosa che non ti piace. Tutt’intorno, la foresta, interrotta dalla stradina anonima che ci stava portando là. Davanti al portico, come una lingua sull’acqua immobile, un piccolo molo. Nessuna barca. Nell’aria limpida ebbi l’impressione di essere caduto nella foto dell’agenzia.
Dovevamo restare una settimana. La notte d’Ognissanti, dopo aver fatto festa, eravamo usciti sul portico un po’ sbilenco a ululare alla luna, per fermarci poi in riva al lago a raccontare storie brividose, come le definiva Jonny. Ci eravamo aspettati le stelle e un freddo limpido e avevamo scoperto invece una nebbiolina soffice, morbida, che ci deliziò immergendoci ancora di più nell’atmosfera.
I primi furono Jonny e Palace, due giorni dopo il nostro arrivo. Uscirono l’uno per prendere legna, l’altro per fare una pisciatina. A Palace faceva schifo il bugigattolo che faceva da cesso alla casa, una turca incrostata di giallo, fetida e scivolosa. La catasta era a meno di dieci metri dalla porta d’ingresso e probabilmente si diressero tutti e due là perché, appena dietro, c’erano tutti gli alberi del mondo per farla al freddo della notte. Erano passati forse cinque minuti, forse di più che Chico mi chiese:
«Ma che fanno quei due?» con un sorriso che non raggiungeva gli occhi. Sembrava un ragazzino che se la sta facendo sotto ma non vuol darlo a vedere. Io allargai le braccia e mi alzai. L’unica era andare a controllare. Il mio amico si alzò di rimando rovesciando quasi la sedia. Ricordo che ne pensai male. Lo paragonai a una donnetta isterica. Cazzo, se mi sbagliavo! Spalancai la porta e sentii la nebbia. Era come un lenzuolo bagnato che tentava di soffocarmi. Vagava lenta, raggrumandosi in qualche punto, formando macchie dai contorni fumosi nella sua languida lattescenza. Sentii la mia mano serrare la maniglia della porta come fosse un ultimo punto di appoggio affacciato su un mondo ostile. Chico fiatava sulla mia spalla.
Uscii sulla veranda. La sensazione d’oppressione peggiorò, dandomi l’idea di essere chiuso in una stanza di manicomio, una stanza imbottita che assorbiva ogni mio tentativo di richiamo agli amici scomparsi. Il portico sembrava la bocca sdentata di una belva. Il lago era assolutamente invisibile dietro un muro bianco che iniziava a metà del piccolo molo.
«E se fossero caduti in acqua?» azzardò quasi piangente Chico.
«Non dire stronzate: erano in due e ne avremmo sentito almeno uno chiamare aiuto.» Replicai brusco.
Un velo di sudore freddo mi raggelava la fronte, mischiandosi con l’acquerugiola rancida della nebbia che mi contornava. Abbandonai il portico con Chico che si era attaccato a un lembo della mia camicia da boscaiolo. Ci incamminammo verso la catasta.
Dopo dieci passi la casa era già la sfumata grotta di un incubo grigio. Sembrava un tumore della nebbia, scuro, muffo, indefinito. La catasta si disegnò a poco a poco. Prima di arrivarci, nemmeno a dieci metri dalla porta di quella strana casa, la nebbia si animò.
Un gemito che entrava nelle ossa, che seccava la lingua, incollandola al palato. Chico emise un verso disperato, un singhiozzo di terrore infantile, mi voltai e mi trovai a due centimetri dai suoi occhi, persi nella febbre della paura. Sembravano fatti di gelatina liquida, erano l’unica cosa davvero in vista in quell’oscuro grigiore di mondo morto.
Eravamo alla catasta di legna. Non c’era traccia dei nostri amici. Davanti a noi il buio senza spiragli della foresta. Gli alberi di quell’intrico frusciavano, emettendo una sorta di lamentoso respiro. La nebbia era immobile e invasa da strani suoni, uggiolii, forse sospiri.
Ancora una volta quel verso. Quel lamento tronco si accompagnava a uno strano mutare della nebbia che tendeva ora al viola. Facemmo ancora una ventina di passi. Arrivammo vicino a uno di quegli alberi. Chico mi tratteneva stringendomi una spalla. Mi chiedeva di non andare più avanti, di tornarcene nella casa.
Il fusto dell’albero era liscio. Il colore non lo vidi mai. Nell’oscurità totale e nella nebbia, che ci aveva definitivamente serrato in un nulla umido e maleodorante, le mie mani sentirono quel tronco. Era caldo. Sembrava di avere le mani sul ventre di qualcuno: la superficie pulsava. Non appena l’ebbi toccato la mia mente fu invasa dall’immagine di una bocca sanguinolenta che si serrava. Ritrassi il braccio con un sibilo di ribrezzo e di terrore. Avvicinai la mano al viso convinto di vederne i resti straziati tanto era stato il dolore ottenebrante che avevo provato e che continuava a echeggiarmi nella mente.
«eheheheh» La risata di un bambino. Non era allegra. Era una specie di imitazione, trasmetteva famelica crudeltà.
«Cazzo, Nick, leviamoci di qui!» fu il sussurro sfibrato di Chico.
Non aveva la forza di andarsene da solo. Non perché mi fosse amico, e lo era. Semplicemente, non ce la faceva ad avventurarsi da solo in quell’inferno d’ovatta grigia.
Lo assecondai volentieri. Ci voltammo e prendemmo a correre. Non ci sembrava di esserci allontanati troppo dalla casa. Nonostante ciò arrivammo a scorgere nuovamente la sua brutta sagoma quando eravamo ormai senza fiato.
Dovevamo cercare i nostri amici in mezzo a quel deserto grigio-viola?
Dovevamo salvare la pelle?
Non abbiamo avuto scelta. Forse io mi stavo dirigendo verso il porticato di legno, forse verso il maggiolone. Forse Chico mi ha seguito perché era convinto che davvero stessimo abbandonando quel posto. Non so chi avesse avuto ragione.
Ma la Macchina di Halloween non c’era più. Davanti a noi solo il fantasma evanescente di quella maledetta casa, che sembrava l’incubo di un delirante.
«Eheheheheh»
Ancora quella risata maledetta.
Un odore marcio e dolciastro, di cadaveri in putrefazione. Un biascicare acquoso liquido, gorgogliante dal lago veniva verso di noi. Ci precipitammo verso l’indefinito contorno della casa.
Da allora non ho visto più l’alba. Non è mai più sorto il sole.
Secondo il mio orologio sono passati due giorni.
Mezz’ora fa ho visto l’ultima volta Chico. Doveva andare in bagno. Anche lui. Solo che in bagno, in quel puzzolente stanzino, non c’è nessuno. Ho controllato dieci minuti fa. Forse dovrei cercarlo. Forse dovrei scappare. Ma dovrei comunque uscire. Fuori. Nella nebbia.
Ho solo la forza di avere paura.
Ma adesso so. Lo sospettavo, ma quando sono tornato dalla latrina senza la minima idea di dove fosse finito Chico, ne ho avuto conferma.
Il vecchio pavimento di legno scuro è sporco di sangue. Una lunga striscia attraversa tutta la stanza. Fino alla porta. Socchiusa. Dallo spiraglio grigio e fumoso la nebbia sta cominciando a mangiare la porta. Lo so, sembra impossibile, ma lo stesso la vedo, evanescente e fumosa, avvolgere la porta trasformandola in una figura indefinita. L’uscio è a meno di sei metri da me, la nebbia a meno di cinque, e già non riesco a più a distinguere il legno dal grigio. Magari potrei provare a richiudere la porta, ma non sono sicuro che la troverei. Comunque non credo che servirebbe a fermarla.
Non posso più rimanere qui. La nebbia si sta avvicinando col suo strano odore. Nel suo vorticare distinguo qualcosa di confuso, indefinito, non può essere che una persona. Io so già chi è.
Posso solo sperare che il Chico di nebbia si ricordi di me…
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Messaggio Da 4evermichael Sab Ott 22, 2011 10:14 pm

11) LA NOTTE IN CUI CAMMINANO I MORTI ( Guido Del Duca)

Non faceva affatto freddo, quella notte. Eppure la giornata era stata rigida, sembrava di essere tutto d’un tratto entrati in pieno inverno, a dispetto del calendario.
Anche le previsioni meteorologiche avevano detto che su tutto il paese era in arrivo una perturbazione che avrebbe portato temperature molto al di sotto della media stagionale.
Avevano anche fatto vedere la ricostruzione grafica delle correnti d’aria fredda che si addensavano minacciose. E invece, dannazione, quella sera la temperatura cambiò bruscamente.
Mi ero messo il piumino pesante, quello che usavo la notte di Capodanno per andare a sparare i botti con gli amici, tanto per dire, e avevo caldo.
La verità è che le stagioni non sono più quelle di una volta. Quando ero piccolo, e parlo di non più di trent’anni fa, le temperature seguivano il regolare corso della natura, come dovrebbe essere. Guardavi il calendario, era autunno, e faceva un tempo autunnale, se era inverno dovevi coprirti bene, e l’estate faceva caldo. Ditemi voi se adesso è lo stesso. Forse sono io che non riesco ad adattarmi, ma ormai non ci si può regolare. Un giorno è inverno e il giorno dopo c’è un sole che spacca le pietre, e magari tutto questo succede a dicembre. O addirittura, come quella sera, la temperatura cambia da un minuto all’altro.
E se il freddo della giornata era stato innaturale, altrettanto lo era il caldo di quella sera. Senza il calendario a portata di mano non sarebbe stato possibile neanche tirare a indovinare quale stagione fosse, figuriamoci il giorno esatto. Per fortuna, a confortarmi nel caso avessi avuto un vuoto di memoria, c’era il calendario dell’orologio della macchina. Era la sera del 1 novembre.
Uscii di casa poco dopo le undici e quaranta. Dovevo fare il turno di notte nel palazzo in cui lavoravo come custode, e avrei dovuto prendere servizio di lì a un’ora.
Mi piace guidare di notte, o almeno mi piaceva farlo da ragazzo, poi purtroppo il lavoro durante il giorno ha cominciato a svuotarmi delle energie. Appena entrato in macchina, mi resi conto una volta di più che avevo fatto male a dar retta alle previsioni, e che con il piumino addosso avrei fatto una sauna. Non mi andava di fermarmi subito per togliermelo, così smanettai un po’ con la manopola del condizionamento per regolare la temperatura, ma il climatizzatore non diede segni di vita. Non era la prima volta che mi succedeva, perciò non ci feci caso, e mi limitai a ripetere per l’ennesima volta che alla prima occasione avrei cambiato quello scassone di macchina.
La strada era vuota, sia di pedoni che di altre auto. C’è tanta gente superstiziosa che preferisce non andare in giro la notte dei Morti. Improvvisamente mi tornò alla memoria un giorno di una trentina di anni prima. Avevo forse dodici o tredici anni, e anche allora era la notte fra l’1 e il 2 novembre. Non solo, ma anche quella notte il termometro sembrava impazzito e faceva caldo come in estate.
Insieme ad un paio di amici, ci eravamo messi in testa di passare la notte dei Morti in maniera diversa dal solito, così avevamo detto ai nostri rispettivi genitori che saremmo andati a dormire da uno di noi, che a sua volta aveva casa libera perché i suoi erano fuori città. Oggi la moda di Hallowen si è diffusa anche da noi, ma a quell’epoca ne sapevamo poco. Sapevamo solo che in America, la notte di Ognissanti i bambini si vestivano come a carnevale e andavano in giro a bussare alle porte.
Noi ci limitammo a prendere spunto da questo, perché quello che volevamo fare era diverso. Abitavamo non lontano dal cimitero, e la nostra idea era quella di andare in giro con dei lenzuoli, o con le facce dipinte di bianco, come dei fantasmi, per spaventare i malcapitati che si trovavano a passare. Era un sabato sera, quindi non avevamo il problema di doverci alzare presto la mattina dopo.
Coincidenza singolare, a cui feci caso solo guardando il display dell’orologio, anche quella sera era un sabato. Altra coincidenza, il palazzo in cui dovevo andare a lavorare era vicino al cimitero, anche se era stato costruito di recente.
Il tragitto cominciava ad essere noioso, perciò scelsi un cd da quelli che tenevo in macchina e lo inserii nell’apposita fessura dello stereo. Immediatamente le note di un pezzo dei REM riempirono l’abitacolo.
Poi sentii uno scatto. L’orologio del cruscotto adesso segnava tre zeri, e annunciava che era domenica. Era il 2 novembre.
Nello stesso momento, lo stereo smise di suonare, il lettore cd si spense e sputò fuori il cd. Ci soffiai sopra e lo inserii di nuovo. Schiacciai Play, ma il cd uscì di nuovo fuori. Scelsi un cd di Michael Jackson e lo inserii nello stereo. Stessa storia. Presi dal mucchio un altro cd e lo inserii. Niente. Evidentemente la macchina non era l’unica cosa da buttare.
Aprii il cassetto portaoggetti e scelsi una delle cassette che avevo lì. Ne scelsi una degli Aerosmith e la inserii nell’autoradio. Solo dopo due minuti mi resi conto che ancora non aveva emesso alcun suono. Mandai avanti veloce, ma era come se avessi inserito una cassetta vergine. Semplice, pensai, a forza di stare lì dentro si è smagnetizzata. Ne ebbi la conferma con una seconda cassetta, dei GN’R. Mi fermai per cercarne una che fosse rimasta intatta. Trovai una compilation dei Beatles che sembrava in buone condizioni. La azionai e finalmente lo stereo tornò a trasmettere musica. Di pessima qualità, però. Non per la musica dei Beatles, intendiamoci, ma proprio per il suono. Erano più i fruscii che le note, sembrava una registrazione d’epoca. Non potei resistere a lungo a quello strazio, così tolsi la cassetta e accesi la radio. La mia stazione preferita era saltata. Attivai la ricerca automatica delle frequenze.
Teoricamente, in pochi secondi avrei dovuto trovare una stazione. Invece niente, e quando abbassai lo sguardo sul display mi accorsi che correva a velocità folle dagli 87.5 ai 108 MHz senza trovare una sola stazione. Non sapevo se ridere o piangere, era impossibile che fossero saltate tutte le radio
‘Proviamo con l’AM’ mi dissi, e disattivai la modulazione di frequenza. L’AM funzionava e stava trasmettendo Ruby Tuesday dei Rolling Stones. La ascoltai per un po’, poi cercai altrove. Su un’altra stazione c’era Bob Dylan, con Mr. Tambourine Man.
”Let me forget about today until tomorrow”
Non potei fare a meno di pensare che erano dischi in classifica tanti anni prima, forse anche quella fatidica sera in cui avevamo deciso di vestirci da spettri.
‘ Ma che è, una serata revival?’ reagii infastidito, e azionai di nuovo la ricerca automatica.
Sembrava ci fossero solo tre canali, e il terzo trasmetteva quello che sembrava un notiziario, ma mi accorsi subito che c’era qualcosa di strano
‘ Questa mattina il presidente degli Stati Uniti d’America, in visita a Nuova York ha parlato dell’intervento in Vietnam, rassicurando la folla accorsa ad assistere al suo discorso. Intanto, la polizia disperdeva i numerosi manifestanti pacifisti i quali…’spensi immediatamente, infastidito dalla voce metallica del cronista, più che dalle parole. Probabilmente trasmettevano documenti d’epoca. Provai a cercare manualmente una stazione, ma appena la toccai, la radio si spense. E immediatamente dopo anche la macchina.
Così, senza preavviso, senza che si illuminasse una qualche spia rossa o qualcosa del genere. Semplicemente si spensero motore e quadro di comando, come se qualcuno avesse staccato i fili.
Ero fermo in mezzo alla strada deserta. Provai a rimettere in moto, ma né motore né batteria diedero segni di vita, come se non esistessero.
Presi il cellulare, ma ovviamente non c’era campo, e appena lo toccai per provare a fare una chiamata d’emergenza, la batteria si scaricò e il display si spense.
Non potei far altro che scendere dalla macchina. Aprii il cofano, dentro sembrava tutto a posto, ma io di motori non ci capisco un’acca.
Comunque c’era poco da capire, la macchina mi aveva abbandonato e dovevo farmela a piedi.
Non doveva mancare molto, ma non riuscivo ad orientarmi bene perché quella strada, di notte, sembrava diversa. Non c’erano molti lampioni, e così le case, i cartelli, il paesaggio, insomma tutte quelle cose che potevo prendere come punti di riferimento, erano inghiottite dalle tenebre.
Salii sul marciapiede e mi incamminai sul sentiero alberato, di cui non vedevo l’inizio né la fine, ma solo il breve paesaggio cui passavo affianco, e che mi sembrava tutto uguale. Non è così anche la vita?
Proseguii per non so quanti minuti. Anche se non riuscivo ad orientarmi, dovevo essere ormai arrivato. Non c’era possibilità di sbagliare, da casa mia al lavoro bisognava percorrere un’unica strada dritta, senza mai abbandonarla, e mi trovavo subito nel parcheggio.
Invece ero in strada ormai da mezz’ora e non ero ancora arrivato. Era troppo buio per guardare l’orologio, ma doveva essere mezzanotte e un quarto, forse la mezza.
Più o meno l’ora in cui, tanti anni prima, i miei amici ed io avevamo terminato di spalmarci la faccia di bianco, di passarci il nero sotto gli occhi e vestirci con dei sacchi che dovevano occultare le nostre fattezze. Ci eravamo guardati nello specchio e quasi eravamo morti di paura. Sembravamo davvero degli spettri come si vedevano nei fumetti di paura che qualcuno faceva girare a scuola, o come in certi film americani che andavamo a vedere al cinema, di nascosto. Ma i trucchi di quei film erano meno riusciti di quelli che avevamo escogitato noi, o almeno era la nostra impressione.
Uscimmo fuori, correndo da un lato all’altro della strada deserta, lanciando urla e agitando le torce elettriche che tenevamo sotto i vestiti e che contribuivano a circondarci di luce.
Passarono solo un paio di auto, e noi ragazzi ci divertivamo ad attraversare la strada all’improvviso mentre i fari delle auto illuminavano le nostre spaventose fattezze. Più di un’auto rischiò di sbandare e finire fuori strada. Il divertimento però non era come l’avevamo previsto. Spaventare gli automobilisti non dava soddisfazione, non potevamo goderci le reazioni e in più rischiavamo di venire investiti. Ci eravamo conciati in quel modo perché volevamo spaventare i passanti, ma purtroppo si era fatto tardi, e a piedi non passava più nessuno.
Non mi ricordo chi di noi, forse proprio io, propose di andare a suonare alle porte delle case, farsi aprire e spaventare la gente. In quella zona non c’erano tanti condomini, la maggior parte degli edifici erano case isolate, a due piani, con l’ingresso direttamente sulla strada. In alcune case, le luci erano ancora accese. Decidemmo di separarci e dividerci l’isolato in quattro zone di appartenenza, quanti eravamo. Avremmo dovuto suonare e farci aprire, o almeno spingere le persone ad affacciarsi alla finestra e osservare la loro reazione quando ci vedevano. Se si spaventavano, era un punto, se si limitavano ad aprire e guardarci, mezzo punto. Non c’era un giudice, facevamo affidamento sulla nostra buona fede. In palio per chi faceva più punti c’era una squadra del Subbuteo pagata dagli altri tre
- Io quella zona non la voglio- dissi immediatamente, dopo esserci suddivisi l’isolato
- Una zona vale l’altra- ribatterono gli altri –hanno tutte lo stesso numero di case-
- Sì, ma nella mia c’è…- quasi mi vergognavo a continuare la frase. Gli altri avevano capito, e se la ridevano
- Dì un po’, non avrai mica paura dell’Orco?-
L’Orco, lo avevamo soprannominato così quando eravamo più piccoli, era un uomo di età indefinibile, forse sui quaranta, forse sui cinquant’anni, che abitava in una di quelle case. Lo chiamavamo così perché era grosso, curvo, peloso e spaventava i bambini. Non parlava con nessuno, si diceva che bevesse e le nostre mamme ci raccomandavano di stare attenti quando giocavamo lì vicino
- Non è che ho paura- ribattei –solo che se mia madre sa che sono andato da quello…-
- E tu non glielo dire-
- Una volta sono andato da lui- disse Claudio, con il suo fare da adulto –per una raccolta della chiesa. È stato molto gentile-
Non ci credevo, lo diceva per darsi arie, ma non potevo passare per codardo. Così accettai.
Diedi un taglio ai ricordi. Mentre ricostruivo quelle scene di trent’anni prima avevo di nuovo perso la cognizione del tempo. E non ero ancora arrivato a destinazione.
All’improvviso qualcosa ruppe il silenzio della strada. Un vago suono il lontananza che si faceva via via più distinto superando gli alberi.
Era una canzone. Una vecchia canzone. Una voce suadente, una chitarra in sottofondo.
Era Elvis, senza dubbio. E qualche secondo più tardi riconobbi anche la canzone, Don’t be cruel. Le coincidenze cominciavano ad essere troppe.
Già, perché anche quella notte di tanti anni prima avevo sentito risuonare quella stessa canzone. Dalla casa dell’Orco.
Quindi era in casa ed era sveglio, avevo pensato, avvicinandomi al cancello. I miei amici erano già spariti dietro l’angolo e io cominciavo a sudare freddo, tanto che temevo che il trucco cominciasse a sciogliersi.
La canzone di Elvis da un trentatré giri continuava a suonare senza soluzione di continuità. Suonai il campanello e attesi un minuto abbondante, ma l’Orco non venne ad aprire. Forse la musica copriva il suono del campanello, o forse stava dormendo. Ero tentato di andarmene, e mi allontanai di qualche passo. Ma poi mi tornò in mente la squadra del Subbuteo. Ci tenevo troppo, e se l’avessi persa per un solo punto e per colpa della mia vigliaccheria non me lo sarei perdonato. Così tornai indietro e suonai di nuovo al citofono. Non rispose nessuno, ma mi accorsi che il cancello non era chiuso bene. Mi feci coraggio, lo aprii e mi incamminai nel breve vialetto che portava alla casa. La porta era chiusa, suonai al secondo campanello e bussai sul legno della porta. Stavolta mi aveva sentito, prima ancora che dai passi me ne accorsi perché il volume della canzone era stato bruscamente abbassato.
La porta si aprì lentamente, come nei film dell’orrore, accompagnata da un lugubre cigolio.
Io mi ero preparato per urlare e far saltare di paura l’Orco, ma fu tutto vano perché lui, dopo aver fatto scattare la serratura della porta, si voltò immediatamente per rientrare in casa, e non mi degnò neanche di uno sguardo.
Rimasi come un ebete sulla soglia, ad osservare la schiena dell’Orco, che camminava chino, sbilenco, con una bottiglia di birra quasi vuota che gli penzolava dalla mano
- Entra, che aspetti?- mi disse, come se attendesse la mia visita. E rientrò nella stanza da cui proveniva la musica.
Mi decisi a seguirlo. Mi fermai un attimo prima di entrare nella stanza, mi sforzai di assumere un’aria truce ma era impossibile. Come si fa a mettere paura quando si è terrorizzati?
Pensai di nuovo alla squadra del Subbuteo, volevo il Venezia, che era quello con più colori. E avrei insistito perché il mio punteggio valesse doppio, visto che ero entrato in casa dell’Orco.
Forte di questo pensiero, spiccai un salto ed entrai nella stanza
- Buu- urlai all’indirizzo dell’Orco.
Lui mi guardò severo. Aveva i capelli mossi e lunghi, il viso faceva pensare ad un leone, era ispido per la barba di tre o quattro giorni. Non mosse un muscolo, continuò a guardarmi per quella che mi sembrò un’eternità. E poi scoppiò a ridere.
Fu una risata agghiacciante, improvvisa, che sembrava scuotergli le viscere, come un ruggito
- Come ti sei conciato, ragazzino?- disse, cercando di riprendersi dall’ilarità.
Non sapevo che dire. Addio squadra del Subbuteo, pensai. Ma forse, se avessi preso qualcosa dalla casa per dimostrare ai miei amici che ero davvero entrato, potevo avere ancora qualche possibilità. Mi guardai intorno. La casa era immersa nell’oscurità, l’unica fonte di luce era una abat-jour di pochi watt, che diffondeva una luce gialla e sporca. Lui era spaparanzato sul divano, con addosso dei pantaloni di una tuta da lavoro e una camicia a scacchi da boscaiolo, sudicia, e mi osservava incuriosito.
Poi vidi quello che c’era sul divano. In un primo momento non me ne ero accorto perché era mezzo infilato nella fessura del bracciolo, ma non c’era dubbio, era il primo numero di Diabolik. Il primo numero originale di Diabolik. Nonostante fosse di appena una decina di anni prima, era introvabile e valeva una fortuna. Se lo avessi avuto sarei stato ricco. Altro che una squadra, potevo comprarmi tutto il campionato di Subbuteo.
L’Orco seguì il mio sguardo e sembrò leggermi nel pensiero. Prese l’albo e lo sfogliò simulando voluttà
- Bello, vero? L’ho trovato proprio oggi in cantina, non ricordavo neanche di averlo. Io non so che farmene, potrei anche regalartelo- mi guardò –non ti piacerebbe?-
- Sì, signore- riuscii a dire, con la bocca secca
- Cos’è, hai paura? Su, avvicinati. Se sei un bravo ragazzo posso anche regalartelo-
Non sapevo cosa fare, ma la tentazione era troppo forte. Mi avvicinai con gli occhi fissi sull’albo. Non poteva essere rimasto in cantina per tanti anni come aveva detto lui, era in ottime condizioni.
E allora capii che lui mi aveva visto arrivare dalla finestra, e si era preparato. Mi guardava con gli occhi iniettati di sangue e infossati nella faccia, e con un’espressione che non avrei mai dimenticato. Sembrava seduto comodamente, con un braccio a penzoloni oltre la spalliera del divano.
Lo anticipai, quando alzò di scatto il braccio. Nella mano stringeva un bavaglio. Avevo già intuito che c’era qualcosa di strano.
Mi misi a urlare e corsi fuori dalla casa, senza che l’Orco potesse raggiungermi. Così era finita quella notte di tanti anni fa.

Adesso, a trenta e passa anni di distanza, mi trovavo di nuovo da solo nella notte del 2 novembre, la notte in cui i morti tornano a vagare sulla Terra, secondo le tradizioni popolari. E di nuovo mi ritrovavo a sentire le note di quella canzone di Elvis che, a giudicare dalla qualità del suono, non sembravano provenire da un impianto hi-fi ma da un vecchio giradischi.
Finalmente, dopo il suono, vidi la prima luce da parecchi minuti a quella parte. Era una lampada alogena sopra il portoncino d’ingresso di una casa, rischiarava solo il piccolo porticato, che mi era sorprendentemente familiare. Un debole raggio della lampada arrivava anche a rischiarare la targa con il numero civico e il nome della via.
Mi chinai per leggere, e sobbalzai. La via era quella in cui lavoravo, ed il numero civico era proprio quello del palazzo in cui facevo il custode. Ma il palazzo non era quello, al suo posto c’era una palazzina di due piani, con ingresso sulla strada. La riconobbi. Non c’era dubbio, era la casa dell’Orco.
Ma non era possibile, io dopo quella notte lo avevo denunciato, lui era stato arrestato, e poi aveva lasciato la città, la casa era stata abbattuta e al suo posto, ironia della sorte, era sorto il palazzo in cui anni dopo sarei andato a lavorare. Avevo anche assistito alla demolizione di quella casa.
O no?
Sentivo la testa che mi scoppiava, i ricordi si accavallavano a spezzoni di sogni e incubi, che acquistavano la vividezza di vita vissuta o di film che avevo visto. In quel momento non avrei potuto dare niente per certo, ero assalito dal dubbio di essermi inventato tutto. E per tutto intendo anche la mia stessa vita.
Toccai il cancello. Era freddo e umido come quella sera. E come quella sera era aperto. Lo spinsi ed attraversai il breve vialetto ghiaioso. Arrivai alla porta, la stessa porta di legno rinforzato agli angoli. Suonai il campanello. Sentii la voce di Elvis che si faceva più soffusa, poi lo scatto della porta. Girò sui cardini con lentezza esasperante, accompagnata da un cigolio
- Entra, che aspetti?- disse una voce pastosa.
L’uomo che aveva aperto la porta non mi aveva neanche guardato. Mi aveva voltato le spalle e si incamminava nella stanza da cui proveniva la musica. L’uomo era curvo, con folti capelli grigi, e dalla mano pendeva una bottiglia di birra quasi vuota.
Non riuscivo a formulare un pensiero compiuto. Entrai e lo raggiunsi. Non lasciai che si sedesse. Lo strattonai perché si voltasse a guardarmi.
Era lui. Invecchiato di trent’anni, ma era lui senza dubbio, la stessa faccia rincagnata, la fronte bassa, il portamento da rapace
- Ehi, e tu chi sei? Non era te che stavo aspettando- sentii che diceva, ma le sue parole mi rimbalzavano addosso senza che riuscissi a connettere.
A patto che potesse essere ancora vivo, non poteva, non doveva abitare lì, in quella casa, che era stata abbattuta tanto tempo prima.
Ma in una frazione di secondo tutti i miei dubbi si sciolsero e finalmente capii.
Capii
- Sono venuto a prenderti- gli dissi, fissandolo negli occhi da felino ferito –è giunta la tua ora, finalmente. Ti starai chiedendo chi sono. Eppure mi conosci, anche se mi hai visto quando avevo appena dodici anni o giù di lì. Sono diventato grande, o meglio, sarei diventato grande se tu non mi avessi ucciso-
Sbarrò gli occhi, si guardò velocemente intorno alla ricerca di una via di uscita. Non ne aveva, e provò a gridare. Dalla gola gli uscì solo un rantolo, seguito da un fiotto di bava. I muscoli si irrigidirono, la bottiglia di birra cadde a terra in mille pezzi.
E poi cadde a terra anche lui, cercando di slacciarsi la camicia a quadri per respirare, ma inutilmente. Attacco di cuore, la causa di morte più diffusa.
Mi ci erano voluti trent’anni, ma alla fine l’avevo terrorizzato.
Aspettai che esalasse l’ultimo respiro, poi uscii e c’era la luce, era tutto azzurro, luminoso, e anche la mia mente si schiarì.
Quella sera di tanti anni prima non ero riuscito a scappare. Quell’uomo mi aveva afferrato e imbavagliato.
Il mio corpo non era mai stato trovato, la mia anima non aveva trovato pace.
Mi ero così convinto di essere vivo, di essere fuggito, e mi ero costruito una vita immaginaria, mi ero inventato che lui era stato smascherato, e avevo proseguito nell’immaginarmi quella esistenza che non avevo potuto vivere e che era andata avanti finché non era scoccata l’ultima ora per l’Orco, quando tutta la mia vita sognata era andata in frantumi e il mio mondo parallelo si era di nuovo incrociato con quello reale. Corsi e ricorsi. La Morte aveva deciso di sorprenderlo, e di mandarmi ad annunciarla, proprio nella notte del 2 novembre, la notte in cui morti tornano a vivere, la notte in cui aveva compiuto una delle sue tante efferatezze, la notte in cui ero la Morte. La notte in cui, tanti anni prima, ero morto.

12) MARY (Alex Kuntz)

Dopo tutto un pomeriggio, finalmente la zucca è pronta! Me la sono procurata ieri sera; Mary, la ragazza a cui l'ho presa, all'inizio, non era davvero entusiasta di lasciarmela… ma alla fine l'ho convinta.
Era la prima volta che ne prendevo una, una così speciale. Pensavo sarebbe stato più difficile. Invece il peggio è venuto dopo. Tutto doveva essere praticamente perfetto. Così ho fatto un'incisione nella parte superiore, l'ho scoperchiata e l'ho svuotata di tutta quella purea maledetta che la riempiva. Le mani grondavano di poltiglia e sugo ma, alla fine, sono riuscito a svuotarla. Poi è stata la volta degli occhi. Il lavoro era delicato, come potrete immaginare: ho tirato via i bulbi con un cucchiaino, ho reciso i nervi ottici e, con dell'ovatta, ho lucidato le orbite. Infine sono passato alla bocca. I denti li ho strappati via quasi tutti: incisivi, canini e premolari, con una pinza da bricolage. Ho tirato la lingua fuori e tagliato con un coltello da arrosto… un taglio solo, netto. Infine, per tenerla aperta, ho messo tra le mandibole due pezzi di ferro, a mantenerla in posizione da urlo. Ho infilato una candela accesa, proprio dov'era la lingua ma, diavoli, la luce non voleva saperne di venire fuori anche dagli occhi. L'unica soluzione possibile era quella di aprire dei punti luce, dal palato dritti nelle cavità orbitali. Ce ne ho messo di tempo… mi sono riempito la faccia di schegge d'osso e ho saturato la stanza di puzzo d'unghie bruciate, ma adesso anche Mary splende dietro la mia finestra, dritta verso la strada. Adesso aspetto. Quest'anno non ho paura di restare senza dolcetti per i bambini del paese: ho confezionato una marea di pacchettini splendidi con quel restava di Mary… davvero tanto. Qualcuno sta per bussare, lo so! "Dolcetto o scherzetto?"

13) SUSAN , A SANAHIN(Antonio Bruno)

Il rosso e l’oro sembravano essersi impossessati della Terra, con le loro pacate o sferzanti pennellate mosse dal vento d’autunno… Gli alberi dei parchi cittadini e gli alti faggi che delimitavano i viali avevano ormai da qualche settimana iniziato nuovamente il loro annuale rito di speciale policromia stagionale inviando su tetti ed asfalti migliaia di loro "messaggere": passate cantanti di primavera, foglie che, solo qualche mese prima, erano rigogliose e verdi, nella danza armonica di fusione con il cielo, di anelito alla stella della vita che gli uomini chiamano Sole……
Chi dice che l’autunno è una stagione triste o malinconica non ha capito nulla della magia perennemente vitale delle stagioni, che sono il respiro della natura. L’autunno è come una musica barocca, ed i suoi florilegi di colori caldi - di foglie o ricci di ippocastano che preludono a più intime introspezioni domestiche che ben presto porteranno gli uomini a sentire il bene atavico della dimora protettrice, cadendo a terra, o facendosi trasportare nell’aria, lontano - mi ricordano le scale armoniche di Vivaldi, di Bach o di Telemann…
Susan Woodhouse era una bimba che queste cose le aveva sempre sentite, fin da quando aveva pochi anni: sembrava che, d’autunno, il suo giovane spirito si animasse di una strana euforia e provasse un grande piacere nel tuffarsi nei cumuli di foglie morte accatastate dagli spazzini o nel raccogliere ricci di ippocastano da terra, incurante delle punture che spesso martoriavano le sue manine. La sua cittadina era una tipica cittadina inglese, ordinata e borghese ma con la fortuna di essere immersa in una natura dolce e bellissima, in una terra che nasconde, forse, il mistero della vita intima, profonda, del nostro intero pianeta; credo che questo mistero fosse conosciuto ed onorato dai nostri progenitori, quando il tempo non era malato di apparenza e l’uomo non aveva ancora abbruttito sé stesso con la schiavitù del solo visibile. Dalle parti di Susan, la gente conservava ancora, sepolto in qualche angolo delle memorie ataviche ereditate da generazioni di uomini che, di quella terra, vivevano, una sorta di innata consapevolezza, un discreto quanto spesso inconsapevole colloquio di elezione con gli "spiriti delle lande", con le forze nascoste che ne vivificavano la linfa.
Susan sembrava essere venuta da quell’imprecisabile passato e, crescendo, quella sua strana predilezione per l’autunno, quella incontenibile euforia che la portava ad intrattenersi per ore nei parchi cittadini o nei boschi delle immediate vicinanze dell’agglomerato urbano, divenne sempre più una particolarità irrinunciabile della sua vita.
Quando, poi, il calendario scandiva il trascorrere dei giorni in prossimità del fatidico 31 ottobre, Susan avvertiva quasi una frenesia incontenibile. Mentre le sue amichette ed i compagni di scuola si accontentavano di girare le strade bussando di porta in porta per il tradizionale gioco del "TRICK-OR-TREATING", nel rituale ricatto che perpetravano al distratto mondo degli adulti e si mascheravano da streghe, folletti, spiriti e scheletri, Susan, che a volte era stata quasi trascinata dai compagni in quella parodia che trovava essenzialmente banale, faceva risuonare nella sua mente l’antica cantilena:

"A soul cake!
A soul cake!
Have mercy on all Christian souls, for
A soul cake!"

(Abbi pietà per tutte le anime Cristiane/per una torta dell'anima)

A 11 anni, la bimba rispose al "richiamo" di Samhain… Non sapeva cosa fosse ma sentiva che quel nome era come una specie di chiave. L’aveva, forse, letto da qualche parte, in qualche libro di leggende che il papà gli aveva regalato nel fugace tempo dell’infanzia. Susan sembrava rapita, dai quei racconti.
"Sei proprio una piccola strega, come tua mamma!…" - si divertiva a dirle Dick Woodhouse stuzzicandola giocherellando coi i suoi riccioli ramati incapace di non pensare alla madre di Susan, che un giorno la foresta gli aveva portato via…
Quell’anno, la strana cantilena dello "Samhain" cominciò a risuonare ossessivamente quanto delicatamente nella testa della bambina tornando dal doposcuola, in quelle ore in cui il Sole sta per farsi accogliere dal grembo mistico della figlia Terra ed il vento fa danzare in muliebri mulinelli le foglie distese al suolo in fittizi tappeti.
"Samhain"…… Samhain!"….. udì quell’anno nella mente allo scostare con i piedi dei cumuli di foglie. Era la sera del 31 ottobre. La bambina portava in una mano la cartella e, con l’ altra, sorreggeva una zucca contenente un cero acceso che le avevano dato a scuola e che avrebbe dovuto portare così fino a casa pena l’arrabbiatura degli spiriti malvagi… E la voglia di tornare a casa, quella sera, era davvero poca… Poi, la bambina si fermò, i piedini sommersi da onde screziate di rosso ed oro…
Alzò lo sguardo alla sua destra, oltre i bassi filari di case e villette del suo tempo distratto, ed andò a perdersi nei boschi e nei declivi delle regioni a cavallo fra Wiltshire e Somerset… Restò così, assorta, per minuti indefinibili… poi le parve di vedere come delle lunghe mani protendersi da quegli alberi lontani e vicini al tempo stesso, mani che facevano un gesto armonico, sincronizzato ed inequivocabile: chiamavano Susan a sé…
Chi era, ormai, in quel momento, Susan?… Perché lasciò cadere a terra la cartella ed assunse quella strana luce di sogno nei suoi grandi occhi verdi?… Non lo sapremo mai.
"Samhain"… "Samhain!"… sentiva ripetutamente fuori e dentro di sé la bambina, come una cantilena che l’attirava irresistibilmente…
Attraversò cortiletti privati e scavalcò piccoli muri di sassi antichi, posti su quei crinali chissà quanti secoli prima da uomini che conoscevano, forse, il segreto di quella voce.
Attraversò campi di grano ormai giunti da tempo al termine del loro ciclo annuale e… si sentì vitalizzata, preda di un indescrivibile gioia, di un benessere tale da farla piangere…
"Ah, papà, papà!… Perché non sei qui con me, ora?…", pensò Susan per un attimo.
"Forse andiamo verso la casa di mamma… Io è… *so* che lei è là, Papà…."
Ma, poi, quello strano salmodiare, quelle braccia magre, avvolte da panni sfrangiati, scuri, lunghi, la chiamarono ancor più irresistibilmente verso la boscaglia, sulle "Hill" che forse non avevano mai avuto niente a che fare con il mondo degli uomini…
"Samhain"… "Samhain!"… E Susan alzò la zucca con il cero acceso al suo interno verso gli alti alberi che non le avrebbero fatto, ne era certa, alcun male…
"Samhain"… "Samhain!"… E il sole calò dietro le "Hill"…
Ogni anno, da allora, Dick Woodhouse, che non era mai riuscito a piangere per la scomparsa della sua unica figlia, si spinge fino ai limiti della cittadina in cui era nato e vissuto. Gli occhi sono sempre lucidi, velati da un pianto nobile e dolcissimo che nessuno poteva capire davvero. Ad un certo punto, l’uomo si ferma e guarda lontano, oltre le "Hill"… E’ allora che le sue labbra si piegano in un abbozzo di strano quanto sereno sorriso.
"Samhain"… "Samhain!"… canta la voce di Susan da qualche parte, laggiù… Un’eco più lontana, di voce femminile, ripete le parole di Susan:
"E’ Samhain, papà… Ti aspettiamo…"
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