Allarme profughi in Darfur
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Allarme profughi in Darfur
Darfur, l'allarme profughi dell'Oim
"Aumentano invece di tornare a casa"
Il responsabile dell'ufficio di El-Fasher dell'organizzazione che ha il mandato per gli sfollati, racconta le difficoltà della missione: "Si combatte ancora e non è garantita la sicurezza, pochi tornano nei villaggi e molto a rilento". Pesa l'ostracismo del governo di Al-Bashir: "I rapporti non sono facili"
di PASQUALE NOTARGIACOMO
ROMA - Altro che conflitto finito. L'emergenza in Darfur è ancora la sicurezza. Gli scontri tra le truppe governative, fiancheggiate dalla milizia araba Janjaweed, e i gruppi ribelli (espressione delle tribù africane nere) sono all'ordine del giorno. Come dimostra il numero dei profughi che, invece di diminuire, continua ad aumentare: 40mila gli sfollati nel 2009, già 28mila nell'anno in corso. Nonostante l'ottimismo di facciata sbandierato dal governo di Khartoum dopo la firma degli accordi di massima con il Jem (uno dei movimenti ribelli) del 24 febbraio scorso, (accordi subito vanificati dal fallimento dei negoziati di Doha). E' allarme che arriva dall'Oim (l'organizzazione internazionale per le Migrazioni), la principale organizzazione intergovernativa in ambito migratorio. Nel Darfur è l'Oim che, interfacciandosi con le agenzie Onu e la missione Unamid (Nazioni Unite e Unione Africana), si occupa del ritorno a casa dei profughi.
Un impegno particolarmente gravoso, se si considera che il conflitto che dal 2003 insanguina la regione ha già provocato 300mila vittime e 2,7 milioni di sfollati interni (dati Onu). E tutt'altro che semplice, se si pensa che per consentire il rientro in un villaggio di circa 2mila abitanti occorrono sette-otto mesi di trattative con l'autorità centrale e i gruppi ribelli. Un compito reso più arduo dall'ostracismo dell'esecutivo guidato dal rieletto presidente Omar Hassan al-Bashir, incriminato per genocidio dalla Corte Penale Internazionale dell'Aja, che nell'ultimo anno ha espulso dal paese diverse organizzazioni umanitarie.
A raccontare queste difficoltà è Yasin Abbas, 29enne palestinese, appena tornato dal Darfur dopo una missione di due anni e responsabile dell'ufficio Oim di El Fasher, la capitale del Nord Darfur, dove, per restare all'attualità, la settimana scorsa è stato rapito un peacekeeper delle Nazioni Unite. Sulle spalle dell'Oim pesa anche l'organizzazione del referendum sudanese del 9 gennaio 2011, con il quale il Sud, a maggioranza animista-cristiana, potrebbe ottenere definitivamente l'indipendenza dal Nord musulmano, dopo una sanguinosa guerra civile lunga ventuno anni.
Abbas, qual è la missione dell'Oim nel Darfur?
"Ci occupiamo del rientro dei profughi nei loro villaggi. L'Oim ha questo mandato. Tutti i movimenti, però, devono essere volontari. E purtroppo non sempre è così: il governo tende a usare spesso la forza per accelerare i rientri e mostrare alla comunità internazionale che il conflitto è finito è che va tutto bene".
E' effettivamente così?
"Purtroppo no, la guerra c'è ancora e questo non fa che rendere più complicato anche il nostro lavoro. Il governo controlla soltanto le città principali. E la situazione è peggiorata negli ultimi due anni. Nel 2009 sono stati più di 40.000 gli sfollati dalle località di Muhajerya e Sharya nel sud del Darfur, a causa del conflitto tra il governo sudanese e il movimento Justice and Equality movement (Jem). I profughi hanno trovato rifugio sopratutto nel campo di Zamzam nel Nord. Nel 2010, poi, più di 28.000 persone sono scappate dalle località di Jebel Marra, Um Siyalla, Kazan Jedeed, e Sheria e si sono stabilite in diversi campi nel Darfur settentrionale. Questo sempre a causa degli scontri tra le truppe governative e i due gruppi ribelli più forti, il Jem e lo Slm (Sudan Liberation Movement)".
Com'è in questo momento la situazione dei profughi?
"Ormai gli sfollati interni sono quasi tre milioni, circa il 60% dell'intera popolazione. E pochissimi sono tornati a casa. Il grosso si trova nei campi vicini alle grandi città, come El Fasher, Nyala e El Geneina, dove è più facile trovare acqua e cibo. Vivono degli aiuti delle Nazioni Unite, in condizioni sanitarie terribili. Due delle situazioni più preoccupanti sono nei campi profughi di Zamzam e di Kalma, ognuno dei quali ospita circa 100mila sfollati".
Come si svolge il vostro lavoro?
"Quando i profughi ritornano ai loro villaggi o pensano di farlo noi dobbiamo controllare com'è la situazione sul territorio e trattare con tutte le parti interessate (gruppi armati, governo, missione Unamid) per garantire la sicurezza. Se verifichiamo che il ritorno è volontario (condizione imprescindibile) dobbiamo anche organizzare con le altre agenzie delle Nazioni Unite la fornitura di cibo, acqua e altri generi di prima necessità".
Un'opera di mediazione complessa
"La cosa fondamentale per noi è la sicurezza. Per questo, prima di tutto, cerchiamo di lavorare ad un accordo tra il governo e i gruppi armati. Per evitare che le persone che tornano siano attaccate (cosa che purtroppo talvolta succede). Ci vogliono 7-8 mesi per completare il rientro in un villaggio di 2/2500 abitanti. La trattativa è lunga, gli accordi si raggiungono realizzando servizi (acqua, scuole, moschee) che servano a tutti".
In quanti siete ad operare in Darfur?
"Non molti. I membri dello staff internazionale sono circa quindici, quelli locali un centinaio. Per diverse ragioni, la prima economica. Un funzionario internazionale costa all'organizzazione circa 200mila dollari l'anno. Le condizioni di vita fanno il resto. E' una zona di guerra con tutto quello che ne consegue: non si può uscire dopo le sei di sera e in ogni caso non ci si può muovere senza scorta. Nel 2009 ci sono stati almeno 6 rapimenti a scopo di riscatto. Non è semplice trovare persone che accettino di lavorare in queste condizioni. Personalmente tante volte ho avuto paura".
Come sono i vostri con rapporti con ribelli e governo?
"Potrebbe sembrare strano ma con i gruppi ribelli (Jem e Slm, ndr) raramente abbiamo avuto grossi problemi. Il governo, invece, ci ha creato spesso difficoltà. Per esempio negandoci i permessi per andare in determinate zone. Non è semplice mantenere buoni rapporti con loro. Il nostro capo nel sud del Darfur (l'italiana Laura Palatini, cacciata insieme alla responsabile Oim per la regione, Carla Martinez ndr) è stata mandata via tre mesi fa, perché ha resistito alle pressioni del governo centrale, che gli chiedeva di dire cose più "ottimistiche" sulla situazione".
Una quadro che non fa sperare in una soluzione in tempi brevi
"Un'emergenza così lunga è difficile da gestire anche per le Nazioni Unite. Il conflitto va avanti da almeno sette anni. Si tratta di una missione che anche economicamente ha dei costi altissimi. E' il World Food Programme che sfama il 70% della popolazione del Darfur. E, per quanto ne so, per l'Unamid nel 2009 l'Onu ha speso circa 2 miliardi di dollari. Prima di tutto è necessario fermare la guerra. Tutto sarebbe più semplice".
Fonte: La Repubblica
"Aumentano invece di tornare a casa"
Il responsabile dell'ufficio di El-Fasher dell'organizzazione che ha il mandato per gli sfollati, racconta le difficoltà della missione: "Si combatte ancora e non è garantita la sicurezza, pochi tornano nei villaggi e molto a rilento". Pesa l'ostracismo del governo di Al-Bashir: "I rapporti non sono facili"
di PASQUALE NOTARGIACOMO
ROMA - Altro che conflitto finito. L'emergenza in Darfur è ancora la sicurezza. Gli scontri tra le truppe governative, fiancheggiate dalla milizia araba Janjaweed, e i gruppi ribelli (espressione delle tribù africane nere) sono all'ordine del giorno. Come dimostra il numero dei profughi che, invece di diminuire, continua ad aumentare: 40mila gli sfollati nel 2009, già 28mila nell'anno in corso. Nonostante l'ottimismo di facciata sbandierato dal governo di Khartoum dopo la firma degli accordi di massima con il Jem (uno dei movimenti ribelli) del 24 febbraio scorso, (accordi subito vanificati dal fallimento dei negoziati di Doha). E' allarme che arriva dall'Oim (l'organizzazione internazionale per le Migrazioni), la principale organizzazione intergovernativa in ambito migratorio. Nel Darfur è l'Oim che, interfacciandosi con le agenzie Onu e la missione Unamid (Nazioni Unite e Unione Africana), si occupa del ritorno a casa dei profughi.
Un impegno particolarmente gravoso, se si considera che il conflitto che dal 2003 insanguina la regione ha già provocato 300mila vittime e 2,7 milioni di sfollati interni (dati Onu). E tutt'altro che semplice, se si pensa che per consentire il rientro in un villaggio di circa 2mila abitanti occorrono sette-otto mesi di trattative con l'autorità centrale e i gruppi ribelli. Un compito reso più arduo dall'ostracismo dell'esecutivo guidato dal rieletto presidente Omar Hassan al-Bashir, incriminato per genocidio dalla Corte Penale Internazionale dell'Aja, che nell'ultimo anno ha espulso dal paese diverse organizzazioni umanitarie.
A raccontare queste difficoltà è Yasin Abbas, 29enne palestinese, appena tornato dal Darfur dopo una missione di due anni e responsabile dell'ufficio Oim di El Fasher, la capitale del Nord Darfur, dove, per restare all'attualità, la settimana scorsa è stato rapito un peacekeeper delle Nazioni Unite. Sulle spalle dell'Oim pesa anche l'organizzazione del referendum sudanese del 9 gennaio 2011, con il quale il Sud, a maggioranza animista-cristiana, potrebbe ottenere definitivamente l'indipendenza dal Nord musulmano, dopo una sanguinosa guerra civile lunga ventuno anni.
Abbas, qual è la missione dell'Oim nel Darfur?
"Ci occupiamo del rientro dei profughi nei loro villaggi. L'Oim ha questo mandato. Tutti i movimenti, però, devono essere volontari. E purtroppo non sempre è così: il governo tende a usare spesso la forza per accelerare i rientri e mostrare alla comunità internazionale che il conflitto è finito è che va tutto bene".
E' effettivamente così?
"Purtroppo no, la guerra c'è ancora e questo non fa che rendere più complicato anche il nostro lavoro. Il governo controlla soltanto le città principali. E la situazione è peggiorata negli ultimi due anni. Nel 2009 sono stati più di 40.000 gli sfollati dalle località di Muhajerya e Sharya nel sud del Darfur, a causa del conflitto tra il governo sudanese e il movimento Justice and Equality movement (Jem). I profughi hanno trovato rifugio sopratutto nel campo di Zamzam nel Nord. Nel 2010, poi, più di 28.000 persone sono scappate dalle località di Jebel Marra, Um Siyalla, Kazan Jedeed, e Sheria e si sono stabilite in diversi campi nel Darfur settentrionale. Questo sempre a causa degli scontri tra le truppe governative e i due gruppi ribelli più forti, il Jem e lo Slm (Sudan Liberation Movement)".
Com'è in questo momento la situazione dei profughi?
"Ormai gli sfollati interni sono quasi tre milioni, circa il 60% dell'intera popolazione. E pochissimi sono tornati a casa. Il grosso si trova nei campi vicini alle grandi città, come El Fasher, Nyala e El Geneina, dove è più facile trovare acqua e cibo. Vivono degli aiuti delle Nazioni Unite, in condizioni sanitarie terribili. Due delle situazioni più preoccupanti sono nei campi profughi di Zamzam e di Kalma, ognuno dei quali ospita circa 100mila sfollati".
Come si svolge il vostro lavoro?
"Quando i profughi ritornano ai loro villaggi o pensano di farlo noi dobbiamo controllare com'è la situazione sul territorio e trattare con tutte le parti interessate (gruppi armati, governo, missione Unamid) per garantire la sicurezza. Se verifichiamo che il ritorno è volontario (condizione imprescindibile) dobbiamo anche organizzare con le altre agenzie delle Nazioni Unite la fornitura di cibo, acqua e altri generi di prima necessità".
Un'opera di mediazione complessa
"La cosa fondamentale per noi è la sicurezza. Per questo, prima di tutto, cerchiamo di lavorare ad un accordo tra il governo e i gruppi armati. Per evitare che le persone che tornano siano attaccate (cosa che purtroppo talvolta succede). Ci vogliono 7-8 mesi per completare il rientro in un villaggio di 2/2500 abitanti. La trattativa è lunga, gli accordi si raggiungono realizzando servizi (acqua, scuole, moschee) che servano a tutti".
In quanti siete ad operare in Darfur?
"Non molti. I membri dello staff internazionale sono circa quindici, quelli locali un centinaio. Per diverse ragioni, la prima economica. Un funzionario internazionale costa all'organizzazione circa 200mila dollari l'anno. Le condizioni di vita fanno il resto. E' una zona di guerra con tutto quello che ne consegue: non si può uscire dopo le sei di sera e in ogni caso non ci si può muovere senza scorta. Nel 2009 ci sono stati almeno 6 rapimenti a scopo di riscatto. Non è semplice trovare persone che accettino di lavorare in queste condizioni. Personalmente tante volte ho avuto paura".
Come sono i vostri con rapporti con ribelli e governo?
"Potrebbe sembrare strano ma con i gruppi ribelli (Jem e Slm, ndr) raramente abbiamo avuto grossi problemi. Il governo, invece, ci ha creato spesso difficoltà. Per esempio negandoci i permessi per andare in determinate zone. Non è semplice mantenere buoni rapporti con loro. Il nostro capo nel sud del Darfur (l'italiana Laura Palatini, cacciata insieme alla responsabile Oim per la regione, Carla Martinez ndr) è stata mandata via tre mesi fa, perché ha resistito alle pressioni del governo centrale, che gli chiedeva di dire cose più "ottimistiche" sulla situazione".
Una quadro che non fa sperare in una soluzione in tempi brevi
"Un'emergenza così lunga è difficile da gestire anche per le Nazioni Unite. Il conflitto va avanti da almeno sette anni. Si tratta di una missione che anche economicamente ha dei costi altissimi. E' il World Food Programme che sfama il 70% della popolazione del Darfur. E, per quanto ne so, per l'Unamid nel 2009 l'Onu ha speso circa 2 miliardi di dollari. Prima di tutto è necessario fermare la guerra. Tutto sarebbe più semplice".
Fonte: La Repubblica
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