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In giro per l' italia

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Messaggio Da 4evermichael Dom Ott 23, 2011 7:25 pm

Qui parleremo dei monumenti che ci sono nella nostra bella italia .
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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 7:09 pm

Valle d' aosta

La via consolare delle Gallie

Nella Valle d’Aosta preromana esisteva una rete viaria primitiva, costituita da sentieri che, fin dall’epoca preistorica, permettevano i commerci e le relazioni culturali attraverso i valichi alpini. Ancora oggi sussiste, sulla collina di Aosta, una via denominata Strada dei Salassi, che si snoda ad una quota più elevata di quella del successivo itinerario romano. La via consolare delle Gallie, impresa di altissima qualità ingegneristica, che tenne in grande considerazione la conformazione del territorio, fu la prima opera pubblica realizzata dai nuovi conquistatori,
indispensabile infrastruttura alla loro espansione politica e militare. La strada attraversava il territorio valdostano giungendo da Eporedia (Ivrea), sino ad Augusta Prætoria (Aosta), per poi biforcarsi in direzione del colle dell’Alpis Graia (Piccolo San Bernardo) e dell’Alpis Pœnina (Gran San Bernardo). Il percorso è oggi, in buona parte, conosciuto non solo per i resti archeologici ancora visibili, ma grazie alle ricostruzioni che ne danno gli antichi itinerari, che segnalano anche i luoghi deputati alla sosta di uomini e animali. Oltre al tratto fra Donnas e Bard,
è in località Pierre Taillée (Avise) che si conserva la parte più monumentale della strada, che, qui, si presenta con tagli nella viva roccia e sorretta da costruzioni ciclopiche. Altri importanti resti archeologici sono quelli dei ponti di Saint-Vincent e Châtillon, i resti della strada a Montjovet e tratti di strada e costruzioni ad Arvier, Mecosse, Leverogne e Runaz.

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Ponte di pondel


Un'iscrizione collocata sulla fronte nord consente la sua datazione all'anno 3 a. C. e ne ricorda il promotore e proprietario, Caius Avillius Caimus. La struttura comprendeva un passaggio coperto, di 1 m circa di larghezza, illuminato da strette finestre su entrambi le pareti, a cui si accedeva da aperture provviste di serramenti lignei alle due estremità. Un canale superiore scoperto, con il fondo in lastre di pietra e le pareti impermeabilizzate, permetteva lo
scorrimento d’acqua captata da sorgenti situate sulla riva sinistra del torrente; a partire dal capo ovest è ancora possibile vedere resti del sistema idraulico di cui la struttura era parte. Tra le varie ipotesi avanzate riguardo la funzione del ponte, sono emerse tesi di una connessione dell'opera con attività di estrazione e trattamento di materiale ferroso nella valle di Cogne o, più probabilmente, una funzione del ponte-acquedotto a breve raggio nel territorio.
Successive modifiche indicano un funzionamento del sistema di captazione idrica ancora in età postclassica, a beneficio degli abitanti del villaggio, di cui si ha notizia indiretta a partire almeno dal XIII secolo, attraverso l'accenno all'esistenza di un mulino (documento dell'anno 1265).


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Ponte romano di Pont-Saint-Martin


È un'imponente testimonianza della romanizzazione della Valle d'Aosta. Incerta la sua datazione: per alcuni sarebbe stato costruito verso il 120 a.C. per altri nel 25 a.C. Alla base sono visibili, scavati nella viva roccia, gli alloggiamenti per le travi lignee che hanno costituito l'impalcatura necessaria per la costruzione dell'arcata in pietra. A fine Ottocento, furono collocate alcune chiavi in ferro per consolidare la struttura. La fantasia popolare ha attribuito la
costruzione del ponte al diavolo. San Martino, vescovo di Tours, tornando nella sua diocesi, si trovò bloccato dal torrente Lys, che con la sua piena aveva travolto l'unica passerella. Il diavolo gli propose di risolvere il problema costruendo, in una sola notte, un solido ponte, ma pretese in cambio l'anima del primo che avesse attraversato il ponte. Il santo accettò, ma la mattina dopo, lanciando un pezzo di pane all'altra estremità del ponte, fece sì che il primo ad
attraversarlo fosse un cagnolino affamato. Il diavolo, furente, scomparve nel Lys tra lampi e zaffate di zolfo, ed alla popolazione rimase il ponte. La leggenda costituisce tuttora uno dei temi fondamentali del carnevale di Pont-Saint-Martin, che si conclude proprio con il rogo del diavolo sotto il ponte romano.

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Arco romano di Donnas


La via Consolare delle Gallie, costruita per collegare Roma alla Valle del Rodano, ha nel tratto di Donnas uno dei suoi punti più caratteristici, intagliata com'è nella viva roccia, per una lunghezza di 221 metri. Le dimensioni dello scavo sono rese evidenti dallo sperone roccioso che è stato lasciato, entro il quale è stato scavato un arco: 4 metri il suo spessore, 4 metri
l'altezza e quasi tre metri la distanza tra i due stipiti: nel Medioevo servì come porta del Borgo, che veniva chiusa durante la notte. Sul lastricato della strada si possono ancora vedere i solchi lasciati dai carri, mentre poco oltre l'arco di trova la colonnina miliare sulla quale la cifra XXXVI rappresenta la distanza in "milia" tra Donnas e Aosta (circa 50 Km).

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Arco d'Augusto

Appena passato il ponte sul Buthier, lungo la strada che portava alla Porta Praetoria della città, fu innalzato l'arco onorario dedicato all'imperatore Augusto. Si trattava di un segno eloquente della presenza e della potenza di Roma che, nel 25 a.C., aveva definitivamente sconfitto i Salassi, fondando la nuova colonia. L'Arco, imponente, come da stile tardo repubblicano, è ad un solo fornice a tutto sesto, largo circa 9 metri. I pilastri che lo fiancheggiano presentano, ai quattro angoli, delle
semicolonne con capitelli corinzi. In origine, queste superfici erano interrotte dai rilievi con figurazione a trofei, collocati nelle quattro nicchie della facciata. Una trabeazione dorica chiude in alto quel che rimane del monumento, da secoli privo dell'attico, sul quale era apposta l'iscrizione dedicatoria. Nel medioevo, l'Arco era denominato "Saint-Vout" da un’immagine del Salvatore, sostituita in seguito col Crocifisso (oggi copia dell’originale - conservato nella Cattedrale).
Nel 1716, si decise di preservare il monumento dalle infiltrazioni d'acqua ricoprendolo con un tetto d'ardesia. L'Arco fu definitivamente restaurato negli anni 1912-1913; nei primi anni del '900, vennero alla luce due grandi lettere in bronzo dorato, con tutta probabilità appartenenti all'iscrizione dedicatoria.


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Porta Praetoria

Situata nella parte orientale delle mura, costituiva l'accesso principale alla città di Augusta Praetoria . Era dotata di tre aperture, ancor oggi visibili: quella centrale per i carri e quelle laterali per i pedoni. L'area all'interno delle aperture era utilizzata come cortile d'armi; nella sua parte meridionale, il terreno è stato scavato fino a raggiungere il livello del suolo in epoca
romana (circa due metri sotto il livello attuale – la differenza è dovuta ai materiali trasportati dalle piene fluviali). Nelle aperture rivolte all'esterno sono ancora visibili le scanalature entro cui correvano le cancellate che di notte venivano calate. Nella facciata esterna sono ancora visibili alcune delle lastre di marmo che rivestivano l'intero monumento, che all'interno
è costituito di blocchi di puddinga. Nel Medioevo fu addossata alla Porta Praetoria una cappella dedicata alla Santissima Trinità (ora non ne resta che una nicchia), da cui prese nome, per diversi secoli, anche la stessa Porta Praetoria.

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Cinta muraria romana


La cinta muraria di Augusta Praetoria formava un rettangolo di 724 m per 572 ed era costituita da uno strato interno di pietre fluviali e uno esterno di blocchi di travertino. Tratti in cui i rivestimenti sono ancora ben visibili: Via Carducci, via Carrel (in
corrispondenza della stazione degli autobus), via Monte Solarolo, via Abbé Chanoux. In via Festaz, specialmente al suo incrocio con via Vevey, si possono vedere le brecce aperte nelle mura per il passaggio delle moderne vie cittadine.


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Teatro romano



Rimangono visibili la facciata meridionale, con le sue arcate sovrapposte, la parte inferiore del semicerchio di gradinate che ospitava gli spettatori (cavea), e le fondamenta del muro che faceva da fondale (scaena). Alcuni studiosi ritengono che il teatro fosse dotato di copertura fissa. Costruito nel I sec. d.C., alcuni anni dopo la fondazione di Augusta Praetoria , venne ampliato ulteriormente un paio di secoli più tardi. Il Teatro romano si impone immediatamente all'attenzione,
per la sua facciata meridionale (l'unica superstite) che misura ben 22 metri di altezza. La sua maestosità è scandita da una serie di contrafforti e d’arcate, e viene alleggerita da tre ordini sovrapposti di finestre di varia forma e dimensione. Ben individuabili sono pure le gradinate ad emiciclo che ospitavano gli spettatori, l'orchestra (il cui raggio è di 10 metri), ed il muro di scena (ora ridotto alle sole fondamenta) che un tempo si innalzava col suo ricco prospetto ornato di colonne, di marmi
e di statue. Si è calcolato che il Teatro potesse contenere tre o quattromila spettatori. Durante il Medioevo, sorsero numerose costruzioni attigue, demolite nel corso dei moderni lavori di recupero e restauro. Lungo la facciata sud, c'è un'esposizione di fotografie sulla situazione del monumento prima, durante e dopo i lavori di scavo e di restauro.


Criptoportico forense


Dal giardino di piazza Giovanni XXIII si accede al Criptoportico forense, monumentale costruzione che delimitava un'area sacra dedicata al culto. E’ un edificio seminterrato, dall'interno finemente intonacato e illuminato da finestre a bocca di lupo. La costruzione si sviluppa in forma di ferro di cavallo ed è costituita da un doppio corridoio, con volte a botte sostenute da pilastri. Si è molto discusso sulla specifica destinazione del monumento (di epoca
augustea); suo scopo principale era costituire una struttura di contenimento e regolarizzazione del terreno che, in quella zona, creava un dislivello tra l'area sacra e l'adiacente platea forense. Oltre alla funzione di sostegno, si è poi ipotizzato che la parte seminterrata servisse anche da magazzino e granaio militare, mentre il probabile colonnato marmoreo che lo sovrastava (ormai distrutto - mancano evidenze archeologiche) fungeva
da scenografica cornice ai templi dell'area sacra. Come sembrano poi documentare alcune carte medievali, le strutture del Criptoportico continuarono ad essere utilizzate anche nei secoli successivi.


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Area Funeraria Fuori Porta Decumana

Si tratta di un’importante necropoli di epoca romana, individuata a circa 200 metri di distanza dalla Porta Decumana; un rinvenimento analogo a quello di altre necropoli site presso la Porta Praetoria e la Porta Principalis Sinistra, tutti accessi ad Augusta Praetoria (Aosta). La necropoli è stata utilizzata a lungo, sia in epoca romana che paleocristiana: era abbastanza usuale la compresenza di sepolture pagane e cristiane, così come molto simili erano i riti legati al culto dei defunti.
Nell’area t roviamo 3 mausolei, ad aula rettangolare (noti come cellae memoriae) ed una basilica paleocristiana, la cui datazione va dalla fine del IV a tutto il V secolo. Per quest’ultima risultano evidenti forti somiglianze con analoghi edifici cristiani sorti su necropoli romane fuori le mura, quali la Chiesa di San Lorenzo e la Chiesa di Santo Stefano. Il sito ha avuto un lungo periodo d’uso, all’incirca fino alla fine del primo millennio, quando iniziò il progressivo abbandono dell’edificio.

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Villa romana in regione consolata

I resti della villa, a 400 m circa dal lato nord della cinta muraria romana, confermano un’espansione della città verso quell’asse, in direzione della strada maestra diretta all’Alpis Poenina. La villa della regione Consolata rientra nella tipologia delle ville “urbano-rustiche”, che si diffusero in tarda età repubblicana e che assemblavano, riunendole per caratteristiche, le comode ville urbane con le ville rustiche. L’impianto strutturale risale alla seconda metà del I sec. a.C., ma subì modifiche importanti nel II sec. d.C. La villa è organizzata intorno ad un atrio
o ve si affacciano i vari ambienti, quali il “Tablinum”, con funzione di sala di ricevimento, il “Triclinium”, dove si consumavano i pasti e la “Culina” o cucina. Nei “Cubicula” si possono ammirare tracce dell’antico pavimento in cocciopesto, decorato a tarsie marmoree (cornici a meandro, emblema con rosetta a 6 foglie lanceolate inscritte in un esagono) che ricordano le tipologie diffuse in area campana alla fine del I sec. a.C. La Villa disponeva anche di un impianto termale che rispecchiava lo schema delle terme pubbliche e, nel “Calidarium”, sono presenti tracce
dell’antico “hypocaustum”: il riscaldamento a pavimento dell’epoca romana. Sul lato nord, gli ampi “horrea” - o magazzini - erano utilizzati per la lavorazione e l’immagazzinamento dei prodotti agricoli e artigianali. Alla fine del V sec. d.C. alcuni locali furono occupati da tombe e solamente nel 1971, nel corso di lavori edili, sono state rinvenute le strutture dell’antica villa romana.

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Messaggio Da 4evermichael Dom Nov 06, 2011 7:10 pm

Piemonte


La chiesa di San Sebastiano


Il più importante edificio storico è la Chiesa di San Sebastiano che sorge su un poggio da cui parte la strada per Revigliasco Torinese. Risale agli inizi del Duecento e fu ristrutturata nel Quattrocento. Edificata in uno stile di transizione tra il gotico ed il romanico ne prova l'origine rustica grazie anche al cotto rosso con cui è costruita, senza nulla togliere alla semplicità della sua architettura. Di fronte alla chiesa sorgono due cipressi che da lontano le conferiscono un inconfondibile aspetto. La facciata è composta da un portale incorniciato da un fregio sovrastato da una finestra circolare. L'interno è composto da tre navate separate da pilastri collegati da archi che reggono i muri della navata maggiore. Caratteristica particolare sono la ricchezza delle decorazioni, molte delle quali ormai perdute.
Sulla parete di destra, entrando si trova un prestigioso affresco raffigurante la Natività, opera del pittore Jacopino Longo, allievo della scuola d'arte di Macrino d'Alba : un'iscrizione in caratteri gotici svela il nome del committente dell'opera : Bernardino di Canonicis e la data 1508. Nella stessa chiesa è presente un altro affresco dello stesso autore che rappresenta L'assunsione di Maria Vergine.
La volta del presbiterio custodisce alcuni episodi della Vita di San Sebastiano , degli Evangelisti e la Tentazione di Sant'Antonio. Sulla parte di fondo si trova la imponente Crocefissione affrescata da Antonio de' Manzanis i cui personaggi indossano costumi del XV secolo. Sempre nel presbiterio sulla sinistra rispetto all'altare maggiore è collocato un grande altare ligneo sovrastato da una tela dipinta nel 1631, che raffigura la Madonna col Bambino fra i Santi Giuseppe, Sebastiano, Fabiano e Romualdo; di fronte sulla parete di destra si trovano due quadri di scuola lombarda che rappresentano l' Ultima cena e la Lavanda dei piedi. La navata sinistra è interamente affrescata con figure di santi : da notare nella volta a crociera della terza campata quattro episodi della Leggenda del miracolo di Santo Domingo de La Calzada e sulla lunetta, un affresco con la Vergine che allatta il Bambino, e sul sottarco della seconda campata l'immagine della Vergine con il Bambino.

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La Parrocchia di Santa Maria della Neve

La chiesa parrocchialeL'attuale Parrocchia di Santa Maria della Neve fu costruita tra il 1739 ed il 1742, su progetto dell'architetto Bernardo Antonio Vittone, utilizzando materiale di recupero proveniente da una chiesa esistente nello stesso luogo. L'antica torre del ricetto e un campanile risalente alla fine del Settecento la fiancheggiano formando un complesso composito tipico nello stile architettonico piemontese. L'interno è costituito da un'unica grande navata con soffitto a botte, su cui si affacciano sei cappelle, e conserva diverse sculture lignee provenienti dall'ormai distrutto Eremo dei Camaldolesi. In fondo all'abside si trova il maestoso quadro del Rapous con la Madonna circondata dai compatroni di Pecetto, (Giacinto, Grato e Sebastiano). L'altare maggiore, disegnato dal Dell'Ala di Beinasco è realizzato in marmo nero intarsiato con pietre policrome di diversa provenienza. L'organo è di Giovanni Battista Concone.

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La chiesetta della Confraternita

Nella piazzetta sottostante la parrocchiale si trova la Chiesetta della Confraternita, che fu costruita e ristrutturata a più riprese, nel corso di un secolo, tra il 1625 ed il 1736, sui progetti degli architetti Luigi Molinari D'Andorno e di Ludovico Perucchetti. All'interno, oltre ad un tempietto risalente al Settecento in legno dorato, opera dello scultore torinese Bosco, si conservano diversi quadri, statue e candele un tempo appartenenti all'Eremo dei Camaldolesi. Uno dei dipinti del Theatrum Sabaudie mostra un castello di Pecetto che non fu mai costruito, in quanto, probabilmente, si interruppe con l'erezione dei bastioni che tuttora esistono.

L'Eremo dei Camaldolesi

Il duca Carlo Emanuele I di Savoia aveva fatto un voto nel 1559 : "se l'epidemia di peste cesserà realizzerò un grande convento, composto da numerosi edifici". Nel 1601 assieme al suo consigliere spirituale , padre Alessandro dei Marchesi di Ceva, e all'architetto Vitozzi, mantenne la sua promessa e diede il via ai lavori, proprio in località Monveglio, laddove sarebbe sorto l'Eremo dei Camaldolesi. Cinque anni dopo, nel 1606 in quel luogo sorse il maestoso edificio immerso in un parco ricco di pini , cipressi e cedri. Questo convento fu l'impresa edilizia più importante di Carlo Emanuele I. Per ogni eremita l'architetto aveva previsto una casetta indipendente con un pozzo interno, una cella, un oratorio e un piccolissimo orto. Una chiesa bianca dominava le celle. Nei due secoli di vita del monastero vennero concentrate, oltre ad una ricca biblioteca, diverse opere d'arte : Beaumont, Bernero, Cignaroli, dei fratelli Pozzo, per non citarne che alcuni. Ma la diaspora artistica iniziò prima dello smantellamento ufficiale del convento che fu deciso nel 1801 dalla commissione esecutiva del Piemonte. La soppressione, che avvenne contemporaneamente a quella degli eremi di Cherasco e Busca era necessaria per motivi finanziari : il governo francese all'epoca non era in grado di mantenere la dotazione annua di 13.125 Lire. L'eremo rimase deserto per otto anni, fu oggetto di ripetuti saccheggi , finché nel 1809 fu messo all'asta ed acquistato dal banchiere Ranieri. Il monastero ridotto a condizioni pietose ritornò alla curia nel 1874, per essere adibito a sede estiva del Seminario. I lavori di ristrutturazione fecero perdere completamente la fisionomia delle antiche vestigia. Oggi i resti della proprietà sono stati demoliti e al suo posto sorge un edificio che ospita una sezione dell'Ospedale Maggiore di Torino. Le uniche testimonianze dello splendore del passato sono il campanile e la cappella dell'Ordine dell'Annunziata.

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La Mole Antonelliana


La Mole Antonelliana, vero simbolo della città di Torino, prende il nome dall'architetto novarese Alessandro Antonelli che la realizzò tra il 1863 e il 1889, tra vicissitudini finanziarie e polemiche sulla sua stabilità.

Nel progetto originario l'Antonelli uni' la sua cultura neoclassica alla tradizione locale barocca, spingendo le membrature al limite delle possibilità di tenuta attraverso l'uso di catene di ferro. Su questa struttura s'innalza la cupola: a pianta quadrata, la costruzione presenta una massiccia parte inferiore, la cui facciata è di forme classicheggianti; su di essa si eleva l'alta cupola quadrangolare, sormontata da un tempietto a due ordini che regge la sottile guglia.

Fu realizzata senza ricorrere a strutture metalliche, ancora troppo onerose a quel tempo in Italia, con una struttura muraria a scheletro. Le decorazioni interne andarono completamente distrutte in seguito ai lavori di consolidamento iniziati nel 1930, che portarono alla creazione di una struttura in cemento armato indipendente e sostitutiva di quella antonelliana. Molti si chiedono ancora oggi perché l'estroso architetto, ormai sessantacinquenne, si fosse impegnato in un'impresa così difficile, con soluzioni architettoniche tanto ardite.

C'è che dice pazzia o megalomania, chi dice che avesse fini magici e occulti; fatto sta che, intorno alla Mole, aleggia tuttora un'aura di mistero.

La Mole Antonelliana avrebbe dovuto essere il tempio ebraico della Comunità israelita torinese; in seguito la Comunità la vendette al Comune di Torino per via dei costi sempre più elevati che richiedeva la costruzione, e venne destinata a sede del Museo Civico. Alla morte di Vittorio Emanuele II nel 1878, però, il Consiglio comunale pensò di destinarla a sede del Ricordo Nazionale dell'Indipendenza Italiana. La Mole diventava così simbolo di una Torino che coltivava, al tempo stesso, l'amor di patria e il culto positivo per la scienza e la modernità.

Oggi è sede del Museo Nazionale del Cinema, prima ospitato da Palazzo Chiablese.

È alta 167,5 metri e sulla cupola è ospitata da qualche anno una scultura luminosa (e discussa) di Mario Merz intitolata Il volo dei numeri. L'ascensore panoramico, che conduce al balcone a 85 metri da terra in 59 secondi, è aperto tutto l'anno e permette di vedere Torino da un punto di vista davvero unico. La Mole in diretta

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Porte Palatine

Le Porte Palatine sono le porte della città romana Augusta Taurinorum (Porta principalis) e fanno parte della fortezza medioevale, il Palatium, da cui deriva il loro nome. Si affacciano sulla Piazza del Duomo e sono prospicienti il caratteristico mercato di Porta Palazzo ed al Museo di Antichità.

Al lato di Via XX Settembre è possibile ammirare i resti del Teatro romano.

Basilica di Superga La Basilica sorge sulla collina di Superga, in uno dei punti più alti e panoramici; il luogo fu scelto dal duca Vittorio Amedeo II di Savoia, che la volle costruire in segno di ringraziamento alla Vergine Maria dopo la sconfitta dei francesi assedianti, nel 1704.

Ad erigere questa splendida Basilica fu Filippo Juvarra, architetto messinese per il quale rappresenta l'opera d'architettura più importante. La Basilica fu inaugurata nel 1731 da Carlo Emanuele III. Il grande mausoleo costruito nei suoi sotterranei ospita i sepolcri dei re sabaudi da Vittorio Amedeo II a Carlo Alberto, e i numerosi principi di casa Savoia.

L'ingresso alla chiesa avviene attraverso tre scalinate, che portano al pronao di gusto classico. Ai lati del portico sporgono due corpi dai quali si elevano gli eleganti campanili.

La pianta è ottagonale, con pilastri angolari a cui si addossano colonne corinzie poste su basamenti ad andamento concavo. Le cappelle laterali conservano dipinti del Ricci e del Beaumont e le pale marmoree del Cametti e del Cornacchini.

A sinistra dell'ingresso alla Basilica c'è l'accesso alle tombe dei re; dietro l'edificio religioso sorge il convento che ospitava la Congregazone dei sacerdoti regolari voluta da Vittorio Amedeo.

Sulla parte retrostante della costruzione il 4 maggio 1949 si schiantò l'aereo che riportava da Lisbona a Torino la squadra di calcio del Grande Torino, causando una delle tragedie più tristi del dopoguerra italiano. Ai campioni e ai loro accompagnatori morti nell'incidente aereo è dedicata una lapide, nella parte retrostante del complesso. Il muro contro cui finì l'aereo non è stato ricostruito ed è ancora visibile.

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Palazzo Madama.

Questa splendida residenza-museo racconta la storia bimillenaria di Torino stessa, poiché comprende, in un unico edificio, le torri della romana Porta Pretoria, il Castello quattrocentesco di Ludovico d'Acaja e la scenografica facciata che dà su via Garibaldi, con atrio e scalone monumentale, aggiunta nel 1721 da Filippo Juvarra, quando, perduta la funzione difensiva, era diventata l'elegante Palazzo delle "madame" reali, prima di Cristina di Francia e poi di Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, moglie di Carlo Emanuele II.

Le sale dei Palazzo, comprese quelle auliche affrescate e decorate nel '600-'700, sono inserite in un complesso progetto di restauro in vista della riapertura al pubblico del Museo Civico di Arte Antica, che vi ha sede dal 1863 e che comprende ricche ed eterogenee collezioni: dipinti, mobili, sculture, ceramiche, smalti, vetri, avori, arazzi ecc.

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Borgo e Castello medievale


Borgo e Castello medievale Edificato nel Parco del Valentino, in occasione dell'Esposizione Internazionale del 1884, è un'accurata ricostruzione di case gotiche del Piemonte e della valle d'Aosta.

L'architetto D'Andrade, che diresse le ricerche e i lavori, era mosso da un intento prettamente didattico: illustrare un borgo e un castello piemontesi del Quattrocento, documentandone gli aspetti storici e artistici con un'attenzione particolare anche per gli oggetti d'uso quotidiano.

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La Gran Madre di Dio

La Gran Madre di Dio è una cattedrale neoclassica sorta fra il 1827 e il 1831 sulle rive del Po; fu costruita per celebrare il ritorno di Vittorio Emanuele I dopo il Congresso di Vienna. Davanti ad essa si apre l'imponente Piazza Vittorio Veneto, cui è collegata tramite il Ponte Vittorio Emanuele I.

Il mito vuole che nei sotterranei di questa chiesa si trovi il Sacro Graal.

più prosaicamente, l'edificio fu costruito dal Municipio di Torino per celebrare il ritorno di Vittorio Emanuele I dopo il Congresso di Vienna. Nella sua realizzazione, l'architetto reale Ferdinando Monsignore si ispirò al Pantheon, che la Gran Madre di Dio infatti ricorda molto.

Ai lati della scalinata che conduce all'ingresso, le due statue raffiguranti la Fede e la Religione sono state realizzate dal carrarese Carlo Chelli.

Questa chiesa è molto amata dagli esoteristi per le leggende che circolano riguardo ad essa, ma anche dai turisti che ne apprezzano la sobrietà e la vicinanza al fiume; è inoltre il mausoleo-ossario della guerra '15-'18.


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Palazzo Carignano

Questo Palazzo, dove nacquero Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II, è un'originale creazione dell'architetto Guarino Guarini per Emanuele Filiberto il Muto, del ramo dei Savoia-Carignano.

Fra il 1679 e il 1685 ne disegnò l'imponente e movimentata facciata barocca, il maestoso atrio, e un bel giardino che si estendeva fino in Via Bogino (oggi Piazza Carlo Alberto).

Su tal fronte venne progettata la facciata del Bollati e del Ferri. È un celebre esempio di stile barocco, con facciata sinuosa e rivestimento in semplice mattone, preziosamente lavorato.

Il salone centrale ellittico, già destinato alle feste, fu trasformato nel 1848 in aula per il primo Parlamento Subalpino: coccarde tricolori contrassegnano i seggi di Vincenzo Gioberti, Massimo D'Azeglio, Cavour e Cesare Balbo. Le sale al piano nobile del Palazzo Guariniano ospitano il Museo Nazionale del Risorgimento italiano, che espone documenti, cimeli, dipinti, libri, bandiere, riguardanti la storia italiana fino alla Seconda Guerra Mondiale.


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Castello del Valentino

Nel più grande parco cittadino, si affaccia sul Po questa affascinante residenza seicentesca, con i caratteristici tetti inclinati alla francese, omaggio alla madama reale Cristina di Francia, moglie di Vittorio Amedeo I, che la predilesse tra tutte e, una volta divenuto Duchessa di Savoia, ne fece la sua reggia e vi organizzò tornei, caroselli, feste e battaglie fluviali.

Il recente restauro delle sale del piano nobile ha restituito lo splendore originario agli affreschi ed ai preziosi stucchi di artisti luganesi. Dopo diverse e successive destinazioni d'uso, il Castello è attualmente sede della Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino.

Parco di Villa della Regina

Agli inizi del '600 sorgevano sulla collina torinese numerose "vigne", residenze di campagna dell'aristocrazia cittadina che in esse si dedicava all'otium di memoria latina e alle attività agricole, di memoria arcadica. Il Cardinale Maurizio di Savoia, protagonista delle vicende politiche sabaude ai tempi della duchessa reggente Cristina di Francia, si fece costruire una propria "vigna", che si rifà ai modelli delle ville romane, in cui dedicarsi a "ricerche filosofiche, dottissime disquisizioni e ricerche matematiche" con gli accademici Solinghi.

Scelse così questo luogo privilegiato, perfettamente in asse con l'antica porta barocca che si affacciava verso il Po. Ancora oggi, la Villa della Regina colpisce per il colpo d'occhio che offre sulla città e per la perfetta geometria che la inserisce nelle prospettive barocche cittadine, appena sopra la chiesa della Gran Madre e in asse perfetto con Piazza Vittorio Veneto, davanti al Po.

Al complesso, costruito su progetto di Ascanio Vitozzi, lavorarono alcuni dei più prestigiosi architetti attivi a Torino, da Amedeo di Castellamonte a Filippo Juvarra. Nel corso dei secoli il complesso subì numerosi rimaneggiamenti, dovuti alle esigenze della famiglia regnante, soprattutto delle duchesse e delle regine che la elessero a propria dimora prediletta: Villa della Regina deriva dalla predilezione delle regine della casata, in particolar modo delle Madame Reali e della regina Maria Antonia Borbone, moglie di Vittorio Amedeo III.

Per lungo tempo abbandonata, la Villa della Regina è stata inserita dall'Unesco nella lista dei beni patrimonio mondiale dell'umanità ed è oggetto dal 1994 di un complesso restauro che le restituirà l'antico splendore. Proprio il restauro di questa parte della villa ha permesso di scoprire un gioco ottico studiato da Filippo Juvarra e realizzato dall'architetto Giovanni Pietro Baroni: il complesso del Belvedere pende leggermente in avanti e ha i torrioni laterali un po' divergenti. Con questo trucco, che non compromette la stabilità della costruzione, gli architetti hanno ottenuto che l'asse del Belvedere sembrasse ai visitatori un po' più lungo dei suoi 75 metri.


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Palazzo Reale di Torino

Fu la madama reale Cristina di Francia, moglie del duca Vittorio Amedeo I, ad iniziare, nel 1646, il Palazzo Reale di Tortino, che divenne poi la sontuosa residenza ufficiale dei duchi e, in seguito, dei re sabaudi per oltre due secoli. Nelle sale di ricevimento e negli appartamenti privati, i soffitti affrescati e riccamente intagliati, i quadri, i preziosi arazzi, i mobili intarsiati, le porcellane, documentano il modificarsi del gusto dal '600 all'800, sotto la regia degli architetti di corte, da Juvarra e Alfieri a Palagi. La fontana e le aiuole dei giardini sono invece decorate con state seicentesche disegnate da Le Nô tre, il famoso architetto francese dei giardini di Versailles.

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Castello di Moncalieri

L'inconfondibile mole possente e squadrata di questo Castello, di origine quattrocentesca ma completamente ricostruito a partire dal 1619, grazie agli interventi successivi di Carlo e Amedeo di Castellamonte, Filippo Juvarra e Benedetto Alfieri, domina sull'antico abitato. Attualmente il Castello di Moncalieri è sede della Caserma dei Carabinieri; negli appartamenti reali, tuttavia, si possono ancora ammirare i decorati salottini e i raffinati gabinetti di toeletta della regina Maria Adelaide, moglie di Vittorio Emanuele II e della nipote, la principessa Maria Letizia, oltre alla sala nella quale nel 1849 venne firmato il Proclama di Moncalieri.


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Palazzina di caccia di Stupinigi

Il lungo viale fiancheggiato da cascine e l'emiciclo delle scuderie preparano lo sguardo all'apparizione della Palazzina, la cui destinazione venatoria è simboleggiata dal cervo svettante sul tetto. Con la sua originale pianta a quattro bracci, disposti a croce di Sant'Andrea, che si dipartono dal fastoso salone centrale ellittico, questa famosa residenza progettata da Filippo Juvarra nel 1729 per Vittorio Amedeo II, è proiettata nel parco che la circonda. Nel Museo dell'Arte e Ammobiliamento allestito nelle sale superbamente affrescate sono esposti mobili, tra i quali veri e propri capolavori dell'ebanisteria piemontese, originali della Palazzina o provenienti da altre residenze, come Moncalieri e Venaria Reale.

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Reggia di Venaria Reale


La seicentesca Reggia progettata nel 1658 da Amedeo di Castellamonte per il duca Carlo Emanuele II dedicata a Diana, dea della caccia, e la Galleria di Diana, la Citroniera, le Scuderie e la Cappella di Sant'Uberto, celebri creazioni di Juvarra (171628), formano la cosiddetta "Versailles" torinese.

La Reggia è un complesso di straordinarie proporzioni (480.000 mq), che vive in ù simbiosi con il borgo e con il parco circostante. La Residenza è un grande cantiere di restauro realizzato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dalla Regione Piemonte, con anche i fondi dell'Unione Europea. È in corso un recupero strutturale del complesso che ospiterà un Museo sulla vita e la civiltà di corte ed, inoltre, ospiterà un centro nazionale di restauro e un polo espositivo sulla storia e la cultura dell'Europa e dei Mediterraneo.

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Duomo di San Giovanni

Duomo di San Giovanni e Cappella della Sacra Sindone Il Duomo di San Giovanni si trova adiacente a Piazza Castello ed in vicinanza delle Porte Palatine. Raro esempio torinese di opera di origine rinascimentale, fu costruito fra il 1491 e il 1498 per volontà del cardinale Domenico Della Rovere ed è dedicato a San Giovanni Battista.

Il Duomo ha una cappella con cupola barocca: è la cosiddetta Cappella della Sacra Sindone, dove è conservata la teca d'argento che contiene il presunto sudario di Cristo.

La Sindone è un lenzuolo di 4,36 metri di lunghezza per 1,11 metri di larghezza, che porta impressa un'impronta umana. Secondo la tradizione, quell'impronta è da attribuirsi a Gesù Cristo e quello è il lenzuolo che avvolse il suo corpo dopo la morte.

La Sindone, probabilmente l'oggetto più studiato al mondo da ogni branca possibile del sapere (storia, chimica, numismatica, palinologia, archeologia, informatica ecc.) è custodita nel Duomo di Torino dal 1578.

La datazione al radiocarbonio eseguita sul tessuto in tre laboratori di fama internazionale nel 1988 ha determinato che il lenzuolo risale al XIV secolo e, di conseguenza, non può che essere un artefatto.

Storia della Sindone La Sindone di Torino compare in Europa per la prima volta nel medioevo; in sintonia, peraltro, con i risultati della radiodatazione avvenuta nel 1988.

Uno dei primi documenti che ne parla risale al 1389: si tratta di un memoriale del vescovo Pierre d'Arcis, che scrive al papa Clemente VII raccontando l'indagine compiuta dal suo predecessore Henri de Poitier.

Il vescovo de Poitier non credeva nell'autenticità della Sacra Sindone e aveva denunciato la pretesa del decano di allora di presentare il telo come il vero Sudario di Cristo per fini di lucro. Inoltre aveva spiegato come, in seguito a un'indagine, fosse anche stato scoperto il falsario che aveva ammesso che il telo "era fatto per opera umana, non miracolosamente prodotto o concesso".

Pierre d'Arcis dovette intervenire una seconda volta quando il nuovo decano espose nuovamente il telo "artificiosamente dipinto" (ma si tenga conto che all'epoca depingere definiva diverse tecniche di riproduzioni: pitture, miniature, mosaici e ricami) con l'immagine di un uomo. In seguito a ciò, papa Clemente VII emanò una bolla nel 1390 in cui ordinava che ogni volta che fosse stato esposto il telo si doveva dire "ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a raffigurazione o imitazione del Sudario".

La storia recente ha confermato le condanne dello scettico vescovo e di papa Clemente: i test forensi condotti dalla commissione del cardinal Pellegrino nel 1973 sul presunto sangue hanno dato esiti negativi, mentre il microanalista Walter McCrone ha potuto determinare la presenza indubbia sul telo di tracce di ocra, cinabro e di alizarina: in pratica tempera rossa.

Quest'ultimo fatto, unito alla natura dell'immagine, una lieve bruciatura delle fibre superficiali del lino, suggerisce un possibile meccanismo per "creare" una sindone con quelle stesse caratteristiche.

Una possibile spiegazione è stata proposta dallo studioso Joe Nickell: le immagini sarebbero il risultato dello sfregamento di una vernice a secco su un telo adagiato su un bassorilievo le cui fattezze riprodurrebbero il corpo di un cadavere. Le macchie di sangue sarebbero state aggiunte in seguito, forse utilizzando vero sangue, forse tempera.

Con il tempo la vernice si sarebbe staccata dal lenzuolo, non prima di aver procurato le lievi impronte nella cellulosa del telo. Tutte queste scoperte si convalidano a vicenda e confermano la falsità della reliquia.

La presenza di tempera suggerisce che l'immagine è il lavoro di un'artista, fatto che a sua volta è confermato dalle dichiarazioni di Pierre d'Arcis e dalla mancanza di precedenti storici, e la radiodatazione è coerente con la prima apparizione storica del telo.

Lo stesso cardinale Ballestrero, che nel 1988 seguì le prove di radiodatazione, dimostrò di accettare e adeguarsi ai risultati del test: "Penso non sia il caso di mettere in dubbio i risultati.

E nemmeno il caso di rivendere le bucce agli scienziati se il loro responso non quadra con le ragioni del cuore". Accanto al lavoro condotto da scienziati "scettici" (o imparziali?), tuttavia, esiste l'intensa attività di un gruppo di sindonologi decisi, contro ogni evidenza, a dimostrare l'autenticità del telo. Le "scoperte" di costoro, tuttavia, dimostrano più un incrollabile bisogno di credere alle "ragioni del cuore" che alle evidenze sperimentali. Tipico il caso delle impronte di "monetine" di epoca romana che alcuni, come i sindonologi Baima Bollone e Nello Balossino, sostengono di vedere sul lenzuolo e che, a detta di costoro, confermerebbero che il telo risalirebbe veramente al I secolo. Inutile dire che per i sindonologi le conclusioni ottenute con l'analisi al Carbonio-14 sarebbero sbagliate. Al di là del fatto che un falsario del 1300 avrebbe potuto benissimo lasciare delle impronte di monete romane sul telo per renderlo più credibile, la cosa più importante da rilevare è che tali impronte sono frutto dell'interpretazione di chi le vuole vedere. Luigi Gonella, fisico del Politecnico di Torino e consulente scientifico del cardinale Ballestrero, troncò ogni polemica: "Quella della Sindone è un'immagine il cui dettaglio più piccolo, macchie di sangue escluse, è di mezzo centimetro.

Come le labbra. Appare quindi molto, molto incongruente che esistano dei dettagli dell'ordine di decimi di millimetro come le lettere sulle monete. Ma si sa: a forza di ingrandire, si finisce a vedere anche quello che non c'è.

Sono soltanto loro, i cosiddetti sindonologi a scagliarsi contro il Carbonio-14. Nel campo scientifico, fisico, chimico, non c'è nessuno che abbia il minimo dubbio. Nemmeno io. Il sudario risale al medioevo".

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